Legge Severino, il Viminale “forza” la riforma Cartabia: potrà candidarsi chi patteggia la pena di Liana Milella La Repubblica, 10 aprile 2023 Ma l’ex consigliere giuridico della ministra Gian Luigi Gatta parla di “scelta politica del ministero dell’Interno su cui la giurisprudenza potrà esprimersi” visto che il precedente esecutivo non ha cambiato la legge sull’incandidabilità e decadenza dei politici condannati. Il Viminale “forza” la riforma penale della ex Guardasigilli Marta Cartabia e consente ai politici condannati che hanno patteggiato la pena di candidarsi. Il governo Draghi non aveva toccato la legge Severino che blocca le candidature dei politici in caso di condanna oltre i due anni e ne prevede la decadenza se la sentenza interviene a mandato già in corso. Ma ecco che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il 17 marzo, sottoscrive una circolare che “interpreta” la legge Cartabia e, con il parere favorevole dell’Avvocatura dello Stato espressamente richiesto, consente a chi abbia patteggiato di candidarsi. Strada possibile ma “solo” per chi ha patteggiato pene fino a due a anni, e a patto che la sentenza non abbia previsto ulteriori pene accessorie. Colpa di Cartabia o colpa di Piantedosi, a questo punto, se un politico aggira la legge Severino e si candida? Abbiamo chiesto a Gian Luigi Gatta, professore di diritto penale alla Statale di Milano e consigliere giuridico di Cartabia, di valutare la compatibilità della circolare con la riforma penale, e il suo parare è netto. “La riforma non ha modificato nessuna norma della legge Severino. Ha cambiato la disciplina del patteggiamento attuando una delega votata a larghissima maggioranza dal Parlamento che prevedeva di ridurre gli effetti extra-penali della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, prevedendo anche che questa non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi”. Per “effetti extra penali” si intendono tutti quelli che si producono fuori dalla sfera penale. Per esempio, non si può partecipare a bandi pubblici per finanziamenti, o avere il reddito di cittadinanza. Ovviamente gli effetti extra penali sono molti e ricorrono ad esempio quando vengono richiesti moduli nei quali indicare se sono state riportate condanne. Che cosa ha fatto la legge Cartabia? Secondo Gatta “ha introdotto nel codice di procedura penale una regola generale: se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna”. E che succede con la legge Severino? Gatta spiega che “la legge Severino prevede che l’incandidabilità opera anche nel caso di sentenza definitiva di patteggiamento. Il parere del ministero dell’Interno, espresso dopo aver sentito l’Avvocatura dello Stato, valuta che questa previsione sia ora implicitamente abrogata; e lo afferma dopo aver qualificato le norme della Severino sull’incandidabilità come “non penali”. I passaggi per arrivare alla conclusione sono dunque diversi”. E il ministero, in modo tranchant, taglia corto e stabilisce che per il patteggiamento con condanna fino a due anni la Severino non vale. Ovviamente la Severino non viene affatto demolita, a patto che non decida di farlo in seguito il Guardasigilli Carlo Nordio, che già a giugno scorso era a favore del referendum radical-leghista che voleva abolirla. Ma è un fatto che l’interpretazione del Viminale rema nella direzione di depotenziarla, proprio come vorrebbero gli stessi sindaci che hanno chiesto con insistenza a Nordio - oltre alla cancellazione urgente del reato di abuso d’ufficio - anche di portare l’incandidabilità e decadenza degli amministratori locali fino alla condanna definitiva, e non in primo grado com’è oggi. Ma fino a che punto la decisione del Viminale rappresenta un vulnus all’attuale formula della legge Severino? Secondo Gatta “la questione va sdrammatizzata perché stiamo parlando solo di sentenze di patteggiamento e se, per i fatti più gravi, è stata applicata dal giudice una pena accessoria - ad esempio l’interdizione dai pubblici uffici - resta ferma l’incandidabilità. Non solo, il giudice può rigettare la richiesta di patteggiamento se ritiene di applicare una pena accessoria, con esito di incandidabilità”. Gatta si spinge oltre e “sfida” il governo, qualora sia intenzionato a “non subire” gli effetti della legge Cartabia: “Se il Governo volesse tenere fermo il divieto della Severino anche in caso di patteggiamento, potrebbe risolvere ogni possibile dubbio con una piccola modifica, introducendo cioè nella Severino un’espressa deroga alla nuova regola del codice di