Il bilancio della Consulta: attenzione ai diritti e alle pene sproporzionate di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 aprile 2023 Sciarra: troppe volte il Parlamento non ci risponde. Ci sono casi in cui le pene previste per determinati reati sono talmente alte da risultare sproporzionate e dunque incostituzionali. “Il tema è divenuto sempre più centrale per la Corte costituzionale, e costituisce uno degli ambiti elettivi del vaglio di ragionevolezza sulle previsioni legislative”, spiega la presidente Silvana Sciarra durante la sua relazione annuale sull’attività della Consulta. E chiarisce: “La severità della pena comminata dal legislatore non può essere manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato”. Certo, il Parlamento è autonomo nelle sue scelte di politica criminale e nella decisione su cosa e come reprimere attraverso le sanzioni imposte dal codice penale, ma “l’ampia discrezionalità di cui il legislatore dispone nella quantificazione delle pene incontra il proprio limite nella manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria, sia in relazione alle pene previste per altre figure di reato, sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate da una singola figura di reato”. È uno dei passaggi più significativi della relazione di Sciarra, letta davanti al capo dello Stato Sergio Mattarella e ad altre alte cariche istituzionali. Naturalmente la presidente parla in astratto, e cita un caso già affrontato dalla Consulta, che “dopo aver accertato la sproporzione della sanzione irrogata se non vi è coinvolgimento con un’organizzazione criminale, ha rimosso il vulnus accertato riducendo l’entità della pena per chi aiuti a entrare illegalmente in Italia”. Tuttavia sono parole ed esempi che suscitano un certo effetto mentre governo e Parlamento imboccano la via di introdurre nuovi reati e inasprire le pene di fronte alle emergenze, vere o presunte che siano. Delle ultime iniziative legislative Sciarra non parla, né potrebbe farlo: perché ogni norma potrebbe potenzialmente arrivare al vaglio della Consulta, e per rispetto del legislatore. Con il quale, insiste nel suo discorso, vige un rapporto di “leale collaborazione” realizzatosi anche attraverso la sospensione delle decisioni, dopo una “prognosi di incostituzionalità” su alcune leggi che riguardano temi etici o sociali particolarmente rilevanti e “divisivi”, per dare il tempo al Parlamento di intervenire. Pure su questo punto, però, c’è una realtà fatta di chiaroscuri, poiché troppo spesso Camera e Senato sono rimasti sordi agli appelli della Corte, o hanno agito con grave ritardo. È successo con le questioni legate al “fine vita”, sul cosiddetto “ergastolo ostativo” e altri punti critici, mentre sono all’orizzonte i problemi legati al riconoscimento dei figli di coppie omogenitoriali e scelte collegate. Sulle quali ancora una volta Sciarra non si esprime, ribadendo però - sulla scorta di decisioni già prese dalla Consulta e dalle Corti europee - che al centro delle decisioni c’è sempre stato (e deve continuare a esserci) il rispetto dei “diritti dei nati”; a cominciare da quello all’identità e alla “cura del contesto familiare, indipendentemente dal sesso dei genitori”. Quanto agli appelli (o moniti) rivolti al Parlamento, la presidente aggiunge che comunque “un giorno non lontano si dovrà fare un bilancio molto puntuale in merito a questa apertura di credito nei confronti del legislatore che, purtroppo, su molti temi molto sensibili e socialmente rilevanti non ha portato sempre a risultati soddisfacenti e rapidi per i cittadini”. Al centro delle decisioni della Corte ci sono sempre loro: i cittadini e il rispetto dei diritti garantiti loro dalla Costituzione e dal Diritto internazionale che, una volta sottoscritto, è direttamente vigente. “Quando c’è chiarezza esplicita nelle decisioni del giudice europeo - esemplifica Sciarra - il giudice italiano può disapplicare direttamente la norma contestata, e questo è molto importante”. Le decisioni sul fenomeno dell’immigrazione di cui tanto si discute in questo momento “rappresentano il cuore delle scelte politiche del Parlamento, che si muove nella piena consapevolezza dei vincoli internazionali e di cui non dubito che terrà conto”, chiosa la presidente della Consulta. Che interviene anche su qualche polemica relativa ad alcune decisioni della Corte, come quelle sui cosiddetti reati ostativi: “Negli interventi sulle modalità di esecuzione della pena non c’è alcun disegno di indebolimento della lotta alla criminalità organizzata. Il punto è conciliare quel contrasto con il diritto alla speranza per ogni detenuto, con la possibilità del ravvedimento e la funzione rieducativa della pena”. “Su 41 bis e l’ergastolo ostativo l’Europa ci tiene d’occhio” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 aprile 2023 La presidente della Consulta Silvana Sciarra nell’incontro con la stampa evoca i giudizi di Strasburgo sul carcere duro e “fine pena mai”. Sull’ergastolo ostativo la Corte costituzionale non ha fatto una “scelta buonista”: ha tenuto a ricordarlo la presidente della Corte costituzionale Silvana Sciarra, durante l’incontro tenuto ieri con i giornalisti subito dopo aver presentato la Relazione annuale sull’attività della Consulta al Presidente Sergio Mattarella e alle altre cariche istituzionali. A chi le faceva notare come a causa dei troppi rinvii al Parlamento sul tema del “fine pena mai”, il detenuto Pezzino, autore del “ricorso-pilota” sul 4 bis, fosse ancora in carcere dopo 30 anni, Sciarra ha replicato: “Abbiamo restituito gli atti al giudice della Cassazione. Non solo un atto dovuto ma un atto collaborativo con il giudice che aveva sollevato la questione”. Poi ha ammesso: “È vero, il detenuto è ancora lì, e questo è un punto che sta molto a cuore a tutti, abbiamo cercato noi di lavorare con tempi i più rapidi possibili, la tecnica del rinvio al Palamento può comportare un ritardo. Ripeto: prevale il rispetto istituzionale, in questo caso, verso la scelta del legislatore”. Sui rapporti col Parlamento, Sciarra aveva annotato nella Relazione: “La complessità di questa vicenda propone, ancora una volta, il tema della leale collaborazione fra Corte e Parlamento, tema da non trascurare nella sua rilevanza istituzionale”. Si è mostrata più audace nella intervista pubblicata sull’Annuario: “Certo, un giorno non lontano si dovrà fare un bilancio molto puntuale in merito a questa apertura di credito al legislatore che, purtroppo, sui temi molto sensibili e socialmente rilevanti, non ha portato sempre a risultati soddisfacenti e rapidi per i cittadini”. Il riferimento è molto probabilmente all’ergastolo ostativo, al carcere per i giornalisti, al fine vita. “Sarebbe interessante - ha aggiunto in conferenza stampa - capire come il Parlamento ordina i nostri moniti, come li mette in fila, come li analizza, come li esamina, se ne discute, se ci sono uffici adeguatamente pronti a risolvere i quesiti che noi poniamo, se c’è un’attività preparatoria. Forse si dovrebbe sollecitare il Parlamento a dirci di più perché certe volte si attende così a lungo”. Noi invece abbiamo chiesto al vertice della Consulta se condividesse il fatto che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha richiesto il riesame della gestione dei detenuti sottoposti al 41-bis, perché in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. “Non mi esprimo sulle raccomandazioni del Comitato perché non mi compete”, ha esordito, ma poi ha tenuto a precisare: “L’Italia è vincolata da fonti del diritto internazionale al divieto di tortura, che è anche una misura applicata alla detenzione. Credo che la Corte abbia già dato la sua visione sulle misure che, senza nulla togliere alla finalità di un reato ostativo, ci induce anche a riflettere sul fatto che siamo l’unico Paese in cui esiste questa formula” del 41 bis, “e abbiamo su di noi anche l’occhio attento sempre della Corte di Strasburgo, che ci ricorda come contemperare il cosiddetto diritto alla speranza e quindi la visione di una risocializzazione del detenuto”. Ha quindi osservato: “La Corte costituzionale punta molto su questo, sulla funzione rieducativa della pena, sul ravvedimento, che può avvenire sempre, e sulla facoltà dei giudici di sorveglianza di rivedere alcuni trattamenti penitenziari quando se ne pongono le condizioni, e quindi adattando le modalità dell’esecuzione della pena, aprendo degli spazi. La parola dignità non va mai dimenticata in questi contesti, la dignità della persona è al centro del divieto di reato di tortura, il quale consiste nell’infliggere sanzioni che sono fisiche, ma possono essere anche psicofisiche”. Di giustizia Sciarra ha parlato anche quando le è stato ricordato che la Corte indebolirebbe la lotta alla criminalità organizzata nell’aprire alcuni varchi per chi ha commesso reati di mafia: “Mi torna in mente un libro di qualche anno fa del professor Glauco Giostra dal titolo ‘Prima lezione sulla giustizia penale’. Mi aveva colpita l’immagine che lui propone della giustizia penale come un ponte tibetano, esile ma forte. Mi sono immaginata la Corte costituzionale su questo ponte tibetano: siamo spesso in questa posizione. Abbiamo aperto dei piccoli varchi sulle modalità di esecuzione della pena. C’è quindi da un lato la realtà dura, la giusta sanzione inflitta a chi ha sbagliato, e dall’altro lato il rispetto della dignità della persona che sta scontando una pena. Intervenendo sulla modalità di esecuzione della pena si dimostra anche ai critici che non c’è un disegno di indebolimento dei criteri” nella lotta alla criminalità organizzata. Quei criteri “devono restare forti, ma c’è anche il punto di vista dei diritti, che è il punto di vista di questa Corte”. Verso la fine dell’incontro con la stampa anche un passaggio sull’equo compenso, a partire da una domanda sul salario minimo: “Le fasce di lavoro autonomo dei liberi professionisti ancora una volta corrono il rischio della povertà. Forse in Italia c’è un sovraccarico nei numeri, per esempio per le professioni forensi. Però questi lavoratori autonomi ricercano nella Costituzione anche loro la garanzia dei diritti. E la stanno ricevendo: nella mia relazione ho fatto riferimento alla loro iscrizione nella gestione separata, concepita per accedere universo di tutele previdenziali e assistenziali. L’articolo 36 è forse quello più interessante e bello della nostra Costituzione”. “È allarme, le Rems allo stremo: vanno abolite le norme del codice Rocco” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 aprile 2023 Le 31 Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) che le regioni hanno realizzato, garantiscono un totale di circa 600 posti per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive. Ma le persone sono molte di più, i pazienti permangono per troppo tempo e si creano inevitabilmente le lista d’attesa. Soluzione? Regolare meglio i flussi dei pazienti in entrata e in uscita dalle Rems soprattutto “attraverso la riforma di alcune norme del codice penale che risalgono ancora al codice Rocco del 1930 