Carceri e fine vita, la Consulta bacchetta il Parlamento di Liana Milella La Repubblica, 13 aprile 2023 La presidente Sciarra: “Collaborazione sui temi sensibili non ha dato sempre esiti soddisfacenti”. È accaduto per l’ergastolo ostativo, per il carcere per i giornalisti, per il fine vita. Alla vigilia della riunione straordinaria con Mattarella esce l’Annuario del 2022 con il bilancio dell’anno. Prese state 270 decisioni, 213 sentenze, 57 ordinanze. La collaborazione della Consulta con il Parlamento? La Corte ha limitato il suo potere e ha scelto “di concedere il tempo necessario al Parlamento per confezionare una nuova legge”, ma ciò “non ha portato sempre a risultati soddisfacenti e rapidi per i cittadini”. Il Covid? “Dalla Corte sempre rispetto per le scelte individuali”. Il 41bis? “Il visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto e l’avvocato viola il diritto di difesa”. Alla vigilia della tradizionale seduta straordinaria della Corte costituzionale, che si svolgerà domani, alla presenza di Sergio Mattarella, in cui viene presentato il bilancio dell’anno precedente, esce la terza edizione dell’Annuario con un’intervista della presidente Silvana Sciarra e i dati del 2022. Sono state 270 le decisioni prese, 213 sentenze, 57 ordinanze, con un più 2,7% sul 2021. Calano i “moniti” al legislatore, sono stati due l’anno scorso rispetto ai dieci del 2018, ai venti nel 2019, ai 25 nel 2020 e 29 nel 2021. I “moniti” al legislatore - Un tema di sicuro dibattito è quello dei rapporti della Corte con il Parlamento. In termini di pronunce di incostituzionalità, di “moniti” a cambiare le leggi stesse, ma anche di decisioni della stessa Corte “sospese” concedendo alle Camere il tempo, di solito un anno, per cambiare le leggi. È accaduto per l’ergastolo ostativo, per il carcere per i giornalisti, per il fine vita. Sciarra afferma che “la Corte, nel solco tracciato dallo spirito repubblicano di collaborazione con il legislatore, possa anche, in alcune circostanze peculiari, autolimitare il proprio potere e scegliere di concedere il tempo necessario al Parlamento per confezionare una nuova legge”. Ma in termini di futuro bilancio “questa apertura di credito su temi molto sensibili e socialmente rilevanti non ha portato sempre a risultati soddisfacenti e rapidi per i cittadini”. Il Covid e la Corte - “Dentro la tutela della salute c’è l’individuo, ma anche la collettività. Quindi sono reciproci i doveri oltre che i diritti. Io mi vaccino per me stesso e per la collettività” dice Sciarra. Che parla di “rispetto” della Corte “nei confronti delle scelte individuali anche in considerazione del fatto che coloro che non potevano sottoporsi alla somministrazione dei vaccini per accertate ragioni mediche sono stati tutelati dal legislatore”. Secondo Sciarra “l’imposizione di un trattamento sanitario obbligatorio trova giustificazione in quel principio di solidarietà che rappresenta la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente”. Il 41bis in vista di Cospito - Il 18 aprile la Corte dovrà decidere sul caso di Alfredo Cospito e sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dai giudici di Torino e sollecitata dalla difesa dell’esponente anarchico sull’attenuante rispetto al reato di strage politica per l’attentato del 2006 alla caserma degli allievi carabinieri di Fossano in cui non ci furono vittime. Se la Corte dovesse decidere favorevolmente cadrebbe la pena dell’ergastolo e quindi con essa anche il 41bis. Sul “carcere duro” Sciarra cita la decisione assunta dalla Corte sulla corrispondenza tra il detenuto e il suo avvocato che “viola il diritto di difesa” e la considera “un esempio di contemperamento fra esecuzione della pena e riconoscimento di diritti al detenuto, nel solco di un giudizio sulla costituzionalità del trattamento carcerario che non può comprimere oltre misura la sfera delle garanzie riservate alla tutela della persona”. La Corte in Europa - Per Sciarra è importante il rapporto della nostra Corte costituzionale con le corti europee, sia le Corti costituzionali nazionali, sia la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di giustizia dell’Unione europea. Perché “il tema di fondo è quello di regolare i meccanismi delle valvole, farle funzionare in modo sempre più sincronico e integrato. Lo scambio proficuo tra la Corte costituzionale e le Corti sovranazionali e internazionali serve proprio a rafforzare le maglie di questa trama democratica, entro cui costruire fiducia reciproca e comuni responsabilità”. Libertà vigilata, la Consulta frena sui benefici ai mafiosi di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2023 Per la Corte gli ergastolani che ottengono la “condizionale” devono essere sempre sorvegliati: il principio “non viola la Costituzione”. La libertà vigilata deve continuare a essere automatica per gli ergastolani che hanno ottenuto la libertà condizionale. Non è incostituzionale. Si tratta della sorveglianza da parte della pubblica sicurezza sulla condotta e sul rispetto degli obblighi del detenuto che ha avuto il beneficio. Questa volta la Consulta, dunque, non amplia i benefici per gli ergastolani e a differenza di quando si è pronunciata contro il cosiddetto ergastolo ostativo assoluto, ha confermato, per una materia che riguarda però tutti i detenuti e non solo i mafiosi o i terroristi coinvolti dall’ostativo, che l’automatismo previsto dal codice penale non si deve modificare. La vigilata non si tocca. Lo si legge nelle motivazioni, estensore Nicolò Zanon, della sentenza che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Firenze sulle normative in merito. I giudici fiorentini supponevano che queste disposizioni violassero il principio di ragionevolezza e di finalità rieducativa della pena, dato che prevedono l’applicazione obbligatoria della libertà vigilata all’ergastolano ammesso alla condizionale, stabiliscono che sia fissa per 5 anni e non consentono al magistrato di sorveglianza di far cessare in anticipo la misura. Ma per la Corte, come pure sostenuto dall’Avvocatura dello Stato rappresentata da Maurizio Greco, non c’è alcuna violazione dei principi costituzionali: “La libertà vigilata è una sorta di ‘prova in libertà’, finalizzata a favorire il graduale reinserimento del condannato nella società”. Non c’è alcun “automatismo irragionevole”, il periodo di libertà vigilata “ha infatti l’obiettivo di verificare la tenuta della prognosi di ‘sicuro ravvedimento’ già effettuata in sede di concessione della liberazione condizionale e consente l’espiazione, in forma meno afflittiva, della pena così sostituita” (quella in carcere con la condizionale, ndr). Non è neppure “irragionevole”, spiega ancora la Corte, che ciò avvenga “per un periodo fisso, poiché la pena originariamente inflitta è già stata commisurata, questa sì doverosamente, alle specificità della situazione concreta”. La Corte dà anche il senso della concessione della condizionale: “Del resto, l’ammissione alla liberazione condizionale dischiude l’accesso alla definitiva estinzione della pena, una volta che ne sia decorsa l’intera durata. Per il condannato all’ergastolo, che può accedere alla libertà condizionale solo dopo aver trascorso in carcere ventisei anni (30 per chi ha l’ostativo, ndr), il periodo di libertà vigilata non può che avere una durata prestabilita e fissa, ed è accompagnato da prescrizioni e obblighi modulabili a opera della magistratura di sorveglianza, alla luce delle peculiarità del caso concreto e del principio costituzionale di risocializzazione”. La Corte fa comprendere le ragioni per cui conferma l’automatismo: “La libertà vigilata, quando applicata al condannato ammesso alla liberazione condizionale, non è una misura di sicurezza e neppure una sanzione aggiuntiva, ma la prosecuzione, in forme meno afflittive, della pena già subìta in origine”. Alla Consulta, inevitabilmente, si è riferita la Cassazione, prima sezione penale, che ha depositato le motivazioni della sentenza con la quale ha respinto il ricorso di Salvatore Pezzino, detenuto per mafia, contro l’ostativo alla condizionale. Scelta obbligata per la Cassazione, che ha chiesto alla Sorveglianza di L’Aquila di rivalutare la richiesta del detenuto alla luce della nuova legge, del governo Meloni, che ha reso l’ostativo per detenuti mafiosi o terroristi non collaboratori, da assoluto a relativo. Il quadro normativo “è significativamente mutato”, scrive il relatore Giuseppe Santalucia, in quanto la riforma ha fatto della mancanza di collaborazione “una preclusione soltanto relativa e ha previsto l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative” anche “per i detenuti non collaboranti, in presenza di stringenti e concomitanti condizioni…”. Insomma è stata seguita la linea della Consulta, dove oggi sarà illustrata la relazione annuale dalla presidente Silvana Sciarra. Nell’intervista all’Annuario 2022 della Corte, Sciarra ha rivendicato gli interventi su ostativo e 41-bis: “Non si può comprimere oltre misura la sfera delle garanzie”. Carceri minorili, Nordio: “Servono spazi per lavoro e sport, da reperire nelle caserme dismesse” redattoresociale.it, 13 aprile 2023 Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, durante il question time a Montecitorio: “Se è vero che nella situazione generale carceraria il problema sono gli spazi, questo vale a maggior ragione per i detenuti minorenni”. Tribunali, “mancano 142 unità di personale”. “Se è vero che nella situazione generale carceraria il problema è gli spazi, questo vale a maggior ragione per i detenuti minorenni. Servono spazi, perché le uniche due soluzioni sono il lavoro e lo sport, per dare la possibilità di sfogare le energie fisiche in ambiente carcerario, rieducare e dare ai ragazzi la possibilità di reinserirsi nella società. Per questo occorrono spazi e noi cerchiamo di individuarli nella risistemazione di caserme dismesse che hanno la struttura compatibile con quella carceraria”. Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio durante il question time a Montecitorio. Nordio: nei tribunali per i minori mancano 142 unità personale. Per quanto riguarda la situazione dei tribunali per minori e del personale, Nordio ha aggiunto: “Abbiamo 27 tribunali, la scopertura è pari a 142 unità. Sono in servizio 648 a fronte delle 789 previste. Verranno immessi in servizio i candidati idonei attraverso gli scorrimenti delle relative graduatorie. È pervista l’assunzione di dirigenti di seconda fascia in numero di 33 nel 2023”. “Con la legge bilancio - continua Nordio - questo governo ha invertito il trend incrementando nel triennio la dotazione organica di agenti e assistenti di 1000 unità portandolo così a 42.150. Per il quinquennio 2021-2025 è stata autorizzata l’assunzione straordinaria di ulteriori complessive 2.800 unità. Contiamo di aumentare questo numero se la dannata crisi economica allenterà la tensione”. All’ergastolo da oltre 30 anni sulla base di una sola (e debole) prova di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 aprile 2023 Per Beniamino Zincheddu, che da 4 anni lotta per la liberazione condizionale, è in corso la revisione del processo: potrebbe trattarsi di uno dei più gravi errori giudiziari italiani. Sta scontando l’ergastolo da oltre 30 anni per un triplice omicidio e un tentato omicidio avvenuto nel cagliaritano l’8 gennaio 1991. Si chiama Beniamino Zuncheddu, attualmente in regime di semilibertà presso il carcere di Cagliari, e grazie alla tenacia dell’avvocato Mauro Trogu sta lottando su due fronti: da una parte la revisione del suo processo attualmente in corso innanzi alla corte d’Appello di Roma, grazie alle nuove schiaccianti prove che delineano la sua innocenza; dall’altra l’ottenimento della liberazione condizionale che trova ostruzionismo dal tribunale di Sorveglianza che per ben due volte ha rigettato la richiesta, nonostante la Cassazione abbia annullato per l’ennesima volta l’ordinanza di rigetto. La vicenda ha dell’incredibile. Come ha sottolineato il blog Terzultima Fermata, con un articolo a firma di Riccardo Radi, la storia di Zuncheddu potrebbe essere annoverata tra i più grandi errori giudiziari della storia italiana. Parliamo di un uomo che ha varcato la soglia del carcere a 27 anni e non è più uscito. Un’intera esistenza privata della sua libertà per una sola e unica prova: la testimonianza dell’unico teste oculare, colui che è sopravvissuto alla terribile strage che all’epoca creò tanto scalpore. Inizialmente ha raccontato che l’autore degli efferati omicidi aveva il volto coperto da una calza e quindi non poteva riconoscerlo. Poi a distanza di giorni cambia versione e dice che sì, l’omicida aveva il volto scoperto e tramite un inusuale riconoscimento fotografico (senza il classico confronto all’americana) ha indicato Zuncheddu. Ebbene, come si legge nella richiesta di revisione del processo avanzata dall’ex procuratrice generale di Cagliari Francesca Nanni, oggi in servizio a Milano, e dall’avvocato Mauro Trogu, accade che le primissime indagini stavano andando in una direzione ben precisa, forse quella più vicina alla realtà dei fatti. Ma hanno avuto una brusca inversione di rotta tramite un sovrintendente della Criminalpol. Lui stesso riferirà che sul finire del gennaio 1991 aveva ricevuto una confidenza nella quale si indicava Beniamino Zuncheddu come l’autore degli omicidi. Da quel momento iniziò a esercitare una insolita pressione sul testimone, intrattenendo con lui numerosissimi colloqui investigativi mai verbalizzati. L’ispettore riferirà a dibattimento che, dal momento in cui acquisì la confidenza, smise di credere al fatto che lui non avesse potuto vedere l’assassino, e fondamentalmente lo trattò da bugiardo, spingendolo a dire la “verità”. Circa venti giorni dopo le rivelazioni della fonte confidenziale, e all’esito di quelle pressioni, il testimone oculare si dichiarerà pronto a dire la verità e capace di riconoscere l’autore degli omicidi, affermando che costui in realtà aveva agito a volto scoperto, individuando Zuncheddu dapprima in fotografia davanti al pubblico ministero e successivamente in una ricognizione in sede di incidente probatorio. Nel frattempo, nel 2020, la procura generale di Cagliari ha avviato una nuova inchiesta e sono spuntate fuori delle intercettazioni ambientali tra il testimone oculare e sua moglie. Era appena stato sentito dalla procura e - secondo la perizia della difesa - dialogando con la consorte