procedura penale”. Ma tutto lascia presupporre invece che l’interpretazione del governo vada nella direzione di “smontare” anche la legge Severino, che rappresenta un intralcio per tanto amministratori che vogliono essere eletti nonostante si portino appresso qualche condanna. La sfida dell’IA al diritto penale, che dovrà ripensare gli schemi classici di Cristiano Cupelli* Il Foglio, 10 aprile 2023 Dai droni capaci di uccidere per le strade urbane, alle auto senza conducente sino ai software che eseguono. L’intelligenza artificiale può essere l’autore di un reato? I giuristi si interrogano. Come dimostra il dibattito su potenzialità, limiti e rischi di ChatGPT, l’intelligenza artificiale, permeando settori sempre più estesi della quotidianità, determina l’insorgere di delicate questioni giuridiche, che hanno iniziato a interessare anche il diritto penale, storicamente più refrattario alle innovazioni tecnologiche. Una conferma la si può trarre da due recenti provvedimenti di matrice sovranazionale: la risoluzione del Parlamento europeo dello scorso ottobre sull’utilizzo della IA da parte delle autorità di polizia e giudiziarie in ambito penale e il c.d. AI Act, una proposta di regolamento europeo che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale. Uno dei punti più controversi investe il possibile coinvolgimento di un sistema di IA quale autore di un reato. Gli esempi non mancano: dai droni capaci di uccidere per le strade urbane, alle auto senza conducente coinvolte nella causazione di incidenti a danno di cose o persone sino ai software che eseguono, in collaborazione o addirittura in sostituzione dell’uomo, compiti sempre più avanzati e che talvolta possono interferire negativamente con la condotta umana. La casistica stimola un interrogativo, che a sua volta chiama in causa questioni più generali: in episodi simili, qualora si riscontri un fatto di reato, al di fuori dei casi in cui a rispondere sia chiamato il programmatore, il produttore o l’utilizzatore del software (allorquando, cioè, il sistema non rappresenti altro che uno strumento in mano all’uomo attraverso il quale, in ragione delle enorme potenzialità asservibili a scopi criminali, il reato possa essere realizzato), può davvero un sistema di ultima generazione assumere le vesti di soggetto attivo del reato? Seppure non manca chi, facendo leva sul fatto che i sistemi di IA, perlomeno quelli più evoluti e sofisticati, sono capaci di agire in autonomia, di assumere ed eventualmente attuare decisioni proprie, che non erano prevedibili dai loro programmatori, offre una risposta affermativa (ipotizzando, in un parallelismo con la disciplina della responsabilità degli enti, una colpa di programmazione), le principali perplessità, allo stato, ruotano sulla difficoltà di ravvisare, in capo a una macchina, il tradizionale requisito della colpevolezza. Si tratta, come è noto, dell’espressione più intensa del coinvolgimento soggettivo dell’autore nel fatto, la cui presenza comporta la possibilità di muovere un rimprovero e che presuppone la ravvisabilità, in capo al soggetto, di imputabilità, dolo o colpa, conoscenza (o per lo meno conoscibilità) della legge penale violata e assenza di cause di esclusione della colpevolezza. Ebbene, ci si chiede: questi elementi, originariamente concepiti e tradizionalmente riferiti solo all’umano, possono ascriversi a una macchina? Si può ipotizzare una colpevolezza robotica, in assenza, fra l’altro, di requisiti certi quali l’autocoscienza, il libero arbitrio, l’autonomia morale? Si può parlare di “capacità di intendere e di volere” in relazione a un software o configurare in capo a esso una colpa o addirittura un dolo? Ancora: quali sanzioni potranno essere comminate a tali sistemi e soprattutto, nel caso, saranno in grado di assolvere quelle funzioni, orientative e rieducative, che la Costituzione riconosce alla pena? E all’esito di quale tipo di processo? Quando gli interrogativi superano le certezze, l’unica certezza è che occorre muoversi con cautela. Il che, tuttavia, non giustifica la sottovalutazione del tema: se il diritto penale vuole continuare ad assolvere il proprio ruolo, deve mettersi nelle condizioni di affrontare consapevolmente le sfide, complesse ma ineludibili, dello sviluppo tecnologico, ripensando schemi classici e proponendo, senza stravolgere princìpi consolidati di garanzia, modelli nuovi di incriminazione e paradigmi di tutela aperti alle spinte di un futuro che bussa alla porta. *Ordinario di Diritto penale Università