Tutte le anomalie del 41bis, da strumento per la lotta alle mafie a “carcere duro” per oltre 700 detenuti di Franco Mirabelli Il Riformista, 11 aprile 2023 L’istituto del 41 bis è stato ed è uno strumento fondamentale per la lotta alle mafie. Impedire che i boss possano continuare a dirigere la propria organizzazione dal carcere, come avveniva in precedenza, continua ad essere una necessità se si vuole spezzare la catena di comando delle cosche. Il 41 bis è uno strumento che ha funzionato e funziona, che deve essere difeso e preservato ma, per farlo nel modo migliore, serve fare i conti con le osservazioni fatte recentemente dal Garante dei diritti dei detenuti. Innanzitutto si tratta di riportare l’istituto alla dimensione che gli è propria. Il 41bis è nato per impedire la possibilità per i capimafia di comunicare con l’esterno, questa è la sua funzione. L’isolamento, le limitazioni rigide ai contatti con l’esterno ma anche all’interno del carcere hanno questa finalità. Troppo spesso, invece, sentiamo dalla politica, e persino dagli operatori penitenziari, definire il 41bis come “carcere duro”, quasi servisse a rendere più afflittiva la pena e non a impedire le comunicazioni con l’esterno. Se passasse l’idea di un regime semplicemente finalizzato a rendere la detenzione più gravosa, sia pure di fronte a reati molto gravi, è chiaro che si darebbe un argomento a chi attacca il 41bis ritenendolo un trattamento contrario alla finalità rieducativa della pena che la nostra stessa Costituzione stabilisce. Allo stesso modo Mauro Palma ha ragione quando sollecita una riflessione sul numero di detenuti al 41bis. Il dato di oltre 700 persone recluse con quel regime è, certamente, un dato sproporzionato rispetto alla sua finalità e può, anch’esso, avvalorare l’idea di uno strumento che viene utilizzato per scopi diversi. Quindi per difendere il 41bis è necessario utilizzarlo per come è stato pensato: un regime straordinario che serve a impedire che i capi delle mafie e del terrorismo comunichino coi loro sodali all’esterno e per evitare che gli stessi controllino la vita del carcere. Ma se bisogna prendere atto che la reclusione di oltre 700 mafiosi costituisce una anomalia per risolverla occorre intervenire sulle cause che portano i magistrati a moltiplicare le richieste di detenzione in regime di 41bis. È evidente che manca una soluzione alternativa per chi, comunque, dovrebbe avere più limitazioni durante la reclusione. Il tema è quello della necessità di migliorare il funzionamento delle sezioni di alta sicurezza e aumentarne la capienza. Si potrebbero così fornire le garanzie di controllo necessarie e consentire di limitare il ricorso al 41bis. Da tempo il nostro Paese è sotto osservazione degli organismi internazionali ed europei proprio per il ricorso a quel regime detentivo. Periodicamente emergono accuse che intravedono in esso violazioni dei diritti umani e dei detenuti a cui è possibile e giusto rispondere difendendo un istituto che, in una realtà in cui il radicamento delle mafie è ancora purtroppo alto, consente di impedire ai boss di proseguire la propria attività dalla reclusione. Ma questo è possibile se continuiamo a poter dimostrare che il 41bis garantisce il rispetto della persona e non costituisce un trattamento pensato per essere più afflittivo e se resta evidente la sua eccezionalità circoscritta alla funzione che l’ordinamento attribuisce a quel regime. Medici del Corpo di Polizia penitenziaria: bene la sinergia governo-sindacati di Massimo Vespia* Il Dubbio, 11 aprile 2023 L’inserimento dei medici del Corpo di Polizia penitenziaria nel “decreto assunzioni PA”, approvato dal Consiglio dei ministri nella sua ultima riunione, è sicuramente una buona notizia. È la dimostrazione che solo attraverso il dialogo e il confronto costruttivo tra governo e sindacati si possono affrontare i problemi e cogliere i risultati sperati. Come ha più volte ricordato il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, infatti, “il Paese riparte se tutti remiamo dalla stessa parte, se riforme ed investimenti hanno un approccio condiviso”. Ecco perché la federazione nazionale della sicurezza della Cisl, puntando su uno stretto rapporto di collaborazione con politica e istituzioni, da sempre si batte per dare il giusto riconoscimento all’operato di tutto il personale penitenziario che, instancabile, è al servizio dell’intera comunità. Ed ecco perché consideriamo questa importante conquista ottenuta, anche grazie alla proficua sinergia con il sottosegretario al ministero della Giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove, il primo di altri significati obiettivi da raggiungere al più presto. Ora che siamo finalmente sulla buona strada e che si sta passando dalle belle parole “di circostanza” a fatti concreti, è tempo di accelerare, di andare avanti spediti con le altre misure da adottare. È indubbio che le strutture penitenziarie siano insufficienti, che le aree ridotte di socializzazione costringano a pericolose promiscuità di convivenza. Ma il problema non può e non deve essere confinato solo dentro le mura dei singoli istituti: dignità e sicurezza sono valori unici che valgono fuori dalle carceri come al loro interno. È per questo che chiediamo di rinnovare e ammodernare molte case di reclusione assai vecchie, alcune dell’epoca borbonica, del tutto inadeguate, di creare spazi condivisi da mettere a disposizione del personale e dei detenuti e nuovi ausili tecnologici per migliorare il servizio. Altra grave criticità cui mettere subito mano riguarda il personale ridotto, costretto troppo spesso a turni massacranti. Per ovviare a questo problema è necessario compensare la forte carenza di organico, intervenire sull’organizzazione del servizio e mettere mano alle norme relative all’Ordinamento Penitenziario ed al codice penale. Ed ancora: per evitare le aggressioni continue agli agenti chiediamo azioni e provvedimenti strutturali e non misure episodiche o tampone. Per risollevare il comparto c’è veramente tanto da fare: riteniamo urgente determinare protocolli d’intesa con le Regioni al fine di regolare la non trascurabile e pericolosa gestione, da parte dei colleghi penitenziari, di detenuti affetti da gravi turbe e nevrosi psichiche. Siamo fiduciosi che anche questi aspetti verranno affrontati con la stessa disponibilità dal governo, cui non faremo mai mancare il nostro supporto, essendo, noi sindacati, sempre attivi sul campo e conoscendo le problematiche reali dell’intero comparto. Noi non ci stancheremo mai di ribadirlo: continueremo a dare il nostro contributo costante e responsabile per una risoluzione tempestiva delle negatività che affrontiamo ogni giorno. Lo dobbiamo alle donne e agli uomini in divisa che non possono e non devono più essere lasciati soli, sentirsi abbandonati, in balia degli eventi. *Segretario Generale Fns Cisl Serracchiani: “Nordio? Le scelte da ministro smentiscono la sua storia ed è supino alla linea di palazzo Chigi” di Liana Milella La Repubblica, 11 aprile 2023 Il Guardasigilli Nordio? “Supino alla linea di palazzo Chigi”. Il sottosegretario Delmastro? “Un problema per la sicurezza dell’Italia”. Le detenute madri? “Da Lega e FdI una scelta demagogica”. Via la legge Severino? “La destra abbassa la guardia su corruzione ed evasione fiscale”. Nordio vuol cambiare le regole delle intercettazioni? “Non sono un’emergenza”. A tutto campo ecco la prima intervista, con Repubblica, della nuova responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani. Lei è una fustigatrice del Guardasigilli Carlo Nordio. “Il Nordio garantista è un ricordo sbiadito” ha detto appena qualche giorno fa... “Ormai è evidente a tutti che il Nordio politico è un lontanissimo parente del Nordio saggista. Le scelte di questi mesi smentiscono quel che ha proclamato per anni”. Ha notato la contraddizione? Nordio quando cita l’ex ministro Vassalli come padre del codice di procedura penale lo definisce “eroe della Resistenza”. Ma poi come fa a tacere quando Ignazio La Russa sfregia le Fosse Ardeatine? “Lasciamo stare Vassalli, maestro del diritto penale e raffinato politico, nonché padre del codice di rito accusatorio del 1988. Evidentemente, e questo non gli fa onore, il ministro non ha ritenuto di riaffermare i valori della Resistenza e della Costituzione di fronte alle indegne parole del presidente La Russa”. Sta dicendo che essere designati da Giorgia Meloni comporta “sacrifici” ideologici e l’oblio del passato? “La domanda andrebbe rivolta al ministro; quello che mi sembra evidente è che nei fatti risponda supinamente alla linea dettata a palazzo Chigi dalla presidente Meloni e dal sottosegretario Mantovano”. Perché la destra ha voluto stravolgere la proposta di legge sulle detenute madri? “È una legge di civiltà. I bambini non possono vivere e crescere in carcere, né possono rispondere delle colpe delle madri. La decisione demagogica di Lega e Fratelli d’Italia è irragionevole e disumana. Nessuno mette in dubbio che le pene debbano essere eseguite, ma questo può avvenire nelle case protette nel rispetto della Costituzione”. Eppure questo Nordio così severo con Cospito poi è del tutto morbido sull’abuso d’ufficio che addirittura vorrebbe cancellare dal codice penale. La grande battaglia sulla giustizia parte da questo reato. Accetterete di attenuarlo fino a farlo sparire? “In realtà ad oggi è oscura la posizione del governo. Nordio ha più volte detto che deve essere abrogato ma nella maggioranza sembrano esserci idee diverse. Noi rileviamo che il reato di abuso d’ufficio è stato profondamente modificato nel 2020 e per questo abbiamo chiesto in commissione alla Camera un’indagine conoscitiva per comprendere gli effetti delle modifiche fatte. Uno dei rischi è quello di legiferare in una materia così delicata sulla base di suggestioni e non di una reale con noi senza dei fenomeni”. Però proprio i vostri sindaci, come Decaro a Bari nonché dalla tribuna di presidente dell’Anci, giudicano l’abuso d’ufficio un freno al “fare”... “Siamo a fianco dei sindaci e per questo i deploriamo la strumentalizzazione del governo sul punto. Se il governo vuole davvero aiutare i sindaci, approvi le tre proposte del Pd in materia di responsabilità amministrative, contabili e penali che ridisegnano complessivamente il campo delle responsabilità. Anche questo hanno chiesto i sindaci, ma di questo non si parla”. Legge Severino, il Viminale la cancella per chi patteggia. È il segnale che dopo un codice degli appalti all’acqua di rose cade pure la Severino? “Con l’ennesima forzatura la destra abbassa la guardia sulla corruzione e la lotta all’evasione fiscale, in nome di una visione della società che assomiglia al Far west. Una visione che finirà per indebolire il Paese e aumentare le disuguaglianze”. Nel pacchetto delle riforme che, stando ai reiterati annunci, potrebbe partire tra poco c’è anche la stretta sulle intercettazioni. Lei ha già parlato di “scelte improvvide”.... “I dati dimostrano che nel nostro Paese le intercettazioni non sono certo un’emergenza. Tutt’al più si può aprire una riflessione su come assicurare la tutela della riservatezza anche con riguardo ad altre forme di intrusione nella sfera privata”. Nordio vuole la microspia Trojan solo per mafia e terrorismo, giusto quando una magistrata come la procuratrice aggiunta di Milano Laura Pedio, presentando l’inchiesta su una maxi truffa fiscale andata avanti per 20 anni in cui nessuno usava il telefono, dice che se non ci fosse stato il Trojan “saremmo rimasti solo al livello dei prestanome”... “C’è un’indagine conoscitiva al Senato, penso che anche in questo caso valga la massima di Einaudi “conoscere per deliberare”. Personalmente, credo che il Trojan vada usato con grande cautela ma nella società in cui viviamo mi pare difficile fare a meno degli strumenti di indagine tecnologica. Piuttosto, vedo la necessità di intervenire per limitare le intercettazioni a strascico”. Ha capito perché i meloniani giustizialisti seguono poi sempre la stessa linea di Berlusconi sulla giustizia? “La destra è storicamente garantista con i più forti e giustizialista con i deboli. Noi abbiamo come bussola la Costituzione che prevede garanzie fondamentali per salvaguardare i diritti di tutti”. Beh, le riforme che annuncia Nordio sono le stesse della riforma costituzionale di Angelino Alfano, separazione delle carriere, discrezionalità dell’azione penale, via il processo d’appello, magistrati con la bocca chiusa... “La giustizia penale non è il gioco dell’oca. Dobbiamo andare avanti sulla strada delle riforme avviate nella scorsa legislatura, che peraltro hanno già dato risposte, con la più rigorosa separazione delle funzioni, la razionalizzazione dell’obbligatorietà dell’azione penale e la manovra sulle impugnazioni. Ora vanno completate”. Su queste battaglie il Pd pensa di allearsi con M5S oppure di andare da solo allo scontro duro con il centrodestra? “Abbiamo sempre lavorato in questi anni cercando la più ampia condivisione con tutte le opposizioni e continueremo a farlo. Non dobbiamo avere ansia delle alleanze a tavolino nemmeno sui temi della giustizia”. Nordio assicura di non voler abrogare il reato di tortura, ma la sua distinzione tra dolo generico e dolo specifico in realtà farà affondare i processi in corso come testimonia il Garante dei detenuti Mauro Palma... “La fattispecie introdotta nel 2017 non ha affatto bisogno di modifiche. Il ministro dovrebbe ricordare che siamo in un contesto internazionale dove il reato di tortura, contrariamente a quanto proposto da Fratelli d’Italia, non può essere abrogato”. La delega da ritirare al sottosegretario meloniano Andrea Delmastro è strada una sua battaglia. Non crede di averla persa visto che lui in modo spavaldo continua a voler rappresentare il governo nelle Commissioni giustizia di Camera e Senato? “Il sottosegretario Delmastro non è un problema per i il Pd, ma per la sicurezza del Paese. Non entro nel merito del procedimento penale in cui è coinvolto, ma c’è un tema politico. Abbiamo presentato una mozione di censura per fatti molto gravi, se avesse senso delle istituzioni aspetterebbe quel passaggio parlamentare senza fare provocazioni, alle quali mi sembra invece non voglia rinunciare”. La riforma Cartabia della giustizia tributaria verso il flop: mancano i giudici di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 aprile 2023 Il bando per far transitare definitivamente 