Ergastolo ostativo, benefici possibili anche senza collaborazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2023 La Cassazione ha depositato le motivazioni con le quali, l’8 marzo, ha deciso di non inviare alla Consulta la normativa sull’ergastolo ostativo annullando con rinvio il ricorso di un detenuto in cella da 30 anni, per mafia e omicidio che, pur non collaborando, chiede la liberazione condizionale. Per la nuova disciplina sull’ergastolo ostativo la mancata collaborazione con la giustizia è una preclusione relativa e non più assoluta. Anche i non collaboranti, condannati per reati ostativi, hanno dunque la possibilità di accedere ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione, in presenza però di “stringenti e concomitanti condizioni”. La Cassazione (sentenza 15197, relatore Giuseppe Santalucia) ha depositato le motivazioni con le quali, l'8 marzo, ha deciso di non inviare alla Consulta la normativa sull'ergastolo ostativo - modificata dal governo Meloni - annullando con rinvio il ricorso di un detenuto in cella da 3o anni, per mafia e omicidio che, pur non collaborando chiede la liberazione condizionale. La Suprema corte sottolinea come la riforma dell'ergastolo ostativo (Decreto Legge 162/2022) abbia cambiato il quadro in modo significativo. L'intervento ha sostituito integralmente il comma l-bis dell'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario (con l'aggiunta dei commi 1-bis.1 e 1-bis.2), consentendo, anche a chi non collabora di fare domanda per i benefici, istanza che può essere accolta, in presenza di più condizioni, diversificate a seconda dei reati. Nel caso esaminato il reato oggetto di condanna rientra nel catalogo degli ostativi. Le condizioni, spaziano quindi dalle iniziative dell'interessato a favore delle vittime (risarcimenti e giustizia riparativa) all'esclusione dell'attualità dei collegamenti con il clan, fino alla revisione critica dei crimini commessi. Altra condizione limitatrice per i condannati alla pena dell'ergastolo è l'ammissione alla liberazione condizionale solo dopo aver scontato 3o anni di pena rispetto ai 26 anni, previsti della precedente normativa. Verificate le condizioni il tribunale dovrà fare una complessa attività istruttoria, per acquisire informazioni a conferma degli elementi offerti dall' interessato, che riguardano, il perdurare dell'attività della compagine di appartenenza, il profilo criminale del detenuto, la sua posizione nell'associazione, eventuali nuove imputazioni sopravvenute o anche misure cautelari, fino alle infrazioni disciplinari commesse durante la detenzione. La Suprema corte evidenzia però l'impossibilità di esaminare la compatibilità con la Carta, delle norme per la parte in cui alzano da 26a 3o anni la soglia del periodo di detenzione per reati ostativi, per chiedere la liberazione condizionale. Tema che non può essere trattato perché, nello specifico, il detenuto ha superato il requisito dei 30 anni in cella. Il dato impedisce di esaminare i profili di rilievo costituzionale di una normativa “che nulla prevedendo in relazione alla sua applicazione nel tempo, restringe, con possibile frizione con il principio costituzionale del divieto di retroattività della norma penale di sfavore, l'accesso alla liberazione condizionale che, al pari delle altre misure alternative, costituisce, per usare le espressioni della sentenza 32 del 2020 della Corte costituzionale, una vera pena alternativa con accentuata vocazione rieducativa”. Ora il caso torna al tribunale di sorveglianza de L'Aquila, che lo esaminerà alla luce delle nuove norme. Ergastolo ostativo, “quadro normativo mutato”. Ecco le ragioni della Cassazione di Valentina Stella Il Dubbio, 12 aprile 2023 “Il quadro normativo” delle norme sull'ergastolo ostativo “è significativamente mutato” in quanto il decreto last minute dell'esecutivo di Giorgia Meloni del 31 ottobre 2022 dopo le sollecitazioni della Consulta ai governi precedenti - ha fatto della mancanza di collaborazione con la giustizia “una preclusione soltanto relativa e ha previsto l'accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative” anche “per i detenuti non collaboranti, ovviamente condannati per reati ostativi, seppure in presenza di “stringenti e concomitanti condizioni”. Lo ha sottolineato ieri la Cassazione nelle motivazioni della decisione che l'8 marzo ha “promosso” la riforma del Governo e ha disposto il rinvio al Tribunale di sorveglianza di L’Aquila affinché, alla luce della nuova disciplina, “valuti con accertamenti di merito preclusi al giudice di legittimità la sussistenza o meno dei presupposti ora richiesti dalla legge per la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti per reati cd. ostativi non collaboranti”. Il caso è quello noto di Salvatore Pezzino, assistito dall’avvocato Giovanna Araniti, la quale ha presentato il ricorso “pilota” che ha spinto la Corte costituzionale a fare pressioni sul legislatore perché modificasse la norma sul fine pena mai. Ad avviso della Prima sezione penale della Suprema Corte, la riforma “ha inciso proprio sulle disposizioni sottoposte a scrutinio di costituzionalità, specificamente sostituendo integralmente il comma 1-bis dell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, a cui ha pure aggiunto due nuovi commi (1-bis. 1 e 1- bis. 2)”. Quanto alle novità introdotte, secondo gli ermellini “il principale portato della nuova disciplina si rinviene nella trasformazione da assoluta in relativa della presunzione di pericolosità ostativa alla concessione dei benefici e delle misure alternative in favore dei detenuti non collaboranti. Costoro, infatti, sono ora ammessi - spiega la sentenza 15197, relatore Giuseppe Santalucia che è anche il presidente dell'Anm - alla possibilità di proporre richiesta, che può essere accolta in presenza di stringenti e concomitanti condizioni, diversificate a seconda dei casi per cui è intervenuta condanna”. Salvatore Pezzino è attualmente recluso nel carcere sardo di Tempio Pausania ed è recluso dal 1984, quindi da oltre 30 anni. Riguardo questo aspetto, i supremi giudici hanno sottolineato di non aver esaminato se siano compatibili con la Costituzione le nuove norme che innalzano da 26 a 30 anni la soglia del periodo di detenzione che devono aver scontato i detenuti per reati ostativi per chiedere l'accesso alla liberazione condizionale. Essi sul punto non possono approfondire il tema e rimane in sospeso il quesito se la riforma “che nulla prevedendo in relazione alla sua applicazione nel tempo, restringe, con possibile frizione con il principio costituzionale del divieto di retroattività della norma penale di sfavore, l'accesso alla liberazione condizionale”. Un istituto che, prosegue il verdetto, “al pari delle altre misure alternative, costituisce, per usare le espressioni della sentenza n. 32 del 2020 della Corte Costituzionale, una vera e propria pena alternativa con accentuata vocazione rieducativa”. Ora il caso di Pezzino dovrà essere esaminato alla luce della riforma dal Tribunale di sorveglianza de L'Aquila. Quella relazione pericolosa tra carcere e disturbo Adhd di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 aprile 2023 Nei nostri penitenziari c’è una percentuale non indifferente di persone affette da una patologia che può portare a compiere dei reati. Lo studio italiano è ancora in fase preliminare, me se confermato può aprire a una messa a discussione del carcere come risoluzione di quei problemi che in realtà dovrebbero essere presi a carico dai Dipartimenti di Salute Mentale. Parliamo del Deficit dell’Attenzione e Iperattività (Adhd), un disturbo del neurosviluppo che presenta un’elevata ereditabilità, solitamente viene diagnosticato nell’infanzia e può persistere nell’età adulta. Se non trattato adeguatamente, soprattutto in casi più gravi può causare un peggioramento dei sintomi e accompagnarsi ad altre patologie psichiatriche più gravi, come i disturbi di personalità, l’abuso di sostanze, i disturbi antisociali e borderline. Non seguite, inevitabilmente si isolano e quindi diventato sensibili ai gruppi che in qualche forma li accettano, diventando facile preda anche di gang criminali. Come attesta l’istituto superiore di sanità, gli adulti con Adhd possono avere le stesse difficoltà dei minori, alcuni hanno anche problemi con la droga, la criminalità o il lavoro. Viene evidenziata l’aumentata probabilità di commettere reati di vario genere e, conseguentemente, di andare incontro a problemi giudiziari. I dati direbbero che un uomo con Adhd ha il 37% di probabilità di commettere un reato rispetto al 9% di un maschio che non ha questo disturbo. Per le donne il rapporto è 15% contro 2%. Nel 2021, a firma delle dottoresse Irene Strada, Vincenza Tesoro e Elena Anna Maria Vegni, è stato pubblicato uno studio pilota sulla prevalenza del disturbo da deficit d’attenzione e iperattività nella popolazione detenuta italiana. Una ricerca, però, che ha preso come campione un solo carcere, ovvero quello di Milano- Bollate. Hanno raccolto un campione di 59 soggetti: dalle analisi effettuate, è stata stimata una prevalenza di Adhd nell’infanzia e/ o nell’età adulta del 23,7%; di tale percentuale, nel 64,3% del campione persistono i sintomi nell’età adulta. Dal campione analizzato, la prevalenza dell’Adhd rilevata risulta in linea con i risultati presentati nella letteratura internazionale. Viene inoltre confermata l’elevata comorbilità tra il disturbo e l’abuso di sostanze e i sintomi depressivi. Seppur preliminare, lo studio sottolinea l’importanza della diagnosi di Adhd anche nella popolazione detenuta, al fine di evitare un effetto negativo cumulativo sul funzionamento del soggetto ristretto, ed evidenzia la necessità di individuare programmi terapeutici specifici che possano implementare le capacità interpersonali ed intervenire sul rischio di recidiva e, non da ultimo, sull’abuso di sostanze. Quindi, seppur lo studio presenti risultati preliminari, l’elevata prevalenza dell’Adhd viene confermata anche nel contesto penitenziario italiano. Ricordiamo che in Gran Bretagna ne hanno già parlato, facendo emergere un dato significativo: ovvero che tra il 25 e il 40% dei detenuti avrebbe l’Adhd. Dati tanto allarmanti che l’intergruppo parlamentare (membri di tutti i partiti) di Westminster, tre anni fa hanno proposto da poco che tutte le persone tra i 12 e i 20 anni arrestate per “crimini impulsivi” (risse, furti di biciclette, furti nei negozi ecc.) siano sottoposte a test/ screening per l’Adhd. Le recidive, la possibilità di reiterare il reato, sono assai alte se non vi è diagnosi e non si cerca di curarli, dicono anche al ministero della Giustizia inglese. E da noi? Lo studio pilota italiano fa evincere l’importanza della diagnosi