di Roma Tor Vergata Antigone e il 41 bis: qualche considerazione sul caso Cospito di Francesco Bonito Gazzetta del Mezzogiorno, 10 aprile 2023 A carico del Cospito il Ministro della Giustizia ha disposto che le regole del trattamento detentivo non siano quelle ordinarie, bensì quelle, assai più severe, contemplate dall’art. 41 bis del nostro Ordinamento penitenziario. Alfredo Cospito è per la giustizia italiana un terrorista anarchico giacché riconosciuto colpevole di aver gambizzato un dirigente dell’Ansaldo e di aver organizzato ed eseguito un attentato alla scuola allievi del carabinieri di Fossano, attentato per il quale, in seguito a complesse vicende processuali ed alla qualificazione giuridica del reato contestatogli ad opera della Corte di Cassazione, è in attesa di vedersi irrogata la pena da parte della Corte di assise di appello di Torino, la quale, essendovi la possibilità di applicazione della pena dell’ergastolo c.d ostativo, ha rimesso al giudice delle leggi la valutazione di legittimità costituzionale di tale sanzione. A carico del Cospito il Ministro della Giustizia ha disposto che le regole del trattamento detentivo non siano quelle ordinarie, bensì quelle, assai più severe, contemplate dall’art. 41 bis del nostro Ordinamento penitenziario. A questa decisione il detenuto, come è noto, ha reagito con un prolungato sciopero della fame per contestarne la “giustizia”. Credo che l’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario italiano, certamente tra i più avanzati nel contesto delle democrazie occidentali, sia una norma la quale, per la sua severità collegata a profili di eccezionalità dei casi nei quali viene applicata, integri una delle fattispecie nelle quali si pone la grande, e per più versi affascinante, questione della legittimità sostanziale ed etica del diritto positivo, ovverosia dell’applicazione della legge quando essa contenga, per l’interprete, profili ingiusti. È d’altronde, questo, il dramma che ha mirabilmente rappresentato, venticinque secoli fa, Sofocle, portando sulle scene la tragedia di Antigone, la quale, in violazione delle leggi del tiranno di Tebe, Creonte, dà religiosa sepoltura ai resti del fratello Polinice, avversario politico del tiranno. È questa, altresì, la questione posta, secondo moduli di riflessione filosofica, nel Fedone da Platone, che descrive la morte di Socrate, ingiustamente condannato a morte, il quale beve la velenosa cicuta accettando l’applicazione di una pena ingiusta ma inflitta secondo le regole vigenti in quel momento storico. Antigone ed il Fedone descrivono il dramma del giudice di fronte alla legge ingiusta, il suo dovere di applicarla e la contraddizione di realizzare in concreto una giustizia che giusta non è. Il nostro sistema di giustizia fornisce al giudice lo strumento per superare una tale contraddizione e comunque per attenuarla fortemente, la eccezione di costituzionalità, ovverosia la possibilità di sottoporre alla Corte costituzionale la legittimità della norma da applicare, come peraltro accaduto proprio a margine del caso Cospito, sul quale è stato chiamato a pronunciarsi il nostro giudice delle leggi per iniziativa della Corte di assise di appello di Torino. Ed a dimostrazione di quanto complessa sia la valutazione in ordine all’art. 41 bis del nostro Ordinamento penitenziario sta la decisione, di recente assunta dalla prima sezione penale della Corte di Cassazione, che ha rigettato il ricorso del detenuto volto all’annullamento del provvedimento ministeriale che disponeva il trattamento detentivo disciplinato da quella norma. Pur nel rispetto massimo verso questa decisione, peraltro assunta da magistrati a me noti per la loro eccezionale professionalità e da me stimati incondizionatamente, a fronte di una norma di tale rigore applicativo da apparire giusta soltanto perché di natura eccezionale, e pertanto da applicare soltanto eccezionalmente, avrei accolto le conclusioni del rappresentante della Procura Generale, anch’egli magistrato di riconosciuto valore ed autore di una requisitoria di elevatissima qualità giuridica. Ed infatti non può non convenirsi con la decisiva osservazione che la rivendicazione da parte del detenuto delle sue idee terroristiche ed i suoi scritti a sostegno delle sue scelte violente giustamente sanzionate severamente dal nostro sistema giudiziale, pur risultando di sicura, grave ed inaccettabile capacità istigatrice, non costituiscono strumento di collegamento con la criminalità organizzata e col gruppo anarco-terroristico