100 magistrati alla giustizia tributaria ha registrato soltanto 34 domande, e alcune potrebbero pure essere ritirate. Coperture d’organico a rischio. La riforma della giustizia tributaria rischia di partire con una clamorosa débâcle. Il provvedimento, approvato alla fine della scorsa legislatura su proposta della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha previsto la professionalizzazione dei giudici tributari, da reclutare tramite concorsi, e ha offerto la possibilità per 100 degli attuali giudici togati (ordinari, amministrativi, contabili e militari) di transitare definitivamente alla giustizia tributaria. Il bando per il transito ha registrato però soltanto 34 domande, facendo emergere anche un problema sul piano della democrazia interna. Come evidenziato nei giorni scorsi su queste pagine, infatti, la riforma ha previsto che il futuro Consiglio di presidenza della giustizia tributaria (Cpgt) comprenda anche quattro giudici eletti fra le toghe provenienti dalle altre giurisdizioni. Tra i giudici che hanno chiesto di passare al tributario, però, solo due provengono dalla giustizia militare e contabile. Essendo gli unici in corsa, i due sarebbero andati automaticamente a far parte del Cpgt. Uno di questi, per giunta, sarebbe stato Massimiliano Atelli, magistrato contabile, attualmente capo di gabinetto del ministro dello Sport, Andrea Abodi. Atelli si sarebbe quindi ritrovato a rivestire entrambi gli incarichi: sia di consigliere dell’organo deputato alla tutela dell’indipendenza dei giudici tributari, sia di collaboratore di un ministro del governo. Viste le distorsioni prodotte dalle norme, mercoledì pomeriggio in commissione Bilancio al Senato sono stati approvati due emendamenti identici proposti da Pd e Fratelli d’Italia che eliminano la quota di riserva di quattro giudici al Cpgt. Gli emendamenti recitano: “Sono eleggibili nella componente togata i soli giudici tributari e magistrati tributari che possano ultimare la consiliatura prima del collocamento a riposo”. L’eliminazione della quota di riserva, tuttavia, rischia di spingere alcuni dei (pochi) giudici che avevano scelto di transitare al tributario a rinunciare, facendo così diminuire ulteriormente la quota dei nuovi togati. Come se non bastasse, il plenum dell’attuale Cpgt è in attesa di ricevere risposta dall’Avvocatura generale dello stato su un parere, richiesto il 15 marzo scorso, sui requisiti che devono possedere i magistrati che intendono transitare alla giustizia tributaria. La nuova legge stabilisce che i magistrati provenienti dalle altre giurisdizioni non devono aver ricevuto negli ultimi cinque anni un giudizio di demerito. Il Cpgt intende sapere se il passaggio al tributario debba essere negato a chi ha subito sanzioni disciplinari, anche non ancora diventate irrevocabili. Rientrano in quest’ultima categoria alcuni magistrati coinvolti nello scandalo Palamara, come Cosimo Ferri, Gianluigi Morlini e Antonio Lepre. Dovesse prevalere la linea meno “garantista”, questi non potrebbero passare alla giustizia tributaria. A quel punto, se transitassero meno di 30 magistrati, il fallimento della riforma potrà dirsi definitivo, e a confermarlo sarebbero le scoperture d’organico nelle varie commissioni di giustizia tributaria. Un’ultima nota di colore, se così può chiamarsi: scorrendo i nomi dei magistrati che hanno chiesto di transitare al tributario ci si imbatte anche nel nome di Luigi Scimè, coinvolto nell’inchiesta sulla “giustizia svenduta” al tribunale di Trani, insieme all’ex capo della procura tranese, Carlo Maria Capristo, e il gip Michele Nardi. Tutti e tre erano stati condannati in primo grado dal tribunale di Lecce a pene molto alte con l’accusa di corruzione in atti giudiziari (dieci anni di reclusione per Savasta, quattro per Scimè, sedici anni e nove mesi per Nardi), prima che le sentenze fossero annullate e i procedimenti trasmessi per competenza territoriale a Potenza. Processo fissato in un futuro ipotetico per l’imputato fantasma di Massimiliano Peggio La Stampa, 11 aprile 2023 La legge è cavillosa per tutti. Grazie alla riforma della ex ministra Marta Cartabia arrivano adesso nei tribunali le sentenze futuribili, dedicate cioè agli imputati irreperibili. In altre parole decisioni dormienti che resusciteranno in caso di rintraccio dell’accusato. No, la fisica quantistica dello spazio-tempo in questo caso non c’entra: questione di processi sospesi, di notifiche vaganti, di procedure dal sapore bizantino, di principi solenni di giustizia ma scarsamente pratici. Qualche giorno fa la lettura di una sentenza ha scatenato non poche risate in aula. Non tanto per il contenuto della decisione, quanto per l’applicazione delle nuove norme che l’hanno fatta apparire ridicola. Il caso è banale. Abdellah, 25 anni, originario del Marocco, viene pizzicato nel 2020 all’aeroporto di Caselle con un visto abusivo. Denunciato dalla polizia di frontiera, finisce sotto processo. Ma due anni dopo non si presenta in tribunale per l’udienza e di lui si perdono le tracce. Nel frattempo però è entrata in vigore la riforma Cartabia che ha rimaneggiato alcune norme penali. Tra cui quelle che regolano i processi coni imputati irreperibili. Per non appesantire il conteggio statistico dei fascicoli pendenti, si è scelto di congelare queste cause in bilico fino a una scadenza predefinita e di riesumarle in caso di rintraccio dell’imputato. Così, il giudice Paolo Gallo, tra i primi a Torino, è stato costretto a pronunciare una sentenza che suona un po’ folle, ma non per colpa sua. Come una commedia dell’assurdo. Primo atto ci sono le notifiche. “L’imputato non è a conoscenza del processo, perché tutti gli atti sono stati notificati al difensore e l’imputato al momento dell’identificazione non è stato in grado di eleggere domicilio in Italia”. Non sa di essere sotto processo. La polizia lo ha cercato per mesi senza successo. La sua caccia dovrà continuare prima che la prescrizione non faccia calare il sipario sul suo reato. La data fatidica, comprensiva della sospensione di 64 giorni per via degli effetti della pandemia che ha paralizzato i tribunali, è stata fissata al 29 settembre 2027. Fino ad allora la sua pratica sarà dormiente: dopo, tutti i suoi guai con la giustizia italiana spariranno con un colpo di spugna. La proposta di FdI: “Carcere e daspo urbano contro gli eco-vandali che imbrattano i monumenti” di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 11 aprile 2023 Presentato un disegno di legge per frenare gli atti dimostrativi contro i monumenti. Lisei, primo firmatario: Condotte che destano allarme sociale, la maggioranza è compatta per individuare deterrenti efficaci”. Pene più severe e la sanzione amministrativa del “daspo urbano”, cioè il divieto di avvicinarsi a più di dieci metri, già sperimentato contro i tifosi violenti, contro gli “eco-vandali”: quelli cioè che imbrattano i monumenti per protesta, come i militanti di Ultima Generazione, protagonisti di diversi episodi come, recentemente, lo sversamento di liquido nero nella fontana di piazza di Spagna a Roma. Sono le due proposte contenute nella proposta di legge depositata dai senatori di Fratelli d’Italia per arginare il fenomeno del vandalismo ai danni dei monumenti. “Entrambe le misure funzionerebbero come deterrente - spiega il primo dei firmatari, Marco Lisei - nei confronti di quanti pensano di sensibilizzare sul tema del cambiamento climatico, danneggiando i nostri beni culturali”. La bozza della proposta prevede due diversi interventi normativi. Spiega Lisei: “Prima di tutto vorremmo intervenire modificando l’articolo 635 del codice penale relativo al danneggiamento. Sanzionando anche chi deturpa o imbratta il patrimonio pubblico e non più solo chi li distrugge, li deteriora o li rende inservibili, rendiamo più semplici da perseguire queste condotte”. Con la modifica, anche l’imbrattamento dei monumenti sarebbe punibile con una multa da 600 a mille euro e con la reclusione da sei mesi a tre anni. L’altro intervento riguarda il decreto legge 14 del 2017 (convertito nella legge 48/2017) che ha introdotto il cosiddetto Daspo urbano. “Vogliamo che il prefetto possa disporre anche in questi casi il divieto di avvicinamento entro dieci metri dai monumenti - spiega Lisei -, sarebbe uno strumento aggiuntivo, al di là delle pene, per provare a essere più efficaci contro questo tipo di condotte che destano allarme sociale, sono incivili e vengono disprezzate dalla maggior parte dei cittadini”. La proposta di legge, per ora promossa da FdI, secondo Lisei troverà, al momento della discussione “un’ampia convergenza tra molte forze politiche, sicuramente tutte quelle di maggioranza”. Contro i medici 30mila contenziosi ogni anno. Il 99% finisce nel nulla di Simona Musco Il Dubbio, 11 aprile 2023 In un libro i rischi della medicina difensiva: “Secondo un’indagine ministeriale, costa 10 miliardi l’anno”. A luglio del 2022 Giovanni Buccoliero è morto in corsia. D’infarto, dopo un turno durato 24 ore per coprire le carenze di organico dell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria. Aveva accumulato più di 170 giorni di ferie non godute, dimostrando una dedizione unica per il suo lavoro. Un amore incondizionato, nonostante da circa otto anni combattesse con un’accusa infamante per chi indossa un camice: omicidio colposo. Buccoliero era infatti sotto processo, per un reato che - si scoprirà solo dopo la sua morte - non aveva mai commesso. E se fosse sopravvissuto allo stress, alla fatica, lo scorso febbraio avrebbe avuto l’occasione di urlarla ad alta voce quell’innocenza che qualcuno aveva negato. Il medico era a processo a Taranto assieme ad altri tre colleghi: secondo l’accusa, i quattro avrebbero causato la morte di un settantacinquenne di Avetrana, deceduto a novembre del 2015. Per i giudici, però, “il fatto non sussiste”. Una pronuncia che nei tribunali, quando a processo ci finiscono i medici accusati di aver svolto male il proprio lavoro, non è difficile sentire. Secondo un dossier Ania - Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici - sulla responsabilità civile delle strutture sanitarie e dei medici, il numero dei contenziosi è in continua crescita, con circa 30mila casi ogni anno. A fine 2022 erano 3 milioni 829mila i casi pendenti nei tribunali. Numeri altissimi, ma il 99 per cento dei medici sotto inchiesta viene dichiarato innocente al termine delle indagini, senza dover neppure affrontare un processo. “L’esplosione del contenzioso - ha sottolineato l’ortopedico Lucio Catamo, coordinatore del Convegno dal titolo “Rivendicazione giusta e ingiusta rivendicazione” tenutosi il 29 ottobre scorso nella sede di Medinforma a Bologna - ha costi sociali elevatissimi e distrae risorse economiche dalla vera assistenza. Migliaia di medici in tutta Italia, nel timore di poter essere denunciati, applicano ormai di routine la cosiddetta “medicina difensiva”: sottoporre chiunque a tutti gli accertamenti diagnostici possibili, anche quando sono chiaramente inutili, con l’obiettivo di allontanare il rischio di possibili contenziosi legali per negligenza o superficialità. Ancor più clamoroso è l’abbandono degli ospedali da parte dei medici strutturati, soprattutto nei Pronto Soccorso, e spesso l’abbandono dell’Italia verso Paesi meno riottosi e più generosi economicamente”. Di casi la cronaca ne è zeppa. Il 7 marzo scorso, ad esempio, ad essere assolti sono stati tredici medici di Medicina e Chirurgia d’urgenza dell’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona, a Salerno, accusati per la morte di un 61enne, deceduto a luglio del 2015. Secondo la denuncia dei familiari, l’uomo non fu sottoposto alle cure più opportune dopo la diagnosi di una colecisti acuta grave. Secondo il giudice monocratico Francesco Rossini, però, Mario Memoli, Stefania Minichiello, Maria De Martino, Luigi Pecoraro, Antonio Battista, Gianluca Orio, Antonio Carrano, Pasquale Smaldone, Antonio Canero, Anna Pollio, Guido De Feo, Marcello Della Corte e Giuseppe De Nicola non avrebbero commesso il fatto. Sei giorni dopo, il 13 marzo, ad essere assolti sono stati altri sei medici imputati di omicidio colposo per la morte di una donna di 65 anni sottoposta a due interventi chirurgici. Il Gup Gelsomina Palmieri ha sancito il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste per medici della casa di cura Sant’Anna di Caserta e dell’ospedale “Fatebenefratelli” di Benevento, accusati per la morte di una donna di Caserta, avvenuta nell’ottobre del 2017 nell’ospedale beneventano. Stando ai dati del 2019, le denunce vengono presentate principalmente al Sud e nelle isole (44,5 per cento). Al Nord la percentuale scende al 32,2 per cento mentre al Centro si ferma al 23,2 per cento. Dati che impensieriscono i medici: il 78,2 per cento di loro ritiene di correre un maggiore rischio di procedimenti rispetto al passato, il 68,9 per cento pensa di avere tre probabilità su 10 di subirne; il 65,4 per cento avverte una pressione indebita nella pratica quotidiana. Proprio per tale motivo ad esultare, di fronte alla proposta di depenalizzazione avanzata nei giorni scorsi dal ministro della Salute, è il sindacato dei medici. “Si tratta di un intervento che chiediamo da tempo e che reputiamo essenziale per ridare maggiore serenità ai medici e per ridurre il ricorso alla medicina difensiva - ha affermato Guido Quici, presidente del sindacato dei medici Federazione Cimo-Fesmed -. Solo in Italia, in Polonia e in Messico l’errore medico rischia di essere sanzionato penalmente. Ora lavorare rapidamente al provvedimento in modo da superare tale singolarità”. A scrivere un libro sull’argomento era stato Pietro Bagnoli, chirurgo oncologo dell’apparato digerente, che ha raccontato la sua storia nel volume “Reato di cura” (Sperling & Kupfer), del 2016. Bagnoli nel 2009 finì sotto processo insieme alla sua équipe, altri due chirurghi e un radiologo, per la morte di una ragazza. I genitori fecero causa e i medici furono rinviati a giudizio, poi assolti in primo grado e in appello “perché il fatto non sussiste”. Una storia giudiziaria lunga quasi quattro anni, che oltre a rappresentare il racconto di accuse naufragate nel nulla evidenzia anche la deriva della sanità italiana. La medicina difensiva, infatti, “secondo un’indagine ministeriale, costa all’Italia 10 miliardi l’anno”, scrive Bagnoli. C’è quella di tipo attivo, con il medico prescrive esami “che