e di un intervento mirato sull’Adhd nella popolazione detenuta: infatti - sottolinea lo studio - “il trattamento dell’Adhd in carcere potrebbe portare ad una riduzione dei comportamenti disfunzionali e un miglioramento nelle capacità di autocontrollo e di regolazione emotiva”. I detenuti Adhd infatti appaiono frequentemente impulsivi e reattivi, instabili dal punto di vista emotivo e con una bassa soglia di tolleranza alla frustrazione. Sempre lo studio pilota, osserva che programmi specifici sulla sintomatologia Adhd potrebbero ridurre il tasso di recidiva e indirettamente migliorare le condizioni in comorbilità, come il disturbo antisociale e il disturbo di personalità borderline, l’abuso di sostanze e la dipendenza, l’ansia, la depressione e il rischio suicidario. Più avanti, lo studio sottolinea che le terapie cognitivo- comportamentali potrebbero favorire una modificazione delle distorsioni cognitive dei pazienti Adhd, migliorare il controllo cognitivo e modificare i comportamenti disadattivi. Training delle funzioni esecutive, invece, potrebbero avere un effetto positivo sui deficit cognitivi caratteristici della sintomatologia Adhd e così comportare un miglioramento generale del quadro clinico. Ad oggi - osserva sempre lo studio -, “in letteratura è stata dimostrata l’efficacia del Programma R& R2 strutturato per la popolazione detenuta, che ha comportato un miglioramento dell’Adhd e dei disturbi ad essa correlati, mantenendo anche un effetto continuativo ad un follow up di tre mesi”. Come detto, questo studio è da considerarsi una ricerca pilota, che presenta conseguentemente degli evidenti limiti: la numerosità campionaria e l’applicazione dello studio in un unico carcere del territorio milanese non permettono una generalizzazione dei risultati a tutta la popolazione carceraria; la valutazione è inoltre stata basata solamente su questionari self- report, che aumenta il rischio di trovare falsi positivi e falsi negativi. Inoltre, la procedura di screening, a differenza della procedura diagnostica, non permette totalmente di escludere che i sintomi Adhd riferiti non possano costituire la manifestazione di una differente condizione clinica comunemente associata ad un quadro di disattenzione e iperattività. È stata inoltre considerata la lunghezza della condanna come una misura indiretta della tipologia di reato: ciò non ha permesso di individuare un’associazione tra reato e Adhd, come invece evidenziato dalla letteratura internazionale. Lo studio osserva che ciò potrebbe essere giustificato, oltre dal tipo di misurazione usata, dal non aver considerato le condizioni associate ai comportamenti devianti, che potrebbero modulare l’associazione tra Adhd e il reato, quali la comorbilità con un Disturbo della Condotta o con il Disturbo di Personalità Antisociale. Infine, nello studio sono stati indagati solamente i disturbi dell’umore: risulta importante includere nelle future ipotesi di ricerca i disturbi di personalità, in particolare il disturbo Borderline e il disturbo Antisociale, per i quali l’Adhd risulta costituire un fattore di rischio. Non è una questione di poco conto. Oltre al discorso carcerario, c’è anche quello giudiziario. Come ha ben spiegato su Redattore sociale l’avvocato e professore di Diritto processuale penale e di Diritto penitenziario Gianluca Varraso, “l’imputato affetto da patologie psichiatriche potrebbe addirittura non essere in grado di partecipare con piena consapevolezza al processo, ancor prima di poter ottenere il riconoscimento in sentenza della propria malattia, ai fini dell’assoluzione o di una diminuzione di pena. Spetta, anzitutto, al difensore vigilare affinché tale stato patologico venga conosciuto dall’autorità procedente, profilo essenziale anche nell’ottica di garantire che eventuali misure limitative della libertà personale siano conformi alla sua situazione personale”. Legge penale on demand di Bruno Giordano La Repubblica, 12 aprile 2023 Dalla depenalizzazione per i medici alle pene severe per i rave: le idee poco chiare del governo. Il ministro Schillaci ha la ricetta per la malasanità: “Dai dati che abbiamo gran parte delle cause giudiziarie contro i medici finiscono in un nulla di fatto, nell'assoluzione. Per questo va depenalizzato il reato”. Non è dato sapere quali siano i dati, se nel “nulla di fatto” il ministro ricomprenda anche le archiviazioni, i risarcimenti, le transazioni con le assicurazioni; su quale reato Schillaci vuole dare il colpo di spugna (lesioni, omicidio, o forse anche epidemia?), come intenda tutelare le vittime della malasanità. Già dal 2012 i sanitari sono privilegiati perché rispondono penalmente solo per i reati commessi con colpa grave. Di contro il 30 marzo il governo ha introdotto un nuovo reato di lesioni per chi aggredisce il personale sanitario: si punisce fino a cinque anni (come un omicidio colposo) chi aggredisce un medico o un barelliere che sta svolgendo un servizio pubblico ma non si punisce allo stesso modo chi aggredisce un carabiniere, un insegnante, un impiegato che svolgono parimenti un servizio pubblico. Perché? Non si scrivono e non si cancellano i reati perché lo chiede una corporazione o per estemporanea emotività. Sui rave party, ad esempio, il governo ha creato un reato illeggibile e illegittimo, subito totalmente sostituito dalla stessa maggioranza. Rischia fino a sei anni di carcere e dieci mila euro di multa chi organizza o promuove un “raduno musicale” (ma non quello paramilitare) pericoloso per l'incolumità pubblica. Per un omicidio colposo si rischia fino a cinque anni di carcere, senza multa. Con la proposta Schillaci, se sei un medico non puoi nemmeno essere indagato. Con il decreto Cutro viene sbandierato il nuovo reato “universale” di morte o lesione colposa conseguente a immigrazione clandestina rieditando il principio di universalità del codice Rocco del 1930 che nell'ipertrofia fascista espande a tutto il mondo la persecuzione dei delitti politici. Alla conferenza stampa di Cutro il ministro Lollobrigida espressamente parla di lotta alle agromafie e al caporalato come priorità del governo anche se in quella conferenza il ministro del Lavoro è addirittura assente. A ben vedere nel decreto v'è solo la norma che riduce i contributi da parte dei datori di lavoro agricoli e che definisce i poteri di polizia giudiziaria agli ispettori (non del lavoro) del ministero dell'agricoltura per il contrasto alle frodi alimentari. Quale sia la relazione tra i 90 morti in mare e la sincerità delle etichette non ci è stato spiegato. La legge di Stabilità riduce il reddito di cittadinanza per gli occupabili ma abroga il reato di chi ha dichiarato falsi requisiti per ottenerlo e l'obbligo di restituire le somme ricevute illecitamente. Quindi, chi ha diritto perde una parte del reddito, chi invece non ne aveva diritto e ha fatto carte false è graziato e affrancato! Il decreto-legge 34 dice che “non è punibile” chi ha evaso l'Iva per almeno 250 mila euro, o il sostituto di imposta che non ha versato più di 150 mila euro, se si versa il dovuto fino alla sentenza d'appello. Invece chi non emette uno scontrino fiscale per un caffè rischia la sanzione amministrativa di almeno 500 euro e la sospensione dell'attività fino ad un mese. Il decreto ex Ilva dichiara le industrie di interesse strategico nazionale sostanzialmente esenti dalla responsabilità ai sensi del d.lgs. 231/2001, stabilisce la paralisi dei sequestri dell'autorità giudiziaria e soprattutto che “non è punibile” chi ha inquinato o cagionato una malattia rispettando le prescrizioni governative. Morti e tumori offerti in sacrificio sull'altare della produzione. L'architettura stessa del nuovo codice dei contratti pubblici sembra disegnata per erodere l'abuso d'ufficio, la corruzione e la concussione. Una legge penale on demand, senza pensare perché, chi, come e quanto punire, genera disuguaglianze, è criminogena perché ci spinge a non rispettarla. I cittadini da tutelare non sono solo coloro che temono la legge penale ma anche gli onesti che la rispettano. Dai rave ai “murales”: così il governo insegue i titoli dei giornali e sacrifica le cose serie di Paolo Delgado Il Dubbio, 12 aprile 2023 Sono questioni di calibro diverso, sideralmente distanti, incomparabili. Eppure l'approccio e la risposta a entrambe sono molto simili. Il cdm ha varato ieri una legge, quella sulle supermulte a chi imbratta i monumenti storici, che somiglia come una goccia d'acqua al pessimo esordio del governo stesso: la legge “anti Rave”. Il Pd ha definito la trovata legislativa “grottesca” e, proprio come fu per i Rave, non è possibile dargli torto. Allo stesso tempo il governo si trova a doversi misurare con un problema agli antipodi, reale e non fantastico, epocale e non ispirato dall'ultimo titolo strillato per un attimo fuggente sulle prime pagine, tragico invece che appunto grottesco: l'immigrazione. Le differenze tra il problema delle scritte e quello degli sbarchi e dei naufragi risaltano ma anche le somiglianze nella reazione del governo sono evidenti: irriflessa, dettata dal bisogno di sembrare in grado di fronteggiare i problemi invece di provare a risolverli. Di conseguenza si tratta sempre di un riflesso quasi pavloviano, riducibile alla ricetta più facile ma spesso anche più inutile: divieto, aggravio di pene, repressione. Era stato così anche dopo Cutro, tragedia alla quale l'esecutivo ha reagito con una legge tanto severa quanto inutile, che finirà per mandare in galera non i trafficanti ma i piloti dei barconi che spesso sono, se non l'ultimo, il penultimo anello della catena. A prima vista questa risposta sempre uguale e sempre più o meno inutile sembrerebbe dettata dalla natura stessa di un governo che è e vuole essere compiutamente di destra, di quella destra che vive di legge, ordine e appunto repressione. In parte è davvero così ma dietro questi decreti draconiani e inefficienti c'è anche, probabilmente, qualcosa di meno ovvio. Dai Rave al dramma di Cutro, dalle scritte sui monumenti all'ondata di sbarchi, l'esecutivo di Giorgia Meloni decreta sempre sull'onda emotiva di fatti e di titoli recenti, quasi come se non ci fosse differenza tra una dichiarazione dettata a caldo alle agenzie e un decreto legge. La strada del divieto e dell'aggravio di pena, che spesso è un vicolo cieco, deriva tanto dal dna della destra quanto, e forse anche di più, dal fatto che trovare rimedi più articolati ed efficaci sui due piedi è impossibile. I limiti di questo approccio, che dopo sei mesi di governo non si può più definire episodico e dettato dall'inesperienza, sono due, di natura opposta. La tendenza a legiferare sull'onda del titolo strillato, candidamente confessata dal vicepremier Tajani dopo il dl Rave, porta a