di riferimento. Ed è proprio questo che giustifica la eccezionalità dispositiva della norma, dell’art. 41-bis O.P., la necessità di impedire al detenuto la trasmissione all’esterno di ordini e disposizioni volte a realizzare condotte criminose, natura e qualità queste non riscontrabili nella rivendicazione del proprio credo anarchico e nella generica propaganda della violenza terroristica. Di qui la mia intima convinzione che Alfredo Cospito debba scontare le pene severe giustamente inflittegli in regime detentivo ordinario e che appare del tutto giustificato un ripensamento sui margini applicativi dell’art. 41-bis O.P., da ritenere legittimi soltanto nei limiti eccezionali che ne hanno ispirato la formulazione normativa. Palermo. Il giudice Morosini: “Cambiamento oppure perderemo la sfida sulla giustizia” di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 10 aprile 2023 Parla il neo presidente del Tribunale. Avvicinare i cittadini alla giustizia che nella giustizia hanno sempre meno fiducia. Non è facile. Il primo a rendersene conto è Piergiorgio Morosini, fresco di nomina. Non a caso il neo presidente del Tribunale di Palermo parla di “grande sfida”. Da dove si comincia? “Arrivo a Palermo in una stagione particolare per la giustizia italiana. Ci sono a disposizione i fondi stanziati dal Pnrr. È una grande possibilità di rinnovamento tecnologico, organizzativo e culturale. I fondi possono, però, diventare una grande occasione perduta se non determiniamo il cambiamento. Bisogna rivedere alcune convinzioni del passato” Ad esempio? “Ci illudiamo che le riforme normative possano risolvere i problemi. Ogni due anni si assiste a riforme processuali, nel penale e nel civile. Ma non ci rendiamo conto che questi cambiamenti devono sedimentarsi per produrre orientamenti consolidati. Tutto ciò comporta un prezzo da pagare, nella qualità e nella efficienza del servizio”. Giustizia ed efficienza fanno spesso a pugni… “Per questo parlo di grandi sfide. Sono pronto ad ascoltare tutte le figure, tutti i protagonisti. Gli avvocati, il personale ausiliario e di cancelleria, i magistrati, anche quelli onorari di cui non si parla mai abbastanza, ma che sono una componente importante. Il compito è complesso, delicato, ma è anche una sfida che merita di essere combattuta”. Per le sfide bisogna essere pronti, altrimenti diventano sconfitte. Il sistema giustizia a Palermo è pronto? “La realtà palermitana ha le risorse umane per potere affrontare questa sfida. Anche in passato ha dimostrato di essere all’altezza. Penso ai processi con un certo grado di difficoltà, anche organizzativo, ma il sistema ha retto la sfida a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. Siamo stati una realtà all’avanguardia. Ci sono le intelligenze che servono. Non ho ricette, si tratta di tornare a investire sulle collaborazioni, sulle convergenze e le alleanze istituzionali. Un programma organizzativo per il tribunale di Palermo non può essere varato senza sentire il punto di vista degli avvocati”. Se ho bene inteso: nessun provvedimento calato dall’alto… “Andando nel concreto. Per sapere quante risorse servono nelle varie sezioni, immigrazione, lavoro etc. bisogna ascoltare i protagonisti. Dalle risorse che utilizzi dipende la tempestività delle risposte”. E per il settore penale? “Ho degli obiettivi, ma siamo ancora nella fase embrionale. Ad esempio la legislazione penale punta molto sulla messa alla prova per gli adulti. Quando si è di fronte a reati che possono essere puniti con minori entità offriamo al soggetto interessato una possibilità di reinserimento con programmi di lavoro. Per chi guida le strutture giudiziarie è importante avere un dialogo continuo con i rappresentanti degli enti locali e del cosiddetto ‘privato sociale’“. Torino. Carcere delle Vallette, i Radicali denunciano gravissime carenze Corriere di Torino, 10 aprile 2023 Annunciata una relazione sulla grave violazione dei dettati costituzionali sul trattamento rieducativo della popolazione del carcere. «Aspetti critici nella sezione dei nuovi giunti». Sulla condizione del carcere delle Vallette, a Torino, «presenteremo nei prossimi giorni una relazione, che invieremo alle autorità, in particolare sulla grave violazione dei dettati costituzionali sul trattamento rieducativo della popolazione del carcere». È la nota diffusa dal partito radicale del Piemonte al termine di una visita effettuata stamani, 9 aprile. La delegazione era composta da Sergio Rovasio, consigliere generale del Partito Radicale, Mario