emergerebbe chiaramente la sua mala fede. Non solo. Altro elemento che la difesa ha rilevato è la completa smentita di un passaggio delle motivazioni della sentenza di appello che ha confermato la condanna a Zuncheddu. I giudici hanno affermato che la posizione occupata dall’aggressore nel locale “era all’interno della zona illuminata, e consentiva alla luce di porre in piena evidenza i lineamenti del suo volto, e le caratteristiche del suo abbigliamento”. Passaggio completamente smentito da una ricostruzione a 3D da parte di un colonnello dei carabinieri dell’ufficio tecniche investigative di Velletri. La stessa difesa ha effettuato l’esperimento in sede di indagini difensive: l’aggressore è rimasto nel cono di luce per soli 0,1 secondi e con la luce alle spalle. Impossibile averlo riconosciuto. A tutto ciò si aggiunge il fatto che Zuncheddu non ha mai usato fucili o pistole in vita sua, anche per un suo problema alla spalla che ha avuto fin dalla nascita. Non solo. I delitti, delle vere e proprie esecuzioni, sono stati chiaramente opera di killer professionisti. Queste e altre prove confermerebbero la assoluta innocenza di Zuncheddu e lui si è sempre proclamato tale. Nonostante ciò, in carcere, ha avuto una condotta - come scrive l’avvocato Trogu nell’ennesimo ricorso alla Cassazione per il rigetto della liberazione condizionale - “specchiata, intonsa e scevra anche della minima sbavatura”. Dall’ottenimento del primo permesso premio in avanti si è sempre dimostrato meritevole dei benefici ottenuti, non incappando mai nella benché minima violazione delle prescrizioni imposte. Dopo aver lavorato prima all’interno dell’istituto, poi all’esterno, nel 2018 è stato ammesso al regime di semilibertà. Dal 12 novembre 2020 è stato ammesso alla licenza speciale legata all’emergenza epidemiologica - purtroppo non più rinnovata dall’attuale governo - dimostrando ancora una volta una perfetta capacità di reinserimento in società secondo le regole del vivere civile. Eppure, anche su questo fronte, la vicenda ha del surreale. Il tribunale di Sorveglianza di Cagliari per due volte ha negato la liberazione condizionale perché non confessa di aver commesso i reati per cui è stato condannato, e per la terza volta la Cassazione ha annullato le ordinanze di rigetto. Il procedimento di sorveglianza sta per compiere 4 anni, una abnormità. La Cassazione è stata chiara sul punto: il sicuro ravvedimento, parametro per ottenere il beneficio, non impone la confessione del reato per il quale si è stati condannati e si sta espiando la pena. Come ribadisce l’avvocato Mauro Trogu nell’ennesimo ricorso puntualmente accolto dalla Cassazione, la professione di innocenza non è incompatibile con la concessione della liberazione condizionale. E ricorda il passaggio della Corte suprema dove si afferma che la nozione di sicuro ravvedimento non può implicare l’obbligo per il condannato di confessare la propria responsabilità, ma “comprende il complesso dei comportamenti concretamente tenuti ed esteriorizzati dal condannato durante il tempo dell’esecuzione della pena, obiettivamente idonei a dimostrare, anche sulla base del progressivo percorso trattamentale e di rieducazione e di recupero, la convinta revisione critica delle pregresse scelte criminali e a formulare in termini di certezza, o di elevata e qualificata probabilità, confinante con la certezza, un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condotta di vita all’osservanza della legge penale in precedenza violata”. Tanti, troppi gli elementi che smentiscono la sua colpevolezza. Da oltre 30 anni è in carcere, per espiare una condanna basata su una prova, di fatto, decostruita. Nonostante ciò tanta difficoltà e tanti anni per ottenere non solo il meritato beneficio penitenziario, ma anche un nuovo giudizio che gli riconosca la sua innocenza e sancisca il grave errore giudiziario. Cospito ha ricominciato a mangiare. “Ma non dice che lo sciopero è sospeso” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 13 aprile 2023 La relazione della Polizia penitenziaria. L’anarchico: “Deciderò cosa fare dopo la Consulta del 18 aprile”. Alfredo Cospito si rifiuta “di dichiarare di sospendere lo sciopero della fame” contro il regime del 41 bis, cosa che avrebbe fatto ricominciando ad alimentarsi progressivamente fino ad “assumere cibi solidi”, affermano le relazioni dei sanitari e della Polizia penitenziaria, anche contro il parere dei medici dell’ospedale San Paolo di Milano che gli consigliano di seguire un protocollo specifico per riabituare gradualmente agli alimenti il fisico debilitato da oltre cinque mesi e mezzo di digiuno forzato. E ieri una scritta di minacce con la “A” anarchica (“Se Alfredo muore sono c.... vostri”) è comparsa ieri pomeriggio in un bagno del palazzo di giustizia Milano. L’anarchico che sconta 20 anni di reclusione in regime di 41 bis nel carcere ad Opera, sta tornando gradualmente all’alimentazione volontaria dopo che i128 marzo il Tribunale di sorveglianza di Milano ha rigettato la sua richiesta di detenzione domiciliare per le cattive condizioni di salute dovute allo sciopero iniziato il 20 ottobre. Nell’udienza di tre giorni prima nel reparto penitenziario del San Paolo, la presidente Giovanna Di Rosa, preoccupata per le sue condizioni, lo aveva pregato più volte di interrompere lo sciopero della fanne per gli “elevati rischi” per la sua salute. Non si sa se il 55enne pescarese ha accolto quell’invito, fatto è che dalle relazioni sulla sua salute e sul suo comportamento di sanitari e polizia penitenziaria emerge che il 29 marzo ha cominciato a mangiare qualcosa. Si legge che alle 8.30, mentre veniva sottoposto agli esami quotidiani e gli veniva portata la colazione, chiedeva “se con l’orzo potesse assumere del latte”. Quando un sanitario gli risponde che è necessario chiedere al medico, Cospito “dava segni di nervosismo” staccandosi i fili degli strumenti di controllo e togliendosi “il berretto di lana che sbatteva ai piedi del letto dove era seduto”. Dicendo: “Ora lasciatemi stare in pace che devo fare colazione perché se il tè e l’orzo diventano freddi me li fate riportare”. Poi si scusava per “il suo nervosismo dovuto al calo glicemico”. La relazione di due giorni dopo riporta che il detenuto “chiede di poter assumere del miele che a suo dire lo fa stare bene mentalmente” e afferma che “vorrebbe arrivare al 18 (aprile, ndr) giorno in cui deciderà se interrompere del tutto lo scia pero o continuare”. In quella data la Corte Costituzionale si occuperà della valutazione delle attenuanti nel suo caso. Il 5 aprile inizia a prendere vitamine, integratori, bustine di zucchero tre volte al giorno, sali minerali, tre cucchiaini di miele, una bustina di Parmigiano grattugiato e “qualche cucchiaio di brodo”. L’ultimo rapporto, martedì scorso lo trova lucido, sveglio, respiro regolare, ma il peso è sceso da 120 a 69,5 chili. I medici “confermano il protocollo di rialimentazione dopo digiuno prolungato, che il paziente comprende, ma accetta con atteggiamento molto polemico”. Continua con le vitamine e il resto e, “pur rifiutandosi di dichiarare di sospendere lo sciopero della fame, chiede di poter assumere cibi solidi, contravvenendo peraltro il protocollo di rialimentazione”. Ieri il suo legale, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, ha detto che Cospito “si nutre col brodo vegetale” seguendo il piano alimentare indicato dal medico di fiducia. Tribunali, Nordio: pronti a rivedere la distribuzione degli uffici giudiziari di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 13 aprile 2023 La risposta del ministro della Giustizia al question time sulla possibile riapertura delle sedi minori. “L’intenzione di questo governo è riconsiderare le riduzioni che sono state fatte”, ha dichiarato ieri pomeriggio il ministro della Giustizia Carlo Nordio durante il question time alla Camera. “Ritengo che sia giustificata - ha aggiunto - la preoccupazione sulla riduzione della giustizia di prossimità: abbiamo la possibilità di correggerne i difetti attraverso la digitalizzazione. Ma non è sufficiente, motivo per cui aderiamo all’idea di rivedere queste circoscrizioni”. Il tema della chiusura dei “piccoli” tribunali era stato sollevato dal deputato di Forza Italia Roberto Bagnasco. L’allora governo Monti, con la legge di Bilancio del 2012, aveva decretato la soppressione di 31 tribunali, 220 sedi distaccate, e circa 700 uffici del giudice di pace, con lo scopo di ottimizzare la spesa pubblica in un momento drammatico per il Paese. Erano i mesi, infatti, in cui lo spread aveva raggiunto livelli mai visti prima e si cercava di fare economia un po’ ovunque, anche sulla giustizia. “Il risparmio ipotizzato non è stato conseguito e non è stato garantito neppure la celere definizione dei giudizi aumentando, al contrario, i disagi per cittadini e operatori del diritto e sottraendo, in troppi luoghi, importanti presidi della legalità rappresentati dalla presenza di un ufficio giudiziario”, ha ricordato Bagnasco. Parole condivise da Nordio, che si è detto “perplesso sull’esito dell’operazione di spending review”. Al momento, comunque, il governo Meloni ha prorogato il rinvio delle ultime soppressioni in calendario, quelle di alcuni tribunali dell’Abruzzo e delle sezioni distaccate isolane (Ischia, Portoferraio, Lipari). Su quest’ultime, ad iniziare dall’isola “verde”, aveva già preso posizione nelle scorse settimane, manifestando contrarietà alla chiusura, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro (Fd’I). “Un’inversione di tendenza positiva: la giustizia di prossimità, più vicina al cittadino, ha un valore che non può essere ignorato, anche in termini di efficienza del servizio giustizia stesso”, è stato il commento soddisfatto di Bagnasco. “Abruzzo, Calabria, Campania, Toscana e Lombardia fanno fronte comune e chiedono al governo la revisione delle circoscrizioni giudiziarie e, quindi, la riapertura di alcuni presidi di giustizia, facendosi carico delle spese di gestione e di manutenzione degli immobili che saranno oggetto delle convenzioni da sottoscrivere con il ministero della Giustizia”, ha ricordato, invece, il senatore Ernesto Rapani (Fd’I). “In questo solco - prosegue - trova naturale fondamento l’auspicabile riapertura del tribunale di Corigliano Rossano, barbaramente scippato al territorio attraverso la produzione di attestazioni assolutamente false”. Per la riapertura degli uffici giudiziari si procederà mediante un disegno di legge, già inserito nel collegato alla legge di Bilancio 2022 che è nel Documento di economia e finanza, licenziato questa settimana dal Consiglio dei ministri. Incandidabilità. “La legge Cartabia fu votata da tutti, polemica surreale” di Simona Musco Il Dubbio, 13 aprile 2023 Gli effetti della riforma riaprono il dibattito sulla Severino: attualmente in gioco solo la proposta dem. “Questa polemica faccio fatica a capirla: la riforma Cartabia è stata votata a larga maggioranza, anche dai 5 Stelle. E poi bisogna ricordare che una sentenza di patteggiamento non è un’ammissione di colpevolezza”. Il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin va per le vie brevi: quella sugli effetti della legge Cartabia sulla incandidabilità prevista dalla norma Severino è una polemica senza senso. Una polemica che si basa su un assunto: “In Parlamento rientreranno i ladri”, scriveva ieri il Fatto Quotidiano, sulla scorta dell’idea che una sentenza di patteggiamento equivale ad un’ammissione di colpevolezza e poco importa se ciò rappresenta una banalizzazione della realtà. Lo ricordava bene, sempre ieri, Vitalba Azzollini su Domani: a tale rito alternativo premiale non ricorre solo chi è colpevole e vuole “farla franca”, ma anche chi, pur innocente, è consapevole che “una sentenza di assoluzione sarebbe difficile da ottenere”, quando non si dispone di “argomenti adeguati” o “risorse sufficienti” per affrontare un processo. Le conseguenze di un procedimento spesso interminabile, specie se innocenti, sono note a tutti: carriera distrutta e reputazione rovinata. Proprio per tale motivo il dibattito sulla legge Severino merita di essere riaperto. La riforma Cartabia aveva uno scopo ben preciso: ridurre i tempi dei processi, per rispondere alle richieste dell’Europa e garantire all’Italia l’accesso ai fondi del Pnrr. Sicché l’obiettivo principale, anche per il passaggio che oggi incide sull’incandidabilità, è stato quello di svuotare il più possibile i Tribunali. Il dibattito in corso parte invece dal presupposto della legittimità del sospetto, sempre e comunque. Ciò ignorando un problema: è giusto subire uno stop forzato - che spesso diventa definitivo - nel caso in cui un politico venga condannato ingiustamente? In un periodo di ampio dibattito sui temi della giustizia, la discussione sulla legge Severino langue. E attualmente l’unica proposta depositata è quella del Pd, a prima firma Anna Rossomando, secondo cui non sono “convincenti le argomentazioni a favore dell’abrogazione dell’intero testo”, anche all’esito della bocciatura del referendum. L’intento è correggere un punto specifico, ovvero i 18 mesi di sospensione attualmente previsti dalla norma, che rappresentano “una lesione spesso irreparabile nel lavoro di un sindaco alla guida di una comunità”, aveva spiegato in conferenza stampa il senatore Dario Parrini. Da qui la necessità di modificare tale previsione, per “un nuovo bilanciamento che rispetti parimenti le esigenze di legalità e il principio di garanzia costituzionale di cui all’articolo 27 della Costituzione”. Ma qual è la posizione della maggioranza? La Lega, come noto, ha promosso i referendum di giugno scorso, che prevedevano, tra le altre cose, anche l’abolizione di tale norma. Favorevole anche Forza Italia, secondo cui, stando alle parole pronunciate dal viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto all’assemblea dell’Anci, tale norma “ingiustamente penalizza pubblici amministratori condannati con sentenza di primo grado e che devono subire conseguenze prima che la sentenza diventi definitiva”. Diversa la posizione di Fratelli d’Italia: Giorgia Meloni, durante la raccolta firme per i referendum, aveva infatti “eliminato” dai suoi gazebo tale quesito, in quanto cancellare questa norma, aveva evidenziato, sarebbe “un passo indietro nella lotta alla corruzione e rischierebbe di dare il potere ad alcuni magistrati di scegliere quali politici condannati far ricandidare