trasformare in emergenze fatti di secondaria importanza, con effetti che sconfinano nel ridicolo. Ma spinge anche a trascurare i problemi reali fino a che non esplodono. Il caso del Pnrr, vero cruccio principale del governo, è esemplare. La premier e il coro dei ministri non hanno torto quando ripetono che i guai non possono essere addebitati a loro. In effetti la lentezza con cui procedeva il Piano era già argomento quotidiano nei palazzi della politica alla fine della scorsa legislatura, nell'ultimo scorcio del governo Draghi. Ma proprio questa consapevolezza avrebbe dovuto pressare il nuovo governo obbligandolo a cercare subito una via d'uscita, invece di perdere tempo con i rave e di limitarsi a trattare con la Ue una rimodulazione del Piano che, senza ulteriori e già tardivi interventi, non basterà. Si può e anzi si deve riconoscere che la destra al governo è da questo punto di vista in folta compagnia, pur avendo portato la perversa tendenza alle estreme conseguenze. La confusione tra attività di governo e campagna elettorale permanente, la sovrapposizione tra decretazione e propaganda, o al contrario la rinuncia a legiferare su questioni pur considerate fondamentali per paura di perdere voti, era già merce comune nella politica italiana molto prima che Giorgia Meloni entrasse a palazzo Chigi. La politica, anche dagli spalti del governo, è anche questo e la logica, pur se spesso esiziale, è comprensibile, probabilmente inevitabile in prossimità delle elezioni politiche. La politica italiana però la estende a ogni sorta di elezioni, comunali, regionali ed europee, e ultimamente anche ai sondaggi settimanali, finendo così per non uscire mai da una infinita campagna elettorale che fa sempre premio su tutto. “I veri capi della mafia sono ancora in carcere, se eliminiamo il 41 bis torneranno a comandare” di Giuliano Foschini La Repubblica, 12 aprile 2023 Intervista a Francesco Messina nel giorno della festa della Polizia per i 171 anni di vita: “Dopo l'arresto di Messina Denaro è sbagliato pensare che Cosa Nostra sia stata definitivamente sconfitta”. E sui gruppi che provengono dall'altra sponda dell'Adriatico: “I criminali albanesi sono una delle nostre priorità”. Mille arresti per mafia in un anno. “Mille cento e 78 per la precisione”. Francesco Messina è il direttore centrale dell'Anticrimine della Polizia. È un vecchio “sbirro”, in un senso quasi letterario del termine, e ha passato gran parte della sua vita a caccia di mafiosi. Come dimostrano i numeri, non ha smesso. Nemmeno ora che la cattura di Matteo Messina Denaro ha fatto dire a qualcuno che la mafia siciliana sta finendo. “Questo, purtroppo, non è vero. Il lavoro di questi 30 anni ha permesso di limitare fortemente Cosa Nostra. Ne è stata ridotta l'offensività. Ma pensare che sia stata sconfitta per sempre è un errore grave. La cattura di Messina Denaro ha rappresentato un colpo, certo, importantissimo. Perché Matteo rappresentava in qualche modo un simbolo. Ma andando nel concreto dobbiamo dire che la sua influenza non era ancora particolarmente significativa. Si era chiuso da qualche tempo, probabilmente per via della malattia, in una comfort zone tutta trapanese che gli consentiva di essere nascosto senza nascondersi. Ma i segnali di fermento sono altrove”. Dove? “A Palermo, con le ultime elezioni, abbiamo visto un tentativo di avvicinarsi alla politica. I nuovi gruppi cercano di creare un direttorio, ma per fortuna il lavoro della magistratura e di tutte le forze di Polizia non glielo permette. Ora la forza è nella gestione delle piazze di spaccio che consente loro di avere una liquidità importante. Ma non è il “fuori” che ci fa stare preoccupati. Quanto il “dentro”. Prego? “Stiamo assistendo a una fibrillazione carceraria, a riprova che gli unici veri capi sono in galera. I vecchi boss non hanno perso la loro operatività. Questo è possibile grazie agli enormi capitali che hanno accumulato negli anni e consente loro di vivere bene”. Ma il fermento di cui parlava da cosa è dettato? “La vittoria contro la mafia si è sviluppata grazie a quattro pilastri: la legislazione sui collaboratori, l'ergastolo ostativo, il 41 bis e le misure di prevenzione patrimoniale. Troppo spesso, nel dibattito pubblico, questi pilastri vengono messi in discussione senza rendersi conto delle conseguenze del ragionamento. Parliamo del 41 bis: il rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti ai detenuti è una premessa imprescindibile ma a una situazione giuridica speciale, com'è quella di un capo mafia che si rifiuta di collaborare con la giustizia e resta fedele invece alla sua organizzazione, deve corrispondere una specialità di trattamento. Senza il 41 bis, capi corleonesi come Leoluca Bagarella, Nino Madonia o i fratelli Graviano potrebbe accedere ai permessi premio e tornare per qualche giorno a casa. Abbiamo idea di cosa significherebbe? In poche ore ricostruirebbero contatti che noi abbiamo impiegato anni a eliminare”. La mafia siciliana resta la più pericolosa? “In questo momento la 'Ndrangheta calabrese è sicuramente quella maggiormente pericolosa, forte militarmente ed economicamente più importante. Occhio, come tra l'altro alcuni processi e indagini testimoniano, al filo che si può creare con la Sicilia: dove c'è una carenza militare di Cosa Nostra, possono arrivare i calabresi per creare un network. In Campania assistiamo alla solita situazione magmatica e disordinata che rende la Camorra difficile da leggere ma sempre assai forte. La Quarta Mafia, quella foggiana, è forse la più efferata e arcaica. Meno organizzata delle altre tre, ma pericolosissima dal punto di vista militare. Dopo anni di sottovalutazione, è stata affrontata di petto ma per il futuro non si può abbassare la guardia”. Che armi vi servono? “Non rompere quelle che abbiamo. Io ritengo cruciali le misure di prevenzione. Perché ci permettono di fare prima, e alcune volte meglio rispetto ai processi ordinari. Lo scorso anno, come Polizia, abbiamo sequestrato 181 milioni alle organizzazioni criminali. È su quello che bisogna battere: tornando alle carceri, i mafiosi sono detenuti modello perché sono i più ricchi”. Ieri su Repubblica il capo della procura speciale nazionale contro la criminalità organizzata albanese, Altin Dumani, parlava del rapporto dei criminali albanesi con le nostre mafie. “Gli albanesi sono broker di droga straordinari, che gestiscono carichi dal Sud America all'Europa. In Italia hanno basi importanti: al Nord si muovono con una qualche autonomia, al Sud invece parlano con le nostre organizzazioni criminali. Non hanno un controllo del territorio ma rappresentano una delle nostre priorità”. Messa alla prova: concedibile più di una volta se si procede separatamente per reato a consumazione prolungata di Aldo Natalini Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2023 Lo ha precisato la Cassazione con la sentenza 9064/2023. Messa alla prova: il divieto di concedere la Map più di una volta non osta a che l'imputato maggiorenne possa essere (ri)ammesso al beneficio qualora gli venga contestato, in distinti procedimenti, un (unico) reato “a consumazione prolungata”, come nel caso della reiterata violazione degli obblighi di assistenza familiare riconducibile al medesimo provvedimento impositivo (articolo 570, comma secondo, n. 2, del Cp). Per il condannato la libertà vigilata è una misura alternativa alla detenzione finalizzata alla risocializzazione Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2023 Secondo dal Consulta non è una misura di sicurezza e neppure una sanzione aggiuntiva. La libertà vigilata, quando applicata al condannato ammesso alla liberazione condizionale, non è una misura di sicurezza e neppure una sanzione aggiuntiva, ma la prosecuzione, in forme meno afflittive, della pena già subìta in origine. Liberazione condizionale e libertà vigilata costituiscono infatti un tutt'uno, e si delineano, unitamente considerate, come una misura alternativa alla detenzione. La libertà vigilata è dunque una sorta di “prova in libertà”, finalizzata, analogamente alle altre modalità di esecuzione extra-muraria della pena, a favorire il graduale reinserimento del condannato nella società. Lo ha stabilito la sentenza 66 del 2023 della corte Costituzionale (redattore Nicolò Zanon), che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Firenze su due disposizioni del codice penale (articoli 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2). Il Tribunale dubitava che queste ultime fossero lesive del principio di ragionevolezza e di quello della finalità rieducativa della pena (articoli 3 e 27 della Costituzione), in quanto: prevedono l'obbligatoria applicazione della libertà vigilata al condannato all'ergastolo ammesso alla liberazione condizionale; ne stabiliscono la durata nella misura fissa di cinque anni; non consentono al magistrato di sorveglianza di far cessare anticipatamente l'esecuzione della misura. La sentenza chiarisce, invece, che la disciplina censurata non determina alcun “automatismo irragionevole”. Il periodo di libertà vigilata ha infatti l'obiettivo di verificare la tenuta della prognosi di “sicuro ravvedimento” già effettuata in sede di concessione della liberazione condizionale e consente l'espiazione, in forma meno afflittiva, della pena così sostituita. Non è irragionevole che ciò avvenga per un periodo fisso, poiché la pena originariamente inflitta è già stata commisurata, questa sì doverosamente, alle specificità della situazione concreta Del resto, l'ammissione alla liberazione condizionale dischiude l'accesso alla definitiva estinzione della pena, una volta che ne sia decorsa l'intera durata. Per il condannato all'ergastolo, che può accedere alla libertà condizionale solo dopo aver trascorso in carcere ventisei anni, il periodo di libertà vigilata non può che avere una durata prestabilita e fissa, ed è accompagnato da prescrizioni ed obblighi modulabili ad opera della magistratura di sorveglianza, alla luce delle peculiarità del caso concreto e del principio costituzionale di risocializzazione previsto dall'articolo 27 della Costituzione. “La libertà vigilata come misura alternativa al carcere” Il Dubbio, 12 aprile 2023 La Consulta dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Firenze su due disposizioni del codice penale (articoli 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2). “La libertà vigilata, quando applicata al condannato ammesso alla liberazione condizionale, non è una misura di sicurezza e neppure una sanzione aggiuntiva, ma la prosecuzione, in forme meno afflittive, della pena già subìta in origine. Liberazione condizionale e libertà vigilata costituiscono infatti un tutt’uno, e si delineano, unitamente considerate, come una misura alternativa