non in sintonia con la moderna concezione comunitaria della Psichiatria”. A dirlo è il Coordinamento dei Direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale italiani, e lo ha fatto attraverso un documento inviato al presidente della Repubblica e al presidente del Consiglio. “In Italia cresce il numero delle persone che presentano un disturbo mentale grave (più del 6% della popolazione generale), crescono i bisogni specifici (migranti, autori di reato, senza fissa dimora, bambini e adolescenti) e i disturbi emotivi comuni (20% della popolazione generale, con aumento vertiginoso dopo la pandemia) e, allo stesso tempo, diminuiscono le risorse a disposizione della sanità in generale (dal 6,8% del Pil al 6,1% nel 2023) e della salute mentale in particolare (in media il 3% del Fsn, a fronte di una quota del 5% fissata dalla Cu Stato- Regioni nel 2001)”, afferma Giuseppe Ducci, Direttore del Dsm della Asl Roma 1 durante il workshop “Le istituzioni incontrano la Salute mentale - Verso l’incontro di Roma del 18 Maggio 2023”, organizzato dal Coordinamento dei Direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale con Motore Sanità, rivolto ai direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale italiani, con l’obiettivo di mettere la Salute Mentale al centro delle agende di governo nazionale e regionali. “I Dipartimenti di Salute mentale sono allo stremo e non riescono più a garantire i Lea. D’altro canto la presa in carico di un paziente grave necessità di continuità, prossimità e di un’équipe multidisciplinare che nessun privato può o vuole offrire. La soluzione? Finanziare i Dsm e riportare la salute mentale, con tutte le sue implicazioni politiche, sociali e di sicurezza al centro dell’interesse collettivo”, continua ancora Ducci. Mentre Enrico Zanalda, Direttore Dipartimento interaziendale di salute mentale Asl To3, sottolinea che questa situazione è stata acuita dal doveroso percorso di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, conclusosi con la legge 81/ 2014, e che “a distanza di quasi nove anni abbiamo ben presente quali siano le criticità dell’attuale situazione che è stata giudicata pericolosa dalla sentenza numero 22/ 2022 della corte costituzionale. I percorsi di cura dei pazienti con infermità mentale autori di reato sono, nel 90% dei casi, misure di sicurezza non detentive a carico dei Dipartimenti di Salute Mentale”. Spiega sempre Zanalda che “le 31 Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) che le regioni hanno realizzato, garantiscono un totale di circa 600 posti per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive”, ma “queste vengono però comminate in numero maggiore e inoltre i pazienti restano nelle Rems per dei tempi non sempre adeguati, per cui vi sono altrettanti pazienti in lista di attesa a livello nazionale”. Cosa fare? “È una situazione che dovrà essere affrontata regolando meglio i flussi dei pazienti in entrata e in uscita dalle Rems, attraverso una migliore collaborazione con dei Dsm potenziati e attraverso la modificazione di alcune norme del codice penale che risalgono ancora al codice Rocco del 1930 non in sintonia con la moderna concezione comunitaria della Psichiatria”, osserva sempre il direttore del Dipartimento interaziendale di salute mentale Asl To3. Questa osservazione lanciata dal Coordinamento dei Direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale italiani, è in linea con la proposta di legge presentata due anni fa alla Camera dei deputati da Riccardo Magi di + Europa. Una proposta che ha raccolto l’elaborazione proposta dalla Società della Ragione e da molte altre associazioni e movimenti che scioglie i nodi legati a vecchi principi e afferma nuove categorie legate alla legge 180 per cui la libertà è terapeutica. Il senso è chiaro. Scegliere la via del giudizio per le persone affette da gravi disabilità psicosociali, non per arrivare a una pena dura o esemplare, ma per riconoscere la loro dignità di soggetti, restituendo la responsabilità - e con ciò la possibilità di comprensione- delle loro azioni; c risparmiando così lo stigma che il verdetto di incapacità di intender e volere e l’internamento recano con sé. In sostanza si tratta di completare la legge 81 che ha abolito gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma che non ha intaccato il sistema del “doppio binario”: quello che riserva agli autori di reato - se dichiarati incapaci di intendere e di volere per infermità mentale- un percorso giudiziario speciale, diverso da quello destinato agli altri cittadini. Come ha ben spiegato Magi durante la presentazione in Parlamento, l’idea centrale della proposta di legge è quella del riconoscimento di una piena dignità al malato di mente, anche attraverso l’attribuzione della responsabilità per i propri atti. “Il riconoscimento della responsabilità cancellerebbe una delle stigmatizzazioni che comunemente operano nei confronti del folle. La capacità del folle di determinarsi non sarebbe completamente annullata in ragione della patologia e si verrebbe a rompere una volta per tutte quel nesso follia- pericolo che è stato alla base non solo delle misure di sicurezza, ma anche dei manicomi civili”, ha spiegato Magi. L’abolizione della nozione di non imputabilità è stata sostenuta da alcuni psichiatri e attivisti per la salute mentale, proprio come forma di riconoscimento di soggettività al malato di mente, in questo caso autore di reato. Il riconoscimento della responsabilità è anche ritenuto essere un atto che può avere una valenza terapeutica. Dopo anni dalla chiusura degli Opg è quindi necessario un passo ulteriore. “Occorre rispondere alle spinte regressive, che mettono in discussione alcuni dei capisaldi della Legge 81/ 2014, come il numero chiuso nelle Rems e il principio di territorialità delle strutture, proseguendo nella direzione della riforma e superando il “doppio binario” pena- misura di sicurezza”, ha concluso il parlamentare di + Europa durante la presentazione della proposta di legge rimasta da due anni nel limbo. Ora a chiedere una rivisitazione del codice Rocco sul doppio binario sono anche i direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale italiani. Strage di Erba, ecco perché la Procura vuole riaprire l’indagine su Olindo e Rosa di Andrea Galli Corriere della Sera, 14 aprile 2023 Dalle intercettazioni sparite al giallo delle macchie di sangue. I legali di Rosa Bazzi e Olindo Romano: “Lieti che finalmente la magistratura si stia interessando di nuovo al caso”. Ma i tempi per concludere l’iter saranno lunghi. Nel caso, i tempi saranno comunque lunghi. Ma certo, nonostante i 16 anni già trascorsi da allora - era il dicembre del 2006 - nonché soprattutto la definitiva risoluzione del mistero secondo le decisioni dei giudici, la strage di Erba potrebbe avere una nuova narrazione. Anche rivoluzionaria rispetto alla coppia giudicata omicida, Olindo Romano e Rosa Bazzi. Il sostituto procuratore generale di Milano, Cuno Tarfusser, ha infatti chiesto di riaprire il fascicolo. Un’azione che ora, ed eccoci alla probabile non immediatezza dell’iter, dovrà dapprima essere avallata dai vertici del suo ufficio e venir trasmessa alla Corte d’Appello di Brescia. Per intanto, e questo rimane indubbio, Tarfusser ha accolto il meticoloso lavoro del pool difensivo della coppia di coniugi, in carcere per l’omicidio della 30enne Raffaella Castagna, suo figlio Youssef di due anni, la nonna del piccolo Paola Galli (60), e la vicina di casa Valeria Cherubini (55). Quattro cadaveri, un unico sopravvissuto, ovvero Mario Frigerio, deceduto a gennaio, il quale si disse testimone diretto del massacro. Il legale Fabio Schembri ha redatto un dossier che poggia sulle diversificate relazioni di una quindicina di esperti. Costoro avrebbero approfondito le seguenti piste: alcune intercettazioni ambientali relative al medesimo Frigerio che non sarebbero mai entrate nel procedimento; gli audio e i video antecedenti le confessioni di Romano e Bazzi; i filmati girati in carcere dal criminologo Massimo Picozzi, nominato consulente della difesa (da un altro avvocato), filmati che seppur protetti dall’ovvio riserbo sarebbero al contrario circolati; e ancora, lo studio di un genetista secondo cui la traccia di sangue “decisiva” isolata sulla macchina di Olindo sarebbe stata una pura “illusione ottica”. Ma allora, se togliamo dalla scena il marito e sua moglie, dove cercare il killer oppure i killer? Nel sottomondo della droga e in un conseguente regolamento di conti tra bande rivali. Il legale Schembri dice che “possiamo essere lieti di come finalmente la magistratura si stia interessando a una possibile riapertura”. I tempi tecnici, anzi gli eventuali tempi tecnici, conviene ripeterlo, non dovrebbero essere rapidissimi, a meno di imprevisti colpi di scena. Quanto finora raccontato, peraltro, non sarebbe esaustivo nella misura in cui il medesimo pool degli avvocati possiede altri elementi, non dimenticando l’imminente testimonianza che verrà resa da un amico di Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e papà di Youssef, e nell’immediatezza ricercato quale unico stragista. Uno dei tanti, molteplici errori commessi sia nelle fasi iniziali delle indagini, sia forse anche dopo. Loro, i diretti interessati, al netto delle ammissioni che li avrebbero collocati sulla scena del crimine senza margini di dubbio, sempre leggendo le carte dell’inchiesta fino alla sua conclusione, si sono professati innocenti, sovente andando lì, ai giorni in cui i magistrati li interrogavano adoperando “metodi non corretti”. Senza infine omettere, a corredo esterno oppure forse no, certe pubblicazioni, in una vicinanza temporale alla strage, che contenevano informazioni assai segrete. Ma avute da chi? E con quale ipotetico fine ultimo? Strage di Erba. “Rosa e Olindo sono innocenti, pronti a far riaprire il processo” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 14 aprile 2023 La difesa prepara l’istanza di revisione: “Abbiamo nuovi elementi di prova. La confessione non fu genuina”. “La prossima settimana presenteremo l’istanza di revisione della sentenza di condanna all’ergastolo nei confronti di Olindo Romano e Rosa Bazzi”, afferma l’avvocato Fabio Schembri, difensore dei due coniugi di Erba, condannati all’ergastolo per aver ucciso l’11 dicembre 2006 Raffaella Castagna, il figlioletto di due anni Youssef Marzouk, la mamma Paola Galli, e la vicina Valeria Cherubini. La motivazione della strage, avvenuta con modalità efferate, sarebbe stata l’insofferenza della coppia nei loro confronti, in particolare per il tunisino Azouz Marzouk, marito della Castagna. “Abbiamo raccolto in questi anni molto materiale, anche grazie alla consulenza di quindici professionisti, che ci permetterà di fornire ai giudici nuovi elementi di prova”, prosegue Schembri. I punti fondamentali su cui si fonda la sentenza di condanna sono essenzialmente tre: la testimonianza di Mario Frigerio, marito della Cherubini, miracolosamente sopravvissuto alla strage dopo aver riportato un taglio alla gola, la traccia