servono, più che a saperne di più sul paziente, ad accumulare referti per contestare un’eventuale contestazione. Pezze d’appoggio, insomma. Che chiaramente fanno crescere la spesa sanitaria e i tempi d’attesa per gli altri pazienti”. E poi c’è quella “passiva”: “Il medico è portato a evitare atti terapeutici impegnativi e rischiosi. Perché se vanno bene, nessuno ti dice grazie. Se vanno male, ti portano dritto in tribunale”. Una autocensura preventiva, insomma, per evitare conseguenze. La soluzione, secondo Bagnoli, è passare a una medicina “basata sull’evidenza” che esca dall’autoreferenzialità dell’appartenenza alle “scuole”. Torino. All’Ipm giovani in “lista di attesa”, costretti in cella di isolamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 aprile 2023 Giovani costretti ad essere trattenuti in cella (creando una coabitazione forzata tra minorenni e “giovani adulti”) adibita all’isolamento sanitario per mancanza di posti disponibili della comunità di accoglienza e terapeutiche che si occupano di ospitalità, contenimento e cura. Consumo massiccio di psicofarmaci. A tutto ciò si aggiunge una carenza igienica e strutturale delle celle utilizzate per l’isolamento sanitario e disciplinare. Questo e altro ancora emerge in un capitolo del rapporto annuale redatto da Monica Cristina Gallo, garante delle persone private della libertà del comune di Torino. Nel caso specifico parliamo dell’istituto penale per i minori (IPM) “Ferrante Aporti”. Si apprende che, a partire dal mese di gennaio del 2022, la Garante e i suoi collaboratori hanno svolto frequenti visite presso l’Istituto, in occasione delle quali, oltre ad un monitoraggio di alcuni spazi della struttura, si sono dedicati allo svolgimento di colloqui individuali e di gruppo con i giovani detenuti. A seguito di alcune informazioni fornite dai ragazzi durante gli incontri, l’Ufficio garante ha provveduto ad inviare diverse segnalazioni alla Direzione del carcere minorile, chiedendo chiarimenti e, nello spirito di collaborazione che ha sempre contraddistinto il lavoro dei due enti, proponendosi per la ricerca di soluzioni alle problematiche emerse. Moltissimi ragazzi hanno segnalato la facilità con la quale gli vengono somministrati farmaci utili a calmarli e ad alleviare i sintomi dell’astinenza da sostanze. Molti giovani ristretti, infatti, hanno riferito di abusare di stupefacenti e psicofarmaci all’esterno e, una volta fatto ingresso in Istituto, hanno causato disordini in ragione degli effetti dell’astinenza. Il rapporto mette in risalto anche le utili visite dell’ufficio del Garante Nazionale delle persone private della libertà, soprattutto a seguito delle segnalazioni della Garante Gallo. Nel mese di aprile dell’anno scorso, hanno così potuto verificare le condizioni igienico - sanitarie e strutturali delle celle utilizzate per l’isolamento sanitario e disciplinare dei giovani detenuti, nonché il centro di prima accoglienza (CPA), struttura adibita ad ospitare minorenni in stato di arresto, adiacente al carcere minorile. Quanto alle prime, le camere di pernottamento, adiacenti all’infermeria, risultano nascoste alla vista, atteso che lo spazio che le ospita è di fatto separato dal corridoio di passaggio grazie ad un blindo costantemente chiuso. L’interno, angusto, è composto da una stretta anticamera, il cui pavimento, al momento della visita era ricoperto di formiche morte, da un ripostiglio in cui vengono conservati oggetti per la pulizia, e, ai lati, dalle due celle. Queste ultime, in particolare, sono risultate spoglie ed in precarie condizioni igienico - sanitarie; sono inoltre videosorvegliate 24 ore su 24, in modo tale da garantire un costante monitoraggio delle condizioni dei giovani isolati. Per quanto riguarda il CPA, invece, la struttura è parsa piuttosto fatiscente e insalubre, a causa della forte umidità presente all’interno dei suoi spazi. Altro problema è la grave mancanza di comunità di accoglienza e terapeutiche, che si occupino di ospitalità, contenimento e cura, disposte ad accogliere giovani in esecuzione penale. Il rapporto sottolinea che, a tal proposito, la direzione ha più volte sottolineato le problematiche esistenti con le comunità terapeutiche della città, per incapacità a contenere il fenomeno. A causa di ciò, gli operatori sono stati costretti a sistemare i giovani reclusi in celle predisposte per l’isolamento sanitario. Ma non solo. Il rapporto rileva che è stato necessario unire i giovani adulti ai minorenni, situazione che non si era mai presentata nei sei anni di mandato della Garante. Da questa criticità è sorto un dialogo con l’Assessora Giovanna Pentenero, delegata al carcere e con l’Assessora Carlotta Salerno delegata alle Politiche educative e giovanili, ma ad oggi la problematica non è ancora stata risolta. Milano. La denuncia dei Radicali: “A San Vittore emergenza disagio psichico” ansa.it, 11 aprile 2023 La visita nei giorni delle festività pasquali. “Un carcere in sovraffollamento” secondo la delegazione. Una delegazione del partito radicale, guidata da Simona Giannetti, ha visitato il carcere di San Vittore, come da abitudine per le festività di Pasqua. “Abbiamo trovato un carcere in cui il disagio psichico di ogni livello è la criticità principale”, dicono i radicali. “Gli psicologi sono presenti nove ore al giorno, ma per i detenuti sarebbe necessario un supporto psicologico anche di notte”. “Un carcere in sovraffollamento - scrivono i Radicali - dovuto per lo più alla perenne chiusura (per ristrutturazione) di ben due raggi, oltre che di una intera sezione di un altro raggio. Abbiamo trovato un carcere che è abitato per l’80% da detenuti che sono cittadini extracomunitari, molti dei quali con gravi problemi psichiatrici”. Una situazione difficile non solo per i detenuti: “Anche gli agenti in queste condizioni ci hanno riferito di dover far fronte giornalmente a situazioni di conflitto e disagi inaspettati, al punto da sottoporsi essi stessi ad una specifica formazione”. Roma: “Il carcere ha bisogno della società” di Cristina Formica comune-info.net, 11 aprile 2023 Da solo il carcere è un’istituzione totale che non svolge la funzione rieducativa prevista dalla Costituzione ma produce soltanto violenza. Riflessioni sul carcere oggi: un dialogo con Gabriella Stramaccioni, fino a marzo scorso Garante dei diritti delle persone private della libertà per il Comune di Roma. “Rindo Reggina Celi c’è ‘no scalino, chi nun salisce quello non è romano. Non è romano e nemmeno tresteverino”. Lo stornello romanesco attribuiva alla frequentazione con il carcere la vera romanità, che partiva dal rione popolare e povero di Trastevere, per cui delinquere era l’orgoglio e il passaggio obbligato della cittadinanza maschile romana. Da quando nel 1881 il Convento dedicato a Santa Maria di Via della Lungara 29 venne trasformato in Carcere, l’espansione della città dopo la Seconda Guerra mondiale riguardò anche gli istituti penitenziari, portando alla costruzione del Carcere di Rebibbia, nella periferia est, che dal 1972 occupa quattro istituti carcerari di cui uno femminile. Dal 2017 fino 15 marzo scorso, Gabriella Stramaccioni ha sostenuto i percorsi delle persone carcerate come Garante dei diritti delle persone private della Libertà per il Comune di Roma. Una vita da sportiva prima e da dirigente dell’UISP (Unione Italiana Sport per Tutti) poi, Gabriella conosceva il carcere sia per l’aspetto sportivo sia per la sua lunga esperienza nell’Associazione Libera. La incontriamo in una mattina primaverile, in uno storico palazzo del Centro Storico romano, per parlare della sua esperienza appena terminata. Infatti, non senza polemiche, l’incarico di Gabriella non è stato riconfermato dall’Assemblea capitolina, che le ha preferito l’attivista dei diritti umani Valentina Calderone. Ma i cinque anni di lavoro intenso e capillare, sempre dalla parte delle persone detenute anche e soprattutto durante il periodo dell’emergenza Covid, non sarà cancellato e speriamo sia portato avanti con la stessa capacità e precisione. Dall’esperienza di Gabriella Stramaccioni sono partite anche importanti denunce a cui la Procura della Repubblica di Roma ha dato seguito: l’ultima, qualche settimana fa, riguardante la morte nel 2021 di Abdel, giovane tunisino rinchiuso al CPR di Ponte Galeria e deceduto in stato di contenzione presso l’Ospedale romano San Camillo. La più nota inchiesta riguarda l’appalto di vitto e sopravvitto al Carcere di Rebibbia, forniture affidate sempre alla stessa ditta, di cui aveva fatto denuncia anche la Polizia Penitenziaria riportando un articolo del quotidiano Domani (https://www.poliziapenitenziaria.it/carceri-italiane-il-business-del-vitto-appalti-vinti-sempre-dalla-stessa-azienda-a-cifre-stracciate/); la Procura della Repubblica, su sollecitazione di Gabriella, è intervenuta nel gennaio scorso. Ma soprattutto, Gabriella in quanto Garante ha sempre denunciato i tanti, troppi suicidi nelle carceri romane e italiane, frutto di un sistema punitivo che non ha niente di sociale e di rieducazione. Che cosa hai imparato, hai capito da questa esperienza, considerando che il carcere è un possibile percorso di crescita per la società e che intorno ad esso dovrebbe migliorare se stessa? Ho capito che da solo il carcere non ce la fa, da solo è un’istituzione totale che produce soltanto violenza e cattiveria, perché non è strutturato, e secondo me non lo sarà mai se continua così, a svolgere la funzione rieducativa che l’Articolo 27 della Costituzione comunque ci indica. Il carcere per funzionare ha bisogno di tante componenti, in primo luogo della società civile e delle istituzioni a tutti i livelli, oltre che dell’associazionismo. Solo se si mettono in moto insieme questi elementi, facendo un lavoro in comune, si può fare in modo che, per esempio, il grande numero di persone che sono in carcere per quella che io definisco detenzione sociale possano avere un altro sbocco. Si parla di carcere, secondo me, troppo per il regime del 41bis, che è un problema da affrontare e sul quale ho anche le mie riflessioni, ma è un regime che riguarda solo 700 persone in tutto il paese. Abbiamo poi migliaia e migliaia di detenuti che stanno in carcere con pene al di sotto dei quattro anni, che potrebbero andare in misure alternative immediate se ci fosse un’organizzazione della società adeguata. Ci sono tantissime persone imprigionate per problemi di tossicodipendenza e che dovrebbero essere curate; ci sono persone che sono dentro per problemi di natura psichiatrica, il carcere molto spesso serve a nascondere queste persone dalla società, quando invece dovrebbero essere curate e prese in carico dai servizi psichiatrici dei loro territori. Invece questo non si realizza: ecco quello che ho verificato di persona, il carcere alla fine diventa una discarica umana, dove mandare tutto quello che la società non sa affrontare. Allora, si può pensare di avere questi numeri così alti di persone che non dovrebbero essere imprigionate? Io penso di no, per fare questo c’è bisogno di utilizzare le misure alternative, basterebbe applicare le leggi che già ci sono, già così almeno 20.000 persone sarebbero fuori dalle carceri. Bisogna mandare a casa tutte le donne che hanno figli e le donne in stato di gravidanza; si possono mandare alle misure alternative, applicando l’Articolo 21 cioè fare uscire la mattina e rientrare la sera per andare a lavoro, le persone che stanno facendo un buon percorso di miglioramento e di socializzazione all’interno del carcere, anche in presenza di pene lunghe. Tutte queste misure già esistenti, se applicate, svuoterebbero il sistema carcerario e alleggerirebbero una struttura che è veramente pesante e crea problemi a tutti coloro che ci lavorano. Non c’è solo il problema dei detenuti, ma anche di quelli che detengono: ho visto poliziotti della penitenziaria in grande difficoltà, educatori in burn out, ho visto tante situazioni di disagio che comunque il carcere provoca. C’è una carenza di personale pazzesca, faccio l’esempio di Rebibbia reclusione (dove ci sono le lunghe pene), quando sono arrivata più di cinque anni fa ho trovato 9 educatori mentre ora ce ne sono 2. Al carcere di Casal del Marmo non c’è un direttore fisso da anni, cosa che crea problemi proprio alla struttura. Ho imparato dal carcere che bisogna lavorare insieme, oltre che bisogna a volte aggirare gli ostacoli, come per i senza dimora. A Roma non si riesce ad accedere alle misure alternative perché i senza dimora non hanno il domicilio all’esterno e serve indicare al magistrato dove vanno. La maggior parte delle persone non hanno reati importanti alle spalle dovrebbero uscire, il recupero sociale si fa meglio all’esterno che in carcere. Purtroppo i posti pubblici sono pochissimi, i senza dimora non hanno la possibilità economica di provvedere a pagamento. Voglio lasciare un dato: al 31 marzo del 2022 delle persone detenute solo il 10 per cento aveva il diploma superiore, vuol dire che la maggioranza dei carcerati sono analfabeti o quasi. Questo ci interroga sull’educazione pubblica del nostro paese, ci invita a lavorare sulla dispersione scolastica. Non dico che chi non va a scuola va a finire in carcere, direi un’assurdità, però è chiaro che la mancanza di studio possa aiutare alla degenerazione di alcuni fenomeni, soprattutto in alcuni territori. Ti vorrei chiedere di ricordarci il costo del carcere, almeno nel Comune di Roma. Tu hai portato in evidenza il problema degli appalti e del sopravvitto, ora sotto inchiesta della Procura di Roma.. Ogni giorno, a persona, il carcere costa allo Stato 200 euro, ma sul vitto si spende 2,39 euro; c’è qualcosa che non funziona, spiegatemi il resto dove va. Poi non tutti sanno che ogni detenuto paga allo Stato ogni fine mese 120 euro per vitto e alloggio, e chi non riesce a pagare questa cifra direttamente in carcere, esce con il debito di giustizia. Si esce dal carcere per esempio accumulando il debito di quattro anni per 120 euro al mese e lo devo restituire: questo è il motivo per cui molti ex carcerati non hanno contratti regolari sennò viene prelevato il loro debito di giustizia. Su questo andrebbe fatta un’operazione di verità, perché inficiare ulteriormente la loro possibilità di riscatto, ci vorrebbe meno ipocrisia e guardare i problemi per quello che sono. I costi del carcere sono elevatissimi, ogni volta che sento parlare di sovraffollamento non sento mai affrontarlo