e quali interdire dai pubblici uffici”. Una posizione che non combacia con quella espressa in più occasioni dall’attuale ministro della Giustizia, Carlo Nordio, secondo cui tale legge “non serve assolutamente a nulla e confligge con la presunzione di innocenza che è prevista dalla Costituzione”. Per il deputato di Azione Enrico Costa, “le polemiche sono infondate. Soprattutto se sollevate dai partiti che hanno votato la legge”. Il vice segretario di Azione nel 2021 aveva invitato il governo a studiare modifiche nel punto in cui la norma prevede la sospensione degli amministratori locali dopo la condanna in primo grado per abuso di ufficio. “La legge Severino prevede che una condanna in primo grado per abuso d’ufficio porti alla sospensione dalla carica scriveva qualche tempo fa su Twitter. I condannati definitivi per abuso d’ufficio sono l’1% degli indagati. Ergo, l’avversario politico si combatte, e spesso si abbatte, a suon di esposti alla Procura”. Netta la posizione del M5S: “Per noi la Severino non va toccata - spiega la deputata Stefania Ascari - quanto alla questione degli effetti della riforma Cartabia sulla legge Severino, riteniamo sbagliata l’interpretazione fatta dal Viminale. In ogni caso, già in sede di esame del decreto legislativo attuativo della legge Cartabia avevamo contestato la nuova normativa sul patteggiamento. Inoltre, così si crea una disparità di trattamento tra chi ha avuto accesso al patteggiamento e chi no per lo stesso reato”. Incandidabilità. “Parlare di abrogazione è esagerato. Le norme del 2021? Un passo avanti” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 aprile 2023 Un articolo del Domani, a firma della giurista Vitalba Azzollini, titolava: “È stata la Cartabia a permettere a chi ha patteggiato di candidarsi”. In pratica la nuova norma, come si legge nel pezzo, “ha implicitamente abrogato le disposizioni della legge Severino sulla incandidabilità in ipotesi di sentenza di patteggiamento”. Ne parliamo con Mitja Gialuz, avvocato e professore ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Genova, che ha fatto parte della Commissione ministeriale coordinata da Giorgio Lattanzi voluta dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia per la riforma del processo penale. Professore quando avete modificato il codice di procedura penale, eravate pienamente e convintamente consapevoli di questa ricaduta? Anzitutto, mi lasci dire che sarà la giurisprudenza a dover interpretare gli effetti della riscrittura dell’art. 445, comma 1- bis, c. p. p.: dubito che si possa parlare di una vera e propria abrogazione. Ad ogni modo, certamente la scelta politica al fondo della legge n. 134/ 2021 e del d. lgs. 150/ 2022 era ispirata dalla volontà di ridimensionare gli effetti extrapenali del patteggiamento con l’obiettivo di rendere finalmente più appetibile il rito speciale. Invece che far venir meno l’equiparazione disposta dalla legge Severino tra sentenza di condanna e sentenza di patteggiamento al di fuori dall’ambito penale, non sarebbe stato meglio metter mano direttamente alla Severino laddove prevede la sospensione temporanea per gli amministratori locali in caso di condanna di primo grado? Non bisogna confondere i piani. Per un verso, va detto che la riforma Cartabia non tocca solo la ‘ Severino’, ma le leggi speciali che - discutibilmente - equiparavano in peius il patteggiamento alla condanna dibattimentale. Per altro verso, la previsione della sospensione temporanea per gli amministratori locali condannati in primo grado contemplata dalla legge “Severino” può porre un problema di compatibilità con la presunzione di innocenza: mi pare che vi sia un ampio e trasversale consenso tra le forze politiche a intervenire sul punto. In una cultura come la nostra, dove persino quando una persona viene assolta il Tribunale del popolo si spinge ad accusare il giudice di connivenza, un patteggiamento, che nel nostro ordinamento non presuppone una esplicita dichiarazione di ammissione di responsabilità, resta comunque un marchio sulla persona, figuriamoci su un politico che voglia proseguire la sua attività nella res publica... È vero che il clima - alimentato spesso dai media e dai social network - è connotato da pulsioni “giustizialiste”. Bisogna però opporsi a questa deriva e voglio ricordare che si è cercato di intervenire in tal senso: penso in particolare all’attuazione della direttiva 2016/ 343/ UE sulla presunzione di innocenza. Non vi è dubbio che le norme del 2021 presentano profili problematici, ma costituiscono un significativo passo avanti sul piano culturale. Partendo dal presupposto che non è obbligatorio richiedere il patteggiamento, l’incentivo ad esso previsto dalla riforma Cartabia non indebolisce l’importanza del processo e la presunzione di innocenza? Il tema della marginalizzazione del processo ordinario come conseguenza dell’opzione per i riti speciali interessa pressoché tutti gli ordinamenti processuali penali del mondo. I sistemi processuali non possono funzionare senza alternative al processo ordinario. Dopo di che bisogna fare attenzione alle garanzie di contesto: nel nostro sistema il pubblico ministero può legittimamente rigettare il consenso al patteggiamento se non ritiene congrua la sanzione (ad esempio perché, nel patteggiamento allargato non è prevista l’applicazione delle pene accessorie); e vi è un ulteriore controllo del giudice. Vi sono quindi dei presidi di legalità, che si inseriscono ragionevolmente nel contesto negoziale. L’incredibile gogna post mortem contro Roberto Maroni di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 aprile 2023 Il pm milanese Giovanni Polizzi deposita una requisitoria piena di giudizi moralisti contro l’ex governatore della Lombardia, nel frattempo scomparso e quindi incapace di difendersi. La rabbia del suo legale. Neanche la morte ha risparmiato Roberto Maroni dalla gogna giudiziaria. Giovedì scorso il tribunale di Milano ha assolto con formula piena Guido Bonomelli, ex direttore generale di Infrastrutture lombarde spa (Ilspa), accusato di induzione indebita e turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente in concorso con Maroni, morto il 22 novembre scorso, e per il quale è stata dichiarata l’estinzione del reato per morte dell’imputato. Secondo le indagini del pm milanese Giovanni Polizzi, l’ex governatore lombardo avrebbe fatto “pressioni”, tra novembre 2017 e marzo 2018, su Bonomelli perché fosse affidato un incarico all’architetto Giulia Capel Badino in Ilspa. Dopo la scomparsa di Maroni, il processo è ovviamente proseguito nei confronti del coimputato, ma il pm Giovanni Polizzi non ha voluto risparmiare Maroni da uno sputtanamento post mortem. Così, il 10 febbraio il pm ha depositato una memoria conclusiva, facendola valere come requisitoria, mica concentrandosi sulle presunte pressioni ricevute da Bonomelli da parte di Maroni, ma inserendo nel testo pagine e pagine di intercettazioni in cui si cerca di descrivere il tipo di rapporto tra Capel Badino e l’ex governatore. Non solo. Il pm non risparmia neanche commenti di discutibile gusto nei confronti di un soggetto ormai deceduto e incapace di difendersi. “Maroni ha del resto dimostrato essere uso alle richieste di affidare incarichi a donne a lui legate”, scrive per esempio Polizzi, anche se Maroni per accuse simili è stato assolto in Cassazione nel novembre 2020 (e ora di nuovo, seppur in modo postumo). “In un momento storico in cui si predica in ogni forma e declinazione l’inclusione e il diritto alla diversità penso sia doveroso ricordare che nessuno, e non certo la Costituzione italiana, ha mai investito i magistrati del pubblico ministero del ruolo di custode della morale comune”, dichiara al Foglio l’avvocato Domenico Aiello, legale di Maroni. “Penso sia veramente fuori da ogni contesto istituzionale di amministrazione della giustizia leggere di procedimenti e indagini fondate esclusivamente su diversità di vedute o rimproveri da bacchettoni dell’altrui comportamento, evidentemente privo di disvalore giuridico ma ad alto gradiente mediatico, quindi booster di carriera”, aggiunge Aiello. “Si continuano a sperperare risorse dello stato e a valutare carriere sulla base di parametri estranei alle norme penali. Forse è il caso di iniziare a valutare i risultati e i costi sociali di simili deviazioni”, conclude. Un altro fallimento giudiziario, comunque, per il magistrato Giovanni Polizzi, che ormai sembra abituato a veder crollare i propri castelli accusatori. Fu lui nel 2015 a lanciare la maxi inchiesta per corruzione, concussione e turbativa d’asta contro l’allora vicepresidente della regione Lombardia, Mario Mantovani, e altre nove persone, tra cui l’assessore al bilancio, il leghista Massimo Garavaglia, accusato di turbativa d’asta. Mantovani venne addirittura arrestato su richiesta del pm: trascorse un mese e mezzo in carcere e cinque mesi ai domiciliari. Sia Mantovani che Garavaglia sono poi stati assolti. Fu sempre Giovanni Polizzi ad aprire nel novembre 2017 un nuovo filone di indagine contro Mantovani con l’accusa di peculato. La Guardia di Finanza arrivò a sequestrare beni per oltre 1,3 milioni di euro. Lo scorso luglio anche questo processo si è concluso con l’assoluzione di Mantovani, per il quale Polizzi aveva chiesto la condanna a due anni e mezzo di carcere. Tutto ciò con un dispiego di risorse per lo svolgimento delle indagini senza pari. “Sono stato intercettato per quattro anni di fila - raccontò Mantovani dopo l’assoluzione nel primo filone - Oltre al classico ricorso alle intercettazioni telefoniche i finanzieri dotarono le loro auto sotto copertura con cui mi pedinavano tutti i giorni di microfoni spia e telecamere ad infrarossi, inserite nei fari, per non perdere nemmeno un mio labiale”. Lo scorso giugno, Polizzi ha aperto un’altra indagine contro un esponente di centrodestra, l’europarlamentare di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza, accusandolo di corruzione. Secondo il magistrato, Fidanza avrebbe fatto dimettere un consigliere comunale di Brescia in cambio dell’assunzione del figlio diciottenne presso la propria segreteria politica con il ruolo di assistente. Le dimissioni avevano consentito in questo modo di far entrare in consiglio comunale un fedelissimo dell’europarlamentare. Chissà se questa volta le accuse mosse da Polizzi reggeranno al giudizio. Toscana. Firmati due protocolli per la formazione dei detenuti di Emanuele De Lucia firenzetoday.it, 13 aprile 2023 Il governatore Giani: “Lavorare nello spirito costituzionale del rinserimento della persona”. Ieri mattina nel palazzo della Giunta regionale Toscana sono stati firmati due protocolli per inserire progetti di formazione e lavoro negli istituti penitenziari, rivolti sia alla popolazione adulta che ai minorenni. Il convegno è stato organizzato per fare luce sulle attività già presenti sul territorio e le prospettive future per il recupero e il rinserimento dei detenuti nella vita civile. Per concretizzare gli impegni previsti da questi due accordi, partiranno dei bandi di concorso rivolti ad aziende, finanziati con oltre 3 milioni di euro derivanti dal Fse+ 2021-27. “In questo modo si cerca di contrastare da un lato la povertà e dall’altra parte il fenomeno della recidiva - ha spiegato l’assessore all’Istruzione della Regione Toscana Alessandra Nardini -. Alla stesura di questi protocolli ha partecipato anche il garante regionale per i detenuti Fanfani. Abbiamo destinato 2 milioni agli interventi di formazione e inserimento lavorativo per gli adulti e circa 1 milione per i detenuti minorenni”. Sul territorio regionale esistono già diverse esperienze di integrazione della popolazione carceraria, spesso affidata a cooperative che cercano di svolgere un ruolo educativo e anche di welfare per queste persone. “Lavorare diventa anche un modo per passare le giornate - spiega Francesco Grazi della Cooperativa San Martino. Nel progetto sviluppato dall’azienda tessile Pointex all’interno del carcere della Dogaia di Prato cinque detenuti hanno avuto la possibilità di cominciare un percorso lavorativo, dove sono impegnati a operare su materiale semilavorato, sul taglio, la cucitura e il confezionamento. Si tratta di un tirocinio, cui poi fa seguito un vero e proprio contratto. Naturalmente c’è bisogno di aziende che credano in questi progetti e li portino avanti”. Al convegno hanno partecipato esperti, docenti universitari, dirigenti dell’amministrazione penitenziaria. Il Garante dei diritti dei detenuti a Firenze, Eros Cruccolini ha sottolineato: “Questo protocollo è importante perché incrementa le opportunità di formazione. Andare alla ricerca del lavoro con un bagaglio formativo ti dà più chance. Il limite del protocollo, però, è che viene coinvolto un numero esiguo di imprese sul piano regionale. Bisogna lavorare sui Comuni per l’attuazione della legge 381 e fare gare rivolte alla cooperazione sociale. In quel caso abbiamo tirocini formativi a 500 euro al mese che non danno la giusta autonomia per poter portare avanti il sostentamento della famiglia. Eppure la strada da portare avanti è quella della formazione e del lavoro. Nella nostra regione la cooperazione sociale attualmente dà opportunità a più di 2 mila persone”. La presenza del garante dei detenuti ha dato l’occasione di affrontare anche il tema della violenza negli istituti penitenziari, cresciuta negli ultimi tempi. “A Sollicciano abbiamo oltre 300 atti di autolesionismo - ha spiegato Cruccolini. Nel 2022 ci sono stati più di 35 episodi di aggressione al personale della polizia penitenziaria e sanitaria. Abbiamo chiesto alla Regione un incremento di personale, soprattutto di psicologi. Abbiamo introdotto un’esperienza innovativa, l’etnoclinica, un’attività specifica di psichiatria rivolta agli stranieri, visto il numero elevato nelle nostre carceri. C’è bisogno di tanta prevenzione. Non credo all’uso di strumenti di repressione, quanto a un grande supporto delle attività lavorative e psico-sociali, vero antidoto alle situazioni di disagio, che riducono fortemente l’elemento dell’aggressività”. I protocolli presentati in Regione seguono il principio costituzionale della “funzione rieducativa della detenzione e dell’esecuzione della pena - ha voluto sottolineare il governatore Eugenio Giani -. Vogliamo dare il nostro contributo a rendere effettivo anche per le persone detenute il principio dell’apprendimento permanente lungo