ematica sul battitacco di Olindo, e la confessione di entrambi. “Per quanto concerne la confessione, è provato dalle intercettazioni ambientali effettuate dagli inquirenti che non è stata genuina”, puntualizza l’avvocato dei due coniugi. Olindo e Rosa avrebbero deciso di confessare la strage dopo che gli sarebbe stata prospettata la possibilità di avere dei “vantaggi”, come ad esempio una cella matrimoniale dove trascorrere la detenzione. Tutto il processo, comunque, è stato caratterizzato da tantissime anomalie. Fra le più clamorose, la scomparsa di molte delle intercettazioni e la distruzione nell’inceneritore di importanti prove (una tenda, un cellulare, un mazzo di chiavi, dei cuscini, quattro giubbotti delle vittime, un pc, mozziconi di sigarette) da parte di un cancelliere del tribunale. La distruzione di questi oggetti avvenne poche ore prima che la Cassazione si pronunciasse sul ricorso della difesa che aveva chiesto fossero eseguiti su di essi in incidente probatorio degli esami irripetibili. Con il deposito delle motivazioni, si scoprì che la Cassazione, pur dicendo no all’incidente probatorio, aveva lasciato aperta la possibilità per la difesa di far eseguire esami nell’ambito delle indagini difensive, dandone avviso al pm. Fino ad oggi ogni tentativo di far riaprire il caso, passando anche dalla Corte di giustizia europea, è stato sempre respinto. Un aiuto potrebbe arrivare dalla Procura generale di Milano. Cuno Tarfusser, sostituto procuratore generale milanese ha depositato una “relazione” conclusiva sul punto e l’ha affidata al procuratore Francesca Nanni e all’avvocato generale Lucilla Tontodonati per le valutazioni di competenza. In caso di nuovo processo, da svolgersi a Brescia, non potrà essere chiamato a deporre nuovamente Frigerio, morto a settembre del 2014. “Ha uno sguardo da assassino che non dimenticherò mai”, disse di Olindo davanti ai giudici della Corte d’assise di Como. “Mio zio Carlo Saronio, ucciso per errore dagli “amici” di Potere operaio” di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 14 aprile 2023 “Il mio viaggio in Francia per conoscere chi l’ha tradito”. Piero Masolo, prete missionario, è il nipote dell’ingegnere sequestrato a Milano nel 1975: “Il suo nome a casa non veniva pronunciato, troppo dolore”. Con la cugina Marta, figlia della vittima, ha ricostruito la vicenda dimenticata. “Ho incontrato Fioroni: vive in una bolla, non chiede perdono”. È la notte tra il 14 e il 15 aprile 1975. Il venticinquenne ingegnere chimico Carlo Saronio, erede di una delle famiglie più ricche di Milano, ricercatore all’Istituto Mario Negri, viene sequestrato nella da una banda composta da militanti dell’area di Potere Operaio e uomini della criminalità calabrese. La vittima, che peraltro è proprio un simpatizzante dell’organizzazione di estrema sinistra che lo ha rapito, muore già nelle prime fasi del sequestro a causa di una overdose di narcotico. I rapitori riescono però a far credere che l’ostaggio sia ancora vivo e riescono a ottenere una parte del riscatto. Il ritrovamento del corpo, o meglio delle ossa, avviene soltanto tre anni e mezzo più tardi. A 48 anni da quel giorno, in corso Venezia 30, dove Saronio abitava e subì l’agguato fatale, il Comune di Milano, il comitato della Memoria e la Fondazione Darefrutto (alla presenza di molti rappresentati istituzionali) lo ricordano con una targa che sottrae la vicenda e soprattutto la figura del giovane poliedrico dall’oblio scelto dalla famiglia stessa. Perché da un certo momento in poi è stato più forte il bisogno di sapere di una figlia che non ha mai conosciuto suo padre - Marta Saronio, nata 8 mesi e 10 giorni dopo quella notte tragica e oggi medico - e di un nipote (figlio della sorella) che ha scoperto di assomigliare tremendamente allo zio, Piero Masolo, prete missionario. E a quel punto è iniziata un’ulteriore storia, sfociata in due libri: “Quello che non ti dicono” di Mario Calabresi e “Ricreare radici” dello stesso nipote-sacerdote. Padre Piero, cominciamo dalla fine, o quasi: perché lei e sua cugina Marta avete deciso di trasgredire alla regola di famiglia che imponeva il silenzio su quel nome e avete cercato di ricostruire la storia di Carlo Saronio? “Per me tutto comincia con un film, “Per tutto l’oro del mondo” di Ridley Scott, che racconta il sequestro di Paul Getty. Ero in missione in Algeria e al giovedì facevamo il cineforum nella nostra piccola comunità: mentre guardavo la scena in cui la madre del ragazzo riceve la prima telefonata dei rapitori ho avuto una sorta di transfert emotivo con mia nonna, Angela Saronio, ho immaginato come si deve essere sentita quando è arrivata la chiamata da parte dei sequestratori dello zio Carlo”. Aveva mai sentito racconti a casa? “No, perché la regola di famiglia era l’oblio, se solo si inciampava in quel nome calava il silenzio, troppo dolore”. E allora come ha fatto a scoprire di più? “Dopo aver visto quel film ho iniziato a fare ricerche su Internet e ho scoperto subito molte cose che non sapevo, poi ho incontrato mia cugina Marta e quando le ho raccontato tutto è scoppiata a piangere e mi ha detto che anche lei stava vivendo quel tumulto. E così è iniziata l’operazione radici, perché devi sapere da dove vieni. Così, prima io e poi Marta, ci siamo messi a inseguire Mario Calabresi, perché dopo aver letto il libro in cui ritorna sulla vicenda di suo padre ritenevamo che fosse la persona giusta per ricostruire anche quella di Carlo Saronio. E infatti si è rivelato un incontro decisivo”. Comprensibile per la figlia, ma lei è il nipote, perché sentiva questo bisogno così forte? “A casa ci sono tanti quadri che raffigurano lo zio Carlo e tutti, compresi i miei amici, credevano fossi io quello ritratto, perché a quanto pare gli assomiglio tantissimo. E anche questo, oltre a una storia che si percepiva più grande di tutti noi, mi ha fatto esplodere la curiosità e la voglia di esplorare che in fondo è la stessa che mi ha spinto a diventare missionario. Così inizia il mio, il nostro tour della memoria”. E cosa ha scoperto, chi era suo zio, Carlo Saronio? “Era un ragazzo che aveva dimostrato una straordinaria e multiforme intelligenza, nato in una famiglia ricchissima e importante ma capace di calarsi anche in altri mondi, di muoversi lungo i confini, sulle linee di frattura del mondo”. Cioè? “Non è semplice riassumere, ma potremmo dire che dopo un’infanzia vissuta in una bolla di lusso e rigore nella famiglia di suo padre Piero, importantissimo industriale della chimica, ha scoperto il mondo “fuori” e lo ha esplorato intensamente sia come studente e ricercatore brillante, sia con la passione dell’impegno civico e politico: inizia a frequentare Quarto Oggiaro, a fare il doposcuola per i figli degli operai e poi anche le lezioni serali per gli adulti, si appassiona alla causa rivoluzionaria di Potere operaio, senza peraltro smettere di interrogarsi sul mistero della propria fede con il suo padre spirituale Davide Turoldo, e trova amicizia nella persona che lo tradirà fino a provocarne la morte: Carlo Fioroni”. Insomma, un concentrato della storia di quegli anni. “Cosa si può dire di una persona che in soli 25 anni ha fatto in tempo a laurearsi in ingegneria chimica, firmare una ventina di pubblicazioni scientifiche come ricercatore del Mario Negri, fare il volontario a Quarto Oggiaro, militare in Potere operaio, esplorare la sua fede religiosa, fondare un ospedale in Brasile, vivere una storia d’amore che culmina - a sua insaputa - con il concepimento di una figlia?”. Quali sono stati i momenti più intensi di questo viaggio a ritroso? “Dopo aver convinto Mario Calabresi a occuparsi della vicenda, anch’io mi sono messo al lavoro. Oltre a riaprire faldoni sepolti a casa, ho voluto andare a Lille, in Francia, a incontrare Carlo Fioroni, figura importante di potere operaio, grande amico dello zio, ma anche l’uomo che lo ha tradito: perché dopo essere stato nascosto sotto mentite spoglie in casa sua lo ha individuato come obiettivo di un rapimento utile per finanziare la lotta armata. Fu preso in Svizzera con le banconote segnate che erano state consegnate per la prima tranche del riscatto. Poi ha scelto di collaborare con la giustizia”. E come è andato quel faccia a faccia? “È stato un passaggio molto faticoso ma al tempo stesso essenziale, perché lui era stato molto vicino allo zio. L’ho ascoltato e gli ho chiesto dei perché. Lui si sentiva “mostro” e quando si riferiva a certe fasi parlava di sé in terza persona. In ogni caso quello è stato un momento che mi ha davvero schiantato: ricordo nitidamente quando eravamo in bus verso casa sua e mi parlava compiaciuto di “giovani comunisti italiani” che vedevano in lui un punto di riferimento. Ho pensato che mentre il mondo era cambiato, andato avanti, lui era ancora chiuso in una sua bolla”. Ma lei in quel momento era prete o soltanto il nipote di Carlo Saronio? “Non ero lì come prete, non c’era alcuna richiesta di perdono da ascoltare, nessun messaggio per noi. Mi sono portato a casa la convinzione ancora più forte che si deve saper cambiare. E lo dico io che faccio parte di un’istituzione che vive da oltre duemila anni, proprio perché ha saputo cambiare. Ma quell’incontro mi è servito anche per togliere dal piedistallo ideale anche lo zio: ho pensato “ma che amico ti sei scelto?”. Adesso con la targa che lo ricorderà in corso Venezia si chiude il cerchio della ricerca sua e di sua cugina Marta? “Sì, adesso si chiude l’operazione radici, nata da una sofferenza e da una richiesta di condivisione. Quando vivi qualcosa di simile, non hai mai conosciuto tuo padre o tuo zio a causa di vicende come quelle degli anni Settanta, senti il bisogno di non sentirti solo, vuoi sapere che non sei soltanto tu a ricordare. E ora, dopo che lo aveva già favorito il libro di Calabresi, escono formalmente dall’oblio questa persona e questa storia, che interseca la Storia. Perché fa effetto pensare che nella stessa casa di caccia dove Piero Saronio, il padre industriale, riceveva Enrico Mattei, il figlio Carlo ospitava - insieme - Renato Curcio e Tony Negri, e andando più indietro troviamo lo stesso Benito Mussolini che visita la fabbrica di famiglia a Melegnano perché era interessato al gas per la guerra chimica in Etiopia. Tutto questo spinge ancora di più verso la necessitò di una giustizia riparativa”. Ed è per questo che avete deciso di trasformare quella casa e quei terreni in qualcosa d’altro? “Sì. Per me quell’eredità era una zavorra, così ho chiesto a diversi professionisti come fosse possibile renderla patrimonio collettivo e alla fine è nata l’idea di trasformare quei 250 ettari di boschi e risaie in riserva naturalistica e in sede di tanti progetti educativi, ambientali e culturali grazie alla creazione di Fondazione Darefrutto. Allora non lo sapevo ancora, ma tutto questo ha permesso anche di restituire ciò che la Chimica Saronio aveva sottratto in termini di inquinamento ambientale. Anche questo è un modo per chiudere il cerchio”. Cosa direbbe oggi a suo zio Carlo? “Gli direi grazie. Perché ha vissuto