Barbaro, membro Segreteria Partito Radicale, Alberto Del Noce, Vice Presidente Camere Civili italiane, Claudio Desirò, Segretario nazionale di Italia Liberale Popolare e Roberto Capra, Presidente della Camera Penale Piemonte e Valle d’Aosta. La visita è durata circa tre ore. «Sono state riscontrate - si legge nella nota - gravissime carenze nonostante l’impegno degli operatori del carcere di Torino. In particolare si evidenziano aspetti critici nella sezione dei nuovi giunti, nel trattamento più generale dei problemi di salute, nelle difficoltà relative ai malati psichiatrici e molto grave è la mancanza di educatori». «Sapevamo - prosegue il comunicato - di trovare una situazione difficile, come denunciato anche dal Comitato Europeo di prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa comprese le carenze strutturali e di personale. Situazione che aggrava una situazione pesante riguardo il trattamento e la condizione dei detenuti». Roma. Riforma Cartabia, presentazione del libro “La Giustizia riparativa” Adnkronos, 10 aprile 2023 La “Giustizia Riparativa” alla luce della disciplina normativa contenuta nella legge “Cartabia” di modifica del sistema penale. E’ il tema dell’evento che si svolgerà a Roma il 12 aprile - alle 12 presso l’Aula Occorsio del Tribunale di Roma in piazzale Clodio - e che trae spunto dalla presentazione del libro ‘La giustizia riparativa nel D.Lgs. 150/2022’, redatto dall’avvocato Arianna Agnese e dal sostituto procuratore della Repubblica Francesco Marinaro. L’intento della pubblicazione e del dibattito, che coinvolgono principalmente magistrati ed avvocati, è quello di comunicare la portata “trasversale” di questa riforma, che richiederà un cambio di mentalità da parte di tutti gli operatori del diritto, delle persone coinvolte dai fatti di causa e della collettività. Per questo motivo sono stati invitati a partecipare due importanti firme del giornalismo - il direttore de Il Messaggero Massimo Martinelli ed il vice capo redattore del Giornale Radio Rai Fausto Bertuccioli - profondi conoscitori della cronaca giudiziaria e del circuito sociale che ruota intorno alla commissione del reato. Si tratta di uno dei primi momenti di riflessione su questa parte della riforma, ormai prossima ad entrare in vigore e il cui ambito applicativo dipenderà anche dalla capacità di assimilarne lo spirito e le implicazioni culturali che la animano, ispirate alla pacificazione ed alla condivisione del dolore e del disagio, quali veicoli per superare i conflitti sociali generati dai comportamenti illeciti di rilevanza penale. Roma. Domani sit-in per il 4° anniversario dell’incarcerazione di Julian Assange articolo21.org, 10 aprile 2023 Nel quarto anniversario dell’incarcerazione del giornalista, Free Assange Italia organizza per l’undici aprile un sit-in a Roma per chiedere la sua liberazione. Era la mattina dell’undici aprile 2019: quel giorno gli agenti della polizia britannica entravano nell’ambasciata ecuadoregna e prelevavano con la forza Julian Assange. È l’inizio dell’incubo: da lì a breve, Assange verrà condotto nel carcere di massima sicurezza di HM Prison Belmarsh, il carcere più duro del Regno Unito, insieme a detenuti pericolosissimi, senza una condanna, in attesa della sentenza che decreterà o meno la possibilità per gli Stati Uniti di estradarlo nel loro Paese, dove verrebbe sottoposto ad un processo in un tribunale composto da membri non imparziali e dove verrebbe con tutta probabilità incarcerato per sempre. Quattro anni in attesa di estradizione in condizioni fisiche e mentali estremamente deterioriate, certificate da autorevoli esponenti medici e istituzionali. 4 anni in cui può ricevere visite in condizioni umilianti e che possono essere annullate anche all’ultimo minuto, come appena accaduto. Solo per fatto il suo dovere di giornalista. In concomitanza con questa triste ricorrenza, Free Assange Italia organizza un sit-in alle 15 a Piazza della Repubblica (lato Santa Maria degli Angeli) contro l’indifferenza e i soprusi che hanno contraddistinto questa drammatica vicenda. Al sit-in parteciperanno giornalisti e colleghi di Julian Assange, oltre a cittadini e comitati. Milano. Quando la vita ricomincia in carcere chiesadimilano.it, 10 aprile 2023 Esperienze di cadute e risalite nel libro di Giorgio Paolucci «Cento ripartenze», su cui si dibatterà sabato 22 aprile nel teatro della Casa di reclusione di Opera (iscrizioni online entro il 14 aprile). La vita può rinascere anche in carcere, nel luogo che per antonomasia