tutto l’arco della vita. L’acquisizione di conoscenze, capacità, competenze faciliterà l’incontro tra domanda e offerta di lavoro nel periodo successivo allo stato di detenzione, garantendo a chi parteciperà a questi percorsi formativi un’effettiva integrazione sociale”. L’avviso per i percorsi formativi sono progetti che porteranno al finanziamento di 65 percorsi formativi di gruppo, nei settori della ristorazione, edilizia, agricoltura, pelletteria, nel campo tessile e in quello elettrico. Avranno una durata tra le 110 e le 264 ore, compresi gli stage. Alla fine dei corsi sarà rilasciato un certificato di competenza relativa alla figura professionale esercitata. Anche per i minorenni sono previsti percorsi di formazione nel campo della ristorazione, agricoltura, carpenteria, meccanica, per un totale di 24 iniziative. Sicilia. Sezioni per la salute mentale al “Pagliarelli” di Palermo e nel carcere di Siracusa costruiresalute.it, 13 aprile 2023 È stato siglato ieri un protocollo d’intesa tra l’assessorato regionale della Salute e il provveditorato Sicilia dell’Amministrazione penitenziaria che istituisce due nuove sezioni per la tutela della salute mentale nelle case circondariali “Pagliarelli” di Palermo e di Siracusa. “Si tratta - dice l’assessore Giovanna Volo - di un’azione doverosa di intensificazione dei servizi sanitari di natura psichiatrica sul territorio regionale. In questo caso, l’obiettivo è quello di conciliare le specifiche esigenze di diagnosi e cura dei detenuti, affetti da gravi patologie psichiatriche, con le modalità gestionali e organizzative tipicamente penitenziarie”. Le sezioni previste dal protocollo si aggiungono a quella già presente nella casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto. Per ognuna è previsto il coinvolgimento delle aziende sanitarie territoriali di competenza. Nelle strutture intramurarie potranno ricevere assistenza sanitaria persone affette da disturbi dello spettro della schizofrenia e da disturbo bipolare. Attraverso attività di tipo sociosanitario, di diagnosi e di cura, integrate con attività proprie della realtà penitenziaria, sarà assicurato il raggiungimento degli obiettivi di salute e di riabilitazione degli assistiti tramite l’adozione di programmi terapeutico-riabilitativi e di inclusione sociale. “Il nuovo impianto organizzativo - dichiara Cinzia Calandrino, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria - determinerà un’implementazione dei livelli di assistenza sanitaria di carattere psichiatrico all’interno dei vari istituti penitenziari della Regione, al fine di favorire l’accesso dei detenuti a forme di assistenza socio-sanitarie integrate, sia nel contesto penitenziario sia sociale e territoriale”. Inoltre, con proprio decreto, l’assessore Volo ha riattivato anche l’Osservatorio regionale permanente sulla sanità penitenziaria che ha già ripreso a lavorare dopo l’interruzione causata dalla pandemia di Covid-19 e svolge funzioni di controllo, confronto, verifica e proposta sui servizi sanitari erogati alla popolazione detenuta. Toscana. Cpr, il presidente della Regione: “Ne cambierei la natura, sono detentivi” controradio.it, 13 aprile 2023 Giani ha espresso le sue perplessità riguardo le strutture Cpr, dicendo che non sarà favorevole alla loro presenza in Toscana fino a quando non saranno più vicini al concetto di ‘centri di accoglienza’. Eugenio Giani, presidente della Regione Toscana, a margine della cerimonia a Firenze per l’anniversario della fondazione della Polizia di Stato ha affermato che i “Cpr, per come li abbiamo conosciuti finora, mi lasciano assolutamente perplesso, e quindi io non sono favorevole a un Cpr in Toscana”. La presenza di un Cpr in ogni regione d’Italia, ha precisato Giani, “è un argomento che riguarda il ministero degli Interni e le competenze statali”. “La mia è un’opinione - ha aggiunto Giani - come quella che si può esprimere da parte di un ente non competente in materia, sappiamo che i Cpr sono organizzati dal ministero degli Interni, quindi dal Governo. Mi esprimo su qualcosa che non sono chiamato a organizzare. Però, prima di arrivare a prevedere nuovi Cpr in generale, in Italia, ne cambierei la natura. Vorrei vederli diversi da quello che sono sostanzialmente oggi, con stati sostanzialmente detentivi degli immigrati che lì vengono portati per il rimpatrio”. I Cpr, ha detto il presidente della Regione Toscana, “li vorrei vedere più vicini al concetto di centro di accoglienza, anche se coloro che sono arrivati si sono resi responsabili di reati e conseguentemente devono essere riportati da dove vengono. Perché anche la forma rieducativa, che in qualche modo di fronte al primo approccio in Italia ci può caratterizzare, dovrebbe vederli come centri dotati di caratteristiche di assistenza sociale, di recupero ad attività di utilità sociale, che potrebbero a quel punto renderli non delle sostanziali carceri ma invece dei centri che a quel punto davvero potremmo vedere tutti come strumento di formazione e rieducazione, nel momento in cui vengono costruiti uno per regione come viene detto”. I sindaci, ha concluso Giani, “vivono una situazione nella quale se sono direttamente interessati dal Cpr dicono no, se non lo sono dicono sì, e quindi io vorrei un po’ superare questa logica. Apprezzo le parole di Nardella sul fatto di doverli pensare in modo diverso. E allora sotto questo aspetto io ben vengano riunioni con loro, ma soprattutto con gli esponenti del Ministero, perché ripeto, al di là dei sindaci e dei presidenti di Regione, i Cpr hanno una competenza a livello nazionale, nei poteri del governo”. Oristano. Il caso di Stefano Dal Corso, trovato morto nel carcere di Alessia Perreca Il Messaggero, 13 aprile 2023 La sorella Marisa: “Mio fratello non si è suicidato. Voglio la verità”. Il 42enne trovato morto nella sua cella, lo scorso 12 ottobre. Nel pomeriggio, nel quartiere Tufello, la manifestazione per accendere i riflettori sulla vicenda affinché non sia dimenticata. “No, nessun suicidio. Vogliamo solo la verità”. Lo hanno ribadito a gran voce i familiari, l’avvocato, l’amministrazione municipale e gli amici di Stefano Dal Corso, 42 anni, trovato morto - impiccato - nel carcere di carcere di Oristano, lo scorso 12 ottobre. E lo hanno fatto, questo pomeriggio, riuniti, in Piazza degli Euganei, al Tufello, quartiere dove Stefano ha vissuto. Una manifestazione pacifica per chiedere che venga fatta luce sulla sua morte avvenuta - secondo Armida Decina, legale della famiglia Dal Corso - per cause non del tutto chiarite. L’uomo - secondo quanto scritto nelle carte della procura sarda - si sarebbe impiccato all’interno della sua cella dove era detenuto e sarebbe deceduto a causa della frattura dell’osso del collo. Il caso è stato quindi archiviato. Una versione dei fatti che però non ha convinto Marisa Dal Corso, sorella di Stefano. “Stefano non si è ucciso”, ha detto al Messaggero. “È successo altro. Era solo in cella. Ci sono diverse incongruenze tra la documentazione arrivata, le foto della cella e quello che ci hanno raccontato. L’autopsia è l’unico mezzo che abbiamo per chiarire i nostri dubbi e far luce sulla verità”. “Dire, attraverso un referto medico - peraltro nemmeno firmato - che la morte di Stefano è stata causata dalla rottura dell’osso del collo è impossibile poterlo sostenere senza un esame autoptico ed una tac. E nessuna delle due cose è stata fatta. Una volta accertata la verità, se qualcuno ha delle responsabilità, è giusto che paghi. È giusto che la famiglia di Stefano e tutti noi portiamo avanti quel senso di giustizia che è doveroso avere”, ha commentato l’avvocato Armida Decina nel corso della manifestazione. “È giusto - ha sottolineato - che diventi obbligatoria la legge che preveda l’autopsia, soprattutto quando la morte di un ragazzo avviene all’interno di un istituto che dovrebbe, per prima cosa, tutelare la sua vita. E nel caso di Stefano, non è successo. Ma noi non ci fermiamo.” Tanti gli interrogativi e dubbi intorno a questa storia. A cominciare dalle foto che ritraggono Stefano Dal Corso con diversi lividi sul corpo. Il letto completamente in ordine, un lembo del lenzuolo ancora attaccato alla grata della finestra. Nessun segno di impronte sulle coperte e nessuna immagine che ritrae l’uomo, impiccato, nella sua cella. È la famiglia ad accendere i riflettori su una morte avvolta nel mistero e chiedere - ancora una volta - l’esame autoptico malgrado le istanze presentate. Insieme alla sorella Marisa ed al legale, anche il Municipio III. “Come istituzione locale - ha commentato al Messaggero l’assessore Luca Blasi - faremo quello che è in nostro potere affinché venga fatta l’autopsia. Abbiamo trovato - insieme alla famiglia - dei professionisti che si sono resi disponibili ad offrire la loro consulenza, ad approfondire il caso e i diversi aspetti. Il Municipio III continuerà ad essere vicino alla famiglia di Stefano, per la ricerca della verità. Oggi è una manifestazione tranquilla, anche siamo in parecchi arrabbiati.” Milano. Nasce la prima Casa-famiglia per detenute con bimbi. Ma l’Ipm Beccaria sta male di Cristina Giudici Il Foglio, 13 aprile 2023 L’eterna, vexata quaestio della pena che non riesce a essere rieducativa come prevede la Costituzione (se non in poche realtà virtuose) porta sempre di più spesso a fare molti passi indietro, e solo ogni tanto qualcuno in avanti. Per capire meglio il perverso intreccio, è utile raccontare le storie di due universi paralleli, che si incrociano proprio sul piano dei diritti negati ai detenuti. Da una parte, la storia della prima comunità protetta per mamme detenute che hanno diritto alle misure alternative, nata nel quartiere Stadera e gestita dall’associazione Ciao. Dall’altra, l’emergenza dell’istituto penale per i minorenni Beccaria, fotografata in modo impietoso in un report dal garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano, l’ex magistrato Francesco Maisto. La “Casa delle seconde possibilità”, creata dall’associazione Ciao grazie alla legge 62 del 2011, si trova al secondo piano dell’ex Casa della gioventù della parrocchia dei Santi Quattro Evangelisti: tre appartamenti, una ludoteca e una cucina in comune dove vivono sei mamme detenute con sette bambini e dove le madri possono finire di scontare la pena e far crescere i loro figli senza le sbarre. Un modello virtuoso che permette alle detenute di trovare un ambiente idoneo per arrivare gradualmente ad avere un’autonomia e un destino migliore. L’abbiamo visitata ieri insieme ai consiglieri comunali della sottocommissione Carceri di Palazzo Marino “perché è stata riconosciuta come casa famiglia protetta grazie a una convenzione con il Comune di Milano, il provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria con l’adesione del Tribunale di Milano e di Sorveglianza che ha permesso di poter ospitare diverse mamme che si trovavano nell’Icaro (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) o sono state segnalate dai servizi sociali”, spiega il vicepresidente della sottocommissione Alessandro Giungi. “Alle spalle hanno sempre storie di violenze, psicologiche e fisiche, che le hanno rese vulnerabili e spinte a commettere dei reati, ma sono anche vittime di violenza e alcune analfabete. In maggioranza straniere, molte di etnia rom, si tratta di donne con una fragilità enorme che hanno però dimostrato una capacità straordinaria di resistere alle avversità”, spiega Andrea Tollis che gestisce la comunità con la presidente dell’associazione Ciao, Elisabetta Fontana. “Con le nostre ospiti costruiamo un progetto che mira a loro reinserimento nella società”, racconta Elisabetta Fontana. Al Beccaria invece, l’emergenza è permanente, era esplosa (malamente) sui giornali a Natale. “Manca un progetto educativo complessivo che aiuti i minorenni a fare un percorso di superamento della devianza”, spiega Maisto. Sebbene ci siano interventi rieducativi e tante persone di buona volontà, la situazione è ancora drammatica. Durante la sua visita ha trovato diversi ragazzi in isolamento - quelli che aspettano di andare in comunità dove non si trovano i posti - “che mangiavano nelle loro celle con i piatti sulle ginocchia”, scrive Maisto nel report. “Invece i ragazzi dovrebbero stare in cella solo per dormire”. Sporcizia, sovraffollamento, divani sfasciati, conflittualità. Nonostante le evasioni del Natale scorso, la situazione è ancora molto precaria. Ci sono 31 minorenni, anche se la capienza massima è per 27. “Il disagio minorile è allarmante e i ragazzi che arrivano al Beccaria hanno modalità relazionali molto aggressive, legate anche all’uso della droga e a problemi di natura psichiatrica”, osserva il report. “Mancano in sintesi un progetto educativo, la stabilità delle figure del direttore, del comandante e gli agenti che sono sempre pronti ad andare altrove”, spiega il garante Maisto. Ci sono sette provvedimenti di collocamento in comunità ma non si trovano i posti. Spesso le comunità a cui dovrebbero essere affidati i ragazzi si rifiutano di accoglierli anche perché si tratta di adolescenti molto problematici. Morale (provvisoria): una comunità protetta che finalmente ha tolto le madri da strutture detentive è una buona notizia, da imitare; ma non si può ignorare la tragedia dei minorenni, in maggioranza giovani di seconda generazione, del Beccaria. Dove spesso accade che vengano mandati in altre Regioni, persino a Caltanissetta, sebbene siano nati e cresciuti in Lombardia perché mancano gli spazi (ci sono voluti 15 anni per ristrutturare un solo lotto). A riprova che fra i loro diritti negati c’è anche quello di essere considerati stranieri per sempre. Busto Arsizio. “Recidiva al 2% tra i detenuti che lavorano”. Tavolo in Prefettura malpensa24.it, 13 aprile 2023 “Recidiva al 70% nelle carceri, ma tra i detenuti che lavorano precipita al 2%”. Un dato clamoroso che il Prefetto di Varese Salvatore Pasquariello ha evidenziato prendendo la parola al termine della Messa di Pasqua nel carcere di Busto Arsizio, a cui ha partecipato su invito del cappellano don David Maria Riboldi. L’impegno per trovare soluzioni al problema del lavoro che manca è concreto: un primo passo è il tavolo riunito in Prefettura, che lunedì 17 aprile si ritroverà nuovamente con l’obiettivo di definire i contenuti di un convegno informativo sui benefici della Legge Smuraglia, che incentiva il lavoro dei detenuti. L’impegno del Prefetto - “Ci stiamo