soltanto 25 anni, partendo da una bolla di privilegio lontana dal mondo ma ci ha dato tantissimo, ha tenuto insieme passione civica, politica, religiosa e sociale, muovendosi sulle linee di confine e di frattura del mondo”. Punito perché sono un “pericoloso innocente” di Gregorio Quattrone* Il Riformista, 14 aprile 2023 La lettera di un imprenditore calabrese colpito dal sistema delle misure di prevenzione antimafia, protagonista - come tanti altri nella sua regione e in altre regioni del sud Italia - di una storia di “guerra alla mafia” che con la terribilità con cui viene condotta può provocare, come spesso accade in ogni guerra senza quartiere, “danni collaterali” o vere e proprie vittime innocenti. Sono Quattrone Francesco Gregorio, un imprenditore reggino, considerato dalla giustizia un innocente pericoloso. Da molti mesi continuo a combattere, senza arresa e pacificamente, contro un sistema che ha permesso una strage dei miei diritti. Sono “innocente”, perché così si chiama un soggetto assolto con formula piena, ma punito perché colpevole di quell’innocenza. Controsenso, il sistema delle misure di prevenzione ha permesso che, con le stesse prove che hanno raccontato la mia innocenza e portato al conseguente giudicato penale assolutorio con formula piena, per gli stessi fatti, vi fosse la confisca di tutti i miei beni. Il mio dramma giudiziario è la riprova di come un siffatto sistema di prevenzione su base presuntiva sfiguri il processo penale, e deturpa le garanzie. Quale essere ritenuto pericoloso socialmente, sono ancora prigioniero - e vittima - in una cornice che contorna un giudizio che pure ha escluso la partecipazione mia all’associazione mafiosa, imputazione questa ultima che aveva fatto scattare all’epoca il sequestro e la conseguenziale confisca dei beni miei e della mia famiglia. Mi chiedo: come si può decapitare l’onestà e l’innocenza di un uomo, prima riconosciuto estraneo al reato e, poi, punito per il medesimo fatto, con la sottrazione di ogni suo bene? Mi hanno distrutto la vita, hanno presunto - ipotizzato - una provenienza illecita dei miei beni, frutto di anni di sacrificio. Una mia sala ricevimenti l’hanno paragonata a un’immobile di lusso. Così hanno emergere la sperequazione. All’epoca dei fatti era un semplice capannone adibito a sala ricevimento, costruito in economia e a debito, le foto lo dimostrano. La mia sala ricevimenti era tra le più gettonate, con orgoglio e fierezza posso dirlo e dimostrarlo. Il servizio che offrivo era perfettamente in linea con un costo onesto e mai esagerato, le prenotazioni per eventi non mancavano mai. E, man mano che andavo avanti con il lavoro, saldavo i debiti che avevo assunto per rifinire il capannone e migliorarlo nel corso degli anni. Guadagnavo solo sul mio lavoro, posso provare ogni cosa. Al momento del sequestro mi è stato detto: “Quattrone, quanto ha in tasca adesso?” Io risposi: 372 euro! “Beh, mi dissero, dovrà vivere con quelli; da ora in poi, non ha più nulla!” Così la legge giustiziò la mia onestà e innocenza. Mi hanno dilaniato l’anima, deturpato la mia vita, ma io lotterò fino alla fine dei miei giorni, perché la mia innocenza emergerà; anche in punto di morte urlerò l’ingiustizia. Non ci sarà mai pace finché l’innocenza viene calpestata. Non accetto questa ingiustizia, non mi fermerò mai. Adesso la giustizia giusta ha le carte in regola - attraverso le prove asseverate già depositate - per vincere, perché quando un errore viene sanato, vince lo Stato di diritto, l’innocente non va punito. Sono vittima di un quadro probatorio totalmente estraneo alla mia persona, ma ora si comprende dove fu l’equivoco e ci sono le basi per poter riaprire il caso. Ho composto un nuovo collegio difensivo e il 19 aprile 2023 sarò in aula presso la Corte di Appello di Catanzaro quando prenderà il via l’esame della mia istanza di revocazione della confisca dei beni. Nonostante i problemi di salute non smetterò mai di arrendermi all’ingiustizia. Mi oppongo a un sistema che punisce innocenti, perché l’errore più grande che si possa fare è tagliare le mani sporche di onestà. *Imprenditore Emilia Romagna. Medici nelle carceri, intesa fra la Regione e i sindacati modenatoday.it, 14 aprile 2023 Raggiunto l’accordo tra Regione Emilia-Romagna e Organizzazioni sindacali della Medicina generale per l’assistenza negli istituti penitenziari: obiettivo comune, su cui l’assessorato alle Politiche per la salute e i sindacati hanno lavorato insieme attraverso un confronto costruttivo, è quello di continuare a garantire la miglior presa in carico dei detenuti e delle detenute e la copertura dei turni dei professionisti, in un momento in cui anche le carceri scontano la difficoltà della carenza di medici. L’intesa, sottoscritta tra la direzione generale Cura della Persona, Salute, Welfare e Fimmg, Snami e Smi, mette in campo due strumenti: il conferimento di incarichi che prevedono diverse tipologie di orari settimanali, da 12 a 38, e il riconoscimento di un incentivo orario addizionale. “Un accordo importante- evidenzia l’assessore regionale alle Politiche per la salute, Raffaele Donini - perché ha l’obiettivo di continuare ad assicurare, come le stesse Linee guida regionali del 2019 indicano, non solo l’assistenza sanitaria, ma anche interventi di promozione della salute all’interno del sistema penitenziario. C’era la necessità di procedere con la massima celerità possibile per garantire, oltre al giusto riconoscimento economico dei professionisti, la copertura dei turni e la migliore presa in carico delle detenute e dei detenuti. Lo abbiamo fatto lavorando in modo efficace e costruttivo con i sindacati della Medicina generale, che ringrazio”. L’intesa, che entra in vigore da oggi, riguarda dunque i medici convenzionati operanti nelle strutture penitenziarie che, come stabilito dall’Accordo collettivo nazionale, garantiscono le attività di prevenzione, promozione della salute, diagnosi e cura previste dai Livelli Essenziali di Assistenza di tutta la popolazione detenuta, oltre che quelle certificative e di relazione istituzionale con l’autorità giudiziaria. In considerazione dell’aumento dello sforzo richiesto e come riconoscimento dell’impegno profuso e delle attività da sviluppare all’interno delle carceri, ai medici in servizio presso la medicina penitenziaria viene riconosciuto un incentivo orario addizionale, in relazione allo svolgimento di una serie di attività aggiuntive - tra cui partecipazione a campagne vaccinali definite dalla Regione e campagne di promozione di corretti stili di vita - e per le ore di straordinario prestate (per un numero massimo di ore definite in base al monte orario settimanale previsto dall’incarico). Infine, si stabilisce che le Aziende Usl hanno la possibilità di negoziare e stipulare accordi integrativi aziendali per riconoscimenti economici ulteriori, sulla base della differente complessità organizzativa dei relativi istituti penitenziari - come ad esempio la presenza del 41 bis - e del differente ruolo dei medici coinvolti. Toscana. Stati Generali della Cultura: un tavolo permanente per il teatro nelle carceri met.provincia.fi.it, 14 aprile 2023 La proposta della Commissione sarà contenuta nelle risoluzioni finali degli Stati Generali. Durante le audizioni del Garante dei detenuti Giuseppe Fanfani e degli operatori del settore, la richiesta di anticipare l’erogazione dei finanziamenti regionali. Prosegue il lavoro degli Stati Generali della Cultura, momento di approfondimento e verifica sulle condizioni e le regole dell’offerta culturale in Toscana, portati avanti dalla commissione Istruzione e cultura del Consiglio regionale presieduta da Cristina Giachi. L’obiettivo delle audizioni di oggi, giovedì 13 aprile, con il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Giuseppe Fanfani e con i soggetti che operano nelle realtà carcerarie toscane, è stato quello di fare luce sulle attività teatrali svolte nei 16 istituti penitenziari e nei due istituti penali per minorenni. “Una giornata di audizioni molto importante - ha sottolineato la presidente Cristina Giachi - con il coordinamento del Teatro in carcere toscano e con tutte le associazioni e gli operatori che ne fanno parte. Oggi conferiamo il Gonfalone d’argento alla compagnia della Fortezza e ad Armando Punzo per il lavoro che fa nel carcere di Volterra da oltre trent’anni. Ma questo è un settore in cui la Toscana è pioniera non solo con questa esperienza. Abbiamo una quindicina di operatori che fanno teatro nei 16 istituti penitenziari della Regione e nei due istituti penali per minorenni. Un lavoro che assorbe molte energie, che ha bisogno di cure e di attenzione. La commissione sarà a disposizione d’ora in avanti come interlocutore del coordinamento, ma nell’ambito delle risoluzioni degli Stati Generali proporremo l’istituzione di un tavolo permanente con il coordinamento, gli uffici della Regione competenti, le Fondazioni bancarie e le amministrazioni penitenziarie fondamentali nel garantire che l’offerta culturale nelle carceri si determini e che il teatro in carcere trovi una vitalità sempre maggiore, viste anche le importanti ricadute che ha nella rieducazione e il reinserimento dei detenuti, oltre all’indubbio valore culturale di questa esperienza”. “Una delle richieste che ci è stata fatta con maggiore forza - ha concluso la presidente Giachi - è quella di anticipare l’erogazione del finanziamento regionale e noi faremo tutto il possibile per garantire che le risorse arrivino il prima possibile”. Durante le audizioni il Garante dei detenuti Giuseppe Fanfani ha spiegato come “l’offerta culturale sia fondamentale per adempiere alla esigenza di consentire un impegno intellettuale e un equilibrio di fondo dei detenuti”. Il Garante durante il suo intervento ha anche sottolineato “il dovere della formazione culturale” e ha aggiunto come sia “fondamentale con la presenza di tanti detenuti stranieri il sistema di alfabetizzazione di base. Un sistema educativo che in Toscana funziona soprattutto nelle piccole carceri come Pistoia e Grosseto”. Nel giorno della consegna del Gonfalone d’argento alla compagnia della Fortezza Giuseppe Fanfani ha auspicato “la realizzazione di un teatro stabile nel carcere di Volterra”. A prendere la parola a nome del coordinamento del teatro in carcere toscano Livia Gionfrida che ha riassunto le richieste di chi opera con tante difficoltà negli istituti penitenziari: “La più urgente è quella dell’anticipo dell’erogazione dei finanziamenti regionali che l’anno scorso sono arrivati solo nel mese di dicembre, non permettendo una programmazione adeguata. L’erogazione nella prima parte dell’anno permetterebbe di organizzare il lavoro con le diverse compagnie e limiterebbe il rischio di perdere molte attività. La seconda è un maggiore riconoscimento del lavoro svolto dal coordinamento che permetterebbe di avere una forza diversa nell’interlocuzione soprattutto con gli operatori carcerari”. E per questo è stata chiesta la creazione di un tavolo permanente con tutti gli operatori coinvolti. Livia Gionfrida