alla detenzione. La libertà vigilata è dunque una sorta di 'prova in libertà', finalizzata, analogamente alle altre modalità di esecuzione extra-muraria della pena, a favorire il graduale reinserimento del condannato nella società”. Lo ha stabilito la sentenza 66 del 2023 (redattore Nicolò Zanon), dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Firenze su due disposizioni del codice penale (articoli 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2). “Il Tribunale dubitava che queste ultime fossero lesive del principio di ragionevolezza e di quello della finalità rieducativa della pena (articoli 3 e 27 della Costituzione), in quanto: prevedono l’obbligatoria applicazione della libertà vigilata al condannato all’ergastolo ammesso alla liberazione condizionale; ne stabiliscono la durata nella misura fissa di cinque anni; non consentono al magistrato di sorveglianza di far cessare anticipatamente l’esecuzione della misura”, spiega la Consulta. “La sentenza chiarisce, invece, che la disciplina censurata non determina alcun “automatismo irragionevole”. Il periodo di libertà vigilata ha infatti l’obiettivo di verificare la tenuta della prognosi di 'sicuro ravvedimento' già effettuata in sede di concessione della liberazione condizionale e consente l’espiazione, in forma meno afflittiva, della pena così sostituita. Non è irragionevole che ciò avvenga per un periodo fisso, poiché la pena originariamente inflitta è già stata commisurata, questa sì doverosamente, alle specificità della situazione concreta. Del resto, l’ammissione alla liberazione condizionale dischiude l’accesso alla definitiva estinzione della pena, una volta che ne sia decorsa l’intera durata. Per il condannato all’ergastolo, che può accedere alla libertà condizionale solo dopo aver trascorso in carcere ventisei anni, il periodo di libertà vigilata non può che avere una durata prestabilita e fissa, ed è accompagnato da prescrizioni ed obblighi modulabili ad opera della magistratura di sorveglianza, alla luce delle peculiarità del caso concreto e del principio costituzionale di risocializzazione previsto dall’articolo 27 della Costituzione”, spiega la Corte Costituzionale. Anche l'infermità psico-fisica irreversibile dell'imputato può determinare la definizione del procedimento Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2023 Anche l'infermità psico-fisica irreversibile dell'imputato può determinare la definizione del procedimento. È incostituzionale il riferimento dell'improcedibilità ex articolo 72-bis del codice di procedura penale alle sole malattie mentali, anziché a qualunque stato psicofisico che impedisca l'attiva partecipazione dell'imputato al processo. “Seppure corrisponde a una classificazione tradizionale”, la rigida distinzione tra infermità mentale e infermità fisica “postula che sia sempre possibile analizzare le manifestazioni patologiche in termini rigorosamente binari, il che non tiene conto della diffusione delle malattie degenerative”, le quali “hanno origine fisica e tuttavia possono determinare ugualmente l'impossibilità di una partecipazione attiva al processo”. È uno dei passaggi centrali della sentenza n.65 del 2023 (redattore Stefano Petitti), con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'articolo 72-bis cod. proc. pen., nella parte in cui, stabilendo l'improcedibilità nei confronti dell'imputato che non possa partecipare al processo per una condizione irreversibile, si riferisce al suo stato “mentale”, anziché a quello “psicofisico”. Si tratta nella specie di una persona affetta da SLA, il cui processo per reati edilizi ha subito continui rinvii fin dal 2016, essendo la stessa impedita a parteciparvi per l'irreversibilità del suo stato psicofisico, caratterizzato da paralisi progressiva, perdita del linguaggio e incapacità di respirare in autonomia. La Corte ha dichiarato illegittimi in via consequenziale gli articoli 70, 71 e 72 cod. proc. pen., nella parte in cui anch'essi impiegano l'aggettivo “mentale”, anziché quello “psicofisico”. Cagliari. Detenuto muore in una colonia agricola, esposto dei familiari ansa.it, 12 aprile 2023 La procura di Cagliari ha disposto l'autopsia sul corpo di Giuseppe Sarullo, 32 anni, di Ribera, trovato morto in circostanze poco chiare mentre si trovava in Sardegna, in una colonia agricola, dove era stato destinato dal tribunale. La procura di Cagliari ha disposto l'autopsia sul corpo di Giuseppe Sarullo, 32 anni, di Ribera (Agrigento), trovato morto in circostanze poco chiare mentre si trovava in Sardegna, in una colonia agricola, dove era stato destinato dal tribunale nell'ambito di una misura di sicurezza personale detentiva per una condanna da lui subita per evasione e ricettazione. Il cadavere è stato trovato nella sua cella. I familiari hanno presentato un esposto, rivolgendosi all'avvocato Giovanni Forte che dice: “Abbiamo chiesto di accertare la causa della morte del ragazzo ma, evidentemente, riteniamo anche necessario accertare eventuali responsabilità nell'ambito dei controlli”. Un mese fa Sarullo era tornato a Ribera per qualche giorno grazie a un permesso premio. Cagliari. Ergastolano impiccato in carcere, si indaga per istigazione al suicidio sardegnalive.net, 12 aprile 2023 È ancora un giallo la vicenda dell'ergastolano trasferito da Nuoro dopo la scoperta di un traffico di cellulari a Badu e Carros. È quella di istigazione al suicidio l'ipotesi di reato su cui indaga la Procura di Cagliari dopo la morte nel carcere di Uta di Angelo Frigeri, 40 anni, reo confesso e condannato all'ergastolo per la strage della famiglia Azzena. Il 15 maggio 2014, a Tempio Pausania, uccise il padre Giovanni, 50 anni, la moglie Giulia Zanzani, di 46, e il figlio Pietro, di 12. Frigeri è stato trovato impiccato venerdì scorso in una cella della casa circondariale di Uta, dove era stato appena trasferito da Badu e Carros a seguito dell'indagine sui telefonini fatti arrivare ai detenuti dell'alta sicurezza rinchiusi a Nuoro. Il fascicolo sulla sua morte è stato aperto dal sostituto procuratore del capoluogo sardo Daniele Caria. Il magistrato ha anche disposto l'autospia: se ne sta occupando in queste ore il medico legale Matteo Nioi al Policlinico di Monserrato. “Non abbiamo nominato alcun consulente - precisa all'ANSA l'avvocato Giancarlo Frongia, che tutela la famiglia Frigeri - Ci vorranno circa 90 giorni per conoscere i risultati degli accertamenti necroscopici. Noi acquisiremo tutte le informazioni sul trasferimento di Angelo”. Quanto al possibile coinvolgimento del detenuto sul traffico di cellulari a Badu e Carros, il legale spiega: “Non abbiamo alcuna conferma, aspettiamo di leggere le carte”. L'indagine della Procura di Nuoro su questa vicenda ha portato finora all'arresto di due persone per corruzione e introduzione illecita di telefoni cellulari in carcere: l'agente penitenziario Salvatore Deledda e la napoletana Carmela Mele. Resta invece in capo alla Dda di Cagliari l'inchiesta parallela sulla clamorosa evasione da Badu e Carros del boss della mafia garganica Marco Raduano.? Bologna. Continuano i problemi al carcere minorile del Pratello: “Non esistono alternative” bolognatoday.it, 12 aprile 2023 Una relazione della Camera penale di Bologna sottolinea le mancanze e le criticità della struttura. Continua a destare preoccupazione la carenza di spazi nel carcere minorile di via del Pratello. Una carenza di spazi che a volte rende difficile la convivenza tra i giovani detenuti, come testimoniano alcuni recenti avvenimenti. Ebbene, alle già precarie condizioni in cui versa il penitenziario si aggiungono le scarsissime possibilità alternative, di fatto inesistenti. Sul territorio, infatti, si registra una “pesante carenza di posti in comunità”, come scrive la Camera penale di Bologna che, lo scorso 29 marzo, aveva visitato la struttura di via del Pratello e incontrato il direttore Alfonso Paggiarino: “Per quanto attiene alle misure alternative alla contenzione in carcere - si legge nella relazione della Camera penale di Bologna - va registrata anche una pesante carenza di posti in comunità e persistenti difficoltà d'inserimento a livello di prossima territorialità. A tale proposito, infatti, nell'ultimo periodo risultano disponibili solamente comunità nel sud Italia, ad esempio Calabria, Puglia e Sicilia, e ciò comporta un aggravio di spese per i trasferimenti, con impiego di personale di Polizia penitenziaria che in questo modo viene a mancare in loco”. I numeri - A dicembre, i detenuti nella casa circondariale erano 49. Oggi ce ne sono 38/39, per la metà maggiorenni, ma la capienza ottimale è stimata intorno alle venti unità. Un sovraffollamento di fatto sistematico, che rende difficile la fruizione delle ore d’aria e delle attività, così come è difficile la mediazione linguistica vista la penuria di mediatori, presenti solamente per 30/32 ore al mese. In generale, scrive la Camera penale, la struttura “presenta profili di inadeguatezza per la sua funzionalità e sono presenti problemi di manutenzione”. Ad esempio “non è raro il caso delle porte che rimangono bloccate e si sono verificati episodi di allagamento”. L'interno dell'istituto “non sempre si presenta particolarmente curato”, con celle che ospitano dai tre ai quattro detenuti, “di dimensioni che non risultano sufficientemente adeguate”. Inoltre, “a causa del numero di presenze la capienza della mensa non è adeguata, pertanto è stato necessario aggiungere dei tavoli in altri spazi dell'istituto. Roma. “Diffamati e calunniati”: i penalisti querelano la trasmissione televisiva Report di Angela Stella Il Riformista, 12 aprile 2023 Il Direttivo della Camera Penale di Roma, presieduta dall’avvocato Gaetano Scalise, all’unanimità ha deciso di proporre denuncia querela nei confronti del giornalista Sigfrido Ranucci. Secondo i penalisti capitolini, si legge in una nota, “nella trasmissione Report del 3 aprile scorso sono andate in scena gravissime insinuazioni e gratuite diffamazioni che sfociano persino nella calunnia nei confronti di alcuni dei più apprezzati componenti della nostra Associazione, incredibilmente additati a sospetto come possibili veicoli per la diffusione al di fuori del carcere di ordini criminali provenienti dai detenuti posti in regime di 41 bis”. Il pm Nino di Matteo, in merito ai messaggi che i reclusi al carcere duro riescono comunque a veicolare all’esterno, durante la trasmissione “rappresentava la possibile strumentalizzazione a fini illeciti dei colloqui dei detenuti coi loro familiari, sottolineando subito dopo che “è capitato anche in recenti inchieste palermitane che sono stati arrestati dei legali che fungevano poi da tramite per portare fuori gli ordini” e denunciando al riguardo il fenomeno della “concentrazione