sembra l’emblema della vita sospesa. Eppure si può: grazie allo studio, al lavoro, all’amicizia con i volontari o con persone che aiutano a trovare un senso alla circostanza dolorosa che si sta vivendo e a dare concretezza all’articolo 27 della Costituzione, in base al quale «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Ne parleranno sabato 22 aprile, a partire dalle 11.30, il direttore della Casa di reclusione di Opera Silvio Di Gregorio, il presidente della Fondazione Casa dello spirito e delle Arti Arnoldo Mosca Mondadori e alcune persone detenute che porteranno la loro testimonianza nel teatro del carcere (via Camporgnago 40). L’occasione sarà la presentazione del libro Cento ripartenze. Quando la vita ricomincia (Itaca) di Giorgio Paolucci, giornalista e scrittore, editorialista di Avvenire. L’incontro verrà introdotto da Guido Boldrin, responsabile dell’associazione Incontro e Presenza, che da anni opera con i suoi volontari nelle carceri milanesi. Testimoni di speranza - Il libro racconta storie di chi, in diverse circostanze, ha fatto i conti con la fragilità e ha potuto intraprendere cammini di rinascita umana grazie all’incontro con quelli che l’autore definisce «testimoni di speranza», persone che hanno acceso una luce nel buio, aiutando a maturare uno sguardo positivo sull’esistenza e a sviluppare la consapevolezza che tutti abbiamo un valore. Le storie di Matteo e Ambrogio - Alcuni capitoli sono dedicati a “rinascite” avvenute durante la carcerazione. Così è accaduto a Matteo, uno dei 1.500 detenuti che in Italia sono iscritti all’università: dopo avere conseguito il diploma triennale, grazie a una borsa di studio sta frequentando un master alla Bocconi. Per lui lo studio è diventato occasione di riscatto, di misurarsi con la sua voglia di cambiamento, di preparare un futuro dopo il “fine pena” per vivere da protagonista nella società. Ambrogio, un altro protagonista del libro, dopo un periodo di detenzione seguito alla condanna per traffico internazionale di stupefacenti, sta lavorando in un centro antidroga: incontra persone che sono vittime del male da lui commesso, rivive nell’intimo le conseguenze nefaste del suo operato e opera per contribuire al loro recupero. Ostie e violini - Arnoldo Mosca Mondadori racconterà l’esperienza del laboratorio avviato nel carcere di Opera, dove alcune persone detenute producono le ostie destinate alla celebrazione eucaristica, e della liuteria, dove il legno dei barconi approdati a Lampedusa viene utilizzato per fabbricare violini. Il libro di Paolucci raccoglie cento storie che raccontano cadute e ripartenze, ambientate in diverse circostanze, ma tutte accomunate nel segno delle parole della filosofa Hannah Arendt, che l’autore cita nell’introduzione: «Gli uomini, anche se devono morire, non sono fatti per morire ma per ricominciare». Per partecipare all’incontro di sabato 22 aprile ci si deve iscrivere entro il 14 aprile compilando il modulo reperibile a questo link https://forms.gle/NVJ7Lv2tEgr1KcX19 e inviare la carta d’identità all’indirizzo invito22aprile@gmail.com. Per l’ingresso, presentarsi mezz’ora prima all’ingresso del carcere con documento di identità. Lecce. Il teatro arriva in carcere con cinque spettacoli aperti al pubblico lagazzettadelmezzogiorno.it, 10 aprile 2023 Il teatro in carcere, con una rassegna aperta al pubblico. «Dentro, il teatro» è il titolo della rassegna teatrale che si svolgerà all’interno della Casa circondariale di Lecce fino al 22 giugno, promossa da Ama, l’Accademia mediterranea dell’attore, diretta da Franco Ungaro, in collaborazione con Università del Salento e Dams Salento. Sono in tutto cinque gli spettacoli, proposti da attori e attrici salentine come Fabrizio Saccomanno, Angela De Gaetano, Lorenzo Paladini, con un ospite straordinario, l’attore-mago Sergio Bini, in arte Bustric, e un’anteprima assoluta: lo spettacolo «La regina resta» che vede in scena i detenuti di Borgo San Nicola. Si comincia il 27 aprile con Bustric, autore e interprete de «Il circo delle pulci», uno spettacolo di magia e circo contemporaneo, racchiuso in una piccola valigia in cui anche le grandi illusioni diventano minuscole. L’appuntamento è alle ore 17 e lo spettacolo sarà aperto al pubblico che però potrà prenotarsi entro e non oltre il 15 aprile, scrivendo una mail a info@accademiaama.it. (info 389-4424473 e/o https://www.accademiaama.it/progetti/attivita-in-carcere) La programmazione degli spettacoli, aperti al pubblico, prova a mantenere un legame tra il dentro