ha concluso il suo intervento spiegando che “i benefici per chi partecipa a queste attività sono evidenti e abbassano in maniera significativa il rischio di recidiva per i detenuti nel momento del reinserimento”. Durante le audizioni il consigliere regionale Maurizio Sguanci ha chiesto di far partecipare al tavolo permanente anche le Fondazioni bancarie che erogano ogni anno molti fondi per la cultura. Mentre la vicepresidente Luciana Bartolini ha chiesto chiarimenti su come i detenuti vengano stimolati a partecipare. Le associazioni hanno spiegato che il problema molto spesso è proprio quello di permettere ai detenuti un accesso alle attività. In rappresentanza della Regione, il responsabile spettacolo e iniziative culturali Leonardo Brogelli, che ha evidenziato come “queste attività culturali abbiano anche un risvolto sociale molto importante” confermando il problema delle risorse “che vengono erogate per esigenze di bilancio a fine anno”. La proposta di Leonardo Brogelli per ampliare la possibilità di accedere ai finanziamenti, utilizzando quelli del Fondo Sociale Europeo, è quella di partecipare al bando ‘Transizioni dello spettacolo’ che riguarda la formazione delle maestranze. Parma. Detenuto 69enne morto in carcere, arrestato per traffico di droga a Marano di Martina Francione napoli.occhionotizie.it, 14 aprile 2023 Francesco Greco è morto nel carcere di Parma, l’uomo era stato arrestato per traffico di droga dopo un blitz condotto in una villetta a Marano (Na). I funerali del 69enne si terranno domani nella chiesa di San Rocco a Marano. Busto Arsizio. “Più lavoro in carcere”: la missione per il nuovo Garante dei detenuti di Andrea Aliverti malpensa24.it, 14 aprile 2023 “Fare qualcosa, meglio, e insieme. Sono queste le tre direttrici” che si pone per il suo impegno come nuovo garante dei detenuti Pietro Roncari, che si è presentato questa mattina in comune a Busto Arsizio, affiancato dall’assessore all’inclusione sociale Paola Reguzzoni, ma anche dal presidente della commissione servizi sociali Matteo Sabba (che “prenota” il garante per un’audizione in commissione dopo l’estate) e dai consiglieri, di maggioranza e opposizione, Orazio Tallarida e Gianluca Castiglioni. Un vero e proprio passaggio di consegne a palazzo Gilardoni, di fronte all’uscente Matteo Tosi, che era in carica dal 2017 e che viene “ringraziato ufficialmente” dall’amministrazione comunale. La nomina di Roncari arriva, come annuncia l’assessore Paola Reguzzoni, “dopo una piccola rivoluzione del ruolo del garante, in seguito all’approvazione del nuovo regolamento” di questa figura scelta dal sindaco. “Il prossimo passo - fa sapere l’assessore - sarà la convocazione di un tavolo permanente con tutti gli attori che lavorano per il bene del carcere e dei suoi ospiti per una progettualità più coerente e organizzata che metta a sistema gli interventi”. “Con l’assessore e il dirigente lavoreremo tanto insieme - le prime parole di Pietro Roncari - perché questo servizio nasce qui, è incardinato nel Comune”. Il nuovo garante punta a “fare qualcosa, iniziando dalle cose fattibili. Perché il carcere non lo salviamo noi, con un tasso di sofferenza e di esclusione che fa parte del suo DNA, e i problemi magari non si risolveranno, ma migliorare le cose è già tanto”. Ed è “un lavoro che continua - aggiuge Roncari - in questi anni c’è stata una semina. E nel carcere non c’è solo sofferenza, negatività, conflitto: c’è gente che cresce, che tira una riga sul passato verso la rinascita, che recupera la sua vita. Migliorare le condizioni di vita e l’inserimento sociale dei detenuti sono i due assi cartesiani che puntano gli obiettivi del ruolo del garante”. Tra i “compiti” dettati dall’assessore Paola Reguzzoni c’è quello di “sensibilizzare, non tanto dal punto di vista economico quanto da quello progettuale, anche gli altri comuni che ospitano loro concittadini in carcere”. E fare passi avanti concreti sul tema del lavoro in carcere: “C’è una recidività altissima soprattutto per i microreati e per noi il costo sociale ma soprattutto quello indotto è altissimo - rivela l’assessore - oggi ci ritroviamo con mogli e figli a carico dei servizi sociali con il genitore “portante” della famiglia in carcere, mentre quando un detenuto lavora può sostentare la famiglia. Si tratta di un investimento che potrebbe garantire anche un risparmio economico sul medio periodo”. Per Paola Reguzzoni occorre lavorare anche sull’”educazione al lavoro per chi ha l’abitudine di entrare e uscire dal carcere: insegnare la ricchezza di una vita fatta di sacrifici e di obiettivi da raggiungere, una cultura di vita diversa e alternativa alla delinquenza, anche per le seconde generazioni dei figli dei detenuti”. Busto Arsizio. Prison Beer, la birra prodotta dai detenuti di Lucia Landoni La Repubblica, 14 aprile 2023 Don Riboldi: “Così diamo un lavoro a chi esce dal carcere”. L’obiettivo è quello di coinvolgere altri detenuti nel progetto e di battezzare con i loro nomi molte altre lattine di Prison Beer. Si chiama Prison Beer, ha un gusto fruttato che punta a conquistare tutti i palati e soprattutto “non sprigiona solo aromi, ma persone, nel senso che le aiuta letteralmente a uscire di prigione senza più rientrarci”: così don David Maria Riboldi, cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio (nel Varesotto), presenta la nuova birra nata dalla collaborazione della cooperativa sociale La Valle di Ezechiele con il birrificio The Wall di Venegono Inferiore (sempre in provincia di Varese) e Lorenzo “Kuaska” Dabove, divulgatore e storyteller birrario. “Il nome strizza l’occhio a una delle serie tv più conosciute e amate tra quelle ambientate nel mondo carcerario, ovvero ‘Prison Break’, ma quella che conta di più è un’altra parola riportata sulla lattina - sottolinea il sacerdote, che è diventato un ‘prete di galera’, come lui stesso si definisce, da quattro anni e mezzo - Anzi, per la precisione è un nome: Antonio, l’ex detenuto che è dipendente della cooperativa e sta lavorando al birrificio The Wall. Parliamo di un uomo che ha alle spalle un curriculum carcerario, se vogliamo chiamarlo così, di tutto rispetto e questa birra gli ha offerto una concreta opportunità per ritornare a una vita normale dopo aver pagato il suo debito con la giustizia”. L’obiettivo è quello di coinvolgere altri detenuti nel progetto e di battezzare con i loro nomi molte altre lattine di Prison Beer: “Le più recenti statistiche dicono che sette persone su dieci tra quelle che escono di prigione senza aver imparato un mestiere finiscono purtroppo per farvi intorno, mentre solo due su 100 fanno la stessa fine se hanno alle spalle un percorso di avviamento professionale” continua don Riboldi. Da qui l’idea di fondare la cooperativa La Valle di Ezechiele, che ha sede a Fagnano Olona (nel Varesotto) ed è stata inaugurata il 25 ottobre 2021 dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia: “In due anni abbiamo dato lavoro a 15 persone e nessuno di loro ha più commesso reati. Insomma la recidiva è allo 0% e questo è un risultato meraviglioso - prosegue il cappellano - Antonio, in particolare, prima andava a lavorare al birrificio durante il giorno e tornava in carcere per trascorrere la notte, mentre ora è a casa, anche se per qualche mese dovrà ancora rispettare regole molto precise e verrà sottoposto a controlli. È felice, soddisfatto, e dal birrificio mi dicono che è un piacere vederlo lavorare. Tutto grazie a una birra”. Il nuovo marchio brassicolo, che si definisce “la birra che detiene la bontà”, verrà ufficialmente presentato domenica 16 aprile alle 18 in piazza San Giovanni a Busto Arsizio presso lo stand del Baff (Busto Arsizio Film Festival) alla presenza delle autorità, “ma già dalle 14 offriremo assaggi gratuiti a chi verrà a trovarci - promette don David - Ci auguriamo che piaccia molto perché ogni birra venduta consentirà al progetto di fare un passo avanti. Con la nostra cooperativa stiamo ribaltando la prospettiva tradizionale: non usiamo i lavoratori per fare soldi, ma utilizziamo i soldi per creare nuovi posti di lavoro per detenuti ed ex detenuti”. Giovani volontari? Sono disponibili ma “a condizione” di Jacopo Storni Corriere della Sera, 14 aprile 2023 Indagine del Cesvot. Vorrebbero fare volontariato ma non lo fanno. Sono tanti, tantissimi, e sono soprattutto giovani tra i 18 e i 24 anni. Non fanno volontariato perché le loro vita privata, il lavoro, lo studio e la famiglia sono sempre più difficilmente conciliabili con attività di altro genere. Ma soprattutto è il lavoro, spesso più lavori, spesso precari, a non consentire di trovare il tempo di spendersi anche nell’associazionismo. Vite troppo incerte, dove si trova a fatica il tempo per sé stessi e sempre meno per gli altri, ancor più all’indomani della pandemia. E se qualcuno decide comunque di fare volontariato, non lo fa nelle associazioni tradizionali, ma lo fa autonomamente, nei tempi e nei modi possibili consentiti dalle loro vite. È’ uno dei risultati a cui è giunta l’indagine “La differenza dei potenziali. Come cambia la propensione dei cittadini toscani al volontariato”, pubblicata da Cesvot e condotta dal sociologo Andrea Salvini del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. Secondo i curatori della ricerca, sembra venuta meno anche l’attitudine a fare volontariato come appartenenza, come missione di vita. “Il senso di sacrificio è sostituito dalla gratificazione, la dedizione è sostituita dalla discontinuità, cioè dalla necessità di rendere compatibile l’attività di volontariato con le altre attività della propria vita”. Un’indagine relativa alla regione Toscana, dove opera il Cesvot. Parlano i dati dell’Istat forniti nella ricerca: nel 2007 i cittadini toscani impegnati in una associazione di volontariato erano pari all’11,1% sul totale della popolazione, nel 2019 tale quota è scesa al 10,5% (344mila volontari) e nel 2021 al 7,9% (258mila volontari). Un calo lento e graduale, sintomo soprattutto dell’invecchiamento della società e di un mancato ricambio generazionale tra i volontari, che si è acutizzato con la pandemia, che ha sgretolato la relazionalità e con essa anche l’aggregazione sociale tipica del volontariato, con sempre meno anziani e giovanissimi impegnati nel sociale. Un calo che nel 2022 ha avuto una leggera inversione di tendenza, facendo risalire leggermente le persone impegnate nel volontariato. Post Covid: la rabbia dei nostri giovani di Francesco Vaia* Corriere della Sera, 14 aprile 2023 La violenza, la preoccupante diffusione dell’utilizzo di psicofarmaci, droghe, alcol e sigarette, sono tutti segni della sofferenza. Serve un’alleanza scuola-famiglia-sanità. Caro Direttore, la fase acuta della pandemia è ormai alle nostre spalle e la Primavera di Rinascita è ora davvero arrivata. È innegabile comunque che la pandemia abbia lasciato tracce visibili del suo passaggio. Tra le fasce sociali più colpite, oltre agli anziani, vanno annoverati i giovani, particolarmente penalizzati dai prolungati lockdown. Per utilizzare una terminologia che usiamo