seriamente, la risposta generale è costruire nuove carceri, ma sulla costruzione di nuove carceri, così come sulla questione del vitto e sopravvitto, si sono fatti grandi affari in questo paese, tutti secretati e tutti gestiti sempre dai soliti noti. Per il vitto e il sopravvitto è così da novant’anni, una gestione diciamo opaca all’interno degli Istituti. Provenendo da Libera e conoscendo il contesto corruttivo, l’anomalia mi è subito saltata agli occhi: solo a me è sembrata una situazione anomala? Spero che questa indagine che ho portato avanti e che mi è costata la riconferma possa almeno far venire alla luce uno spaccato che la dice lunga sul nostro sistema penitenziario. Vorrei parlare del tema della carriera deviante, forse non così lontano dalla vita delle persone; lo spauracchio della carcerazione, la legge usata in termini sociali per risolvere conflitti, forse non è lontana da ciascuno di noi... In questo paese c’è troppo penale e poco sociale, abbiamo troppe leggi penali che portano direttamente al carcere. Ogni problema lo risolviamo con la legge sul carcere, l’abbiamo visto con la legge sulle droghe, con la legge sull’immigrazione: è diventato reato arrivare in Italia. Bisogna andare verso una maggiore depenalizzazione per evitare altre penalità: il carcere è il luogo dell’addestramento della criminalità. Arrivano alla carcerazione persone che non sono strutturate dal punto di vista personale, l’ho visto magari con i giovani per problemi di droghe, che in carcere hanno maggiori probabilità di entrare in contatto con strutture più corpose da un punto di vista criminale. Io ho visto tante di queste situazioni, per assurdo stiamo fornendo manodopera alla criminalità; se esci dal carcere con la fedina penale intaccata, hai un marchio che ti pregiudica la ripresa in un mondo normale. Si esce dal carcere con un debito di giustizia che inficia il percorso sociale. Il carcere viene agito, a livello immaginario, come la soluzione dei reati, soprattutto quelli gravi per l’opinione pubblica come la pedofilia, la mafia, la violenza alle donne; poi le statistiche dicono che i reati sono tutti in diminuzione da molti anni, tranne la violenza alle donne, che non si vuole affrontare come questione culturale. Il mostro in prima pagina è sempre importante: come si diventa il mostro? Mi è capito di incontrare detenuti consapevoli di essere casi mediatici, uno addirittura me l’ha detto: “io sono un caso mediatico”. Io ho visto che la maggior parte di queste devianze scaturisce dall’abuso delle droghe, c’è un problema molto forte che è sottovalutato nella nostra città dove gira tanta droga, tante sostanze che annebbiano il cervello. Un afflusso di sostanze che viene poco analizzato, nel momento che trovi un contrasto alle droghe ne viene fuori un’altra. Un caso recente è il pazzo che ha ucciso le tre prostitute: era completamente fatto, non aveva più il controllo di se stesso e non poteva più controllare i propri istinti, soprattutto se ci sono delle armi è pericoloso. Stiamo andando verso il possesso individuale di armi, l’arma diventa uno strumento di difesa e potremmo arrivare forse come gli Stati Uniti, dove ognuno va a comprarsi la pistola che vuole e se la porta dietro, il momento di sballo ti capita e spari a chi ti pesta il piede. Questa carriera deviante rischiamo che venga alimentata dalla cultura attuale: si parla poco di prevenzione, si parla poco di pace, di mediazione penale, di conflitti gestiti con le dovute cautele. Ci sono troppo elementi che non sono sotto controllo in questa società e stanno diventando sempre più pericolosi. Sta iniziando lo spirito emulativo: il tirare l’acido in faccia alle donne che sembrava una cosa assurda, conosco la persona che per prima ha iniziato questa pratica, ora sembra quasi una moda. Le baby gang fanno emulazioni da giovanissimi che sta prendendo la testa delle persone; se non c’è una buona base culturale, non sei strutturato e se non capisci a cosa vai incontro… Io dico che è meglio che il carcere lo conoscano tutti all’esterno, sono una fautrice delle scuole in carcere, gli studenti devono venire in carcere e parlare con i detenuti, deve essere un luogo aperto, per conoscere quel mondo e capire come ci si può arrivare in maniera semplice e non controllata. Pochi lo sanno ma quando qualcuno non detenuto entra per qualche motivo in carcere deve lasciare tutte le sue cose, anche i fazzoletti. In carcere non sei una persona, non porti dentro niente di te... Sì, in carcere non sei una persona, si assiste a una progressiva infantilizzazione del detenuto: deve fare la domandina, deve chiedere tutto in ino. Vai ancora avanti con i pizzini, in carcere non si usa il computer, si deve sempre scrivere egregio, ossequi, eccetera. Non puoi mai dire una cosa per come è, tutto è ovattato e reso in un linguaggio infantile, il carcere crea una regressione anche dal punto di vista culturale, se non c’è un intervento esterno questi fenomeni proseguono. In carcere quasi nessuno ti guarda negli occhi, c’è il timore di incontrare lo sguardo, hai paura e stai in uno stato di difficoltà esistenziale. È stato esemplificativo il periodo del covid, io sono entrata tutti i giorni e c’ero solo io e il prete, ho visto il carcere vuoto, silenzioso, dove non esiste relazione. Era un girone infernale, dove impazzire è la prima cosa che ti viene, perché non ce la fai a sostenere quel tipo di claustrofobia all’infinito. Per questo stanno aumentando i suicidi, perché nella privazione della libertà e di contatti con l’esterno, di mancanza di futuro, la depressione prende. Ogni volta che sono uscita dal carcere di Regina Coeli avevo il magone, sono uscita molto provata nell’incontrare lì, tutti i giorni, il dolore. Penso di aver fatto il massimo di quello che potevo sostenere anche dal punto di vista psicologico. Una storia che ti è rimasta, emblematica del percorso della persona, qual è? Inoltre, sappiamo pure che chi ha mezzi economici il carcere può anche evitarlo... Non sempre, ma sei hai avvocati buoni ti possono permettere di uscire in poco tempo, magari ti trovano il domicilio, il contratto di lavoro, diciamo che sei facilitato rispetto a chi ha l’avvocato d’ufficio, queste cose capitano con molte più difficoltà. Ci sono tante storie da raccontare, mi ha impressionato la storia della ragazza che ha ucciso i due bambini (Alice Sebesta il 18/09/2018 nel Carcere di Rebibbia) a Rebibbia: lei era stata fermata in macchina con un nigeriano, nei pannolini dei 2 bambini piccoli hanno trovato un grosso quantitativo di droga, hanno arrestato lei e portato in carcere lei e i figli, non quello che li accompagnava, dato che la ragazza dichiarò che la droga l’aveva portata lei. Era chiaro che le dichiarazioni fatte erano strumentali, chiunque ci sarebbe potuto arrivare tranquillamente che forse non era colpa solo sua. Lì c’è stato un errore, secondo me, anche da parte della sua difesa, che le ha fissato il domicilio presso un ragazzo nigeriano a Napoli. Lei era terrorizzata dal nigeriano perché aveva ricevuto minacce per i figli, le avevano detto che se non faceva quello che le dicevano avrebbero fatto fare una brutta fine ai bambini, li avrebbero utilizzati per i riti vodoo, e questa donna non ha retto. La mattina che ha deciso di far questo omicidio, con un lenzuolo ha fatto una croce, come se si fosse preparata mentalmente. Per lei l’uccisione dei suoi figli è stata un gesto di liberazione. Una cosa così drammatica credo non si sia mai verificata a livello mondiale. Poi si è venuto a dimostrare che quelli che l’accompagnavano erano dei grandi trafficanti di droga e che lei trasportava droga per loro, alla fine lei era una vittima di tratta, ne ho incontrate tante di donne così. Le donne sono il 4 per cento della detenzione, hanno delle caratteristiche criminali molto residuali rispetto agli uomini. Questo ci dovrebbe interessare per una valutazione generale, mi sembra che solo una donna sia al regime 41bis e pochissime in alta sicurezza; la maggior parte delle donne che hanno commesso reati l’hanno fatto per mariti e figli, per i contesti familiari, in genere sono reati legati a frodi fiscali o droga; la maggior parte delle donne sudamericane vengono utilizzate come corrieri della droga, sono donne molto giovani. La detenzione femminile andrebbe secondo me analizzata diversamente, andrebbe accompagnata diversamente perché ha meno pericolosità sociale. Le donne difficilmente usano armi, difficilmente compiono omicidi se non per difesa. La violenza è una questione di genere maschile. Leggevo una ricerca sul fatto che invitava a riflettere che i crimini sono perlopiù commessi da uomini... Il 4 per cento è il dato della detenzione femminile, appunto, rispetto a quella maschile. Ci sono quattro carceri femminili a livello nazionale, solo per donne, a Roma, Venezia, Pozzuoli e Trani. Poi ci sono altri tredici istituti in cui la parte femminile è all’interno del carcere maschile, come Civitavecchia e Latina, e questo comporta tutta una serie di privazioni e limitazioni perché il carcere femminile è pensato con una serie di servizi e strumenti, come Rebibbia femminile, mentre il carcere femminile all’interno del carcere maschile è una sezione e come tale manca sempre di qualcosa, ad esempio una cosa che può sembrare una stupidaggine: non c’è il bidet, cosa che invece la legge prevedrebbe, e sappiamo come è importante per l’igiene intima femminile poter utilizzare anche il bidet. Anche perché fare una doccia in carcere non è una cosa serena… No, non è una cosa serena, non c’è l’acqua, oppure non c’è l’acqua potabile o l’acqua calda, ad esempio ora a Rebibbia nella maggior parte de padiglioni non c’è l’acqua calda. Quello che a noi fuori sembra normale, in carcere non è normale, non c’è nulla di normale. Devi cambiare completamente abitudini, anche per quello che è elementare: poter bere l’acqua dal rubinetto non lo puoi fare. Non si possono portare forbicette, pinzette. Anche la morte non è normale, la maggior parte dei suicidi avviene per impiccagione o con i fornelletti del gas. Non si possono usare le piastre elettriche per motivi di sicurezza, quindi i fornelletti a gas sono usati anche per suicidarsi. L’ultima domanda che ti vorrei fare è sui bambini e le bambine in carcere: cosa succede quando una donna ha dei bambini piccoli? I minori possono stare in carcere figli fino a quattro anni. Quando ho iniziato questo lavoro c’erano 18 minori a Rebibbia femminile, oggi ce ne sono 2, tra l’altro figli di ragazze Rom. Dobbiamo affrontare la questione dei bambini in carcere partendo dalla questione Rom, altrimenti non ne veniamo fuori. La maggior parte delle mamme che entrano in carcere con i bambini, il 95 per cento, sono donne Rom. Molte di loro sono donne che fanno molti figli anche per evitare il carcere, come faceva Sophia Loren nel film Ieri oggi domani di Vittorio De Sica. L’ultima per cui abbiamo avuto problemi a trovare la locazione in comunità ha dieci figli, questa donna ha un fine pena nel 2047, con tutti i furti arriva a una pena pazzesca. Il loro problema è fondamentalmente la mancanza di residenza esterna, mentre per le italiane e altre si riesce ad attivare le misure alternative al carcere, ad esempio con La Casa di Leda abbiamo risolto moltissimo, anche perché il magistrato di sorveglianza del carcere femminile ha lavorato proprio perché nessun bambino crescesse in carcere, e con lui mi sono trovata benissimo: ogni volta che arriva una mamma lui subito trova la misura alternativa. Addirittura ha autorizzato una donna a scontare la pena in un campo Rom, poi mi ha mandato a verificare come andava. Il problema lo abbiamo quando queste donne hanno lunghe pene e vanno in comunità ed evadono. Alla seconda, terza evasione, il magistrato non ti riconosce più la misura alternativa, è un problema grosso secondo me, non di facile risoluzione. La legge Siani, che prevede che automaticamente non entri proprio in carcere in presenza di figli piccoli, potrebbe aiutare, ma non permette di capire quella che è la situazione delle donne Rom e dei loro bambini. La maggior parte dei furti sono fatti dalle ragazze, a partire dal contesto familiare. Mi è capitato un caso per cui mi vengono ancora i brividi, una ragazza con due figli nati ciechi, perché il marito era in carcere, lei per non finire in carcere si è fatta mettere incinta dal fratello e dal cugino: una storia di violenza senza precedenti, questi due bambini sono nati ciechi. Io conoscevo un ragazzo Rom che, colto in fragrante durante un furto, è stato buttato di sotto da una impalcatura, dal quarto piano, si è salvato dopo un periodo di coma. Poi conosco un uomo Rom al quale hanno tagliato la gamba in carcere ma non è stato un intervento fatto bene da un punto sanitario... Probabile, la sanità in carcere è un problema, vengono annullate continuamente le visite mediche all’esterno, mancano le scorte per portare fuori i detenuti, questa è l’ultima segnalazione che ho portato all’attenzione della Presidente del Tribunale di Sorveglianza. Però voglio fare un’ultima considerazione: alla situazione attuale, a condizioni economiche attuali, agli stanziamenti attuali, rispetto alla legge attuale, si potrebbe fare molto di più. Si potrebbero ottenere maggiori risultati, c’è proprio un problema di sciatteria istituzionale, di mancanza di controllo. Io penso che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sia uno dei peggiori dipartimenti, ha un turn-over che è troppo eccessivo, io ho incontrati cinque capi dipartimento in cinque anni, è un cambiamento eccessivo che non permette un’organizzazione concreta. La mancanza di personale è cronica, la mancanza di direttori è cronica: c’è un problema di dipartimento che non ha in mano la situazione. Contano le carriere personali, dove un capo dipartimento del DAP è equiparato al capo della Polizia e prende lo stipendio più alto pagato dallo Stato. Io non posso più sentire capi dipartimento DAP che devono ancora imparare, che devono capire, con 400.000 euro devi arrivare che hai già capito e con delle soluzioni. È la più alta indennità dello Stato, devi arrivare preparato. Un’immagine positiva che esce dalla tua esperienza quale è stata? L’università: Perrone che ha preso la quarta Laurea, un signore che è entrato in carcere per un reato mafioso, un uomo completamente cambiato a cui ancora non hanno dato il permesso di uscire. È un uomo colto e non è più la stessa persona di