di assistiti al 41 bis in capo ad alcuni avvocati”. Concetto poi ribadito da Sebastiano Ardita. Ad un certo punto una voce fuori campo sosteneva che “sull’argomento la Commissione parlamentare Antimafia ha commissionato nel 2016 al Dap uno studio finora rimasto riservato: dal censimento degli avvocati che assistono i detenuti al 41 bis è emerso che moltissimi legali seguono tra i 10 e i 30 boss mafiosi in contemporanea e due avvocati in particolare sono arrivati ad assisterne 100”. Veniva poi diffuso un vero e proprio elenco di nomi degli avvocati, insinuando il dubbio che avessero svolgo il ruolo di messaggeri. Tra questi diversi del Foro di Roma. “Si deve pertanto rilevare come le gravissime insinuazioni in oggetto abbiano chiaramente leso l’onore e il decoro collettivo della nostra associazione”. Nell’esposto querela poi si chiede di accertare come sia stato divulgato quell’elenco “definito nel servizio “come uno studio rimasto riservato” e “commissionato al Dap dalla Commissione parlamentare antimafia”, ovvero nell’ambito di poteri di indagine normativamente equiparati a quelli dell’autorità giudiziaria i cui risultati possono essere a loro volta secretati”. Vi è stata la complicità di qualche membro della Commissione o del Dap nel fornirli alla redazione di Ranucci? Tutto questo, leggiamo ancora nella nota della Cp di Roma, “è addirittura avvenuto in prima serata pubblicando un elenco riservato della cui illegittima divulgazione riteniamo che i responsabili debbano essere chiamati a rispondere”. Napoli. La laurea dietro le sbarre di Francesco Dandolo Corriere del Mezzogiorno, 12 aprile 2023 La cultura può tanto. Soprattutto nei luoghi in cui sembra che tutto sia perduto. L’ho potuto comprendere assistendo alla seduta di laurea tenutasi nel carcere di Secondigliano presieduta dal Rettore della Federico II Matteo Lorito. Era la prima volta che si teneva all’interno della casa di pena, rappresentando un risultato di assoluto rilievo nell’ambito del progetto partito quattro anni fa, e che ha consentito ai detenuti che intendevano compiere gli studi universitari di potersi iscrivere ai corsi di laurea, di seguire le lezioni e di fare gli esami in una apposita struttura del penitenziario. In effetti, la seduta di laurea è stata davvero un evento eccezionale. I due laureati hanno costituito il desiderio di riscatto di tanti. Lo si percepiva dall’emozione palese non solo fra i candidati, ma fra tutti coloro che hanno preso parte alla manifestazione. Ed è stato evidente come la cultura può incidere profondamente nella vita delle persone, configurandosi come una fondamentale opportunità di cambiamento della propria esistenza. Nella nostra Costituzione si afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. In linea con questo pronunciamento, l’impegno degli studenti detenuti dimostra che la riabilitazione la si può conseguire attraverso lo studio che restituisce dignità e rinnovata progettualità di se stessi. Ma soprattutto la cultura crea comunità. È stato questo un altro tratto evidente della seduta di laurea. Fra i partecipanti, vi erano naturalmente i detenuti iscritti ai corsi di laurea, ma anche docenti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria. Tutti accomunati dall’idea di voler dare insieme un contributo perché la seduta di laurea potesse costituire un nuovo inizio. In una città che ancora in questi giorni è afflitta da drammatici episodi di violenza - si pensi alla morte del giovane Francesco Pio nei pressi di uno chalet di Mergellina e il grave ferimento di un ingegnere a Ponticelli causato da due giovani rapinatori - la cultura è la risposta migliore - o forse l’unica soluzione - per eliminare la cappa opprimente della criminalità. Lo studio, infatti, offre un diverso modo di pensarsi e di relazionarsi con gli altri. Un aspetto che ho potuto cogliere nelle lezioni che ho tenuto all’interno del carcere. Spesso ho constatato fra i miei studenti un desiderio di approfondimento e una volontà di confrontarsi sulle grandi questioni del mondo contemporaneo. Propositi che mi hanno portato a riconsiderare il modo di fare lezione con loro, orientando l’insegnamento al dialogo e alla costruzione di un ragionamento comune nell’intento di evitare percorsi preconfezionati. In tal modo, è stato possibile costruire un legame fra la propria esistenza e le grandi frontiere del sapere. Proprio perché la cultura non è mai staccata da ciò che si vive. Certo, resta il rammarico di quanto la cultura avrebbe potuto fare per prevenire l’adozione di modelli devianti e criminali. Comunque sia, è evidente che l’arricchimento intellettuale rappresenta il vero unico scudo per liberare la nostra città da un clima di violenza diffusa. Ecco perché nel carcere è essenziale che essa svolga un ruolo centrale nel contribuire al cambiamento sostanziale delle persone. Perché finalmente per tutti ci possano essere occasioni concrete alternative alla violenza. Una dimensione possibile da conseguire solo quando si ricostruisce un clima di comunità. Come lo è stato durante la prima seduta di laurea tenutasi nel carcere di Secondigliano. Roma. Disuguaglianze, come liberare la conoscenza per eliminarle: l'evento alla Fondazione Basso La Repubblica, 12 aprile 2023 “Liberare la conoscenza per ridurre le disuguaglianze”. È questo il titolo dell’evento, organizzato dal Forum Disuguaglianze e Diversità per oggi, 12 aprile, presso la sala conferenze della Fondazione Basso, via della Dogana Vecchia 5 a Roma. Fabrizio Barca, co-coordinatore del ForumDD, presenterà un Manifesto predisposto da ricercatrici e ricercatori che nel ForumDD si occupano di tematiche legate all'argomento per rilanciare le tante proposte elaborate negli anni, per orientare le transizioni digitale e tecnologica in senso democratico. L’evento è moderato da Gloria Riva, giornalista de L’Espresso. Il rischio della concentrazione della conoscenza. Il modo in cui le società governeranno la diffusione e l’uso della conoscenza ha e avrà sempre più un ruolo cruciale nell’aumento o nella riduzione della giustizia sociale: la transizione digitale può infatti essere l’occasione per un miglioramento diffuso delle condizioni materiali e sociali delle persone, oppure condurre ad una concentrazione monopolistica della conoscenza e del controllo dei dati senza precedenti, con un grave peggioramento delle disuguaglianze. Affinché si realizzi il primo scenario, sono necessarie politiche pubbliche per l’innovazione, uno sviluppo segnato da giustizia sociale e ambientale e la riduzione delle disuguaglianze, come quelle richiamate dal Manifesto e che verranno presentate da alcuni membri del gruppo di lavoro sulla conoscenza del ForumDD. Pandemia: i rischi finanziari pubblici e privati. Massimo Florio, Università di Milano, presenterà lo studio “Mapping of long-term public and private investments in the development of COVID-19 vaccines”, redatto su richiesta del Parlamento Europeo e presentato il 23 marzo a Bruxelles. Lo studio restituisce per la prima volta il calcolo del contributo pubblico e privato allo sviluppo e alla produzione dei vaccini contro il Covid-19, mostrando la netta prevalenza del rischio finanziario assunto dal pubblico rispetto al privato, cui sono tuttavia seguiti enormi extra-profitti per un piccolo gruppo di imprese con la resa delle ragioni dell’interesse pubblico. Commenteranno la presentazione Marc Botenga, (Partito del Lavoro del Belgio), parlamentare europeo e membro della Commissione sugli insegnamenti da trarre dalla pandemia, Patrizia Toia, (Partito Democratico) parlamentare europea, Vicepresidente Commissione Industria, Ricerca, Energia (Itre) e Alessandra Moretti, (Partito Democratico), parlamentare europea, membro della Commissione Ambiente e Sanità e relatrice Gruppo S&D della Commissione sugli insegnamenti da trarre dalla pandemia. Gli altri interventi. A seguire, interverranno, per presentare in maggior dettaglio le proposte politiche elaborate a partire dalle rispettive linee di ricerca, Ugo Pagano (Università di Siena), Fulvio Esposito (Università di Camerino), Angelica Sbardella (Centro Ricerche Enrico Fermi) e Giulio De Petra (Centro per la Riforma dello Stato), che tratteranno di questioni quali proprietà intellettuale e scienza aperta, impatto sociale delle Università e “Terza missione”, competitività tecnologica verde, ed accesso ai dati per finalità di interesse collettivo. L'ingresso libero fino a esaurimento posti. Per partecipare è obbligatoria la registrazione qui. L'evento sarà inoltre trasmesso in diretta sul canale youtube del ForumDD. Genova. Quando il teatro abbatte le barriere, i detenuti di Marassi in scena con “Riccardo III” di Rosaria Corona Il Secolo XIX, 12 aprile 2023 Dal 14 al 20 aprile al teatro Ivo Chiesa la compagnia teatrale Scatenati porta in scena l’opera shakespeariana. Tullia Ardito, direttrice del carcere: “Un'esperienza significativa, di grande aiuto per i detenuti. Che non potremmo fare senza l’aiuto della società civile”. “Questa esperienza teatrale ci ha lasciato una bella traccia. Quando siamo sul palco stacchiamo completamente, non pensiamo neppure di essere dove siamo. È un momento di riscatto, qualcosa che aiuta tanto. Io giocavo a calcio, non mi era mai passato per la testa di fare l’attore. Ed è bellissimo, è una cosa che voglio portare avanti, assolutamente”. Le parole di Sedki rendono bene l’idea di quanto il teatro possa essere uno strumento di formazione, riabilitazione e rinascita per chi si trova a vivere da recluso, dietro le sbarre. Il 32enne italo-tunisino, con un passato da calciatore e attualmente in carcere, è uno degli attori della compagnia teatrale Scatenati, formata dagli attori detenuti della Casa Circondariale di Genova Marassi, che dal 14 al 20 aprile al teatro Ivo Chiesa porterà in scena “Riccardo III”, scritto e diretto da Sandro Baldacci con la partecipazione di Igor Chierici. Dopo il grande successo ottenuto con i precedenti “Romeo e Giulietta”, “Amleto”, “Otello” e “Sogno d'una notte di mezza estate”, gli attori del carcere tornano all’amato Shakespeare, misurandosi con una delle sue opere più oscure, riadattata in chiave contemporanea, con la partecipazione di Igor Chierici, Marco Gualco, Ilenia Maccarrone, Rajan Marini, Gaetano Santella e Marcella Silvestri. “Questo è il nostro quinto Shakespeare, ed è sicuramente la scommessa più grande perché il testo di Riccardo III è forse uno dei più difficili da mettere in scena. Lo facciamo con una compagnia di attori non professionisti affiancati da sei attori professionisti che lavorano con loro. Alcuni di loro affrontano per la prima volta un palcoscenico e la maggior parte parla a stento l’italiano, quindi è veramente un triplo salto mortale”, dichiara il regista Baldacci. Una