nel mondo medico, la “restitutio ad integrum” della società dopo il dramma pandemico non è un fatto scontato e la crescente violenza giovanile deve spingerci a una seria riflessione. La rabbia dei nostri giovani è figlia di un disagio che va ascoltato e compreso, senza pregiudizi o giudizi moralizzatori e tranchant che nessun effetto avrebbero se non quello di far sentire ancora più incompresa una gioventù che si rifugia in un mondo “on life” e che si percepisce distante dal mondo degli adulti. Chiaramente, la violenza non è l’unica espressione di questo disagio: la preoccupante diffusione dell’utilizzo di psicofarmaci, droghe, alcol e sigarette, l’aumento dei comportamenti suicidari e dei disturbi alimentari, sono tutti segni evidenti della sofferenza dei nostri ragazzi. Cosa possiamo fare? Innanzitutto ascoltarli, comprendere la loro inquietudine e la sua fertilità potenziale. Il luogo più opportuno da cui partire è la scuola, che deve concretamente diventare asse portante di un “New deal” post Covid. Qui bisogna agire per diffondere una “cultura dell’educazione” alla vita, alla buona vita civica e alla salute. Gli insegnanti, che già svolgono un grande e purtroppo spesso ignorato e sottopagato lavoro, non siano però lasciati soli in questa impresa: ai docenti, autorevoli e capaci di ascoltare, comprendere e persuadere, si affianchino le famiglie. La famiglia torni ad essere nucleo essenziale di sviluppo della Persona. La virtuosa alleanza Scuola-Famiglia deve essere integrata da un terzo soggetto strategico, la Sanità, che può apportare un contributo significativo nel lenire e curare le ferite createsi durante la pandemia. Solo a titolo di esempio vorrei citare il progetto “Di nuovo vicini” che lo Spallanzani porterà avanti negli Istituti Secondari di II grado di Roma. Andremo nelle scuole non solo per sanare le ferite ma anche per un’azione preventiva, promuovendo il benessere psicologico come antidoto allo sviluppo di possibili disagi futuri. Andando oltre, sempre a scuola andrebbero promossi stili di vita salutari, riannodando i fili con un buon passato non lontano, quando nelle scuole si sviluppava la medicina preventiva e si incentivava lo sport attivo, per tutti e per tutte le età. Oggi bisogna rinverdire quel tempo, utilizzando anche quanto di più attuale la medicina personalizzata e l’innovazione tecnologica ci donano. Non sprechiamo più tempo! L’alleanza Scuola-Famiglia-Sanità, necessaria per garantire interventi strutturali e risposte di sistema di cui l’intero Paese ha bisogno, richiede un coordinamento nazionale e istituzionale: rinnovo pertanto l’invito a istituire un tavolo interministeriale e interdisciplinare a Palazzo Chigi. Tutta la Politica, almeno su questo, sia solidale, mettendo da parte legittime contrapposizioni e visioni diverse. Solo così, tutti insieme - come Comunità Paese, proprio come abbiamo affrontato la pandemia, come se fossimo ancora sui balconi a cantare insieme l’inno nazionale - possiamo dare risposte concrete al nostro futuro, cioè i giovani, che oggi più che mai hanno bisogno di noi. *Direttore Generale Istituto Spallanzani Sciarra e la Carta che tutela i bambini di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 14 aprile 2023 È venuto dalla presidente della Corte costituzionale, Silvana Sciarra, un forte richiamo ai diritti dei nati, qualunque sia il tipo di coppia genitoriale che li ha generati e se ne prende cura. Lo stile che è proprio della presidente l’ha tenuta lontana dal clima infiammato che connota il dibattito in Italia sulla questione del riconoscimento dei nati. Ma il senso delle risposte che la presidente ha dato ad alcune domande di giornalisti è ben chiaro quando ha richiamato ciò che ha detto il presidente della Corte di Giustizia dell’Unione europea nella recente intervista data a La Stampa. In quella intervista il presidente della Corte di Giustizia ha chiarito che nell’ambito dell’Unione vige il diritto di circolazione di tutti i cittadini dell’Unione stessa e che da questo diritto discende, per i minori il diritto a viaggiare con i propri genitori. Si tratta di una posizione adottata dalla Corte in una sentenza che vincola tutti gli Stati membri, nel sistema dell’Unione di cui l’Italia fa parte. Più in generale, la presidente Sciarra ha per più versi sottolineato l’apertura della Corte costituzionale al dialogo con le istituzioni dell’Unione e del Consiglio d’Europa e con le due Corti che operano nel loro ambito. La Corte costituzionale in particolare, in sintonia con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani in due casi riguardanti proprio il riconoscimento dei nati da coppie omosessuali femminili e maschili, con le sentenze n. 32 e 33 del 2021 ha sollecitato il Parlamento a disciplinare la materia alla luce del preminente interesse dei nati. Come in altri casi il Parlamento è in palese difficoltà, il dibattito - spesso grossolano - si svolge altrove e perdura intanto una situazione in cui i principi costituzionali non sono realizzati. I casi che, in assenza di compiuta legislazione, sono oggetto di dibattito ed anche di iniziative autonome da parte di alcuni sindaci, sono molto diversificati. Alcuni come quelli di coppie maschili implicano il ricorso all’estero della maternità surrogata, vietata in Italia. In altri come quelli delle coppie omosessuali femminili non si pone la questione della gestazione per conto di altri. Ma il ricorso che vien fatto alla maternità surrogata non è esclusivo delle coppie omosessuali. Anche coppie eterosessuali possono essere indotte a ricorrervi nel caso della impossibilità della donna di generare e partorire un figlio. In generale non può essere semplificata con un generale e indistinto anatema la questione della filiazione da parte di coppie “non tradizionali” e del ricorso alla maternità surrogata in paesi che la ammettono, regolarmente registrando i nati come figli della coppia. Anche l’arrivo delle tecnologie della fecondazione artificiale ha dato luogo in Italia a resistenze e ad una legislazione restrittiva per impedire la sua forma eterologa. Ma poi il divieto ha dovuto cedere all’evidenza dei vantaggi che la nuova tecnica offriva e della necessità di evitare discriminazioni. Per pretendere di mantenere un divieto di registrare i figli di coppie omosessuali o di ammettere nell’ordinamento italiano la registrazione effettuata in Stati diversi, si usa un argomento legato alla inammissibilità della vietata maternità surrogata. Ammettere la registrazione dei figli varrebbe come incentivo e riconoscimento del ricorso alla maternità surrogata. Ma intanto bisognerebbe limitare questa posizione al solo caso delle coppie omosessuali maschili e in generale occorrerebbe distinguere considerando la varietà dei casi. Inoltre - tema di ampia portata - bisognerebbe valutare la difficoltà di resistere all’ingresso di nuove tecnologie che danno risposta ad una domanda che in sé è apprezzabile. In proposito la Corte costituzionale nella sentenza n. 162/2014, riguardante la fecondazione artificiale eterologa, ha riconosciuto che “la determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali”. Incoercibile. Migranti. Il piano del governo per Lampedusa. Protezione speciale verso la stretta di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 14 aprile 2023 L’esecutivo vuole svuotare l’hotspot. Oggi la discussione in Senato. I dubbi di Bruxelles sullo stato d’emergenza deciso da Roma. Lo stato di emergenza ora c’è. La stretta sui permessi speciali di protezione umanitaria e sulla permanenza nei Cpr non ancora: i due emendamenti del governo al decreto Cutro erano attesi ieri in commissione Affari costituzionali al Senato, ma tutto è stato rinviato a oggi. Ufficialmente in attesa della verifica delle coperture da parte del Mef. In realtà alla Ragioneria non è ancora arrivata l’esatta quantificazione delle necessità, sintomo che il testo è ancora in discussione. Trapelano dissidi con la Lega che nel suo intento di stringere le maglie tenderebbe, secondo gli alleati, a “qualche forzatura”. Intanto però una certezza c’è: questo è stato il trimestre in cui ci sono state più vittime nel Mediterraneo dal 2017. Lo segnala l’Onu puntando il dito contro la “intollerabile persistente crisi umanitaria”. “Con più di 20.000 morti su questa rotta dal 2014 temo che queste morti si siano normalizzate” dichiara Antonio Vittorino, capo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni dell’Onu. Chiedendo il ripristino di un efficace pattugliamento in mare. Anche per alleggerire la situazione dell’hotspot di Lampedusa. Il governo mira a svuotarlo subito. Iniziando i trasferimenti in altre strutture, anche da allestire grazie ai poteri speciali dello stato di emergenza. Il sindaco dell’isola Filippo Mannino chiede almeno il ripristino delle navi per l’accoglienza. Ma la situazione è sempre più critica. Anche i dati forniti in occasione del centosettantunesimo anniversario della fondazione della Polizia lo mostrano. Nel 2022, sono approdati in Italia 105.131 migranti a seguito di 2.539 sbarchi. Un balzo all’insù del 55,80% dopo la diminuzione del biennio 2017-2019. Una situazione, evidenzia il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, di cui “difficilmente può farsi carico un solo Paese al di fuori di un’azione congiunta, lucida e ben organizzata a livello europeo”. Dall’inizio dell’anno, sottolinea il capo della Polizia Lamberto Giannini, “sono stati arrestati 39 scafisti, segno dell’attenzione alla sponda Sud del Mediterraneo”. Un’azione “tanto più straordinaria quanto più riesce a mantenere la normalità” ha evidenziato il ministro. Uno sforzo che ha ricevuto apprezzamenti anche dal capo dello Stato, Sergio Mattarella: “Coniugando rigore ed equilibrio, ogni giorno gli appartenenti alla Polizia di Stato sono interpreti dei valori costituzionali di solidarietà e di coesione sociale, come il contributo offerto in occasione di recenti eventi emergenziali e la complessa attività nel campo dell’immigrazione e dei servizi per l’integrazione degli stranieri”. Ma da Bruxelles non arrivano buone notizie. Si valuta la decisione dell’Italia di dichiarare lo Stato di emergenza definita “misura di stampo nazionale e originata da una situazione molto difficile”. Ma si respinge la nostra richiesta di aiuto. Un portavoce dell’esecutivo Ue riferisce: “L’Italia ha chiesto assistenza finanziaria a causa dell’aumento degli arrivi di migranti in particolare per la situazione di Lampedusa”. Ma l’Italia, fa notare, riceve supporto dall’Ue “con un’ampia gamma di misure”, compreso “l’expertise sul campo” ed è uno dei “principali beneficiari del fondo per la migrazione e l’integrazione e del nuovo periodo di programmazione”. Migranti. Il governo vuole mandare nei Centri per il rimpatrio anche i richiedenti asilo di Vanessa Ricciardi Il Domani, 14 aprile 2023 Arrivano i primi emendamenti dell’esecutivo al decreto Cutro: prevedono assistenza della Croce rossa e gare per i traghetti per Lampedusa. Sono previste anche punizioni per i richiedenti asilo che commettono reati o “distruggono