confrontando con molta determinazione tra operatori sociali e istituzionali, prefettura, camera di commercio, imprenditori, sindacati e direttori degli istituti di pena” le parole del Prefetto Pasquariello al termine della Messa celebrata dal vescovo ausiliario di Milano monsignor Luca Raimondi. “Stiamo esplorando soluzioni praticabili sul territorio per creare opportunità di lavoro per voi. Pensiamo a interventi concreti e condivisi tra tutte le realtà sociali del nostro territorio”. Il prefetto ricorda l’ultima indagine Cnel (Consiglio Nazionale dell’economia e del lavoro) che evidenzia un dato clamoroso: la recidiva si attesta, purtroppo, sul 70%, ma precipita al 2% quando il detenuto in uscita ha un lavoro. Il teorema è solare: il lavoro rappresenta la vera salvezza per il dopo carcere. Il Prefetto sottolinea poi con decisione le riflessioni di don Luca Raimondi: “Riprendete in mano la vostra vita e ritornerete nella società più forti, per realizzare il vostro destino ed essere a pieno titolo di aiuto alla società”. I messaggi ai detenuti - Il vescovo, già coadiutore della parrocchia di San Michele a Busto, aveva spronato i detenuti presenti a Messa: “Ragazzi, Dio crede in voi anche se siete in galera. Non dimenticatelo: vi cerca, vi aspetta, ha bisogno di voi nella società. Ma dovete scegliere la vita come ha fatto lui, non la morte. Rovesciate la pietra del vostro sepolcro che vi blocca togliendovi il respiro, come ha fatto Gesù la mattina di Pasqua. La risurrezione ve la dona lui, lasciate che vi tolga la pietra dal cuore, il Signore vi vuole risorti nell’anima perché vi ama. Con lui potete trovare la forza di ripartire, liberi dentro”. La comandante della Polizia penitenziaria del carcere di Busto Rossella Panaro ha invece insistito con i detenuti sulla necessità di “coltivare una vera cultura ambientale. Rafforzate la cura del vostro ambiente vitale, dalla cella agli spazi comuni, dalle strutture collettive ai piccoli segnali di attenzione per una quotidianità dignitosa e rispettosa di tutto. La rieducazione passa anche dalla cura dei luoghi in cui viviamo, per amore di chi ci abita ora e per chi ci verrà in futuro”. Un convegno sulla legge Smuraglia - Il tema del lavoro è al centro dell’attenzione. Una riunione tenutasi in Prefettura il 14 marzo scorso ha trattato l’argomento del lavoro dei detenuti in carcere e fuori dal carcere con il presidente della Camera di Commercio, i direttori e i comandanti delle Polizie penitenziarie delle Case Circondariali di Varese e di Busto Arsizio, i rappresentanti delle associazioni dei datori di lavoro e delle organizzazioni sindacali, al termine della quale si è stabilito di programmare a breve un convegno per discutere del tema in modo più approfondito e per far meglio conoscere i benefici della legge n. 193 del 2000, la cosiddetta “legge Smuraglia”. Gli stessi soggetti coinvolti sul tema si riuniranno nuovamente lunedì 17 aprile alle 11.30 in Prefettura per organizzare i dettagli del convegno, che si terrà molto probabilmente nella seconda quindicina del prossimo mese di maggio. Alla riunione organizzativa sono stati invitati a partecipare anche i parlamentari e i consiglieri regionali residenti e/o eletti nella provincia di Varese, il presidente della Provincia, il presidente del Tribunale di Sorveglianza, gli enti di formazione e gli enti del terzo settore. Bari. Attivato uno sportello di ascolto per gli operatori sanitari in carcere di Paolo M. Pinto ruvochannel.com, 13 aprile 2023 Nel carcere di Bari è stato istituito uno sportello di ascolto psicologico in favore degli operatori sanitari che operano all’interno della Unità Operativa Complessa di Medicina Penitenziaria della ASL Bari, diretta dal dottor Nicola Buonvino. Lo sportello di ascolto è un servizio che inizialmente è rivolto agli operatori sanitari che esercitano all’interno del mondo penitenziario e che sarà in seguito offerto anche agli operatori della polizia penitenziaria. “Tale servizio - commenta il dottor Buonvino - si prefigge la promozione della salute negli ambienti di lavoro e nasce come risposta efficace e concreta al disagio lavorativo, al rischio di stress correlato e di burnout in un mondo- quello del carcere - dove diverso è l’approccio con l’utenza e differenti e critiche sono le possibili ricadute sugli operatori”. Lo sportello ubicato all’interno dell’Istituto Penitenziario di Bari è stato predisposto in ambienti separati dalle comuni aree lavorative, al fine di tutelare la privacy degli utenti che vi accederanno. La sezione di psicologia garantirà 8 ore settimanali di presenza allo sportello, al quale si accede previo appuntamento concordato direttamente con gli psicologi del servizio attraverso una mail riservata messa a disposizione della Asl (sportelloascolto.penitenziaria@asl.bari.it). L’iniziativa è parte di un più ampio e innovativo progetto, denominato “Demetra” che intercetta il disagio psicologico all’interno del mondo penitenziario e che applica un nuovo modello di presa in carico dei detenuti, che non rispondono obbligatoriamente a diagnosi di patologia psichiatrica, ma che necessitano di un diverso approccio, attento al valore medico legale della diagnosi, alla psicodinamica degli aspetti e dei comportamenti violenti e antisociali. Il progetto punta a rendere infatti la carcerazione non una mera esperienza privativa, ma un’occasione di rivisitazione critica del reato commesso, in un processo di rieducazione e di promozione al cambiamento. Firenze. La cella di Nelson Mandela all’ingresso del palasport come inno ai diritti di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 13 aprile 2023 Massimo Gramigni nel 2004 ebbe l’idea di intitolare il palazzetto al leader sudafricano. “Uno sponsor giapponese offrì 5 milioni ma dicemmo di no: meglio i valori dell’umanità”. Ventisette anni in carcere dentro una cella asfissiante, 2,59 metri di lunghezza per 2,3 di larghezza. Un anfratto quadrato, due finestrelle e soltanto un tappetino per dormire, un comodino e un secchio come bagno. Nelson Mandela ha vissuto così per 18 anni e oggi quelle drammatiche condizioni sono sbattute in faccia a migliaia di persone: a tutte quelle che ogni giorno entrano ed escono dal palasport di Firenze, che si chiama proprio Nelson Mandela Forum e al cui ingresso c’è la riproduzione di queste sbarre dove il leader sudafricano ha trascorso anni della sua vita. Non puoi scansarla, quella cella, messa giusto in mezzo all’ingresso. Fa male osservarla, e stona con lo spirito di chi entra nel Forum. Ma l’obiettivo è proprio quello di scuotere le coscienze. Magari entri per il concerto dei Måneskin, le canzoni in testa, e succede che all’improvviso, anche solo per un secondo, i tuoi occhi finiscano lì, dentro quella prigione che soffoca l’entusiasmo. A qualcuno passa la voglia di divertirsi e quel secondo di imbarazzo è il senso del luogo. Sopra la cella le frasi di Mandela: “Se vuoi fare pace con un nemico, devi lavorare con quel nemico e quel nemico diventerà il tuo collaboratore”. E poi: “Se gli uomini imparano a odiare, possano imparare anche ad amare”. E così Nelson Mandela rivive a Firenze, la sua memoria interroga le persone sui diritti umani, sul razzismo, sulle disuguaglianze. Il Forum (di proprietà del Comune) si chiama così dal 2004, da quando Massimo Gramigni - socio insieme a Claudio Bertini e Rosetta Buchetti dell’associazione Mandela Forum che gestisce lo spazio - ebbe un’illuminazione: “Mi venne in mente che il palasport potesse intitolarsi a Gino Bartali, però non era noto il suo impegno e allora pensai a Mandela, mi sembrava a quei tempi l’unica figura vivente di valore mondiale che potesse interpretare due valori indelebili dell’umanità: il colore della pelle non divide gli uomini, un uomo non può mai essere schiavo di un altro uomo”. Ma c’erano complicazioni. “Scegliere di intitolare il palazzetto a Mandela significava rinunciare a tanti soldi di sponsorizzazione”. Erano gli anni in cui i palasport cambiavano nome. C’era stato il PalaTrussardi, poi il PalaLottomatica, il PalaAlgida e tanti altri. A Firenze arrivò una nota casa automobilistica giapponese, offrirono ai gestori 200mila euro all’anno per 12 anni. “Dicemmo di no”. Ma dal Giappone non si arresero, arrivò a Firenze l’ad: “Non si capacitava del rifiuto, venne nella sala riunioni e tirò fuori da una busta un assegno di 5 milioni”. Tornò a casa con quell’assegno ancora in tasca. E il palasport divenne Mandela Forum. Fu stipulato l’accordo con la Mandela Foundation, Gramigni volò a George, in Sudafrica. “Ero in fibrillazione all’idea di conoscere uno dei più grandi uomini di tutti i tempi. Ci abbracciammo. Mi disse di essere onorato che a Firenze un luogo portasse il suo nome, mi disse che la musica e lo sport avrebbero potuto salvarci”. Migliaia di persone - E infatti è così. E Mandela vive, vive in queste mura dove ogni anno transitano quasi mezzo milione di persone. Non vedono soltanto la cella, tutto il palazzetto è diventato un inno ai diritti umani. C’è la mostra sui migranti del fotoreporter Massimo Sestini, varcando il secondo ingresso sbatti la faccia su volti neri con gli occhi rossi che ti guardano traumatizzati. E poi la mostra sui diritti umani, quella sulla Shoah. E quella sulla vita di Mandela. Che in fondo, passando da qui, è ancora vivo. E forse, come diceva lui prima di morire, non è morto, è soltanto andato a trovare i suoi antenati. Psichiatria. “Che il diavolo non esiste l’ho capito stando tra i matti” di Candida Morvillo Corriere della Sera, 13 aprile 2023 Lo psichiatra Vittorino Andreoli: “Bruciai tutte le cinghie per i malati, nessuno mi ha mai fatto del male”. “Il mondo è in mano a imbecilli e la violenza dilaga. L’unico antidoto sarebbe l’amore”. Professor Vittorino Andreoli, lei sostiene che tutti possiamo avere un momento in cui potremmo uccidere. Lei questo momento l’ha avuto? “Ho avuto l’istinto di ammazzare un collega psichiatra, uno che contava, e che molestava una dottoressa che lavorava per lui e mi aveva chiesto aiuto: era angosciata perché lui la toccava, la convocava solo per molestarla. E lei era terrorizzata: non voleva concedersi, ma aveva paura di perdere il lavoro. Mentre lo raccontava, ho sentito la pulsione omicida perché lo psichiatra dovrebbe invece aiutare le persone”. Lei è celebre anche per non aver mai legato un malato in 50 anni di mestiere: come ha fatto? E perché i suoi colleghi ancora oggi li legano? “Quando trentenne, nel ‘71, divenni primario dell’Ospedale Psichiatrico di Marzana, a Verona, dissi a medici e infermieri di non legare più i malati gravi, ma che se avessero avuto bisogno, io sarei arrivato in cinque minuti. Contavo sul fatto di conoscere bene la farmacologia dopo le esperienze all’Istituto Farmacologico di Milano e in America. La mattina dopo, la caposala mi aspettava agitatissima, dice: venga, venga, un malato sta rompendo tutto, è pericoloso. Salgo, sento un rumore terribile in una stanza: urla, oggetti spaccati, bam bam. Fuori, tutti gli infermieri e i medici di turno. Dico alla caposala: apra la porta. Lei rimane ferma con la chiave in mano. L’infermiere più anziano mi fa: prof, conosco suo padre, la prego, non lo faccia”. La racconta come una scena da gladiatore col leone... “Entro e vedo tutto divelto, il lavabo per terra, spaccato. Al che, inizio a rompere tutto quello che non era ancora rotto. Prendo il lavello o e bam bam, lo sbatto e risbatto per terra. Il malato si calma. Mi guarda. Io continuo. Lo ammetto: rompere mi dava una soddisfazione incredibile. Alla fine, prendo il malato sottobraccio, lo porto nel mio ufficio, gli dico di non rompere mai più niente fino al mio arrivo alle otto del mattino e lui così fece. Dopo, feci raccogliere i mezzi di contenzione e appiccai un falò in giardino. Sentii un piacere quasi fisico. Da allora, mai un malato mi ha dato uno spintone”. La percepivano come un fratello di follia? “Sentivano che io a loro volevo bene. Se stabilisci una relazione, non hai bisogno di legare un malato. I miei collaboratori non l’hanno più fatto e nessuno ha più rotto niente. Poi, per controllare le pulsioni, servono i farmaci. Ma tuttora, l’80 per cento dei malati viene legato: la psichiatria è in grave crisi perché bisogna essere prima umani e poi psichiatri”. Lei racconta sempre che ha studiato da geometra per accontentare suo padre, ma che già allora voleva diventare “medico dei matti”. Come nasce questa sua passione? “Papà aveva iniziato come muratore ed era diventato cavaliere delle Repubblica. Ci teneva che continuassi la sua azienda edile, ma io studiavo di nascosto latino, greco, matematica perché, per l’università, serviva il liceo. E ora posso dire che, senza le tragedie greche, non saprei fare lo psichiatra. Comunque, dopo il diploma, gli dissi: papà, non me la sento, voglio occuparmi dei matti. Mi guardò, ma non disse niente. È stato il mio eroe. Feci l’ultimo anno di liceo ed eccomi qua”. Non mi ha detto come arriva la passione per “i matti”... “Perché frequentavo l’Azione Cattolica e alcuni miei compagni erano ossessionati dal demonio. Tutti ricevevamo un’educazione terrificante: il peccato era in agguato, il diavolo pure. Il mio amico Guido veniva a parlarmi di Satana, ne era spaventato. Io dicevo: non c’è. E lui: c’è, è qui. Non sapevo come aiutarlo. E mi venne la curiosità di visitare il vicino manicomio di San Giacomo Della Tomba”. Suppongo che le piacque... “Mi colpirono soprattutto le donne buttate per terra, prive di ogni dignità, fascino. Il direttore mi disse: avrà cambiato idea. Risposi: no, queste persone hanno bisogno di tutto, perciò, forse, qualcosa di buono per loro posso farlo. Il direttore mi permise di tornare nei fine settimana per occuparmi dell’atelier di pittura dove i pazienti potevano esprimersi dipingendo e che poi ho seguito per tutta l’università. Ogni domenica, mamma sperava che portassi a casa una ragazza, ma io portavo un pittore matto”. Si laureò a Padova, lavorò a Cambridge, al Cornell Medical College di New York, quindi il neuroscienziato Seymour S. Kety le offrì una cattedra ad Harvard. Perché non accettò? “Perché mia moglie, incinta della seconda figlia, mi disse: sono contenta, te lo meriti, però io e le bambine torniamo in Italia. Non le piaceva l’educazione empirica e superficiale che avrebbero ricevuto lì. Aveva ragione, ce lo diciamo ancora. E in Italia scelsi di fare clinica, nell’ex manicomio frequentato da studente”. Stare insieme