sfida portata a termine dopo mesi di studio e prove sul palco del teatro dell’Arca, realizzato all'interno della Casa Circondariale di Marassi su iniziativa dell'associazione culturale Teatro Necessario Onlus. “Il nostro lavoro è profondamente diverso da quello di una compagnia professionale, dura tanti mesi, ci sono laboratori e attività preparatorie e succede qualcosa di diverso, che non accade in altri spettacoli: ad un certo punto entrano in gioco l’emotività e la verità di questi interpreti - sottolinea Baldacci - ci sono emozioni e soddisfazioni diverse da quelle del teatro professionale anche perché ci si rende conto di incidere significativamente nelle vite di queste persone che attraverso il teatro riescono a trovare una loro forma di riabilitazione sociale”. Il teatro come forma di recupero, reso accessibile a tutti nonostante le criticità presenti nell’istituto penitenziario: “Il carcere esiste, siamo noi, le persone che ci lavorano dentro. I problemi al momento sono il sovraffollamento, una presenza di stranieri molto alta, diverse etnie difficili da far convivere e la mancanza di risorse e personale”, spiega Tullia Ardito, direttrice del carcere di Marassi. “Questo però non deve farci dimenticare il nostro mandato ovvero di provare a offrire una possibilità ai detenuti per un riscatto, per cambiare e tornare nella società con una speranza in più - prosegue Ardito - Il teatro è una delle iniziative più significative, un’esperienza che è d’aiuto per i detenuti e che non potremmo fare senza l’aiuto della società civile”. Lo spettacolo, che dopo il debutto alla Corte sarà portato in scena al Teatro dell’Arca dal 26 al 28 aprile, è il punto d’arrivo di un lungo percorso formativo nelle discipline dello spettacolo nell’ambito del progetto “Per Aspera ad Astra, come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” sostenuto dalla Compagnia di San Paolo, dall’otto per mille della Tavola Valdese, dal Comune di Genova e dalla Regione Liguria. Riparare il danno dando voce al carnefice di Chiara Somajni Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2023 Al quarto incontro con Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Stefania Albertani dice, a sé stessa e ai due criminologi, di aver voluto commettere il delitto per il quale si trova in carcere. Non ha dunque ucciso la sorella per una sorta di automatismo, come da lei stessa dichiarato, ma per scelta. È un passaggio cruciale: Stefania ha recuperato la memoria di quell’atto efferato e con coraggio se ne assume la responsabilità; al contempo rende possibile la costruzione da qui in poi di un suo futuro nuovo, e diverso. “Io volevo ucciderla” ruota intorno a una delle “interviste trasformative” che Ceretti e Natali stanno compiendo con autori di reato che implicano attacchi al corpo, attraverso le quali stanno testando e affinando la teoria criminologica avanzata in un loro precedente libro, “Cosmologie violente” (Cortina, 2009). Il modello da loro sviluppato, che come illustrato dagli autori nella sezione teorica introduttiva poggia sul criminologo Lonnie Athens e si allarga a includere altre correnti della più recente ricerca criminologica narrativa e filosofica, si basa sull’idea che ogni individuo è abitato da quello che chiamano un “parlamento interiore”, composto da figure cui assegniamo un ruolo fondamentale nell’orientare le nostre valutazioni e le nostre decisioni. Attraverso serrate conversazioni interiori, è in dialogo con queste figure per noi dominanti che riusciamo a dare un senso al mondo che ci circonda e a noi stessi in esso. Il loro ruolo è orientativo, non deterministico; in contrasto con le pratiche più diffuse, secondo i due criminologi un margine di libertà permane infatti, salvo eccezioni (interessante, qui, è il dibattito che rimanda alle neuroscienze e alla neuropsicologia), anche nei casi in cui la vita di una persona si sviluppi in condizioni sociali o psicopatologiche avverse. Né la composizione di tale parlamento è inscalfibile: possono sgretolarla, mostrandone l’inadeguatezza, eventi drammatici e improvvisi, ma anche percorsi più silenziosi e graduali, come avviene attraverso l’azione interlocutoria, empatica dei due criminologi con Albertani. Azione trasformativa, appunto, basata su un ascolto non giudicante, su sollecitazioni calibrate e miratissime che imprimono accelerazioni alla narrazione, e in generale su una promessa di futuro che per Albertani, dolorosamente inchiodata al suo delitto, risulta impensabile. Ceretti e Natali, con Athens, chiamano la crisi del parlamento interiore “cambiamento drammatico di sé”: il vecchio parlamento va in frantumi, figure nuove possono entrarvi, e con loro può farsi strada un nuovo modo di sentire, pensare, agire, relazionarsi con gli altri, nuovi valori. Tali sono ad esempio anche i processi di radicalizzazione e i percorsi di deradicalizzazione di una persona. Albertani è cresciuta sentendosi invisibile, all’ombra di un fratello idealizzato e protagonista pressoché assoluto di un parlamento interiore altrimenti asfittico: accanto a lui, solo il padre e la madre. Convinta per l’esperienza fatta in famiglia (“orrificante”, nella terminologia di Ceretti e Natali) che amare significhi farsi del male, l’orizzonte della sua vita è limitato al sentirsi “liberamente obbligata” a compiacere le aspettative dei suoi “altri significativi” (del fratello e del padre in particolare) - un’operazione che le riesce di necessità solo annullandosi. Un equilibrio precario che si spezza quando fallisce l’azienda gestita con il fratello, e in particolare per la sua condanna: “Devi crepare all’inferno!”. Albertani all’inferno c’è già e la frase fa da trigger, la camicia di forza della sua passività si strappa, incomincia a volere e a decidere per sé. Sempre, purtroppo, nell’alveo di una concezione del mondo alterata, dove il confine tra realtà e finzione è labile: Albertani allestisce a sua discolpa una messa in scena che le sfugge di mano e della quale la sorella diventerà vittima sacrificale. Nel corso dell’intervista, svoltasi in undici incontri nel 2020, Ceretti e Natali indagano con Albertani i pensieri e le emozioni prima, durante e dopo il gesto estremo mettendone a fuoco il senso soggettivo; le permettono di avvertire la possibilità di diventare altro rispetto a quanto è stata. Nella sua vita pian piano entrano figure nuove, cambia il rapporto con il cibo, attraverso cui compensava senso d’impotenza e invisibilità (“mangiando il mondo”), si dischiudono canali nuovi attraverso cui esprimersi. Nulla potrà togliere ad Albertani il peso della responsabilità del delitto compiuto, cosa che Ceretti e Natali non mancano di ribadire più e più volte. Ciò stabilito: cosa farne? Può un’esistenza che si sia macchiata di un simile delitto riprendere a vivere? Si può diventare una persona diversa e migliore degli atti compiuti in passato? Sono domande fondamentali, oltre che per Albertani, anche per il nostro sistema di giustizia. Io volevo ucciderla dimostra che anche gli atti più efferati possono essere avvicinati, che attraverso un lavoro dialogico queste narrazioni, se la persona lo vuole, possono trasformarsi e generare una storia nuova. Un processo riparativo che ha valore per la società, oltre che per l’individuo - come si sottolinea a chiusura del volume -, dove compaiono anche testimonianze della stessa Albertani e del direttore del carcere di San Vittore Giacinto Siciliano, nonché un testo della psicoanalista Laura Ambrosiano. Oggi che grazie alla riforma Cartabia la giustizia riparativa è prevista dall’ordinamento italiano, Ceretti e Natali ne rafforzano la prospettiva, introducendo con l’intervista trasformativa uno strumento utile a favorire il successo di eventuali percorsi di mediazione penale. Perché la giustizia riparativa possa affermarsi pienamente è però cruciale che quanto maturato in ambito specialistico diventi cultura diffusa, superando una visione illusoriamente perfezionistica e sterilizzante di società che mira a neutralizzare gli autori di reato e a sottrarli allo sguardo pubblico. Al di là del suo portato teorico, questo volume, insieme al “Libro dell’incontro” (a cura di Ceretti, Guido Bertagna e Claudia Mazzucato, il Saggiatore 2015), dedicato agli autori delle violenze compiute negli anni di piombo e alle loro vittime, rappresenta un contributo preziosissimo in questa direzione, illustrando la metodologia impiegata e il suo potenziale impatto trasformativo in presa diretta. Parola per parola, senza che il male ci accechi. Adolfo Ceretti, Lorenzo Natali. “Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro”. Raffaello Cortina, pagg. 430, € 29 I conti con il nostro passato: la saggezza della Costituzione di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 12 aprile 2023 Nel tumultuoso dopoguerra, i padri fondatori probabilmente ritennero che ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto, come infatti è sostanzialmente avvenuto. C’era da aspettarselo: nell’Italia della vittoria della destra è cominciata subito a spirare un’aria di “passato che non passa”. Cioè una continua tendenza a riaprire i conti e a farlo sempre nel modo più aggressivo e perentorio: come del resto piace ai media che hanno sempre il problema dell’”audience”. All’ordine del giorno non è il pericolo del fascismo per fortuna, questo no, ma è ciò che pensa del fascismo chi sta al governo, sono le sue idee su quel passato lontanissimo. Ogni sera nei talk televisivi si richiedono dunque spiegazioni, chiarimenti, precisazioni. E naturalmente abiure. Per prendere una boccata d’aria viene allora in mente di sfogliare qualche testo, ad esempio la nostra Costituzione. Tra le cui prescrizioni una di certo tra le meno conosciute in assoluto è quella contenuta nel secondo capoverso della XII disposizione transitoria e finale. La quale, dopo aver vietato “la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista” recita: “In deroga all’articolo 48 sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e all’eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista”. In altre parole, dopo il primo gennaio 1953, se lo avessero voluto i “capi responsabili del regime fascista” (facciamo qualche nome di quelli allora viventi: Federzoni, Grandi, Bottai, Scorza ecc., quasi tutti squadristi, responsabili di cosucce come le leggi razziali e la seconda Guerra mondiale) avrebbero potuto tranquillamente essere eletti nel Parlamento della Repubblica. Come si spiega questa decisione all’apparenza così contrastante con l’immagine di una Costituzione coerentemente antifascista? Forse con il fatto che i padri fondatori immaginavano che a quella data i suddetti “capi responsabili” del fascismo sarebbero stati pronti a rinnegare le loro convinzioni e