beni mobili o immobili”. I lavori sul decreto procedono a rilento. Il testo è previsto in Aula martedì, forse senza mandato al relatore. Il governo potrà mandare nei centri per il rimpatrio anche i richiedenti asilo, che comunque nelle intenzioni dell’esecutivo saranno esclusi dal sistema di accoglienza e saranno passibili di punizioni. Lo si legge nella coppia di emendamenti al decreto Cutro depositato dal governo questo pomeriggio in commissione Affari costituzionali al Senato. I testi prevedono anche centri emergenziali, l’assistenza della Croce rossa a Lampedusa e l’affitto di un traghetto per spostare i migranti. Il testo che menziona i Cpr, il 7.0.100, fissa in primo luogo nuove procedure per i richiedenti asilo: vengono potenziate le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale; vengono estese le procedure accelerate alle frontiere e poi si potrà reiterare la domanda solo in caso di nuovi elementi o prove in merito a condizioni personali o alla situazione del paese di origine. Quello che colpisce però è l’ampliamento delle ipotesi di trattenimento nei Cpr, centri che vengono definiti per i “detenuti senza reato” e dove le associazioni hanno spesso denunciato la violazione dei diritti. Il trattenimento per i richiedenti asilo avviene in caso di “rischio di fuga”. Secondo il testo, questo pericolo sussiste quando il richiedente si è sottratto a un primo tentativo di trasferimento nel paese di competenza ma anche in altri quattro casi: mancanza di un documento di viaggio; mancanza di un indirizzo affidabile; inadempimento dell’obbligo di presentarsi alle autorità competenti, mancanza di risorse finanziarie. Situazioni queste ultime che ricorrono molto spesso. Accoglienza e traghetti - Prima che arrivasse questo emendamento che non sposta le finanze dello stato, con il via libera del ministero dell’Economia è arrivato anche il 5.0.100. Nella parte riguardante i richiedenti asilo dell’emendamento all’articolo 5 del decreto Cutro, viene riesumata una misura contenuta in uno dei decreti sicurezza firmati da Matteo Salvini: l’esclusione dalla possibilità di ospitarli nella rete del Sistema di accoglienza e integrazione gestita con i comuni. Adesso dovranno andare nei centri di accoglienza governativi fino alla decisione sulla domanda di protezione internazionale. Nei centri che saranno individuati, e dove è prevista la permanenza del richiedente asilo per il tempo strettamente necessario, è prevista l’erogazione di servizi minimi: vitto, alloggio, vestiario, assistenza sanitaria e mediazione linguistico-culturale. Potrà accedere al Sai chi entra in Italia con corridoi umanitari e reinsediamenti nonché i vulnerabili (anziani, malati, donne incinte). Fino all’ottenimento della protezione, dunque, i richiedenti asilo non godranno dei servizi di integrazione. Significa che, secondo le stime, 1.926 persone, dovranno essere inserite nei centri di accoglienza governativi “per stranieri irregolari” e negli hotspot. La stretta sull’asilo - Un comma prevede la riduzione o la revoca delle condizioni di accoglienza nel caso in cui il richiedente protezione internazionale si renda responsabile di gravi violazioni delle regole del centro di accoglienza o di comportamenti gravemente violenti. Non solo, nei casi di violazione grave o ripetuta da parte del richiedente delle regole della struttura in cui è accolto, compresi il danneggiamento doloso “di beni mobili o immobili”, oppure comportamenti gravemente violenti, sono previste punizioni: l’esclusione temporanea dalla partecipazione ad attività organizzate dal gestore del centro, la riduzione dei servizi e la sospensione, per un periodo non inferiore a trenta giorni e non superiore a sei mesi, o la revoca, dei benefici economici accessori. È, inoltre, previsto che la revoca o le misure limitative vengano applicate anche in caso di condotte illecite tenute al di fuori del centro di accoglienza e che le stesse siano adottate in modo individuale e motivate, nel rispetto del principio di proporzionalità, tenuto conto della situazione personale del richiedente, con riferimento ad eventuali condizioni di vulnerabilità. La spesa complessiva prevista per il 2023 per assicurare l’accoglienza dei richiedenti asilo ammonta a oltre 853,6 mln di euro, dei profughi provenienti dall’Ucraina nei centri governativi e negli hotspot e dei richiedenti asilo non più inseriti nei progetti della rete Sai. Il governo ha poi deciso di affidare ai privati il trasferimento degli ospiti dall’hotspot. Per questo vengono stanziate risorse per lo svolgimento del servizio di trasporto marittimo da parte di “vettori appositamente individuati”, come è accaduto per le navi quarantena durante il Covid, si legge. L’esempio citato è il trasferimento da Lampedusa a un porto della Sicilia meridionale, di almeno 400 migranti al giorno, per un totale di 2.800 a settimana. L’affidamento del servizio sarà gestito dal Mit retto da Matteo Salvini. Sarà previsto, da parte del concessionario individuato, il servizio di trasporto di almeno 400 migranti al giorno sulla rotta Lampedusa - Mazara del Vallo, la quale costituisce il percorso marittimo più lungo ipotizzabile sulla tratta Lampedusa - costa meridionale della Sicilia, corrispondente a circa 130 miglia nautiche. Il corrispettivo previsto per tale servizio è stato fissato in 36mila euro per un viaggio andata e ritorno. Gli oneri complessivi per l’anno 2023 sono stati determinati in 8,8 milioni di euro, supponendo che il servizio venga affidato a far data dal primo maggio. Il decreto senza mandato - La commissione tornerà a riunirsi lunedì, mentre è atteso nelle prossime ore un nuovo emendamento del governo, da domani i parlamentari potranno presentare i subemendamenti. Le opposizioni hanno confermato che presenteranno una valanga di proposte e i lavori riprenderanno quindi direttamente lunedì alle ore 12 per l’illustrazione. Poiché la maggioranza non intende far slittare l’approdo in Aula calendarizzato per martedì 18 aprile, è quasi certo ormai che il provvedimento arriverà senza aver potuto votare gli emendamenti e senza mandato al relatore. Peraltro come già avvenuto a Palazzo madama per il dl Ong. “Stato d’emergenza per i migranti, così il principio di legalità potrà essere violato” di Angela Nocioni Il Riformista, 14 aprile 2023 Intervista a Gaetano Azzariti, docente ordinario di Diritto costituzionale alla Sapienza di Roma. Cosa concretamente comporta la dichiarazione da parte del governo dello stato di emergenza? Il numero dei migranti complessivo non fa presupporre nessuna emergenza. Dal punto di vista normativo gli effetti principali dell’aver dichiarato lo stato di emergenza sono due. Anzitutto, possono essere emanate ordinanze in deroga alle leggi vigenti. In secondo luogo, queste ordinanze possono essere adottate dalla presidente del Consiglio dei ministri o, su sua delega, dal ministro per il coordinamento della protezione civile, avvalendosi del Commissario delegato. Il che vuol dire che vengono sostanzialmente sottratti i poteri ordinari degli altri ministeri, di quello dell’interno in particolare, ma anche, per le competenze in materia, di quello dei trasporti. A pensar male si potrebbe sospettare che sia stato un modo per risolvere divergenze interne al governo. Rimane comunque il dato, assai delicato, della estensione dei poteri in materia di immigrazione che possono prevedere atti in deroga al principio di legalità. Misure eccezionali che dovrebbero essere sempre utilizzate con estrema cautela e solo in casi veramente straordinari e imprevedibili. Esistono dei vincoli normativi da rispettare per poter dichiarare lo stato d’emergenza? Un governo una emergenza se la può inventare o esistono criteri obiettivi che lo vincolano? La legge istitutiva della protezione civile (la n. 225 dl 1992) è in realtà assai generica. E già nel passato abbiamo dichiarato lo stato d’emergenza per eventi per nulla traumatici. Si ricorderà l’uso estremamente largo della protezione civile al tempo di Bertolaso quando, con una normativa che poi è stata per fortuna cambiata, potevano utilizzarsi le ordinanze di necessità ed urgenza per organizzare la gestione dei cosiddetti grandi eventi. Ancora oggi, però, si fa riferimento a non meglio definite calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari. E il peggio è che la valutazione della sussistenza di queste situazioni è rimessa sostanzialmente al Consiglio dei ministri su proposta del presidente del Consiglio o su quello del ministro per il coordinamento della Protezione civile. Così può avvenire che il fenomeno epocale delle migrazioni sia considerato alla stregua di una calamità naturale. Chi ritiene una ottima trovata l’aver dichiarato lo stato di emergenza sostiene che in questo modo si velocizzano le procedure per i riconoscimenti e per i rimpatri. Quali passaggi concretamente si salteranno e quali controlli verranno evitati? La velocizzazione delle procedure è un’ossessione di questo governo, in verità anche del precedente. Basta pensare al nuovo codice degli appalti che ha esteso le procedure di affidamento semplificato, se non diretto. Se già in questi casi il rischio del venir meno dei controlli è stato denunciato da più parti ed appare un problema reale, figuriamoci quando siamo di fronte a diritti fondamentali delle persone. Francamente spero che non si utilizzi lo stato di emergenza per incidere sulle procedure di rimpatrio. Tra l’altro è in Parlamento la legge di conversione del decreto Cutro che proprio di questo si occupa, e non sempre in modo corretto per i diritti dei migranti, soprattutto con riferimento alla cosiddetta protezione speciale. I poteri extra ordinem che ora si attribuisce il governo dovrebbero riguardare solo le vicende organizzative, ovvero l’emergenza conseguente al flusso elevato di arrivi di migranti. In sostanza, l’emergenza in mare, magari rafforzando la guardia costiera che deve effettuare i salvataggi in mare, ovvero il reperimento di alloggi e strutture adeguate per la permanenza dei migranti una volta giunti sul territorio nazionale. Non mi sembra però che l’attuale governo sia orientato in questa direzione, semmai guarda nel verso opposto, volendo prendere misure per limitare gli arrivi. E questo non lascia ben sperare. Lo stato di emergenza consente di fare affidamenti diretti senza gara quindi senza nessun controllo, ma non esistono regole europee per le gare? Si possono derogare per decisione governativa? Una delle giustificazioni che sono state fornite per decretare lo stato di emergenza è quello della carenza di strutture di accoglienza. Ma qui si apre una questione. Se si pensa veramente che dopo questa anomala ondata di arrivi - il 300% in più rispetto all’anno passato, ma sempre al di sotto della media del numero dei migranti residenti in Germania, Francia e Spagna, quindi, ripeto: non c’è nessuna emergenza che giustifichi la dichiarazione dello stato di emergenza - si possa tornare ad un flusso molto più ridotto, allora l’intervento richiesto sarebbe del tutto eccezionale e provvisorio. Ma se invece, con