da 60 anni è indice di amore folle o è da matti? “È da persone che hanno capito che le modalità esistenziali cambiano, come l’amore nella vecchiaia. L’errore è un modello d’amore che vale solo a 40 anni”. Sulla vecchiaia, ha scritto per Solferino, “A una certa età”. Com’è la sua certa età? “Mi piace tanto lamentarmi. Dire: nessuno pensa a me. Ho tre figlie, cinque nipoti ed è stupendo perché la decodifica è: ho bisogno di voi, non mi sento amato. La vita va vissuta come un gioco”. La felicità è possibile? “È un termine che odio perché riguarda l’io: prediligo la gioia perché riguarda il noi”. Possiamo dire che è lei che ha trovato le tre ragioni della follia? “Quando ho iniziato, c’erano la scuola deterministica Lombrosiana, in cui tutto era legato a un’alterazione del cervello, e quella “democratica” di Franco Basaglia che faceva dipendere tutto dalla società. Io, usando un metodo da scienziato, ho trovato una terza via, oggi prevalente: il comportamento dell’uomo, sano o disturbato, è sempre il risultato di tre fattori, ovvero biologia, esperienze e ambiente fisico e relazionale. La premessa è che, essendo il cervello plastico, si può intervenire per curare e anche questa premessa è una scoperta oggi accettata da tutti”. I social hanno cambiato il funzionamento del cervello? “Certo. È impossibile che uno che vive per ore della logica meccanica di Internet sappia usare la logica della mente, dei sentimenti. Ma il mondo è in mano a imbecilli da diagnosi psichiatrica”. Faccia nomi e diagnosi... “Per non prendere querele, dico solo che uno che vuole portarci nello spazio o ibridarci col robot è un pazzo totale e incapace di affettività: un Asperger. E un altro, quello che crea mondi alternativi, è un oligofrenico: significa che ha poco cervello”. Fra baby gang e omicidi per futili motivi, vede un aumento dei disturbi psichiatrici? “La risposta è sì. Il malato mentale è uno che ha trovato un modo per vivere in una situazione in cui le frustrazioni superano le gratificazioni, cosa frequente in questo mondo dominato dal denaro, dove dilagano violenza e stupidità”. Un antidoto c’è? “L’unico sarebbe l’amore”. Migranti. Decreto Cutro: maggioranza ancora divisa, nuovo rinvio di Carlo Lania Il Manifesto, 13 aprile 2023 Niente accordo sulla protezione speciale, il governo non presenta gli emendamenti al testo. Un altro giorno perso. Mentre dichiara lo stato di emergenza per fronteggiare gli sbarchi dei migranti, il governo non riesce a prendere una posizione sul decreto Cutro in discussione ormai da settimane in commissione Affari costituzionali del Senato. Uno stallo dovuto allo scontro interno alla maggioranza tra le posizioni della Lega e quelle di FdI e che fa sì che i giorni passino riducendo sempre più i tempi per la discussione del provvedimento. Ieri doveva essere il giorno in cui la situazione avrebbe dovuto sbloccarsi con l’arrivo degli emendamenti dell’esecutivo. E invece ancora una volta niente da fare tanto che nel pomeriggio, vista l’impossibilità di proseguire con i lavori, la commissione è stata sconvocata e riconvocata per questa mattina alle 9. Uno stop non proprio imprevisto, dal momento che anche il vertice tra i capigruppo di maggioranza tenutosi martedì al Viminale proprio alla ricerca si una mediazione possibile, si era concluso senza nulla di fatto. Motivo del contendere sarebbero proprio gli emendamenti del Carroccio che puntano a restringere ulteriormente la protezione speciale. Già nella prima versione del decreto varata dopo la strage di Cutro, il governo aveva limitato il riconoscimento dello status di rifugiato solo a chi scappa da guerre e persecuzioni, al quale viene rilasciato un permesso di soggiorno valido due anni. Una delle 21 proposte di modifica leghiste punta a dimezzare la durata del permesso a un solo anno. La Lega vorrebbe anche impedire - come accade oggi - che il permesso di lavoro di un rifugiato venga convertito in permesso di lavoro, restrizione estesa anche per coloro che hanno ottenuto un permesso di soggiorno per calamità naturali, cure mediche, assistenza a un minore o perché apolide. Infine ci sono i tempi di detenzione nei Centri per il rimpatrio (Cpr): dagli attuali 90 giorni prorogabili per altri 30, a 180 giorni prorogabili sempre di 30. A rallentare i lavori non sarebbe tanto la volontà della Lega di stringere ulteriormente le maglie della protezione speciale (Giorgia Meloni non ha mai fatto mistero di volerla abolire) quanto i timori della premier di un possibile incidente con Quirinale, contrario a un giro di vite troppo duro. Nel frattempo in commissione si procede a rilento. Ufficialmente gli emendamenti più spinosi della Lega sarebbero stati accantonati temporaneamente perché si intreccerebbero con quelli ai quali sta lavorando l’esecutivo, mentre è stato espresso parere negativo a tutte le proposte di modifica presentate dalle opposizioni. Parere favorevole, invece, a tre emendamenti minori sempre della Lega che prevedono l’interruzione della protezione sussidiaria per chi fa rientro, anche per un breve periodo, nel paese di origine nel caso il viaggio non sia giustificato da gravi e comprovati motivi. Ma anche una stretta sui permessi di soggiorno per i minori non accompagnati una volta compiuti i 18 anni. Parere favorevole anche all’arresto, entro 48 dal fatto, per chi “compie delitti commessi con violenza alle persone o alle cose” durante la permanenza in un Cpr. In questa situazione di rinvii continui, le opposizioni preparano battaglia. Nel timore di vedere ulteriormente ristretti i tempi per la discussione, i capigruppo di Pd, M5S e Verdi-Sinistra hanno scritto al presidente del Senato La Russa chiedendo che l’aula concluda i lavori sul decreto entro i 30 giorni previsti dal regolamento. E nel frattempo si preparano a presentare 500 subemendamenti alle modifiche che prima o poi verranno presentate dall’esecutivo. “Vogliamo sperare che le difficoltà del governo nel depositare gli emendamenti annunciati da giorni, - ha detto il capogruppo dem in commissione Andrea Giorgis - originino dalla consapevolezza che la strada della demagogia non porta da nessuna parte e che il decreto Cutro deve quindi essere modificato in profondità”. Immigrazione: l’emergenza che non lo era di Claudio Cerasa Il Foglio, 13 aprile 2023 Perché gestire il fenomeno sbarchi come se fosse un evento straordinario è inutile e dannoso. In un paese come l’Italia, che tratta un fenomeno strutturale come l’immigrazione alla stregua di un perenne evento straordinario, deliberare lo stato di emergenza per la gestione dei flussi è quantomeno coerente. Lo ha fatto notare ieri Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, con un tocco di amara ironia. È la seconda volta che un governo italiano invoca misure straordinarie per l’immigrazione. La prima fu con le Primavere arabe del 2011, quando si varò il piano Emergenza nord Africa (Ena), che avrebbe dovuto favorire l’equa redistribuzione dei migranti nel paese. Il piano mise una toppa nell’immediato ma si rivelò inadeguato in termini di costi - elevati, quasi 600 milioni di euro spesi solamente per l’accoglienza fra gli ultimi due mesi del 2011 e tutto il 2012 - ma soprattutto in termini di trasparenza. Con l’Ena si favorirono i grandi centri di accoglienza a scapito dei più piccoli, che invece garantivano servizi più efficienti. La procedura di assegnazione delle strutture rimase segreta, senza coinvolgere gli enti locali e contribuendo ad alimentare quel “business dell’accoglienza” poi stigmatizzato dagli stessi governi che, a prescindere dal colore politico, negli anni l’hanno favorito con misure che guardavano più al breve che al lungo periodo. Dal provvedimento di martedì spicca poi l’ammontare dei fondi stanziati: appena 5 milioni di euro per sei mesi, a cui se ne dovrebbero aggiungere altri con il tempo. Pochini, se gli obiettivi dichiarati sono tanto ambiziosi da promettere niente di meno che trovare “soluzioni di accoglienza in tempi brevi con adeguati standard”, “potenziando le attività di identificazione ed espulsione”. Il solito fumo negli occhi insomma, a fronte di un fenomeno inarrestabile (più 300 per cento di arrivi rispetto al 2022), che richiederebbe invece più condivisione degli oneri con l’Europa, un reale potenziamento dell’accoglienza e la creazione di canali di ingresso legali. Tutto l’opposto di come si sta muovendo il governo, che a Bruxelles resta isolato sul dossier migranti e in Parlamento discute di come eliminare la protezione speciale, creando altri irregolari. E’ l’emergenza, bellezza. Migranti. “L’emergenza” è il problema non la soluzione di Giansandro Merli Il Manifesto, 13 aprile 2023 Sei mesi di stato di emergenza su tutto il territorio nazionale “in relazione al forte incremento dei flussi migratori” e alle previsioni sui prossimi mesi. Lo ha deliberato martedì il consiglio dei ministri, stanziando cinque milioni di euro. Tre gli obiettivi: decongestionare l’hotspot di Lampedusa; aumentare i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr); realizzare nuove strutture di accoglienza. Che l’aumento dei Cpr moltiplichi le espulsioni, come auspica il governo, è tutto da vedere, ma concentriamoci sul terzo punto. Secondo il Viminale al 31 marzo scorso nei centri erano ospitati 111.928 migranti. Un aumento consistente rispetto ai 79.685 dello stesso giorno nel 2022. Per capire perché questi numeri complichino la gestione del fenomeno, però, bisogna fare un passo indietro. Al 2018. È l’anno del primo decreto Salvini che cancella la protezione umanitaria e restringe l’accesso ai progetti ex Sprar. In quel momento, secondo i dati raccolti da ActionAid, i posti disponibili nei diversi tipi di centri erano 169.471 con 131.425 presenze giornaliere effettive. Tra il 2018 e il 2021 - mostra Il vuoto dell’accoglienza, l’ultimo report che la Ong ha curato con OpenPolis - i centri sono diminuiti da 12.275 a 8.699 e i posti disponibili scesi a 97.670. Quelli liberi rispetto alla capienza totale, comunque, sono rimasti una costante: tra il 20,71% di due anni fa e il 27,23% del 2019. Le presenze, come abbiamo visto, sono aumentate nel periodo successivo ma non sono disponibili dati sull’attuale capacità del sistema e sulla percentuale di probabili posti vuoti. Se è chiaro il punto di inizio dello smantellamento dei centri di accoglienza è altrettanto evidente come gli anni successivi, con i governi Conte 2 e Draghi, siano stati un’occasione mancata per riformare il sistema. Nonostante le minori presenze di migranti, la grande disponibilità di posti liberi e la riforma Lamorgese del 2020, infatti, si è continuato a insistere su un approccio emergenziale a un fenomeno ordinario. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas) nel 2021 ospitavano il 60,9% delle persone: 63mila, quasi il doppio delle 34mila del Sai. Cioè il sistema ordinario che dal 2018 ha perso circa mille posti. Tra i Cas, poi, sono stati penalizzati soprattutto quelli di piccole dimensioni (-24 mila posti in tre anni). Si è dunque determinata una contrazione quantitativa del sistema e un peggioramento qualitativo. Che dipende anche dal contenimento dei costi giornalieri pro capite imposto da Salvini e dalla conseguente riduzione dei servizi erogati per favorire l’integrazione dei nuovi arrivati. “La dichiarazione dello stato di emergenza consente la deroga alle procedure ordinarie. Leggendo il comunicato del governo possiamo supporre che nuovi centri straordinari nasceranno più rapidamente, ma così diminuiranno i controlli sull’ente affidatario mettendo a rischio il rispetto dei diritti delle persone accolte”, afferma Fabrizio Coresi, ricercatore di ActionAid. Per capire qual è l’effetto potenziale delle procedure semplificate si può guardare a quanto accaduto tra febbraio 2011 e febbraio 2013 con l’Emergenza Nordafrica dichiarata dall’allora governo Berlusconi, e prorogata da Monti, per far fronte agli sbarchi derivati dalle primavere arabe. Nel 2011 si registrarono 62.692 arrivi via mare, fino ad allora il numero più alto (ma l’anno seguente furono solo 13.267). “In quell’occasione invece di rafforzare lo Sprar è stato predisposto un sistema parallelo organizzato dalla protezione civile - spiega Anna Brambilla, avvocata dell’Asgi - Sono nati centri di dubbia natura giuridica che hanno offerto condizioni molto diverse e dunque discriminanti”. Perché? “Per l’impreparazione degli addetti all’accoglienza e la diffusa carenza di servizi, nonostante i costi più alti rispetto al sistema ordinario”. Negli anni successivi le prassi emergenziali sono state perfino rese ordinarie. Tanto che l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) dopo un’attività ispettiva presso le strutture di Roma Capitale tra il 2012 e il 2014 ha rilevato l’”immotivata reiterazione” degli affidamenti nati con l’Emergenza Nordafrica e individuato “strutture di accoglienza [che] non disponevano dei requisiti minimi previsti dalle norme vigenti”. Del resto è proprio in quella stagione emergenziale che affondano parte delle radici del business di “Mafia Capitale”. Droghe. Cannabis, legale è meglio. In Germania inizia il percorso di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 13 aprile 2023 Entro fine mese il governo Scholz presenterà il disegno di legge per il possesso personale. Comincia per davvero la legalizzazione della Cannabis promessa da Spd, Verdi e liberali. Entro fine mese il governo Scholz presenterà il disegno di legge per consentire il possesso personale fino a 25 grammi di marijuana e la coltivazione a uso domestico di massimo tre piante. Lo hanno annunciato ieri insieme i ministri della Sanità, Karl Lauterbach (Spd), e Agricoltura, Cem Özdemir (Verdi), confermando la “depenalizzazione” come primo passo verso il via libera all’uso ricreativo del Thc. Alla base sempre gli stessi due fermi motivi: “Abbiamo urgenza di combattere il mercato nero in mano alla criminalità organizzata ma anche di tutelare la salute dei consumatori attraverso la distribuzione controllata” ripete Lauterbach, che ricopre l’incarico di ministro ma è anche medico. Dopo la depenalizzazione, al termine della pausa estiva del Bundestag, il governo procederà alla “seconda fase” per regolare la compravendita della Cannabis. Dovrebbe essere limitata ai “Social-Club” non commerciali sottoposti a rigidi vincoli, a cominciare dalla loro ubicazione rispetto alle scuole o ai parchi-giochi per bambini. Il piano del governo è di