prima; ne ho incontrati tanti, in coloro che hanno studiato in carcere ho visto un cambiamento radicale, su questi la magistratura di sorveglianza dovrebbe interrogarsi e non applicare la legge così come è schematica, ma incontrare la persona ora e vedere il cambiamento. Sono passati trent’anni dal suo crimine, Perrone ha rotto qualsiasi collegamento, ora ha una moglie, ha fatto un figlio con la fecondazione artificiale, è un’altra persona. Ha preso quattro lauree, diciamo che qualche base ora ce l’ha. Possiamo dire che c’è quasi una vendetta istituzionale dello Stato? Sì, perché è più facile, comporta meno lavoro, è più facile usare la vendetta che il recupero, io dico sempre: più sociale e meno penale. Brescia. Casoncelli a Cospito, la provocazione del sindaco di Pontoglio crea un caso di Manuel Colosio Corriere della Sera, 11 aprile 2023 Sul post intervengono la Garante dei detenuti, Luisa Rovagnani e il criminologo Carlo Alberto Romano: “Non si scherzi con la vita umana”. Arriva a stretto giro di posta la replica al sindaco di Pontoglio Alessandro Pozzi, autore nei giorni scorsi di un post sui social in cui annuncia di voler inviare mezzo chilo di casoncelli ad Alfredo Cospito, il detenuto anarchico che ha deciso di allentare lo sciopero della fame iniziato il 20 ottobre scorso contro il regime di 41bis al quale è sottoposto. Alla provocazione del primo cittadino la risposta giunge da due noti giuristi e docenti universitari bresciani: la Garante dei diritti delle persone private di libertà del Comune di Brescia Luisa Ravagnani e il criminologo Carlo Alberto Romano, entrambi profondi conoscitori del tema carcerario e detentivo. “Affrontare la questione con frasi superficiali, provocatorie e frettolose non è rispettoso della vita umana e non giova nemmeno alle vittime, che devono convivere con questioni molto più complesse rispetto a quelle che vengono espresse in certi commenti pubblici - afferma Ravagnani secondo la quale il 41bis - meriterebbe una discussione ben più approfondita e sviluppata partendo dalla conoscenza dei diritti umani e in modo che possa realizzarsi un bilanciamento tra pena ed esigenze di tutti. Rispondere al male con il male non costruisce società più sicure, come è noto agli studiosi del metodo riparativo e come si vede negli Stati Uniti, dove esistono sistemi terribili e molto simili al 41bis italiano che non sono in grado di aumentare la sicurezza nel paese”. Rispetto quindi all’augurio fatto da Pozzi che Cospito possa passare “una lunga vita al 41bis per provare a ragionare sul male che ha provocato” la garante e titolare del corso di studi in “giustizia riparativa” all’Università di Brescia afferma come sia “tempo vuoto e perso pensare che la segregazione possa essere un modo per far riflettere sui propri errori. Il cambiamento, come studi condotti in mezzo mondo dimostrano, ha bisogno di elementi molto più complessi per realizzarsi. Tra questi sicuramente c’è la predisposizione personale al cambiamento, che però è strettamente collegata alla possibilità di costruire relazioni umane positive e che favoriscano l’allontanamento dal crimine. Su questo si può dire che il regime del 41bis fallisce in partenza”. Un commento meno tecnico e decisamente più politico giunge da Carlo Alberto Romano, che attacca il primo cittadino di Pontoglio eletto nelle fila del centrodestra e vicino alla Lega suggerendo “grande cautela nell’affrontare certi argomenti, oltre che un po’ di memoria storica in modo da ricordarsi come furono vittime di uno sciopero della fame anche detenuti che non avevano, probabilmente, idee così dissimili da chi si rende protagonista di malaugurate boutade come questa: mi riferisco a Bobby Sands, militante dell’Ira, che diede la propria vita conducendo uno sciopero della fame nel carcere di Long Cash in nome dell’indipendentismo e contro il regime unionista. Questo sindaco avrebbe mandato i casoncelli anche a lui?” domanda il criminologo bresciano. Modena. Garante dei detenuti, al via le candidature Il Resto del Carlino, 11 aprile 2023 Si è aperta la fase di raccolta delle candidature per la nomina a Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Modena. La figura opererà per i diritti dei detenuti e in genere per chi è privato o limitato nella libertà personale. L’avviso per la presentazione delle candidature è pubblicato sul sito del Comune da cui è possibile scaricare anche il fac-simile della domanda. Alla carica è preposto un cittadino italiano con comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani o nel campo delle attività socio-sanitarie negli Istituti di prevenzione e pena e nei Servizi sociali, oltre che con esperienze acquisite nella tutela dei minori. Possono presentare domanda coloro che non si trovino in una delle situazioni di incandidabilità, ineleggibilità, incompatibilità previste per la carica di consigliere comunale e che non siano stati condannati per un reato contro la Pubblica amministrazione. I candidati non dovranno, inoltre, essere membri del Governo o del Parlamento, presidenti di Regione, sindaci, consiglieri, assessori. Non possono essere candidati coloro chi svolge la professione forense o qualsiasi attività lavorativa da cui possa derivare un conflitto di interessi; in particolare, l’incarico è incompatibile con un rapporto di lavoro subordinato con le amministrazioni soggette a controllo o vigilanza nell’esercizio del mandato. La domanda, accompagnata da curriculum, va inoltrata entro le ore 12 di lunedì 8 maggio, al presidente del Consiglio comunale tramite posta elettronica (presidente.consiglio@cert.comune.modena.it), a mano o tramite raccomandata AR all’Ufficio Protocollo del Comune. Il Garante rimarrà in carica cinque anni e potrà essere rieletto per una sola volta. La carica è a titolo gratuito e al Garante, per la durata dell’incarico, spetta il rimborso delle spese di missione. Catania. “La maschera di Tespi”, convegno sulle pratiche di teatro in carcere Ristretti Orizzonti, 11 aprile 2023 A Catania, per la prima volta, si mettono a confronto associazioni e compagnie che praticano laboratori teatrali in carcere. Mercoledì 19 aprile, a Catania, avrà luogo l’evento “La maschera di Tespi - Convegno sulle pratiche di teatro in carcere”. Si tratta di una tavola rotonda che per la prima volta unisce e mette a confronto le realtà delle strutture detentive per minorenni della Sicilia, le compagnie e le associazioni che attualmente vi svolgono laboratori teatrali. Nell’ambito dell’evento, che è riservato agli operatori che fanno parte di enti che operano nel sociale, sono previsti interventi delle diverse dirigenze degli Istituti Penali per Minorenni della regione, educatori, studiosi di teatro e gli attori/operatori/registi che svolgono i laboratori in carcere. Si tratta, dunque, di un tavolo di lavoro volto a rafforzare la validità dei progetti attraverso il confronto e la rete, un’occasione unica per fare il punto su questa importante attività riabilitativa. L’iniziativa è organizzata dall’associazione La Poltrona Rossa e con l’aiuto della dirigenza dell’Istituto Penale per Minorenni Bicocca di Catania. L’evento è inserito all’interno del calendario degli incontri che celebrano la X Edizione Della Giornata Nazionale Del Teatro In Carcere, Promossa dal Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere in accordo con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Quest’anno il programma prevede un mese di eventi in tutta Italia e a Catania, La Poltrona Rossa che fa parte del Coordinamento, ha risposto all’appello organizzando la conferenza presso gli spazi messi a disposizione dalla Biblioteca Comunale V. Bellini. “Il convegno La maschera di Tespi - dice Ivana Parisi presidente dell’associazione La Poltrona Rossa - è stato accolto con entusiasmo dalla dirigenza dell’Istituto Penale per Minorenni Bicocca di Catania, Letizia Bellelli e Maria Randazzo che si sono messe a completa disposizione per contribuire alla realizzazione dell’evento. È questa un’occasione per fermare il tempo e riflettere sui benefici prodotti da attività teatrali in contesti come questi. Le pratiche teatrali offrono la possibilità ai nostri ragazzi di pensare alla propria condizione e rimandano alla proiezione del sé verso una vita altra. Teatro è dunque la riflessione sulla condizione umana, una risorsa e una forma di trasformazione degli attori partecipanti. Teatro è anche alfabetizzazione e scolarizzazione e quindi un’occasione per chi è rimasto indietro con gli studi e cerca di prepararsi al mondo fuori. Questo lo sanno bene tutti coloro che in prima fila lavorano silenziosamente dentro questi contesti difficili. Parlo appunto di tutto il personale interno delle strutture detentive, delle direzioni, degli educatori, degli insegnanti, degli operatori e del personale di polizia penitenziaria”. L’associazione La Poltrona, Rossa dal 2017 realizza laboratori teatrali, artistici e creativi presso l’Istituto Penale per Minorenni Bicocca di Catania. L’iniziativa fa parte del progetto Catarsi ed è reso possibile grazie ai Fondi Otto per Mille della Chiesa Battista. L’evento formativo in presenza avrà luogo a Catania il 19 aprile 2023 dalle 9:30 alle 12:30 presso la Biblioteca Comunale V. Bellini, in via Spagnolo 17. L’incontro prevede la prenotazione obbligatoria ed è rivolto ad associazioni ed enti che operano nel terzo settore. Per prenotare è necessario inviare il nominativo e l’Ente di appartenenza all’indirizzo info@lapoltronarossa.it entro l’11 aprile 2023. Per info Ivana Parisi: 3400760481. “Mare Fuori racconta dolore e riscatto, a me piace” parla il direttore del carcere di Nisida di Pierluigi Frattasi fanpage.it, 11 aprile 2023 Il direttore dell’Ipm di Nisida, Gianluca Guida: “Mare fuori non è una docu-fiction, ma una fiction. Racconta storie intense”. “A me Mare fuori piace, perché è un teen drama che racconta con forza storie e dinamiche di dolore e di riscatto proprie di certa adolescenza (e credo sia esattamente questo il motivo del suo meritato successo). È evidente a tutti che non è una docufiction e che non vuole raccontare il carcere minorile. Parliamo di una fiction”. Ne è convinto Gianluca Guida, direttore dell’Istituto Penale per i Minorenni di Nisida, al quale è ispirata la serie di successo, prodotta da Rai Fiction e Picomedia. Il dirigente del Ministero della Giustizia interviene dopo l’intervista rilasciata a Fanpage.it dalla giovane Dragana, oggi lavoratrice di una cooperativa, libera e consapevole, la quale da minorenne era stata all’Ipm di Nisida. “Sono felice per la donna che Dragana è diventata” - Molti mi chiedono se sono a disagio per l’intervista rilasciata dalla giovane Dragana. No. Ho conosciuto Dragana quando è entrata a Nisida, ne ho seguito i percorsi di riscatto e di crescita, che ha fatto con noi e dopo di noi; sono felice per lei, per la donna che lei è oggi. Sono dispiaciuto per ciò che il suo pensiero, così come riportato dalla testata giornalistica e condiviso da alcuni, esprime. La paura che se il carcere non viene raccontato per i suoi aspetti negativi, che sicuramente la privazione della libertà porta con sé, non esprima più la sua efficacia deterrente. Come a dire che se nel carcere minorile i ragazzi e le ragazze possono avere delle opportunità, interagire con personale in grado di costruire relazioni empatiche e con una amministrazione che sa essere altro dalla burocrazia, tutto questo incentivi i ragazzi a delinquere. Poi, Guida aggiunge: “Ribadisco che a me “Mare fuori” piace perché è un teen drama che racconta con forza storie e dinamiche di dolore e di riscatto proprie di certa adolescenza (e credo sia esattamente questo il motivo del suo meritato successo). È evidente a tutti (tranne ad alcuni) che non è una docufiction e che non vuole raccontare il carcere minorile. Premesso quindi che parliamo di una fiction, veramente pensate che il numero di credenti sia aumentato grazie a personaggi forti e simpatici come i protagonisti di don Matteo o di che dio ci aiuti, o che la criminalità sia cresciuta perché Carabinieri e Polizia siano sempre raccontati come eroi buoni dal volto umano? È evidente a tutti che tanti prodotti TV e cinematografici che fino ad ora hanno raccontato il carcere come dolore, sofferenza, prevaricazione non hanno certo inciso sulla funzione general preventiva o dissuasiva della pena. Eppure difronte a quel modo, non corretto e spesso lesivo della professionalità di chi in carcere ci lavora, di raccontare la pena non ho sentito analoghe critiche analisi”. E conclude: “Mi consola osservare che questi temi siano un assillo solo di alcuni adulti, mentre i ragazzi hanno saputo cogliere la verità di storie intense e forse amano Rosa Ricci perché è una ragazza oppressa dalla cultura familiare che trova il suo riscatto in un sentimento vero, Carmine perché ha la forza di dire NO, cardiotrap perché vive intensamente i suoi sentimenti, ed il comandante Massimo e la direttrice perché sono adulti che non si voltano dall’altra parte e si sporcano le mani nel cercare soluzioni ai bisogni degli altri. Come talvolta succede nella vita vera!”