maggiore realismo, si ritiene che ci si debba attrezzare per i prossimi anni ad un significativo arrivo di migranti da tutti i paesi oggi in sofferenza e provare a governare il fenomeno delle migrazioni, allora appare evidente che non si tratta di intervenire straordinariamente, ma di costruire una complessa rete di accoglienza e permanenza dei migranti. In questo secondo caso la protezione civile potrebbe fare ben poco, meglio sarebbe un intervento di natura strutturale che modificasse e estendesse i centri di accoglienza oggi sovraffollati ed inidonei. Meglio sarebbe, finalmente, fare una legge rispettosa dell’articolo 10 della Costituzione che assicuri il diritto di asilo a chi ne ha titolo. Meglio sarebbe definire una più congrua normativa sull’accoglienza dei lavoratori stranieri nel nostro paese. Meglio sarebbe proporre a livello europeo una modifica degli accordi di Dublino sulla distribuzione dei migranti nei vari Paesi. Meglio sarebbe coinvolgere i Paesi europei nonché le associazioni di volontariato nelle azioni di salvataggio in mare. Certo, si può ragionevolmente dubitare che il governo sia orientato in questo senso. Stati Uniti. Affetto da schizofrenia, tenuto nudo in isolamento in carcere: muore a 29 anni di Biagio Chiariello fanpage.it, 14 aprile 2023 Joshua McLemore, 29enne americano che soffriva di schizofrenia, è stato tenuto per 20 giorni in una cella di isolamento del carcere della contea di Jackson, Indiana. Ha perso 20 kg e alla fine è deceduto. Ora la famiglia ha presentato una causa nei confronti della struttura: “Non era un criminale. Era semplicemente un malato di mente e in crisi. Non era in contatto con la realtà e aveva bisogno di aiuto”. Un 29enne statunitense, che soffriva di schizofrenia, è morto nell’estate del 2021 dopo quasi tre settimane di isolamento in un carcere della contea di Jackson, nello Stato USA dell’Indiana. Secondo quanto si legge nei documenti della denuncia presentata dai familiari di Joshua McLemore, il 29enne sarebbe stato messo in una cella di isolamento insonorizzata e senza finestre, dove è rimasto “confinato, nudo, solo e in un costante stato di psicosi per i successivi 20 giorni”. La causa è stata intentata contro la Contea di Jackson e il suo sceriffo Rick Meyer, tre dipendenti del carcere, un medico che ha supervisionato i problemi clinici del detenuto, e la società che fornisce servizi di assistenza sanitaria presso la struttura. McLemore sarebbe morto per “insufficienza multiorganica dovuta al rifiuto di mangiare o bere a causa del suo stato mentale alterato per una schizofrenia non curata”, secondo il rapporto del medico legale fornito dal suo avvocato. La vittima avrebbe inoltre un problema di astinenza da metanfetamina che avrebbe contribuito al decesso. La morte del 29enne è stata il risultato di “molteplici atti di indifferenza, nonché carenze sistemiche e incostituzionali” nelle politiche, nelle pratiche e nei programmi di formazione della contea, si legge nella causa presentata mercoledì 12 aprile presso il tribunale distrettuale degli Stati Uniti per il distretto meridionale dell’Indiana. Inoltre, la struttura non avrebbe supervisionato o addestrato a sufficienza il proprio personale su come gestire gravi problemi di assistenza medica o mentale. “Josh McLemore non era un criminale”, ha detto alla CNN Hank Balson, un avvocato che rappresenta la famiglia McLemore. “Era malato di mente e in crisi. Non era in contatto con la realtà e aveva bisogno di aiuto. Questo è palesemente ovvio per chiunque guardi i filmati di quest’uomo mentre si trovava nella sua cella di isolamento”. L’uomo era stato arrestato per aver tirato i capelli a un’infermiera mentre si trovava al pronto soccorso, messo in manette e catene per le gambe e portato fuori dall’ospedale, nudo tranne che per le mutande, secondo Balson. È stato accusato di percosse ad un pubblico ufficiale e portato alla prigione della contea di Jackson il 20 luglio 2021, secondo i documenti del tribunale. All’arrivo nella struttura penitenziaria, è stato portato nella cella di isolamento e vi è rimasto “quasi ininterrottamente” fino alla sua morte. Sebbene il cibo venisse consegnato alla porta della cella di McLemore due o tre volte al giorno, il detenuto non si sarebbe praticamente mai nutrito, gettando tutto ciò che arrivava sul pavimento della sua cella, che era disseminato di urina, feci e lunch box distrutte, secondo la denuncia. Mentre era in carcere, McLemore ha perso quasi 20 chili. “Quando il personale ha finalmente mandato Josh in ospedale, le sue condizioni erano così terribili che l’ospedale locale non è riuscito a curarlo con le risorse che aveva a disposizione e ha dovuto trasferirlo in aereo in un ospedale più grande di Cincinnati, dove è morto due giorni dopo”, si legge nei documenti della denuncia. Un’indagine del 2022 del procuratore della contea di Jackson ha rilevato che “nessun crimine è stato commesso dai dipendenti della prigione in relazione alla morte di McLemore”, secondo quanto rivelato dell’emittente WDRB, affiliata della CNN. Malesia. Colpo alla pena capitale: non è più obbligatoria di Sergio D’Elia IL Riformista, 14 aprile 2023 La nuova legge si applica retroattivamente, gli 11 reati che prevedevano la forca possono essere puniti con l’ergastolo. La decisione spetta ai giudici. La riforma arriva cinque anni dopo la moratoria delle esecuzioni. Siti Zabidah Muhammad Rasyid ha pianto e pregato per 23 anni, e ha sperato in un miracolo per salvare suo figlio Razali dal braccio della morte. Era stato condannato per aver violato le dure leggi sulla droga in vigore in Malesia. Non aveva ucciso nessuno. Era stato solo sorpreso con 851 grammi di cannabis, un reato capitale che come accade a Singapore o in Iran può portare dritto alla forca. Per una madre il figlio è sempre innocente. Sarebbe stato un amico a costringerlo a trasportare la droga per poi farne un capro espiatorio dopo essere stato arrestato. I giudici non hanno voluto sentire ragioni e hanno respinto ogni tentativo della famiglia di ricorso contro la sentenza. La donna è crollata alla lettura del verdetto, temendo che le vie legali per suo figlio fossero definitivamente chiuse. Ma le preghiere di Siti Zabidah sono state esaudite ai primi di aprile quando il parlamento ha approvato radicali riforme legali per abolire la pena di morte obbligatoria in Malesia. Quando la buona novella legislativa l’ha raggiunta nel suo povero appartamento nello stato di Selangor, vicino alla capitale Kuala Lumpur, le lacrime di dolore di oltre vent’anni sono diventate in un attimo lacrime di gioia. “Di mio marito posso anche fare a meno, dei miei figli no.” Le leggi dell’era coloniale sono state riformate e le riforme conferiranno ai giudici maggiore discrezionalità sulla condanna. La nuova legge si applica retroattivamente, per cui gli 11 reati che in precedenza prevedevano la morte come pena obbligatoria possono invece essere puniti con l’ergastolo, che in Malesia però non significa “fine pena mai”, perché la legge rivista elimina anche la pena della “reclusione vita natural durante” e la sostituisce con una pena detentiva compresa tra i 30 e i 40 anni. Reati gravi come il tradimento (“fare la guerra contro il re”), il terrorismo, il possesso di armi da fuoco e la presa di ostaggi erano tra i crimini che comportavano la pena capitale senza via di scampo. Ma più del 60% dei detenuti nel braccio della morte sono stati condannati per traffico di droga, una chiara violazione degli standard internazionali, secondo i quali la pena di morte non può essere applicata a fattispecie come questa che non raggiungono la soglia dei reati “più gravi”. L’emendamento abolizionista è passato con un semplice “voto vocale” nel quale la forza e il volume delle chiamate di ‘sì’ hanno subissato quelle dei ‘no’. Ed è arrivato quasi cinque anni dopo che la Malesia ha imposto una moratoria su tutte le condanne a morte come parte dell’impegno dell’amministrazione di Mahathir Mohamad del 2018 di eliminare del tutto la pena di morte. La moratoria è sopravvissuta al tumultuoso panorama politico della Malesia che dalla crisi politica del 2020 ha visto quattro primi ministri nell’arco di tre anni. Ma la liberazione della Malesia dal passato coloniale britannico non è stata completa. I giudici possono ancora emettere la condanna a morte a loro discrezione in casi particolari. In alternativa, oltre all’ergastolo, possono infliggere 12 colpi di bastone, forma di punizione corporale proibita dal diritto internazionale, una reliquia del passato ancora venerata in molti Paesi dell’ex impero britannico, incluse le vicine Singapore e Indonesia. Comunque, in base alle nuove regole, più di 1.300 persone che rischiano la pena di morte o l’ergastolo - comprese quelle che hanno esaurito tutti i ricorsi legali - possono chiedere una revisione della condanna. Il destino del figlio di Siti Zabidah è ora nelle mani dei tribunali, che decideranno su un’eventuale condanna o punizione alternativa. Siti Zabidah ha detto che sarebbe stata al fianco di suo figlio qualunque cosa fosse accaduta. “Finché sarò viva, gli darò forza”. Se Siti Zabidah ha prosciugato quasi tutte le sue lacrime di dolore per la sorte di suo figlio, un’altra donna non ha mai smesso di piangere. Con in mano un ritratto di sua figlia Annie Kok Yin Cheng - violentata e uccisa all’età di 17 anni nel 2009 - Tan Siew Ling si è pronunciata contro l’emendamento in una conferenza stampa organizzata dai parlamentari dell’opposizione. Singhiozzando, non riusciva a completare le sue frasi e doveva essere consolata. Come spesso avviene in questi casi, le famiglie delle vittime predicono che in base alla nuova legge gli assassini saranno liberi di circolare nelle strade poiché i giudici hanno sbagliato nell’emettere condanne a morte invece di pene più leggere. Anche se, fino al 2019, secondo le statistiche carcerarie, non c’erano prove di recidiva da parte di detenuti a lungo termine ed ergastolani che erano stati graziati e liberati. Iran. Ong, giustiziate almeno 582 persone nel 2022, il 75% in più rispetto al 2021 Adnkronos, 14 aprile 2023 Le autorità iraniane hanno giustiziato per impiccagione 582 persone nel 2022, secondo un rapporto pubblicato dalle organizzazioni non governative Iran Human Rights (Ihr) e Together Against the Death Penalty (Ecpm), che hanno evidenziato che la cifra è la più alta dal 2015. Le Ong hanno indicato nella prefazione del rapporto che “a causa di un contesto molto difficile, della mancanza di trasparenza e degli evidenti rischi e vincoli affrontati dagli attivisti in Iran, il rapporto non fornisce un quadro completo dell’uso della pena di morte in Iran. Ci sono segnalazioni di esecuzioni che non sono incluse in questo rapporto a causa di dettagli insufficienti o dell’impossibilità di confermare i casi attraverso due diverse fonti”. Gli attivisti hanno sottolineato che il rapporto non include nemmeno i 537 manifestanti uccisi durante le proteste a seguito della morte di Mahsa Amini e le “morti sospette in custodia” o “quelli uccisi con la tortura”.