e il fuori del carcere, pensando soprattutto al futuro dei detenuti fuori dalle mura e al loro reinserimento sociale. «Le attività teatrali nella Casa Circondariale di Lecce - afferma la direttrice Mariateresa Susca - sono diventate ormai parte integrante della formazione culturali dei detenuti, grazie soprattutto all’impegno costante e generoso degli attori e operatori professionisti dell’Accademia Mediterranea dell’Attore. L’impatto che il teatro produce sul benessere fisico e psichico dei detenuti è sotto i nostri occhi e l’avvio di una programmazione di spettacoli aperta anche al pubblico esterno aggiunge ulteriori benefici in termini di opportunità per l’inserimento sociale dei detenuti» I prossimi appuntamenti saranno giovedì 4 maggio, alle ore 17, con «Bocche di dama» di e con Angela De Gaetano; giovedì 25 maggio, ore 17, con «Jancu un paese vuol dire», di Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno; domenica 11 e lunedì 12 giugno, sempre alle 17, con «La regina resta». Bari. Il sogno di Asterione in scena all’Istituto penitenziario minorile baritoday.it, 10 aprile 2023 Nel 25esimo anniversario di attività del progetto ‘Sala Prove’, laboratorio teatrale con i giovani detenuti curato da Lello Tedeschi per Teatri di Bari, la Compagnia Sala Prove porta così negli spazi del carcere minorile la storia di Asterione (Signore delle stelle), uno dei nomi con cui era conosciuto il Minotauro, rinchiuso dalla nascita in un labirinto a Creta dal re Minosse. Il testo si ispira a un racconto di Borges (La casa di Asterione), in cui è lo stesso Asterione della propria condizione di prigioniero. Un racconto che è tra i miti fondativi del progetto teatrale Sala Prove, insieme a quelli di Pinocchio e Amleto, perché mostra le principali ragioni per cui fare teatro in un carcere minorile. “Un racconto che è tra i miti fondativi del nostro teatro in Sala Prove, con Pinocchio e Amleto, capace com’è di raccontare poeticamente le ragioni del nostro fare teatro in un carcere minorile - spiega Tedeschi - Racconta un’attesa, l’attesa di Asterione per la propria liberazione attraverso la morte per mano di qualcuno (l’eroe Teseo) che prima o poi sa che arriverà, in quel labirinto. Che è una prigione. Ma anche casa, la sua casa, dove aspettando vive e immagina (sogna?), che qualcuno venga a fargli visita. E (immaginiamo noi) se questo qualcuno fosse il suo liberatore Teseo? Cosa potrebbe accadere?”. Lo spettacolo conclude il progetto nazionale ‘Per Aspera ad Astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza’ - ideato e capitanato da Carte Blanche/Compagnia della Fortezza e promosso da Acri - Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio SpA - che per la sua V edizione ha visto anche Sala Prove nella rete finalizzata a promuovere e rafforzare progetti attivi o di possibile prossima attivazione all’interno degli istituti penitenziari che mirino alla formazione, al recupero, alla rieducazione e alla risocializzazione del detenuto tramite il teatro nonché le arti e i mestieri propri dell’attività teatrale. Nell’ambito di Per Aspera ad Astra è stato così attivato all’interno dell’Ipm un corso di formazione professionale, diretto dallo stesso Tedeschi, che ha visto come docenti Damiano Nirchio, Vittorio Palumbo, Vincerto Ardito per Sinapsi Produzioni Partecipate e Michele Lucarelli. Il sogno di Asterione riflette proprio sulla condizione del protagonista, in rapporto a quel luogo, il labirinto, che è casa e prigione allo stesso tempo: “Con questo lavoro stiamo forse a riflettere quanto potremmo essere noi, Asterione, E abitarci tutti, in quella casa prigione labirinto, umani e bestiali a un tempo. Solo che forse, per dirla con Borges, non ne abbiamo più memoria”. Lo spettacolo è a ingresso gratuito, con prenotazione obbligatoria, inviando copia del documento d’identità all’indirizzo botteghino@teatrokismet.it, entro e non oltre mercoledì 12 aprile. Per informazioni si può chiamare il numero 3358052211. “The good mothers”, la parte femminile della ‘ndrangheta di Gianluigi Rossini Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2023 Premiata alla Berlinale, la serie racconta la storia vera di Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia, morta per mano del marito, e la centralità della donna nella mafia calabrese. Peccato per il moralismo e certa superficialità. Dopo aver vinto il primo Berlinale series award a febbraio scorso, “The good mothers” è arrivata su Disney+ con tutti e sei gli episodi. La serie è tratta dal libro omonimo