. Fran e l’origine del male. “Titanio” di Stefano Bonazzi, per Polidoro edizioni recensione di Carlo Crosato Il Manifesto, 11 aprile 2023 Nel quartiere abbandonato “la Ciambella”, i palazzi sono cumuli di piani collassati uno sull’altro e muffa che risale dalle cantine ai piani più alti; i piani abitati hanno acqua corrente, ma manca l’elettricità che gli occupanti generano con rumorosissimi motori diesel. Qui abita Fran, figlio di una coppia di tossicodipendenti, oggetto privilegiato dei loro abusi. La sua infanzia è finita presto, fra le sigarette e le droghe che gli stessi genitori procurano. In quel quartiere vige la legge del più forte e si diventa adulti appena le gambe sono abbastanza lunghe da raggiungere i pedali di un’auto. Stefano Bonazzi, nel suo Titanio (Polidoro edizioni, pp. 260, euro 15) riporta la conversazione tra Fran e l’educatore del riformatorio in cui è rinchiuso, abbandonato una seconda volta. Il protagonista racconta della sua vita in un palazzo decrepito, ai piani superiori del quale si rifugia, fra la muffa e le macerie, leggendo libri o inventando giochi e feste, unica evasione infantile da una famiglia di sbandati. La sua è la storia di una formazione alla bestialità, nella pura abiezione dell’ambiente urbano e familiare che conduce dal degrado al “resort del crimine”, il riformatorio. “Con Fran era come camminare su un campo minato. Mettevi il piede nel punto sbagliato e l’unica cosa che potevi fare era restare immobile, rilassarti e trovare un peso per illudere l’innesco”. Non c’è scienza medica o psichiatrica che possa far piena chiarezza sulle sue condizioni mentali: rimangono solo le parole limpide, dettagliate e rigorose con cui Fran ripercorre il suo crimine in ogni sua tappa, confessando con precisione il proprio delitto. Nel racconto plurivoco di Fran, Bonazzi restituisce l’innocenza di un’infanzia trattenuta a brandelli; ma anche quel male cui è così “semplice” accedere, poiché è la funesta normalità cui si è stati educati. Un male con il quale si finisce per identificarsi: un male protettivo, che si finisce per non riconoscere più, rinserrati in un contesto familiare ragione del bene e del giusto di contro al vero male, quello che c’è fuori, oltre il confine di quel quartiere di bestie. Titanio ci costringe a interrogarci sull’origine del male, se si nasca inghiottiti dalle sue fauci o se a esso si sia educati, e su come rispondere di quello che si compie: oltre il facile manicheismo, entro quali parametri è tale o almeno riconoscibile come tale? Entro quali condizioni di degrado la mostruosità, l’abuso, la violenza diventano pura normalità, la matrice a partire dalla quale leggere il mondo? Gli educatori che ci servono di Don Antonio Mazzi Corriere della Sera, 11 aprile 2023 Il maestro dovrebbe essere quello che traccia sentieri nei fatti e non sui banchi dell’università o, meglio, nemmeno su quelli. Credo che mai come in questo periodo, l’urgente richiesta delle nostre comunità di trovare qualche educatore disponibile a intervenire per darci una mano, sia stata così quaresimale. Tutti andiamo leggendo e dicendo che l’impegno è molto serio e che le nuove tipologie di dipendenza sono non solo impegnative, ma soprattutto molto difficili da interpretare e da coniugare. Non voglio accusare, ma solo rilevare che anche le stesse università non si sono adeguate e aggiornate. L’iter formativo fino a tempo fa sufficientemente valido ed efficace, oggi non risponde più e, oserei dire, che quasi scontenta gli stessi frequentatori dei corsi. Quando ai tempi dicevamo che l’educatore è solo colui che è più avanti provvisoriamente e non quello stabilmente più su e tanto meno quello arrivato in cima e che poteva guardare il panorama dall’alto in basso, pensavamo di aver fotografato bene la situazione. Invece, oggi, abbiamo capito che siamo tutti in cammino sulle stesse lunghezze, tra sentieri accidentati, segnalati male, e che costringono tutti, educatori ed educati, allo stato di viandanti, a salire verso l’inesplorato, desiderosi di trovare sentieri meno accidentati. Dante faceva dire a Virgilio: “Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte”. Non è più così. Anche il lampadiere ha la lampada spenta. Abbiamo perso il lume. Vorremmo che fosse l’allievo che, vistoci stanchi, prendesse il lume per fare lui stesso da battistrada. L’educazione è un tortuoso impasto di bene e di male. Siamo camminati dalla storia invece che camminatori nella storia. Perciò è chiaro quanto sarà sempre più difficile trovare aiuti quando noi stessi stiamo perdendo luce e forza. Non voglio dilungarmi in linguaggi accademici. Voglio solo dire a me stesso, mentre sto perdendo il sonno, che questo problema non si risolve lasciando liberi i sabati, evitando le notti in bianco e osservando i tempi sindacali. Il problema è ben più pesante e ci coinvolge tutti. È preoccupante pensare alle orme che segnano cammini capaci di intersecarsi, di incontrarsi, di scontrarsi, di intrecciarsi, di separarsi, di riunirsi. Ho tanta paura che non troviamo nessuno che venga a darci una mano, perché ci siamo ingrippati, anche noi. Il mestiere dell’educatore dovrebbe essere quello che traccia sentieri nei fatti e non sui banchi dell’università, o meglio, nemmeno su quelli. È facile scarabocchiare le pagine del block-notes e un po’ meno scarabocchiare i pomeriggi delle giornate in comunità. Non è sufficiente citare quattro specialisti e tanto meno è sufficiente perdersi tra le note dei grossi volumi. Lasciamo ad altri scalare la scienza, la psicopedagogia. A noi, invece, cercare le orme appena segnate tra un sasso e l’altro, tra un incrocio e l’altro. Gandhi diceva: “Sii tu il cambiamento che vuoi vedere negli altri”. Il potenziale che abbiamo dentro dove è finito? Ed è questo che ci può aiutare a trovare alleanze. Perché dentro abbiamo un potenziale che da solo può agevolare noi per fare meglio il nostro mestiere e affascinare altri a venire a cambiarlo con noi. Solo il nostro cambiamento apre le porte a chi vuole cambiare con noi. Dobbiamo muoverci sincronicamente e insieme domandarci se oltre al coordinamento c’è una vera ricchezza umana e relazionale di alta qualità. Ed è in questo momento che ci dobbiamo domandare quale è la qualità dei miei desideri, delle mie aspirazioni e delle mie ispirazioni. La nostra identità non è statica ma dinamica e cioè libera delle nebulose delle nostre incertezze e delle nostre timidezze. La nostra più vera identità è data dalla speranza. Mi godo pensare che secondo Isidoro “spes” viene da “pes”, piede. La speranza è ciò che fa camminare nella vita. Senza speranza non camminiamo né noi e tanto meno quelli che dovrebbero venire ad aiutarci. Scuola. “Il re è nudo: la meritocrazia serve a giustificare le disuguaglianze” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 11 aprile 2023 Intervista a Davide Borrelli, sociologo all’università Suor Orsola Benincasa di Napoli: “Come nella favola di Andersen oggi sono in pochi ad avere il coraggio di denunciarla, tranne il famoso bambino. Dovremmo imparare da lui come si fa”. Davide Borrelli, sociologo al Suor Orsola Benincasa di Napoli, a Padova gli studenti che hanno denunciato la decisione di attribuire un bonus di 100 euro a chi prende una media superiore al 9 parlano di una “competitività tossica”. Cosa significa? La competizione è tossica perché esprime una filosofia dell’educazione fondata sul bastone e la carota. Come se la posta in gioco nell’educazione fosse assoggettare lo studente a un sistema di valori individualistici ed eterodiretti. La logica del premio esclude proprio ciò a cui l’educazione dovrebbe servire, a formare persone autonome e responsabili. Non è casuale il lapsus di qualche mese fa del ministro Valditara quando ha parlato di “umiliazione” degli studenti. Quanto pesa in questa trasformazione dell’istruzione l’idea per cui lo studio serva solo a trovare un posto di lavoro? Questa idea è molto diffusa ed è il risultato di una concezione che vede lo studio dipendente solo da motivazioni estrinseche. All’origine della parola latina “studere” c’è invece una motivazione intrinseca al soggetto, cioè il suo desiderio. Si studia innanzitutto perché si ha piacere a farlo. Se invece si finalizza lo “studium” a ottenere un premio, o un lavoro, si rischia di corrompere la motivazione che è alla base dello studio stesso. La parola “merito” è presente anche in quella di “meretricio”. Studiare per un premio significa in qualche modo prostituire ciò che di più intimo abbiamo: il desiderio di apprendere. Chi parla di meritocrazia” tiene a riequilibrare il proprio discorso con misure chiamate di “equità”. Il governo Meloni, per esempio, ha eliminato il bonus cultura “universale” agli studenti per erogarlo a chi ha 100 alla maturità e a chi ha l’Isee basso. Cosa significa? In questi e altri casi il “merito” è usato per giustificare le disuguaglianze esistenti. Se prendo atto che la società è diseguale posso fare due cose: o intervengo per diminuire il gap tra i ricchi e i poveri oppure definisco “meritata” questa situazione e quindi mi sento legittimato a lasciare le cose come sono. Mi sembra che il governo che ha istituito un ministero con la parola merito abbia intrapreso la seconda strada. Che cos’è allora la meritocrazia? Un mito, una religione, un’ideologia? Il dibattito sul merito è antico e nasce in ambito teologico. Il conflitto sulla salvezza dell’uomo tra cattolici e protestanti verteva intorno all’alternativa tra libero arbitrio e grazia divina. Per Lutero ci si salva solo attraverso la grazia di Dio, il libero arbitrio è “servo”. Quando si afferma che il destino dell’individuo dipende interamente dal suo merito si dimentica che l’individuo non è un’isola e deve le sue fortune anche al contesto naturale e sociale. Il meritevole è spesso colui che ha goduto di benefici, come nascere in una certa parte del mondo o in una certa famiglia dotata di capitale economico e culturale. Eppure dimentica le condizioni di partenza che l’hanno favorito e tende ad attribuirsi ciò che in realtà è frutto di congiunture favorevoli esterne. Cicerone diceva che la fortuna non solo è cieca ma rende ciechi coloro che ha abbracciato. Per anni si è detto che il “merito è di sinistra”. È mai stato così? Direi proprio di no, tanto è vero che sono gli studenti in questi mesi a denunciare ciò che era evidente sin dall’inizio, per chi lo avesse voluto leggere. Il merito è di destra. Oggi si può dire che chi ha sostenuto idee simili sia stato l’utile idiota dell’attuale svolta autoritaria. Lei ha scritto che la scuola e l’università, più che di una teologia, hanno bisogno di un’ecologia. Che cosa intende? Salvaguardare le possibilità di immaginare un mondo diverso che, al momento, non è praticata in una società neo-liberale dove si pretende che scuola e università siano finalizzate al placement. Altrimenti si finisce per esaurire ogni energia per l’evoluzione stessa della società. Pur in maniera contraddittoria la “meritocrazia” è stata accettata dalla maggioranza. Come lo spiega? È molto difficile schierarsi contro il merito perché significa esporsi al sospetto di non essere abbastanza meritevole o avere interesse a non esserlo. È un argomento potente. Come si esce dalla trappola? Come nella favola di Andersen sul vestito nuovo dell’imperatore. Ci sono due truffatori che si recano dal Re e gli promettono un abito miracoloso la cui peculiarità è essere visto solo da chi è meritevole della posizione che ha. Chi non lo vede non è meritevole. Nella favola nemmeno il Re riesce a vederlo, ma finge di vederlo come tutti gli altri nel suo regno. Se ne accorge un bambino che dice: “Il re è nudo”. Questo significa che il vestito non esiste esattamente come non esiste la meritocrazia. Ma nessuno ha il coraggio di denunciarlo, tranne il bambino. Dovremmo imparare da lui come si fa. La proposta di Schlein che piace anche a destra: “Una commissione sullo sfruttamento dei lavoratori” di Lorenzo De Cicco La Repubblica, 11 aprile 2023 Oggi in Aula il testo della dem Gribaudo, co-firmato dalla segretaria del Pd. Le Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali hanno già detto sì. Se la manovra riuscisse, sarebbe un inedito: una proposta di legge firmata da Elly Schlein votata anche dalla maggioranza di Giorgia Meloni. Al Nazareno sono ottimisti. La pdl che arriva oggi nell’Aula di Montecitorio (il voto è previsto domani) chiede l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sullo sfruttamento nel mondo del lavoro. Un tema a cui la segretaria del Pd tiene molto, tanto da averne fatto un perno della campagna congressuale. E proprio di lavoro povero discuterà la prossima settimana, il 22 aprile, alla Casa delle Donne col leader del M5S Giuseppe Conte e con Luigi De Magistris, ospite dell’associazione Numeri Pari. Prima però c’è da portare a dama l’operazione alla Camera. La prima firmataria della proposta di legge è Chiara Gribaudo, vicepresidente del Pd e fedelissima di Schlein, che ha co-firmato. Il testo chiede di istituire a Montecitorio una commissione che indaghi “sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati”. Venti deputati avrebbero gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria per “analizzare i casi di sfruttamento o di minor tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” e avrebbero la possibilità di accertare “l’esistenza di eventuali differenze tra le vittime con specifico riguardo al genere di appartenenza, al territorio, all’età, al settore lavorativo, al tipo contrattuale”. Nel mirino anche la “pratica del lavoro sommerso e irregolare e del controllo di imprese da parte delle organizzazioni criminali”. Di proposte per istituire una commissione d’inchiesta è pieno il Parlamento - FI ne chiede una su Tangentopoli, FdI ne vorrebbe un’altra sulla gestione del Covid - ma il testo del Pd stavolta potrebbe farcela, senza ridursi a una battaglia di testimonianza, minoritaria. Le premesse ci sono. La pdl ha già ottenuto il parere favorevole in Commissione Affari Costituzionali e in Commissione Giustizia. Col placet non solo delle altre opposizioni, dal M5S al Terzo Polo, ma anche della maggioranza di centrodestra. Ecco perché al Nazareno sono fiduciosi che il voto in Aula segua lo stesso canovaccio. Col partito di Meloni che vota una pdl di Schlein. Migranti. Stretta sui ricongiungimenti, oggi vertice al Viminale per le modifiche al decreto Cutro di Francesco Olivo La Stampa, 11 aprile 2023 Lega in pressing. L’obiettivo è abolire la protezione speciale. Ma il governo teme il Quirinale. La destra vuole abolire la protezione speciale per i migranti, ma si dovrà accontentare, per il momento, di una stretta. Giorgia Meloni e Matteo Salvini sono d’accordo, ma probabilmente nemmeno stavolta riusciranno a tagliare del tutto questo status, che proprio i decreti sicurezza del leader della Lega avevano istituito e Luciana Lamorgese aveva allargato. Per stringere le maglie si dovrà allora ricorrere a un compromesso, che al momento ancora non è stato trovato. Le ipotesi a cui si lavora al Viminale sono: meno limitazioni alle procedure di espulsione per coloro che chiedono protezione per motivi di discriminazioni sessuali, di salute, per ricongiungimenti familiari, resteranno probabilmente le calamità naturali, ma a tempo limitato. Il permesso di soggiorno per “protezione speciale” viene oggi concesso a chi non rientra nello status di rifugiato né nella cosiddetta protezione sussidiaria, prevista dall’Unione europea, ma che comunque viene considerato a rischio se rimpatriato. Secondo Lega e Fratelli d’Italia si tratta spesso di un escamotage utilizzato da chi non ha diritto a risiedere legalmente nel nostro Paese. Oggi una riunione al Viminale, alla presenza del ministro Matteo