distribuire almeno 500 licenze nel Paese, anche se Lauterbach e Özdemir non sono ancora d’accordo se - in buona sostanza - nei club si potrà anche fumare spinelli (come vorrebbe il Verde) oppure sarà permesso solo acquistare la Cannabis (come vorrebbe il socialdemocratico). In compenso entrambi concordano sul veto alle iscrizioni multiple ai “Social-Club” e sul massimo disponibile in ogni singola struttura: non più di mezzo etto di marijuana. Per tutto questo, tuttavia, bisognerà aspettare il placet della Commissione europea. Berlino sta ancora trattando con Bruxelles il miglior modo per armonizzare il provvedimento tedesco con il Diritto comunitario. Non è un problema secondario, le due impostazioni fanno letteralmente a pugni, l’Ue impone ancora tutti gli Stati membri di criminalizzare il commercio di Cannabis. L’escamotage potrebbe coincidere con l’avvio di un “periodo sperimentale” di distribuzione controllata, magari inizialmente limitato ad alcune regioni-pilota e su supervisione degli esperti scientifici. “Dopo esserci consultati con l’Ue abbiamo riscritto la bozza presentata a ottobre perché era troppo permissiva” conferma il ministro della Sanità. La sua previsione è di riuscire comunque ad approvare la norma sulla “somministrazione” nei “Social Club” prima dell’autunno. “Sarà il secondo pilastro della legalizzazione graduale. Renderemo possibili progetti-modello con catene di fornitura di tipo commerciale. Dopo la pausa estiva presenteremo il disegno di legge” fa sapere Lauterbach. Cogliendo l’occasione per tirare l’ennesima stoccata al proibizionismo. “La politica di controllo della Cannabis finora perseguita è stata un autentico fallimento. Lo dimostra il numero di reati legati agli stupefacenti registrato a livello nazionale, in costante aumento da anni. L’inasprimento delle pene non porta da nessuna parte”. Al contrario la tolleranza-zero ha fatto la fortuna dei grandi criminali, come ha sottolineato ieri Özdemir nella conferenza stampa congiunta. “Chi non è contento della nuova legge sono solo gli spacciatori. Di sicuro il mercato nero sarà infuriato per la legalizzazione della sostanza da cui incassano miliardi di euro” immagina ad alta voce l’esponente dei Verdi. A Berlino smentiscono di essersi ispirati al modello olandese basato sulla tolleranza anziché la piena legalizzazione e decisamente business-oriented. “Abbiamo guardato ad Amsterdam ma come esempio da non seguire. Nei Paesi Bassi non è stato eliminato il mercato nero” ricorda il ministro della Sanità. Ucraina. “Invio di armi, i referendum sono l’ultima voce rimasta agli italiani” di Tommaso Rodano Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2023 “I quesiti sono ammissibili. È l’ultima occasione: ciò perché il Parlamento ha obbiettivamente giocato un ruolo marginale, a differenza di quanto avvenuto in Germania”. Pasquale De Sena, professore ordinario di Diritto internazionale all’Università di Palermo e presidente della Società italiana di Diritto internazionale e dell’Unione europea, è tra i promotori dei referendum della Commissione DuPre contro l’invio delle armi in Ucraina. Condivide i dubbi sull’ammissibilità costituzionale dei quesiti? Nascono da un’interpretazione dell’articolo 75 della Costituzione, il quale elenca le categorie di leggi che non possono essere sottoposte a referendum. Tra di esse ci sono quelle “di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. Ma i nostri referendum abrogativi riguardano l’articolo 1 del decreto legge del 2 dicembre 2022 n. 85 (convertito in legge con la l. n. 8 del 27 gennaio 2023). Ebbene, quell’articolo non è esecutivo di obblighi imposti da alcun trattato internazionale: né del trattato sull’Unione europea, né del trattato Nato. Quindi i discorsi sull’ammissibilità sono fuori fuoco? Lo sono. La ratio dell’articolo 75 della Carta è evitare che lo Stato, per effetto di un referendum, si trovi in una situazione di responsabilità derivante dalla violazione di un obbligo giuridico internazionale: non è questo il caso. Ricondurre il decreto Ucraina al trattato sull’Ue o al trattato Nato è un errore crasso, su questo non c’è possibilità di smentita. Esclude che la Consulta possa comunque bocciare i quesiti? C’è da aggiungere che la Corte costituzionale, nella sua giurisprudenza, ha esteso l’articolo 75 anche alle leggi produttive di “effetti strettamente collegati all’ambito di operatività dei trattati”. Si trattava - nei casi in cui ciò è avvenuto - di norme di esecuzione dei trattati comunitari. È un’interpretazione estensiva, ma sempre confinata all’ipotesi che certe norme interne fossero necessarie all’adempimento di obblighi internazionali. A me sembra davvero difficile che si possa considerare l’art. 1 del decreto Ucraina come una norma la cui abrogazione implichi la violazione di un trattato internazionale. Beninteso: non è escluso che la Corte vada anche al di là di una simile interpretazione; ma, a mio avviso, la forzatura sarebbe evidente. Uscendo dal diritto, è opportuno chiedere il parere del popolo su una questione di politica estera? Il problema non è tanto chiedersi se sia opportuno, quanto piuttosto domandarsi se non sia l’extrema ratio. È l’ultima occasione del popolo italiano per far sentire la sua voce. Ciò perché il Parlamento ha obbiettivamente giocato un ruolo marginale: in particolare, non è mai stata fatta una discussione sul tipo di armi inviate, a differenza di quanto avvenuto in Germania. Il referendum è uno strumento delicato da usare su questioni di politica internazionale, ma è anche l’ultimo rimasto, in relazione a questo caso specifico. Perché oltre ai quesiti sulle armi ce n’è uno sulla sanità pubblica? È una scelta di carattere politico. La decisione di contribuire militarmente, e in questa misura, alla difesa dell’Ucraina è chiaramente dissonante rispetto alle difficoltà del servizio sanitario nazionale. Accoppiando i due quesiti si intende mettere in luce una circostanza precisa: è solo parzialmente vero che non ci siano i soldi per la sanità; la verità è che molti soldi vengono dirottati, sulla base di scelte politiche consapevoli e non vincolate, ad altri fini. Sono decisioni legittime, ma senz’altro discutibili; e quindi è bene che siano ampiamente discusse, anche tramite un referendum. Quali sarebbero i tempi per arrivare al voto? La Consulta si dovrebbe pronunciare sull’ammissibilità in autunno o al massimo tra gennaio e febbraio 2024. La celebrazione del referendum dovrebbe aver luogo tra aprile e giugno. Non è troppo tardi? Personalmente lo spero. Ma temo che la guerra sia destinata a durare ancora a lungo. Non mi pare ci siano prospettive di chiusura a breve. Il referendum è uno strumento che negli anni si è usurato, non rischia di diventare un boomerang per i pacifisti? Ripeto: il ricorso al corpo elettorale è stato in qualche modo la conseguenza del ruolo marginale giocato dal Parlamento. E alla marginalizzazione del Parlamento, ha fatto riscontro una vera e propria strozzatura del dibattito pubblico, se si pensa che sui media principali del Paese chiunque si sia mostrato critico con le scelte del governo è stato sospettato - se non tacciato - di essere favorevole alla Russia. Una strozzatura francamente inammissibile. Congo. Alida e Salvatore Attanasio: “Per Luca vogliano giustizia, non vendetta” di Gerolamo Fazzini Famiglia Cristiana, 13 aprile 2023 “Sommare morte a morte non serve a nulla”, dicono i genitori dell’ambasciatore italiano ucciso in Congo. “Luca non avrebbe voluto, non è quello che gli abbiamo insegnato”. “Vogliamo giustizia, non vendetta. Sommare morte a morte non serve a niente. Non è quello che Luca avrebbe voluto, non è quello che gli abbiamo insegnato, in famiglia e qui in paese”. Salvatore Attanasio, 71 anni, padre di Luca, lo ripete più di una volta, pacatamente, ma con decisione. Continua: “La moglie Zakia ha lanciato una petizione per chiedere alle autorità congolesi di non eseguire la pena capitale contro i presunti assassini di nostro figlio: sono state già raccolte circa 25 mila firme”. Siamo a Limbiate, alle porte di Milano, paese di origine di Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo ucciso (in circostanze ancora da chiarire) il 22 febbraio 2021. Nel salotto di casa Attanasio tutto parla di Luca: ci sono i suoi quadri dai colori accesi appesi alle pareti, una sua foto sul mobiletto. “Ci manca tanto”, confidano Salvatore e la moglie Alida. Lui, ingegnere in pensione, è di origini pugliese, lei è limbiatese; si sono sposati nel 1975. “Eravamo legatissimi: ogni mattina Luca mandava un messaggio Whatsapp”. È parlando con Alida e Salvatore, in due ore fitte di conversazione, che capisci da dove sia venuto fuori Luca Attanasio: una persona speciale, tant’è che quando iniziò la carriera diplomatica qualcuno disse che alla Farnesina “era arrivato un Ufo”. In famiglia Luca è stato formato a valori solidi: “Il senso del dovere, prima ancora della rivendicazione dei diritti, il rispetto degli altri, la capacità di ascoltare, la legalità”. Inoltre, aggiunge la mamma, “Luca aveva dentro di sé una fede che faceva sì che pensasse con la testa, ma agisse col cuore”. Un contributo determinante alla sua formazione è venuto dalla parrocchia e dall’oratorio... “Alcuni preti, in particolare, hanno segnato il suo cammino. Tra questi don Angelo Gornati, il parroco, che diventò un grande amico di Luca, tant’è che dopo la sua nomina in Marocco, andò a trovarlo a Casablanca, con alcuni limbiatesi. È lui che ha celebrato il matrimonio di Luca e Zakia”. Per Luca è stata molto importante anche la Comunità di Taizé. Come mai? “A Taizé Luca c’è andato diverse volte, prima da adolescente, poi da giovane, come guida. Per lui era un luogo speciale: lo affascinava il fatto di essere una comunità aperta a tutti, indistintamente. Conosceva personalmente frère Roger Schutz, il fondatore; quando nel 2005 è stato ucciso, Luca ha sofferto tanto. Un anno dopo la morte di Luca, nel maggio 2022, con una coppia di amici, ci siamo andati anche noi: l’accoglienza ci ha lasciato a bocca aperta. Abbiamo partecipato a un momento di ricordo di Luca, in varie lingue, portando la nostra testimonianza”. Quando Luca vi ha annunciato che aveva conosciuto Zakia, una donna del Marocco, di religione musulmana, qual è stata la vostra reazione? Non ci ha sorpreso. Luca era un tipo aperto, cittadino del mondo nel vero senso della parola. Anzi: lui è proprio un esempio di come possano convivere persone di religioni diverse. Quando si sono sposati, Luca e Zakia hanno celebrato, in totale, 4 matrimoni fra cerimonie civili e religiose, in Italia e Marocco”. Una volta arrivato nella Repubblica democratica del Congo, Luca si è distinto, fra le altre cose, per il suo rapporto speciale con i missionari… “Li conosceva tutti, aveva voluto andare a incontrarli sul posto, a costo di percorrere lunghissime distanze. E tutto questo nell’arco di soli tre anni. Padre Franco Bordignon, saveriano, in missione a Bukavu (Sud Kivu), ci ha raccontato che Luca andava una o due volte l’anno a visitare la missione, portandosi i timbri necessari per fare le pratiche consolari ed evitando così viaggi lunghissimi e faticosi nella capitale ai nostri connazionali. Un confratello, Pietro Rinaldi, anch’egli per lunghi anni di stanza a Bukavu (ora in Italia) ci ha detto: “Quando veniva da noi ascoltava con interesse; percepiva la sofferenza della gente”“. Anche il rapporto particolare che aveva con la gente è stato un tratto distintivo di Luca… “Sì. Per lui essere ambasciatore non era un mestiere, ma una missione. Era impeccabile nelle manifestazioni e negli incontri istituzionali, però nel tempo libero incontrava la gente e si presentava come Luca. La missionaria laica Chiara Castellani ci ha raccontato di essere rimasta stupita quando lui la salutò così: “Non chiamarmi Eccellenza, ma semplicemente Luca”. Noi stessi, durante un soggiorno a Kinshasa nel 2019, rimanemmo colpiti da quanto calorosamente un gruppo di bambini salutò Luca, che in quel momento era uscito per un giretto con le sue bambine, sotto gli occhi della scorta. I congolesi stanno ancora piangendo Luca. Lui amava profondamente quel popolo. A chi andava in Congo raccomandava di portare una valigia di medicinali per i più poveri”. Tra le persone che hanno stimato Luca c’è il dottor Denis Mukwege, fondatore del Panzi Hospital per le donne stuprate e premio Nobel per la pace nel 2018... “Mukwege è stato in Italia di recente, ha inaugurato l’anno accademico in Bocconi ed è venuto a trovarci a Limbiate per pregare sulla tomba del suo grande amico. Ci ha colpito sentirlo dichiarare: “Se non si troverà la verità per Luca non potrà mai esserci pace in Congo”. Una frase del genere mette in evidenza la complessità della situazione, determinata dalla ricchezza del sottosuolo (che suscita gli appetiti di molti), dalla presenza di vari gruppi armati e da tensioni che durano da anni e condizionano pesantemente lo sviluppo del paese, specie nel Nordest. Il Congo è un forziere, ma la popolazione purtroppo vive nell’ignoranza e nella miseria a causa dell’avidità di alcuni. La vicenda di Luca ha, se non altro, riacceso i riflettori su quel martoriato Paese”. Il 25 maggio a Roma, è prevista l’udienza preliminare nei confronti di due dipendenti del Pam (Programma alimentare mondiale), organizzatori della spedizione: sono accusati di omicidio colposo. Che idea vi siete fatti di quanto accaduto? “Dagli atti appare evidente la loro responsabilità nell’attentato costato la vita a tre persone. Per questo noi crediamo che non solo la famiglia Attanasio, ma l’Italia debba chiedere giustizia. Luca rappresentava lo Stato, ha reso un grande onore all’Italia. Per questo trovo scandaloso il silenzio dell’Europa. Dopo l’omicidio, avevamo parlato con il presidente David Sassoli che ci aveva assicurato il suo interessamento. Abbiamo incontrato anche Roberta Metsola, che ne ha preso il posto, ma stiamo ancora aspettando una presa di posizione chiara e gesti concreti dalla Ue”. Signora Alida, è stata lei che, dando a Luca, anni fa, un dépliant dell’Ispi, ha contribuito a orientare suo figlio verso la carriera diplomatica. Oggi lo rifarebbe? “Luca è sempre stato uno spirito libero, con un grande sogno: voleva servire il suo Paese. La carriera diplomatica era lo strumento per realizzarlo. Quindi… sì, lo rifarei. Non potevamo tarpare le ali a Luca. Se avessi nascosto quel dépliant, gli avrei fatto un grande