magari a dirsi antifascisti? Difficile crederlo. Assai più probabile, mi azzardo a ipotizzare, che nella loro saggezza fossero convinti che così come a molti altri italiani un tempo genuinamente fascisti e nel loro intimo con ogni probabilità restati tali, anche a quei capi fascisti non aveva senso comminare l’esclusione dalla vita pubblica, né tanto meno chiedere loro una ritrattazione o una dissociazione postuma. Con il tempo - essi piuttosto si auguravano - ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto: come infatti è sostanzialmente avvenuto. Con il tempo che serve a riconciliare con il passato smorzando il fuoco dei ricordi. Non a caso amnesia e amnistia - quella amnistia saggiamente decretata da Togliatti nel 1946 per chiudere la guerra civile - hanno la medesima radice. Per ricominciare bisogna in qualche modo dimenticare. Negli anni di quell’infuocato dopoguerra si decisero molte cose della nostra Storia, della sua ambiguità, delle sue molte apparenti contraddizioni e dei suoi molti taciti compromessi: tutte cose che possono dispiacere, e che però aiutarono non poco la Repubblica a mettere radici e a vivere. Il Partito comunista, ad esempio, ebbe una parte decisiva nella scrittura della Costituzione, e se non altro in questo senso svolse sicuramente un ruolo centrale nella costruzione della nostra democrazia. Eppure quel medesimo Pci - impregnato di stalinismo fino alla punta dei capelli e con il suo massimo dirigente coinvolto direttamente nei più atroci misfatti di Mosca - non poteva certo dirsi una forza politica democratica. Ciò nonostante, se nel 1976 qualcuno avesse chiesto a Pietro Ingrao sul punto di diventare presidente della Camera - all’Ingrao ex direttore della trucissima Unità filosovietica al tempo dei “fatti” d’Ungheria - di dichiararsi preliminarmente contro il comunismo e i suoi crimini, di dissociarsi pubblicamente dal Gulag e dal massacro di Katyn, che cosa avremmo pensato? Saremmo stati d’accordo? La nostra storia, al pari di quella di tanti altri Paesi, ma forse un tantino di più, è stata fatta anche di questi necessari oblii, di queste opportune dimenticanze. Dopo il 1861 chi chiese mai ai tanti democratici che pur avendo militato durante il Risorgimento nelle schiere mazziniane si erano poi messi al servizio dei Savoia, chi chiese mai di rinnegare il loro passato, di dissociarsi retrospettivamente dalla loro fede e dal suo profeta braccato fino alla fine dalla polizia dei suddetti Savoia? (In molti lo fecero, come si capisce, ma perlopiù elegantemente, in privato). E a Giosuè Carducci, per dirne un’altra, appassionato aedo dell’Italia monarchica di fine Ottocento, chi rinfacciò mai di aver detto peste e corna, qualche decennio prima, del modo in cui quella stessa Italia era stata fatta? Cioè con l’ambiguità e con gli equivoci, con la mutevolezza dei fronti e l’eterogenesi dei fini con cui sono state sempre fatte le cose su questa terra? Bisogna convincersene: la storia e la politica che ne è l’anima non sono cose che assomiglino al casellario giudiziario, con l’elenco dei pregiudicati da tirar fuori al momento opportuno. I conti con l’avversario, con il nemico, vanno regolati sia pure nel modo più spietato ma sul momento. Non ottant’anni dopo aver vinto. Droghe e diritti umani. La marcia continua di Susanna Ronconi Il Manifesto, 12 aprile 2023 Lo scorso marzo, la Commission on Narcotic Drugs dell’Onu (Cnd) a Vienna ha svolto i lavori preparatori in vista del 2024, quando si terrà la valutazione di medio termine della strategia globale sulle droghe decisa nel 2019. Ma è a Ginevra, non a Vienna, che si registrano le novità politicamente più rilevanti. Lì, infatti, un altro pezzo del sistema Onu, lo Human Rights Council (Hrc), il 4 aprile ha adottato una risoluzione su diritti umani e politiche delle droghe che imprime una accelerazione al ruolo che il tema dei diritti può positivamente giocare. Quello dell’ingresso delle agenzie su diritti, salute, sviluppo sostenibile e molte altre nelle politiche delle droghe è un processo iniziato nel 2016, all’Assemblea generale delle Nazioni unite, proseguito con la Common Position del 2018, e con le risoluzioni 28/28 del 2015 e 37/42 del 2018 dello stesso Hrc, che ha introdotto il rispetto dei diritti e delle relative Convenzioni come vincolo delle politiche delle droghe. Questa nuova risoluzione non innova tanto sui contenuti - che ribadiscono comunque priorità circa i diritti alla salute e alla non discriminazione, alla propria cultura per i popoli nativi, nonché la rinuncia alla criminalizzazione per le condotte minori - quanto nei processi di valutazione delle strategie globali. Infatti, in vista del 2024, il Comitato preparerà un rapporto, redatto con agenzie Onu, Stati e Ong, e terrà un panel dedicato, durante la Cnd, per valutare le politiche globali alla luce dei diritti. Dove ciò che conta è l’affermazione che sono le politiche a porre problemi inerenti ai diritti umani, e non il fenomeno droghe di per sé, dunque il dibattito diventa immediatamente politico, se comprende come indicatore cruciale degli esiti il rispetto e la tutela dei diritti (che vanno “protetti e promossi così come le libertà fondamentali e la dignità di tutti gli individui nel contesto dei programmi, delle strategie e delle politiche delle droghe”). La risoluzione è un passo avanti, non una vittoria secca: i compromessi, soprattutto con il blocco russo-mediorientale, lasciano ancora aperti molti problemi e il limite di non portare questo nuovo processo a regime, ma limitarlo, per ora, alla Cnd del 2024. Lo Human Right Council ribadisce che gli stati devono “riformare, alla luce celle linee guida sui diritti umani, quelle politiche delle droghe che producano esiti di discriminazione”, soprattutto nella dimensione del controllo penale, e in quello del diritto alla salute, e qui, esplicitamente si include la Riduzione del danno (RdD) come ambito cruciale. Enfasi anche sull’attenzione al genere e alla lotta al razzismo, nonché sul diritto dei popoli indigeni alla propria cultura e medicina tradizionale. Forte anche il richiamo alla centralità della società civile e delle comunità, che vanno coinvolte “nello sviluppo, nella implementazione, nel monitoraggio e nella valutazione delle politiche, anche con azioni di advocacy e sensibilizzazione e lo scambio di saperi e competenze”. Un bel problema per l’Italia, che ha siglato la Risoluzione: come la metterà Mantovano con la criminalizzazione e la discriminazione di quelle che secondo la destra non si possono chiamare ‘persone che usano droghe’ perché se no si accetta l’uso? E come la metterà con la RdD che, di nuovo! non si può nemmeno nominare, tant’è vero che nella Relazione al Parlamento 2023 i dati sui servizi (quelli che resistono) li leggeremo nel capitolo Prevenzione? E come la metterà con l’assenza di un vero, trasparente e pluralista sistema di partecipazione della società civile, che non includa solo i soliti amici? Senza contare la risposta che il governo dovrà dare, proprio su criminalizzazione e RdD, al Comitato delle Nazioni unite per i diritti sociali culturali ed economici di Ginevra (vedi questa rubrica, 19 ottobre 2022). Figli di coppie omogenitoriali: a Padova interviene la procura di Giuliano Santoro Il Manifesto, 12 aprile 2023 Dopo l’avvertimento della prefettura, il tribunale acquisisce le carte dell’anagrafe. “Registriamo tutti, i diritti dei minori vengono prima di ogni altra cosa”, rivendica il sindaco. Lo spettro dell’incertezza giuridica aleggia su trentadue bambini figli di coppie omogenitoriali registrati a Padova dal 2017, da quando cioè la città è amministrata dal centrosinistra. La procura ha chiesto al Comune gli atti delle iscrizioni all’anagrafe: il tribunale in linea teorica potrebbe decretarne la nullità. Alcune delle registrazioni sono state firmate dal sindaco Sergio Giordani. “Ho agito nell’esclusivo interesse delle bambine, dei bambini e dei loro diritti fondamentali - dice - Ritengo sia un mio dovere. I bambini e le bambine vengono prima di tutte le discussioni. Evitare per loro discriminazioni molto gravi è un obiettivo che supera i vuoti normativi e che persegue i valori Costituzionali”. Giordani rivendica poi l’iniziativa delle scorse settimane, quando insieme ai sindaci di altre città ha chiesto al parlamento di legiferare, in modo da sanare il vuoto giuridico sul tema. “Da tempo con moltissimi sindaci di vari schieramenti chiediamo alla politica di agire con urgenza, oltre ogni ideologia - prosegue Giordani - Ho massimo rispetto del lavoro della procura, che agisce nelle sue funzioni. La domanda semmai è: per quanto tempo il parlamento eviterà di legiferare su un tema così delicato che nella società è notoriamente presente e che la attraversa nel concreto da molti anni? Girarsi dall’altra parte significa evitare di vedere la realtà, magari accettando il fatto che bambine e bambini cresciuti per anni con due genitori se li vedano togliere a causa di leggi contraddittorie e vuoti normativi”. L’appello dei sindaci viene raccolto da diversi esponenti delle opposizioni. “Non si può più aspettare - afferma la deputata del Partito democratico Rachele Scarpa - Il Parlamento legiferi con urgenza sulla registrazione dei figli di coppie omogenitoriali e monogenitoriali. Lasciare che la carenza normativa sul tema condizioni il destino di bambine e bambini, rischiando di far legalmente perdere loro un genitore con cui sono cresciuti per anni, significa negare i diritti fondamentali dei minori. Questo rischio rappresenta un’imperdonabile e brutale distorsione ed è frutto dell’ottusità di questa destra che non guarda in faccia a nulla e a nessuno e ci costringe a un’inerzia inaccettabile su un tema così delicato”. Alessandro Zan, deputato padovano e membro della segreteria nazionale del Pd con delega ai diritti ribadisce l’allarme: “Mi auguro che gli atti dell’amministrazione comunale non vengano impugnati perché un bambino così rischierebbe di perdere una madre che non verrebbe più riconosciuta tale e si tratterebbe di una crudeltà contro il supremo interesse del minore”. Anche per Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi Sinistra a Montecitorio, “occorre regolamentare un settore nel caos. L’iniziativa della procura di Padova rende ancora più urgente una legge”. La prefettura già un mese fa aveva informato l’autorità giudiziaria delle procedure seguite dal Comune per iscrivere all’anagrafe i bambini. Il prefetto Raffaele Grassi aveva inviato a tutti i sindaci della provincia di Padova una circolare per invitarli a rispettare la sentenza della Cassazione che blocca i riconoscimenti anagrafici. Dopo un incontro con Grassi, definito dalle parti cordiale nei modi ma non risolutivo nella sostanza, il sindaco