Piantedosi, dei sottosegretari e dei capigruppo di maggioranza dovrà trovare una soluzione che sulla carta non è semplice. Il tempo stringe, qualche ora dopo nella commissione Affari costituzionali del Senato si dovranno votare gli emendamenti al decreto votato dal Consiglio dei ministri straordinario celebrato un mese fa a Cutro. Il governo vorrebbe provare a fare una sintesi, presentando delle proposte di modifica concordate tra i partiti della maggioranza. Possibilmente con interventi chirurgici. Non sarà semplice, non tanto per le differenti strategie adottate, più aggressiva la Lega, più prudente Fratelli d’Italia, ma soprattutto per i molti paletti che già sono emersi prima che il decreto fosse pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Si tratta di modifiche tecniche che però hanno un risvolto politico notevole. Non è un mistero infatti, che prima di arrivare alla firma del Presidente della Repubblica, il Quirinale abbia avviato un’interlocuzione con Palazzo Chigi, al termine della quale il testo è uscito ammorbidito, soprattutto grazie all’intervento del sottosegretario Alfredo Mantovano. Il governo, quindi, vorrebbe evitare di aprire conflitti, anche con il mondo cattolico che non vede di buon occhio la linea dura sull’immigrazione, specie quella legale. In parlamento, però, la Lega ha messo pressione sul governo, presentando oltre venti emendamenti per restringere al massimo le maglie della protezione speciale: “Anche tenuto conto della particolare rilevanza del flusso migratorio in atto”, ha spiegato Nicola Molteni, leghista e sottosegretario all’Interno. Uno stile aggressivo che non è piaciuto agli alleati, anche perché, spiega un membro del governo, “la pensiamo allo stesso modo ed è inutile forzare la mano”. Meloni stessa, in più occasioni ha ribadito la volontà di arrivare all’abolizione della protezione speciale: “La fattispecie si è allargata a dismisura, noi torniamo a restringerla, ma il nostro obiettivo è abolirla” aveva detto a Cutro la premier. La cancellazione andava fatta “in nome dell’europeismo” ha spiegato alla Camera lo scorso 22 marzo, rispondendo a un’interrogazione del Pd, con l’argomento che questo status non era previsto dall’ordinamento comunitario. Una tesi che viene respinta da alcuni giuristi: secondo il direttivo di Magistratura democratica, in realtà, 20 dei 27 Stati membri “prevedono ipotesi di protezione complementare”. “Lo sapevate? Nel mondo ci sono più di 40 guerre” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 11 aprile 2023 L’accusa del portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury: “L’aggressione russa contro l’Ucraina ha reso ancora più evidente come sui diritti umani vengano fatte scelte politiche”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’attenzione della comunità internazionale è concentrata sulla guerra d’Ucraina, entrata nel secondo anno. Ma nel mondo si stanno combattendo più di 40 guerre “ignorate” Siamo all’istituzionalizzazione di un doppio standard sui diritti umani? L’aggressione russa contro l’Ucraina non solo ha prodotto una spaventosa crisi dei diritti umani ma ha anche reso ancora più evidente come, proprio sui diritti umani, vengano fatte scelte condizionate dalla politica, dall’economia e da miopi valutazioni su vantaggi e svantaggi di breve periodo. Così, se la risposta dell’Occidente a Putin è stata robusta e rapida, se i crimini di guerra russi hanno ottenuto l’attenzione e la condanna che meritavano, se finalmente c’è stata un’accoglienza degna, generosa e rispettosa dei diritti per le ucraine e gli ucraini in fuga dalle bombe, altrove abbiamo notato l’opposto: disinteresse per gli altri conflitti (primo tra tutti quello, tremendo, dell’Etiopia); silenzio complice sui crimini commessi altrove, ostacoli, respingimenti e soccorsi tardivi o assenti ai danni di chi veniva da sud e da est, per ragioni non meno urgenti di chi veniva da nord. Insomma, se nel corso della giornata una vicenda riceve una condanna e una simile passa sotto silenzio, se prevale il sistema del grappolo d’uva, di cui si selezionano i chicchi da mangiare e quelli da scartare, è il sistema internazionale di protezione dei diritti umani a mostrare, nel suo complesso, profonda inadeguatezza. I meccanismi delle Nazioni Unite soffrono di una costante politicizzazione. Sono anni che chiediamo una riforma del funzionamento del Consiglio di sicurezza, che passi attraverso la rinuncia al potere di veto in caso di crisi dei diritti umani. Ma ancora non c’è verso. Per restare sulla guerra d’Ucraina. Per aver documentato la violazione dei diritti umani nel conflitto anche da parte dell’esercito ucraino, Amnesty International è stata accusata di essere filo Putin. Eppure un recente rapporto delle Nazioni Unite vi ha dato ragione... Quel rapporto dell’Onu dice una cosa semplice: che anche le forze armate di uno stato aggredito non sono insindacabili e possono a loro volta commettere crimini, anche se su scala enormemente inferiore. Nel 2022, anno in cui Amnesty International ha pubblicato un’ottantina di rapporti e comunicati stampa in cui si mettevano nero su bianco i crimini di guerra russi, abbiamo diffuso una nota di tre pagine nella quale rilevavamo che in alcuni casi specifici, meno di 20, le forze ucraine avevano attuato tattiche che avevano messo in pericolo i civili che stavano difendendo, ad esempio insediandosi in centri abitati e strutture civili. Questo ci è costato l’accusa di essere filo-putiniani, nonostante un mese dopo l’inizio della guerra il nostro ufficio di Mosca fosse stato chiuso. Naturalmente, l’accusa opposta ci è stata rivolta quando abbiamo espresso apprezzamento per il mandato di cattura emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti di Putin. A quest’accusa se n’è aggiunta anche un’altra, sempre riferita all’azione della giustizia internazionale: di compromettere i tentativi di pace. È come se improvvisamente dall’antico slogan “non c’è pace senza giustizia” (quello in nome del quale, 25 anni fa, era nata proprio la Corte penale internazionale) fosse stata rimossa la congiunzione “non”. O, peggio ancora, fosse stato trasformato in un atroce “non c’è pace senza impunità”. Quali sono i casi più eclatanti di questo “doppio standard” documentati da Amnesty International nel suo Rapporto 2022-2023? Gli stati d’emergenza adottati da Polonia, Lituania e Lettonia per legittimare i respingimenti di richiedenti asilo, se confrontati con l’accoglienza di chi fuggiva dall’Ucraina. L’accondiscendenza nei confronti degli stati del Golfo, la cui reputazione internazionale migliora tanto quanto peggiora la situazione dei diritti umani al loro interno. Le condanne per la repressione nei confronti delle proteste in Iran e in Afghanistan per poi colpevolizzare le persone che da quei paesi fuggono. Il silenzio nei confronti del sistema di apartheid dello stato d’Israele contro la popolazione palestinese, applicato in modo sempre più crudele. Gli Usa che tengono ancora aperto il centro di detenzione di Guantánamo, scempio del diritto internazionale da oltre 20 anni, come se fosse una cosa normale. Un caso a parte è quello della Cina, dove almeno dal 2017 è in corso una campagna di soppressione dei diritti culturali e religiosi delle minoranze musulmane della regione autonoma del Xinjiang. Il governo di Pechino è riuscito a impedire la pubblicazione del rapporto della relatrice delle Nazioni Unite sui diritti umani, Michelle praticamente fino agli ultimissimi giorni del suo mandato. Tunisia, Algeria, Marocco, Libia, Egitto. La sponda sud del Mediterraneo è marchiata da regimi autoritari che hanno riempiti le carceri di oppositori e creato, vedi la Libia, veri e propri campi di concentramento per migranti. Eppure l’Europa e l’Italia continuano a fare affari con gli al-Sisi, i Saied, oltre che continuare ad armare la cosiddetta guardia costiera libica... Non solo, ma la necessità di diversificare le fonti energetiche per non finanziare la guerra di Mosca contro l’Ucraina ci ha reso ancora più dipendenti da governi autoritari della zona, come Algeria ed Egitto. Gli affari con l’Egitto di al-Sisi proseguono floridamente. A luglio ricorrerà il decimo anniversario del suo colpo di stato: dieci anni in cui non si è udita la minima critica nei confronti delle gravissime violazioni dei diritti umani, anche quando hanno riguardato dolorose vicende che coinvolgevano direttamente il nostro paese. Il rinnovo del memorandum con la Libia, una delle occasioni mancate dall’Italia per un progresso nel campo dei diritti umani nel 2022, ha confermato che le nostre istituzioni sono disposte a tutto per portare avanti le loro politiche di contrasto all’immigrazione: pazienza se la cosiddetta guardia costiera libica continua a intercettare in mare migliaia di persone e a riportarle esattamente nei luoghi dai quali avevano tentato la fuga, per non parlare di quelle che in mare annegano; e pazienza se le indagini della Corte penale internazionale e, da buon ultimo, il rapporto delle Nazioni Unite ci descriveranno come complici nella commissione di crimini di diritto internazionale. Gli sviluppi delle relazioni con la Tunisia sono la conferma di un approccio che non guarda in alcun modo ai diritti umani. È certamente giusto soccorrere uno stato amico in grave crisi economica anche se in questo caso l’obiettivo, più che solidale, mi pare cinico: scongiurare le condizioni che favoriscono le partenze. Ma a proposito di quell’obiettivo, non ho sentito levarsi una sola voce di condanna per i discorsi d’odio e le espressioni xenofobe del presidente tunisino Saied circa le “orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana (…) per cambiare la composizione demografica” e fare della Tunisia “un altro stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”. Non è questo un push factor? E in Italia, qual è lo stato dei diritti umani? Nel 2022 è terminata una Legislatura molto timida sui diritti umani e ne è iniziata un’altra molto aggressiva contro i diritti umani. È stato, quello passato, un anno di occasioni perse: penso alla riforma della cittadinanza, un problema irrisolto da trent’anni, così come alla mancata approvazione del ddl Zan e una riforma reato di stupro basata sul criterio del consenso. Su questioni di fondamentale importanza, come le crudeli politiche di contrasto all’immigrazione e la criminalizzazione delle Ong che fanno ricerca e soccorso in mare, c’è stata continuità da un governo all’altro: meglio, da più governi passati a quello attuale. L’inizio di questa Legislatura ha mostrato bene qual è il pericolo che abbiamo di fronte a noi: che si facciano passi indietro, che si erodano ulteriormente gli spazi di libertà, che conquiste per le quali ci sono voluti decenni possano essere annullate in poco tempo. L’esempio del dibattito di queste settimane sul reato di tortura (introdotto nel 2017 dopo una campagna durata 28 anni) è eloquente. Ma insomma, non c’è proprio nulla da salvare, niente di positivo che emerga dal Rapporto 2022-2023? Certo! Malgrado la furibonda repressione, l’attivismo resiste nelle strade e nelle piazze del mondo e prende a spallate i poteri. In Colombia, la tenacia dell’attivismo per i diritti delle donne e le azioni legali hanno contribuito alla decisione della Corte costituzionale di decriminalizzare l’aborto durante le prime 24 settimane di gravidanza. Dopo una campagna portata avanti per anni, il parlamento della Spagna ha approvato la legge che pone il consenso al centro della definizione giuridica di stupro. Kazakistan e Papua Nuova Guinea hanno abolito la pena di morte. C’è dunque molto da salvare, anche se spesso non fa notizia. In 87 stati ci sono state imponenti proteste pacifiche. È da lì che arriva la spinta al cambiamento. Per quello, i governi le reprimono così duramente. Come mi disse un’attivista algerina, “una volta che scendi in strada è difficile che ti ricaccino dentro casa. Possono chiuderti in galera ma un’altra persona scenderà in strada al posto tuo”. La guerra, le armi e quel potere segreto della non violenza di Piero Ignazi Il Domani, 11 aprile 2023 La guerra è entrata in Europa ben prima del 24 febbraio scorso. Per una strana rimozione collettiva in tantissimi hanno dimenticato quanto è avvenuto nello spazio della ex Jugoslavia dopo il 1991: quasi un decennio di conflitti inter-etnici e intra-statutali, o intra-regionali. Tutte le unità che componevano la Federazione jugoslava, ad eccezione del Montenegro, sono entrate in guerra con il nucleo centrale di quello stato, la Serbia, depositaria finale, e alla fine irriconoscibile, della Federazione. A causa di questa rimozione il conflitto russo-ucraino è apparso una novità, come se non fossero mai avventi sul continente europeo bombardamenti sui civili e, soprattutto, stragi di innocenti. Per fortuna non si è (ancora) visto nulla di simile a quanto avvenuto in tanti luoghi della penisola balcanica, su tutti il massacro di Srebrenica dove, in due giorni, furono massacrate 8mila persone. Quella ferita ha smosso la coscienza civile europea e internazionale. Proprio l’imminenza di una ulteriore aggressione delle milizie filoserbe, questa volte contro la popolazione kosovara, ha mosso la comunità internazionale a introdurre la nozione del diritto di intervento umanitario (Resposabiity to protect), poi unanimemente approvato dall’Onu nel 2005. Ricorrere alle armi - Se la comunità internazionale avverte con maggior sensibilità le violenze che vengono inflitte alle popolazioni di un paese, non di meno continua ad essere limitata nei suoi interventi. L’unico attivato in questa ottica fu il bombardamento dell’aviazione britannica e francese sulle truppe corazzate del dittatore libico Muhammar Gheddafi, in procinto di entrare nella città ribelle di Misurata per farne strage. Eppure, detto en passant, non c’è più nessuno che rivendichi la “moralità” di quell’intervento, tutt’altro: viene aspramente criticato per aver provocato la caduta del regime di Gheddafi e l’instabilità nel paese. Al di là di questo caso, la resistenza ad un regime autoritario o ad un’aggressione dall’esterno rimane in capo ai cittadini del paese. Tuttavia, di fronte alla violenza non vi è solo la risposta armata. La guerra in Ucraina ha rinvigorito la voce di chi considera possibile soltanto il ricorso alle armi, al punto da considerare chi rifiuta questo strumento un imbelle, un complice o un “panciafichista”, secondo la celebre