torto. Nonostante la straziante tragedia, non mi pento di aver contribuito alla sua decisione. Luca ha dato tanto a noi, al Paese, al mondo”. Se mai si riuscirà a stabilire chi sono gli assassini di Luca, riuscirete mai, grazie alla fede, a perdonarli? “A noi familiari non interessa la vendetta, chiediamo giustizia. Questa è la nostra battaglia. Lo dobbiamo soprattutto alle sue figlie che cresceranno senza il papà e che hanno il diritto di conoscere la verità. Solo quando si conoscerà la verità sull’accaduto, si potrà parlare di perdono. La fede non è incompatibile con la ricerca della verità”. Gran Bretagna. Assange da quattro anni detenuto in attesa di una sentenza di Rossella Guadagnini MicroMega, 13 aprile 2023 Parla di “inizio della fine dell’incarcerazione di Julian” il padre, John Shipton. Dopo che è stata negata a Reporters sans frontières la visita nel carcere di Belmarsh, qualche segnale di apertura: l’impegno del primo ministro australiano e la lettera della deputata democratica Rashida Tlaib ai rappresentanti del Congresso di Washington, mentre Free Assange Italia manifesta a Roma e a Bologna con sit-in di protesta. Se il mondo occidentale si è indignato a causa di giornalisti, blogger e artisti incarcerati in Russia, in Iran e in Cina per aver svelato le infamie dei propri e altrui regimi, che differenza c’è con il caso di Julian Assange? Il giornalista australiano ha denunciato crimini di guerra compiuti dagli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan, oltre alle violenze di Guantanamo, ed è perciò detenuto da quattro anni nella democratica Inghilterra senza una condanna, in attesa dell’estradizione richiesta dagli Stati Uniti. Qualche giorno fa suo padre, John Shipton, in un recente collegamento online con la CnLive, ha parlato di eventi che indicherebbero “l’inizio della fine dell’incarcerazione di Julian” a seguito di alcuni segnali positivi. Un “prigioniero politico”, secondo Edward Snowden, ex tecnico della Cia che pure aveva svelato gravi illeciti del governo americano, costretto a fuggire dagli Usa e attualmente residente in Russia. L’ultimo di una lunga serie di ostacoli si è verificato quando il governatore del carcere di Belmarsh a Londra ha impedito, all’ultimo momento, a Reporters sans frontières di incontrare Assange, nonostante fosse stato concesso il permesso ufficiale. Rsf ha replicato che il prigioniero aveva diritto di ricevere visitatori: “Noi siamo legittimati come Ong per la libertà di stampa. Chiediamo un’urgente revoca di questa decisione e che sia consentito l’accesso alle visite senza ulteriori indugi”. In seguito, Sky News ha reso noto che l’Alto Commissario australiano per il Regno Unito, Stephen Smith, ha visto il prigioniero, “dopo l’incoraggiamento del primo ministro australiano Anthony Albanese”. Quest’ultimo si è impegnato a organizzare “una rappresentanza ministeriale di alto livello alle sue controparti negli Stati Uniti e nel Regno Unito”. Ora ci si chiede se queste rispetteranno “la posizione e l’ufficio del Primo Ministro dell’Australia” oppure no. Nel quarto anniversario della detenzione di Assange che cade l’11 aprile da ogni parte degli Stati Uniti i suoi sostenitori convergono a Washington DC per manifestare a favore della sua liberazione e far firmare ai loro referenti al Congresso la lettera redatta dalla deputata dem Rashida Tlaib. Avvocata 46enne, nata a Detroit da immigrati palestinesi, chiede al Procuratore Generale Merrick Garland di “far cadere le accuse penali contro l’editore australiano e ritirare la richiesta di estradizione emessa dal suo Dipartimento, sotto l’amministrazione Trump, attualmente pendente con il governo britannico”. Numerosi attivisti di Action4Assange che si sono dati appuntamento oggi nell’House Office Building si divideranno poi in piccoli gruppi per fare pressione su una lista selezionata dei membri del Congresso. A ognuno di loro verrà chiesto di mettere da parte le opinioni personali sul giornalista australiano e firmare la richiesta per il suo rilascio, in quanto “sotto attacco non c’è solo un uomo, bensì la stessa libertà di stampa”. Nel frattempo, un sit-in di protesta è stato organizzato a Roma da Free Assange Italia: nel pomeriggio, in Piazza della Repubblica, si manifesta “contro l’indifferenza e i soprusi che hanno contraddistinto questa drammatica vicenda”, con la partecipazione di colleghi di Julian, oltre a cittadini e comitati in sua difesa. Presente anche Enrico Calamai, detto “lo Schindler di Buenos Aires” perché durante la dittatura in Argentina, da giovane diplomatico, decise di non voltarsi dall’altra parte e salvò centinaia di persone da morte certa. Un’analoga manifestazione si tiene a Genova, in Piazza de Ferrari. “Se Assange venisse estradato, nessun giornalista al mondo sarebbe indenne dal rischio di ergastolo in una prigione statunitense”, ricorda Daniel Ellsberg economista ed ex analista militare statunitense. Era la mattina dell’11 aprile 2019 quando gli agenti della polizia britannica entrarono nell’ambasciata ecuadoregna a Londra, dove per sette anni aveva trovato rifugio il fondatore di Wikileaks, prelevandolo con la forza. È l’inizio dell’incubo: da lì a breve - spiega l’associazione nel suo appello - Assange sarà condotto “nel carcere di massima sicurezza di HM Prison Belmarsh, il più duro del Regno Unito, insieme a detenuti pericolosissimi, senza una condanna in attesa della sentenza che decreterà o meno la possibilità per gli Stati Uniti di estradarlo nel loro Paese, dove verrebbe sottoposto ad un processo in un tribunale composto da membri non imparziali e dove verrebbe, con tutta probabilità, incarcerato per sempre”. Un quadriennio trascorso “in condizioni fisiche e mentali estremamente deterioriate, certificate da autorevoli esponenti medici e istituzionali. Quattro anni in cui può ricevere visite in condizioni umilianti e che possono essere annullate anche all’ultimo minuto, come appena accaduto. Solo per aver fatto il suo dovere di giornalista”. In Italia è arrivato anche il suggestivo video musicale intitolato “Free Assange” di Lowkey con Mai Khalil e The Grime Violinist. Scritto in occasione del ventesimo anniversario della guerra in Iraq (il 20 marzo scorso) come parte di States of Violence, prodotto da una collaborazione tra a/political, Wikileaks e la Fondazione Wau Holland, il brano ha una prima parte in cui si mostra una clip tratta da “Collateral Murder”, video che l’ex militare Chelsea Manning diede a Wikileaks, pubblicato poi il 5 aprile 2010. È un filmato militare americano che descrive l’uccisione indiscriminata di oltre una dozzina di persone nel sobborgo iracheno di New Baghdad, tra cui due giornalisti dell’agenzia Reuters e i loro soccorritori. Anche due bambini sono coinvolti nell’operazione. States of Violence riunisce artisti, attivisti e icone come Ai Weiwei, Dread Scott e la Fondazione Vivienne (in memoria di Westwood, scomparsa il 28 dicembre scorso), con l’intento di “svelare e opporsi alle tecniche di oppressione governativa, dalla guerra alla tortura, dalla brutalità della polizia alla sorveglianza”. Vengono così accesi i riflettori sulle strutture del potere globale, attraverso materiale che mette a nudo le verità più oscure della nostra realtà contemporanea. Ecuador. Nel carcere “Litoral”, trovati impiccati 6 detenuti di Giannino Ruzza radiortm.it, 13 aprile 2023 L’ondata di violenza che scuote l’Ecuador non si ferma dentro e fuori le carceri. Disordini continui aggravatisi negli ultimi mesi, nonostante il regime di eccezione decretato da Guillermo Lasso. Le guardie di sicurezza hanno trovato stamattina sei detenuti morti nel penitenziario Litoral, nel complesso carcerario di Guayaquil, secondo le autorità locali. Secondo le informazioni fornite dal Servizio nazionale che tutela le persone private della libertà (Snai), i corpi dei detenuti sarebbero stati trovati impiccati all’interno delle celle. Allo stesso modo, è emerso che sono stati trovati nel padiglione cinque del penitenziario, controllato della efferata banda di Las Águilas, una delle bande che si contendono il controllo delle carceri ecuadoriane. Proprio ieri mentre la Polizia e le Forze Armate intensificavano le operazioni a causa della strage nel porto di Esmeraldas, gli abitanti hanno informato le autorità della presenza di un’auto abbandonata, dove è stata trovata la testa di un cittadino avvolta in un sacco. All’alba di ieri è stata compiuta una strage nel porto di Esmeraldas che ha provocato la morte di 15 persone. Una settimana fa nel carcere di La Roca sono stati uccisi 3 prigionieri e altri undici sono rimasti feriti, il che ha bloccato il trasferimento forzato di alcuni detenuti. Tra il 2021 e il 2022, almeno 429 prigionieri sono stati assassinati in undici massacri a livello nazionale. Iran. Asghar Farhadi: “Le iraniane non torneranno indietro, sono pronte a morire per la libertà” di Fulvia Caprara La Stampa, 13 aprile 2023 Il regista premio Oscar sarà lunedì a Torino: “La crescita individuale e collettiva resta sotto attacco la situazione è molto difficile ma le limitazioni stanno compattando la protesta invece di soffocarla”. Del suo ultimo film, “Un eroe”, Asghar Farhadi diceva “Sono storie di persone comuni diventate improvvisamente famose per aver compiuto un gesto altruistico”. Nel suo sguardo di autore illuminato, vincitore di due Oscar per “Una separazione” e “Il cliente” e poi di Palme d’oro a Cannes, Orsi d’oro e d’argento alla Berlinale, c’era, già nitida, l’immagine di un popolo nobile e generoso, quello che da mesi vediamo scendere in strada per protestare contro il regime, ma anche quella di una comunità unita da legami di profonda solidarietà: “Oggi, in Iran, c’è, tra la gente, una grande empatia, soprattutto quando ci sono ostacoli da rimuovere. Anzi, proprio in queste circostanze, le persone si uniscono e lottano insieme contro le difficoltà”. Lunedì il maestro iraniano sarà ospite a Torino, fortemente voluto dal presidente Enzo Ghigo e dal direttore artistico del Museo del Cinema Domenico De Gaetano. Impegnato nella preparazione della prossima opera, che sarà girata fuori dall’Iran, Farhadi, in questo periodo residente negli Stati Uniti, terrà una masterclass alla Mole Antonelliana, riceverà il premio Stella della Mole e introdurrà la proiezione di “Un eroe”. Stiamo attraversando una fase storica molto difficile. Come vive questo momento? “Spero sempre che la gente si renda conto che la vita è molto più breve di quello che si crede e quindi, anche la felicità di ognuno è molto breve ed è legata, come in una catena, alle altre persone e quindi direttamente proporzionale alla felicità degli altri”. Il suo Paese sta vivendo una fase drammatica, quali sono i suoi sentimenti rispetto a quello che accade? “Raggiungere grandi obiettivi è sempre molto difficile. Richiede rispetto per la situazione e grande speranza. Io sono ottimista e sono sicuro che queste lotte non rimarranno senza risultato. Indietro non si torna più. Ovviamente avrà un prezzo alto per tutti, difficoltà, dolore. L’importante è che il movimento non torni indietro e il futuro è chiaro”. Le donne sono molto spesso al centro delle sue narrazioni. Perché e che cosa ammira di più in loro? “Questo aspetto di cui parla è entrato in maniera inconscia nelle sceneggiature che ho scritto per me e per gli altri, e nei film che ho realizzato. Donne che hanno il coraggio e la volontà del cambiamento e sono pronte a pagarne il prezzo. Le donne dei miei film hanno sempre lo sguardo rivolto al futuro, e per creare il cambiamento, combattono. Forse dipende dalle donne che hanno circondato la mia vita: mia madre, mia moglie, e le mie figlie. Io adoro questa loro caratteristica. Oggi basta guardarsi intorno, osservare la realtà, per capire che le donne iraniane sono le più coraggiose e determinate, in grado di creare un grande cambiamento”. Oggi in Iran le donne sono nell’occhio del ciclone. Secondo lei, come andrà a finire? Pensa che le proteste possano essere utili? “Senza dubbio queste proteste raggiungeranno il loro risultato. Questo grande movimento e questa grande energia che si è scatenata dimostrano la vitalità delle donne iraniane. Personalmente nutro molte speranze e sono orgoglioso di questa battaglia di libertà. Le grandi pressioni e le molte limitazioni che ci sono sulle donne, hanno dato loro una motivazione sempre maggiore per combattere. Non ho dubbi che questa lotta, che ha come obiettivo la libertà, otterrà i suoi risultati”. Che cosa significa per lei essere regista? “In generale fare cinema, e con questo non intendo solo la regia, per me è un pretesto per fuggire dalla quotidianità e la ripetitività della vita. In secondo luogo, è una via per entrare in comunicazione con maggior numero possibile di persone. Credo che dopo le proiezioni dei film e i dibattiti, il regista prenda molto più degli spettatori di quanto gli spettatori prendano dal regista. In questo modo un cineasta arricchisce maggiormente il suo bagaglio culturale ed emotivo, e come si dice da noi, “cuoce meglio”, o come dite voi, “matura meglio”. Quanto è importante per un autore essere libero? “La libertà, non solo per un cineasta, ma per qualsiasi essere umano, è uno dei bisogni fondamentali per crescere. Questo sia nelle decisioni quotidiane, che nei grandi passi della vita. Senza la libertà, la crescita individuale e collettiva, non raggiungerà mai il suo livello ottimale. Senza libertà non esiste giustizia. Io ho sempre detestato la frase che dice: “Le limitazioni alimentano la creatività”. Questa è una frase sbagliata. La mancanza di libertà, forse in un breve periodo può aiutare la creatività e costringervi a intraprendere strade nuove, ma alla lunga elimina completamente la creatività. La pietra miliare di ogni movimento, inclusa la creatività del cinema, è la libertà. La libertà è la prima necessità dell’uomo”. Terrà una masterclass a Torino. Quale consiglio darebbe a un giovane che vuole diventare regista? “Il consiglio che do agli altri è lo stesso consiglio che diedi a me stesso, e cioè, nel momento della scrittura e della realizzazione del film, rivolgetevi al vostro inconscio. Tutti noi abbiamo un deposito di sentimenti e sensazioni dentro di noi, che è parte del nostro inconscio. Più attingiamo a questo deposito del nostro inconscio, più la nostra scrittura e il nostro film si avvicinerà alla nostra verità. In qualche modo possiamo dire che il film viene fatto dal cuore”.