Giordani aveva deciso di accogliere l’ennesima richiesta di iscrizione di una coppia. La prefettura aveva dunque fatto sapere che avrebbe informato la magistratura “affinché potesse valutare l’eventuale esercizio, in sede civile, dell’azione di rettifica degli atti così formati”. Ed eccoci all’intervento della procura. Migranti. Varato lo stato di emergenza: l’obiettivo è svuotare gli hotspot di Francesco Olivo La Stampa, 12 aprile 2023 Ora l’emergenza è ufficiale e certificata. Il governo Meloni è in difficoltà per l’aumento degli sbarchi sulle coste italiane, gli hotspot sono pieni e bisognava dare una risposta. Così si è arrivati allo stato d’emergenza sulla questione migratoria, il primo dal 2011. La richiesta, molto pressante, è arrivata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, mentre formalmente la proposta è di Nello Musumeci, ministro del Mare, con delega alla protezione civile. Nei prossimi giorni sarà nominato un commissario, che con tutta probabilità sarà Valerio Valenti, ex prefetto di Firenze, attualmente capo del dipartimento immigrazione del Viminale. Lo stato d’emergenza durerà, per il momento, sei mesi, con l’obiettivo di superare l’estate, sperando che la situazione internazionale possa favorire una riduzione dei flussi. La prima dotazione è di cinque milioni di euro, cifra considerata nel ministero solo un primo stanziamento. Si tratta di una misura amministrativa, fondamentalmente per svuotare gli hotspot, che però ha inevitabili risvolti politici: “Abbiamo deciso lo stato di emergenza sull’immigrazione per dare risposte più efficaci e tempestive alla gestione dei flussi”, ha dichiarato Giorgia Meloni con una nota al termine del Consiglio dei ministri. L’opposizione attacca: “Risuonano lontane le false promesse elettorali di fantomatici e irrealizzabili blocchi navali - dice Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle -. Quando era all’opposizione Meloni, con l’Italia in ginocchio per il Covid, si stracciava le vesti contro la proroga dello stato di emergenza, eppure lo stato di emergenza in quel momento era una scelta davvero necessaria”. “L’emergenza non è quella dei migranti ma quella di una situazione economica e sociale difficile e di una inflazione che ammazza gli stipendi”, aggiunge Francesco Boccia, capogruppo del Pd al Senato. “In questo modo avremo probabilmente degli standard di accoglienza più bassi di quelli minimi previsti, con “strutture parcheggio” e affidamenti fatti senza evidenza pubblica, con tutti i rischi che ne conseguono”, dice Riccardo Magi, capogruppo alla Camera di + Europa. Il primo obiettivo che il governo si pone con lo stato d’emergenza è intervenire sulle strutture, poter andare in deroga al codice degli appalti, viene considerato fondamentale per poter creare nuovi cpr, i centri di permanenza per i rimpatri (il decreto Cutro ne prevede almeno uno per regione). L’altro scopo è snellire la procedura dei trasferimenti, secondo il Viminale l’aumento degli sbarchi (“del 300%”) fa sì che spesso, in particolare a Lampedusa, non ci sia nemmeno il tempo per svuotare gli hotspot. Senza procedure d’emergenza, anche i semplici noleggi di charter e navi devono essere sottoposti a gare europee, procedure che per sei mesi potranno essere più rapide. Con l’ingresso nello stato d’emergenza poi si attua una via preferenziale anche per l’accesso al fondo di emergenza nazionale, della presidenza del Consiglio, che però va rifinanziato, perché qui si attinge per ogni tipo di situazione straordinaria, a partire dalle calamità naturali. Nelle stesse ore la maggioranza sta cercando l’accordo per le modifiche al decreto Cutro. In una lunga riunione al Viminale, con, il ministro, i sottosegretari e i capigruppo di FdI, Lega e Forza Italia hanno condiviso l’obiettivo, il centrodestra ha concordato di ridurre al massimo la cosiddetta protezione speciale, lo status assegnato a chi, pur non rientrando nella categoria dei rifugiati politici, né in quella della “protezione sussidiaria” prevista dall’Ue, non può essere rimpatriato. L’auspicio di Lega e Fratelli d’Italia, con Meloni, in testa era di arrivare all’abolizione di questo status, che “non rientra in quelli previsti dall’Unione europea”, ha spiegato più volte la premier. Ma i paletti sono molti, a cominciare dalla posizione del Quirinale, espressa subito dopo il Consiglio dei ministri celebrato a Cutro. Così, il compromesso possibile, che oggi prenderà forma in un emendamento del governo, sarà quello di una stretta su molte voci della protezione speciale. Il rinvio dei lavori della Commissione affari costituzionali è stato giustificato dalla maggioranza proprio con la novità rappresentata dallo stato d’emergenza deliberato dal Consiglio dei ministri. Una spiegazione che non convince le opposizioni: “Se c'è un fatto nuovo e successivo a quello che ha determinato il decreto che stiamo esaminando, è opportuno che si adotti un nuovo decreto legge”, dice Andrea Giorgis, senatore del Pd. Migranti. Sbarchi in aumento ma presenze di cittadini stranieri costanti di Giansandro Merli Il Manifesto, 12 aprile 2023 La vera emergenza sono i morti in mare: l'85% delle 576 vittime del Mediterraneo registrate quest'anno era diretto in Italia. Sono 31.292 le persone sbarcate in Italia dalla mezzanotte del primo gennaio alle otto di ieri mattina. Le nazionalità prevalenti: Costa d’Avorio, Guinea, Pakistan, Egitto, Tunisia e Bangladesh. Poco più di 3mila i minori non accompagnati. Nello stesso periodo del 2022 i migranti arrivati via mare erano un quarto: 7.928. Poco meno dell’anno precedente: 8.505. Da quando, il 21 ottobre scorso, si è insediato il governo Meloni gli sbarchi complessivi sono stati 59.509. Oltre il doppio della stessa finestra di tempo calcolata sui dodici mesi precedenti (23.901). Tutto il contrario di quanto promesso in campagna elettorale e nei primi mesi di governo. Trascorsi a dare la caccia alle Ong, incontrare autorità più o meno riconosciute nei paesi di transito, inasprire le pene contro gli “scafisti”. Mosse illusorie, dettate da un’interpretazione sbagliata delle migrazioni internazionali e dalla vana speranza di far fronte a un fenomeno sociale complesso con gli strumenti penali o le deleghe a milizie e polizie non vincolate allo stato di diritto. Prendiamo il dato delle Ong. Lo scorso anno, calcola l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), avevano realizzato un quinto del totale dei soccorsi. Oggi il loro ruolo si è ridotto al 6,7%. Significa che solo un migrante su 15 tra quelli salvati in mare finisce su una nave umanitaria. Gli altri 14 però non spariscono nel nulla: vanno ad aumentare il carico di lavoro della guardia costiera e, nella maggior parte dei casi, l’affollamento dell’hotspot di Lampedusa. A ogni finestra di beltempo dalle coste tunisine partono sciami di barchini - spesso in ferro e dunque ancora più pericolosi - a cui i mezzi dispiegati sulla maggiore delle Pelagie hanno difficoltà a stare dietro. Lo stesso può avvenire in occasione dei grandi soccorsi “d’altura”, lontani dalle coste, spesso sulla rotta che parte dalla Libia orientale, la Cirenaica, ed è percorsa da pescherecci carichi di centinaia di persone. Il 3 aprile audito in commissione Trasporti il comandante generale Nicola Carlone ha spiegato che la guardia costiera dispone di 10.800 effettivi. Ne servirebbero tra 12 e 14mila. Intanto anche la distribuzione delle partenze tra le diverse rotte continua a cambiare. Quest’anno la Tunisia ha scavalcato la Libia, dove la Cirenaica ha guadagnato peso rispetto alla Tripolitania. Al 29 marzo scorso secondo i dati del Viminale diffusi da Agenzia Nova erano arrivate in Italia 15.537 persone dal primo paese e 10.628 dal secondo. La guardia costiera di Tunisi ha bloccato 14.406 persone, quella di Tripoli, che però non opera a Tobruch o Benghazi, “solo” 4.241. Se l’aumento degli sbarchi è un fatto, lo è anche la sostanziale stabilità del numero di cittadini stranieri presenti in Italia. Non sono cresciuti in maniera rilevante né tra il 2014 e il 2017, quando sbarcarono 625mila persone, né negli ultimi anni. Il dato oscilla intorno ai cinque milioni e mezzo di persone da circa 10 anni (elaborazione di Matteo Villa, Ispi, su numeri Istat e Ismu). E infatti l’Italia è solo il quarto paese Ue per richieste d’asilo, nonostante sia il primo per numero di sbarchi. Nel 2022 ne ha ricevute 77.195. A fronte delle 116.140 presentate in Spagna, 137.505 in Francia e addirittura 217.735 in Germania (dati riportati dal Consiglio italiano per i rifugiati). Insomma a Berlino sono state il quadruplo che a Roma e tutto lascia credere che andrà così anche quest’anno. Basti pensare ai 76 sopravvissuti al naufragio di Cutro: hanno chiesto protezione internazionale all’Italia soltanto in 23, tra cui 5 minori; tutti gli altri hanno preferito farlo all’estero o cambiare paese autonomamente. I loro cari annegati davanti alle coste calabresi, invece, sono andati a sommarsi agli altri morti del Mediterraneo. Dall’inizio dell’anno sono già 576 di cui ben 494, cioè l’85%, lungo la rotta centrale che porta in Italia. È questa l’unica vera emergenza che il governo dovrebbe dichiarare. Arabia Saudita. Innocente da sei anni nel braccio della morte: a scagionarlo c’è persino un video di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 12 aprile 2023 C’era una volta la storia che, in Arabia Saudita, i detenuti condannati a morte per reati commessi quando erano minorenni avrebbero ottenuto la commutazione della pena. Ad alcuni è andata così, ma non ad Abdullah al-Howaiti, ora ventenne, che è nel braccio della morte da quando aveva 14 anni. Oltretutto, per un reato - l’uccisione di un agente di polizia nel corso di una rapina in una gioielleria, nella città costiera di Duba - che non ha commesso. A scagionarlo c’è persino un video, esibito durante il processo, che lo ritrae mentre gioca a pallone sulla spiaggia durante la rapina e nell’ora successiva. In altre immagini, riprese dalle telecamere a circuito chiuso, si vede il rapinatore muoversi con estrema freddezza, due armi in pugno, per poi fuggire su un’auto della polizia dopo aver ucciso un agente. Dalla statura, tutto sembra meno che un quattordicenne. Sebbene non potesse essere nello stesso momento in due posti diversi, al-Howaiti ha confessato, e questo è bastato per condannarlo a morte. Ma, com’è prassi in Arabia Saudita, le “confessioni” sono estorte con la tortura e sono sufficienti perché il tribunale emetta la condanna. Al-Howaiti ha esaurito gli appelli e potrebbe essere messo a morte da un giorno all’altro. In Arabia Saudita nel 2022 sono state eseguite quasi 150 condanne alla pena capitale, più della somma dei due anni precedenti. *Portavoce di Amnesty International Italia