espressione mussoliniana (e proprio questo ricordo, forse, non è estraneo alla postura amazzonica di Giorgia Meloni nel conflitto ucraino). Resistenza non violenta - Eppure lo studio di Erica Chenoweth e Maria Stephan, Why Civil Resistance Works: The Strategic Logic of Nonviolent Conflict (Cambridge UP, 2011), recentemente tradotto e attualizzato in francese, Pouvoir de la non violence. Puorquoi la résistance civile est efficace (Camann-Levy 2021), dimostra che “la resistenza non violenta è stata strategicamente superiore alla resistenza violenta durante il ventesimo e il ventunesimo secolo”. Su 323 movimenti di resistenza civile censiti, quelli non violenti hanno avuto molto più successo delle azioni violente le quali, solo nel 27 per cento dei casi, hanno raggiunto i loro scopi. La probabilità che un regime conceda concessioni, anche limitate, a un’opposizione non-violenta è 12 volte superiore ai casi in cui l’opposizione è violenta. Inoltre, i sostenitori dei regimi autoritari, come i dipendenti pubblici, le forze di sicurezza e la magistratura, sono più propensi a spostare la loro fedeltà verso gruppi di opposizione non-violenti piuttosto che verso componenti violente. Se infatti i movimenti di resistenza minacciano con vendette e ritorsioni i membri del regime, costoro difficilmente prenderanno in considerazione un passaggio di fronte, e continueranno a sostenere il regime. Questa analisi sfida la convinzione comune che la resistenza non-violenta sia efficace solo quando è esercitata in regimi democratici o relativamente cooperativi. Al contrario, anche a fronte della repressione di un regime autoritario, la probabilità di successo della risposta non-violenta aumenta del 22 per cento rispetto ad una risposta violenta. È vero che le narrazioni delle vicende nazionali sono sempre intessute dalle virtù eroiche dei combattenti, mentre le azioni non-violente, meno scintillanti ma spesso più efficaci, sono ignorate o riconosciute solo di sfuggita. Per cui, diventa normale vedere nella violenza l’arma indispensabile per ottenere la libertà dalla sottomissione, dimenticando quanta importanza abbia avuto, in molte lotte di liberazione, la resistenza non violenta guidata da civili. C’è quindi un altro modo efficace di agire al di là del crepitio delle armi. In un contesto nel quale prende sempre più spazio un certo ardore guerriero, riflettere sulle potenzialità di un altro modo di agire è disintossicante. *Politologo La mediazione è possibile per ogni conflitto di Daniele Archibugi Il Manifesto, 11 aprile 2023 Il Good Friday Agreement, di cui in questi giorni si celebra il venticinquesimo anniversario, ha dato una svolta irreversibile al processo di pace nell’Irlanda del Nord. La guerra civile tra repubblicani e unionisti, chiamata eufemisticamente The troubles (i guai), sembrava indomabile. Radicata in secoli di discriminazioni subite dai cattolici, codificata in una divisione dell’isola frettolosa, le due comunità erano destinate a scannarsi per l’eternità. Per quattro decenni c’è stata una spirale di violenza sfociata in un terrorismo diffuso. Le vittime accertate sono state tra le tre e le quattro mila, più della metà di loro tra i civili. Centri commerciali, stazioni ferroviarie e innumerevoli edifici sono stati distrutti dalle bombe, mentre per più di una generazione Belfast è vissuta sotto occupazione militare. Rileggendo oggi le rivendicazioni delle parti in causa, si capisce perché non ci potesse essere un compromesso. I repubblicani ritenevano di ingaggiare una lotta di liberazione nazionale che sarebbe terminata solo quando il nord fosse confluito in un unico stato irlandese. Il governo inglese ribatteva che la maggioranza della popolazione dell’Ulster voleva essere suddita di Sua Maestà, che tutti i cittadini erano uguali e che atti terroristici dovevano essere trattati come crimini comuni. Ogni confronto non faceva che rafforzare le contrapposizioni, generando attentati e rappresaglie. Molti splendidi film raccontano quei tragici anni: Bloody Sunday fa vedere come l’esercito inglese potesse impunemente sparare sulla folla disarmata, Nel nome del padre mostra le rappresaglie giudiziarie a cui erano sottoposti gli irlandesi, La moglie del soldato, denuncia l’esecuzione a sangue freddo dei militari catturati, Belfast il settarismo della comunità anglicana, “‘71” la impossibilità di amicizia tra le due confessioni: tutti film dove l’unica speranza è quella di fuggire per sempre. Due madri, Mairead Corrigan e Betty Williams, una cattolica e l’altra proveniente da famiglia mista, invocarono la fine della violenza settaria già nel 1976, chiamando le donne a scendere in piazza. A Belfast, le loro grida di dolore furono presto soffocate dal fragore delle esplosioni, per quanto furono nello stesso anno insignite del Premio Nobel per la pace. Solo nel 1992, l’inatteso miracolo. Folgorato sulla via di Damasco, il governo inglese ha capito che invocare la sovranità territoriale aveva poco senso in una società sempre più globale. Regno unito e Repubblica irlandese erano oramai ben saldi membri dell’Unione europea e le interconnessioni tra le due comunità - nel commercio, nelle comunicazioni, nella mobilità, nelle regolazioni - erano crescenti. Il governo inglese ha avuto il coraggio di coinvolgere non solo la controparte irlandese, ma anche diversi mediatori internazionali. Gli indipendentisti sono stati accettati come forze politiche creando nuove istituzioni paritarie che coinvolgessero governi, parlamenti e società civile delle due comunità, tanto all’interno che all’estero dell’Irlanda del Nord. Si è così passati dal cessate-il-fuoco ad un più impegnativo accordo per disarmare le truppe para-militari e perfino per il rilascio dei prigionieri che avevano compiuto atti terroristici. Il referendum confermativo fu un plebiscito: il 71 % nell’Irlanda del Nord e il 94 % nella Repubblica irlandese votarono sì. Ancora oggi, le due comunità sono separate, con quartieri in cui i pedoni dell’altra religione sono ospiti indesiderati, ma almeno sono finiti gli omicidi, gli ordigni, le vendette. Per quanto Brexit rischi di riportare indietro le lancette della storia, nessuno ha più voglia di ritornare alla lotta armata. Molto ancora bisogna fare per combattere le disparità economiche e sociali, ma accettare che il problema non era solo statale, bensì inter-nazionale e intra-comunitario, ha aperto la via per la riconciliazione. I conflitti per l’auto-determinazione sono i più duraturi perché ristretti gruppi armati si arrogano il diritto di parlare a nome di tutta la propria comunità, minacciando chiunque non sia d’accordo. Chi prova a mediare viene definito “traditore” e rischia di essere eliminato dalla sua stessa gente. Come accade nelle guerre tra mafie, nei Troubles 188 repubblicani e 94 lealisti furono giustiziati dai loro stessi compagni. Il Good Friday Agreement ha mostrato che se ne può uscire. Fornisce oggi un esempio per evitare l’escalation della violenza tra Kosovo e Serbia, Palestina e Israele, Kurdistan e Turchia e in tante altre parti del mondo. È una lezione alla quale si dovranno ispirare, appena taceranno le armi, anche Ucraina e Russia. Nel 1998 i bambini in tutta l’isola irlandese leggevano le 36 pagine di quel testo in classe. Dopo 25 anni, sarebbe assai utile farlo studiare in tutte le scuole del mondo. Regno Unito. Caso Assange, RSF: “Impediscono di incontrare Julian in cella” di Stefania Maurizi Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2023 Non possiamo cancellare quello che è stato fatto, ma è tempo che il governo americano e quello inglese mettano fine al caso Assange, e che dimostrino di fare quello che dicono, quando parlano di libertà di stampa. Questo aiuterà anche i loro sforzi in altri casi, incluso quello del giornalista americano Evan Gershkovich, detenuto a Mosca”. L’energica direttrice delle campagne di Reporters Sans Frontières (RSF), Rebecca Vincent, parla con il nostro giornale (sul Fatto Extra l’intervista completa) nel quarto anniversario dell’arresto del fondatore di WikiLeaks. La scorsa settimana, Vincent e il segretario generale di RSF, Christophe Deloire, hanno provato invano a fargli visita in carcere. Dall’11 aprile 2019, Assange è chiuso nella prigione più dura del Regno Unito, Belmarsh a Londra, da innocente, in compagnia di pericolosi criminali, in attesa che le corti inglesi decidano sul suo appello contro l’estradizione negli Stati Uniti. Non conosce la libertà da tredici anni e se verrà estradato, finirà per sempre in una prigione di massima sicurezza per aver rivelato crimini di guerra e torture dall’Iraq a Guantanamo. Vincent e Deloire avevano ottenuto il permesso di fargli visita per la prima volta, ma arrivati a Belmarsh, è stato impedito loro di entrare. “Siamo preoccupati, ci dice Vincent, riferendosi al grave declino della salute di Assange. “Ogni volta che proviamo a interagire con un livello qualsiasi del governo inglese su questo caso, loro si rifugiano nella segretezza”, aggiunge, “Che cosa hanno da nascondere?”. E conclude: “Vogliamo vederlo e parlare con lui del suo caso. E dovremmo poterlo fare”. Algeria. Amnesty International denuncia gli attacchi ai giornalisti indipendenti La Repubblica, 11 aprile 2023 “Molti sono già stati arrestati con accuse infondate”. Amnesty International ha chiesto il rilascio del giornalista Ihsane El Kadi, condannato il 2 aprile dal Tribunale di Sidi M’hamed ad Algeri a cinque anni di carcere con l’accusa di avere fatto propaganda politica e avere danneggiato la sicurezza dello Stato. Poco prima del suo arresto, il 24 dicembre, Ihsane El Kadi aveva pubblicato un’analisi sulle elezioni presidenziali in Algeria nel 2024, mantenendo una posizione critica nei confronti del ruolo dell’esercito. La posizione di Amnesty. “Ihsane El Kadi è solo l’ultimo giornalista preso di mira dalle autorità algerine nel loro inesorabile assalto ai media indipendenti. Le autorità stanno adottando misure estreme per soffocare le voci critiche, anche se la costituzione algerina tutela la libertà di espressione e quella di stampa”, ha spiegato Amna Guellali, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa. Nei mesi scorsi un tribunale ha condannato a morte in contumacia un giornalista algerino con l’accusa di spionaggio e almeno altri cinque sono stati processati con accuse infondate, la maggior parte delle quali legate alla diffusione di fake news. Le autorità hanno anche chiuso almeno tre stazioni di media indipendenti con l’accusa di trasmettere e pubblicare senza autorizzazione. La storia di El Kadi. I funzionari della pubblica sicurezza, in borghese, avevano arrestato El Kadi poco dopo la mezzanotte del 24 dicembre nella sua casa di Zemmouri, una città costiera a 40 km a est di Algeri, e più tardi quel giorno lo avevano condotto in manette negli uffici dei suoi media online Radio M e Maghreb Emergent. Hanno ordinato al personale di andarsene, sequestrato computer e altro materiale e sigillato le porte. Il tribunale di Sidi M’hamed ha sospeso due dei cinque anni di condanna, accompagnati da una multa di 700.000 dinari algerini che corrispondono a circa 5.156 dollari. L’arresto di Ihsane El-Kadi e la chiusura degli uffici che dirigeva ha suscitato un’ondata di solidarietà tra i suoi colleghi e gli attivisti per i diritti umani sia in Algeria che in Europa. L’appello di Reporters senza Frontiere. Una petizione lanciata dall’organizzazione per ottenere la liberazione di El-Kadi ha già raccolto più di diecimila firme. All’inizio di gennaio, sedici esponenti del mondo dei media di tutto il mondo, tra cui il Premio Nobel per la Pace Dimitri Muratov, riuniti da Reporters senza Frontiere, hanno chiesto il suo immediato rilascio e la rimozione degli ostacoli inaccettabili posti ai suoi media. Attacco ai giornalisti indipendenti. Negli ultimi due anni le autorità algerine hanno perseguito, arrestato e tenuto in regime di detenzione almeno altri undici giornalisti e operatori dei media. In uno dei casi più gravi, nell’ottobre 2022, un tribunale di Algeri ha condannato a morte il giornalista Abdou Semmar con l’accusa di spionaggio e “diffusione di informazioni false che potrebbero danneggiare la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico”, in relazione al suo giornali online Algérie Parte. Il tribunale ha condannato Semmar, che vive come rifugiato in Francia, in contumacia e senza una rappresentanza legale. Dopo aver condannato Semmar, il giudice ha emesso un mandato d’arresto internazionale contro di lui. Semmar, che non ha avuto accesso al fascicolo, ritiene che le accuse derivino da un’indagine da lui condotta nel 2020 sulla Sonatrach, la compagnia nazionale di petrolio e gas. Sequestro di telefoni e accuse infondate. Il 7 febbraio 2023 un tribunale di Boumerdes ha condannato Farid Herbi, giornalista e fondatore del media online Tout sur Boumerdes, a tre anni di carcere e una multa per “diffusione di informazioni false che potrebbero danneggiare la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico”. Herbi aveva criticato il modo in cui il governatore gestiva i progetti di sviluppo nella provincia di Boumerdes, nell’est algerino. L’8 febbraio gli agenti hanno arrestato Mustapha Bendjamaa, caporedattore di Le Provincial, quotidiano algerino indipendente, con l’accusa di “ricezione di fondi esteri”, per soldi che aveva ottenuto per aiutare la famiglia di un detenuto, e “pubblicazione di documenti riservati”. Quest’ultima accusa si basa esclusivamente sulle conversazioni private registrate sul suo telefono, confiscato dalle autorità dopo l’arresto. La nuova legge sulla stampa. Intanto il Paese si appresta a promulgare una nuova legge sulla stampa, già approvata dall’Assemblea e in attesa di essere esaminata dal Senato. Il nuovo testo introduce nuovi limiti al lavoro dei giornalisti, in un contesto che - denuncia Amnesty - è già pessimo per la libertà di stampa. In particolare la nuova legge obbliga la stampa a dichiarare l’entità e l’esclusività del capitale sociale, l’origine dei fondi che vengono investiti e i fondi necessari al funzionamento del giornale o di qualsiasi altro tipo di media. Sono previste multe ingenti nei confronti di qualsiasi media che riceva aiuti materiali esterni o stranieri, così come aumentano le multe in caso di vilipendio commesso dai giornalisti nei confronti di capi di Stato stranieri o membri delle ambasciate e dei Consolati accreditati in Algeria.