di Alex Perry, un best seller che, incredibilmente, nel nostro Paese ha avuto un adattamento audiovisivo ma non ancora una traduzione. La storia è basata su fatti reali: Lea Garofalo (Micaela Ramazzotti), moglie dello ‘ndranghetista Carlo Cosco (Francesco Colella), è stata una testimone di giustizia che lo Stato non ha mai preso abbastanza sul serio, sfinita da una vita insostenibile dentro e fuori dal programma di protezione, con la minaccia costante di essere uccisa dai propri familiari. Era inevitabilmente coinvolta in quest’incubo anche la figlia minorenne Denise (Gaia Girace), e probabilmente fu per lei che Garofalo decise infine di riallacciare i rapporti con il marito, per essere uccisa poco dopo. L’unica a capire fino in fondo l’accaduto è la PM Anna Colace (Barbara Chichiarelli), che intuisce una cosa fondamentale: le donne della ‘ndrangheta sono tanto centrali per l’organizzazione quanto private di ogni libertà, schiacciate da un sistema patriarcale orribilmente oppressivo. Con un po’ di persuasione sarebbe possibile portarle dalla parte della giustizia. Colace funziona allo stesso tempo da narratrice e da sostituto schermico per il pubblico: perché queste donne parlino, ci spiega, è necessario capirle a fondo, rendersi conto di quanto sia difficile per loro staccarsi dal sistema di potere in cui sono cresciute, nonostante tutte le vessazioni subìte. Così Giuseppina Pesce (Valentina Bellè), una donna intelligente e brutalizzata dai maschi della famiglia, ha bisogno di fare un complesso percorso prima di potersi fidare di una giustizia che non ha mai conosciuto. Denise, al contrario, compie un viaggio a ritroso da una Milano moderna alle profondità della Calabria più arretrata. “The good mothers” è quel tipo di miniserie che ci aspetteremmo dalla Rai, una fiction ben fatta, piuttosto tradizionale e attenta alla morale complessiva, con personaggi un po’ troppo monodimensionali e poca suspense. La parte più interessante forse è quella visiva, gli scorci dei paesi calabresi privati di ogni romanticismo, fatti di case abbandonate, muri senza intonaco e abusi edilizi. Migranti. Il pericoloso rilancio dei Centri per il rimpatrio di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 10 aprile 2023 Il Garante dei detenuti: “Inefficaci e inumani: l’uso di psicofarmaci è inquietante”. Il governo promette di rafforzare le espulsioni degli irregolari. E per farlo intende potenziare capienza e numero dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), i luoghi di detenzione degli stranieri in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione. Con più di 42 milioni di euro già previsti nell’ultima legge di Bilancio, il decreto sull’immigrazione varato dopo la tragedia di Cutro mette in campo procedure semplificate per la realizzazione di nuovi Cpr. Dai nove attualmente attivi, infatti, il governo Meloni vuole arrivare un centro in ogni regione. Non solo: anche il periodo di trattenimento potrebbe aumentare, dagli attuali 90 giorni a 120 o addirittura a 180, come previsto nei decreti sicurezza del primo governo Conte che la Lega vorrebbe ripristinare. Eppure i numeri hanno ormai smentito l’efficacia di queste strutture. “Avere più Cpr non serve a niente, se non a dare il messaggio simbolico del “li teniamo chiusi qui”, nient’altro”, assicura Mauro Palma, Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Ma nel frattempo, spiega, “in quei posti le persone cambiano e quando ritornano nelle nostre comunità, come il più delle volte accade, sono peggiorate”. Presidente Palma, rispetto ai 500 mila irregolari stimati nel nostro Paese, i numeri dei Cpr sono minuscoli. Chi ci finisce? Complessivamente ci finiscono 10 mila persone l’anno, al massimo. Che sono il 2% degli irregolari e il turnover è molto limitato. Ma non è mai stato rimpatriato più del 50% dei trattenuti, anche quando ci stava per periodi più lunghi. Cavalcare l’emergenza e dire “abbiamo molti migranti, acceleriamo e ampliamo i Cpr” si scontra con i dati di realtà di cui disponiamo: delle 6.000 persone rimpatriate in media ogni anno, il contributo dei centri è di 3.000 rimpatri. Allora a che serve aumentare i Cpr? Ci tengo a premettere una cosa: le mie riflessioni sono sempre volte al funzionamento delle istituzioni, non al loro abbattimento. E tutelare la nostra civiltà significa tutelare le persone, anche quelle che vanno rimpatriate. Ma i Cpr si sono dimostrati uno strumento inefficace: se non realizzi rapporti bilaterali ampliando la facilitazione della riaccoglienza dei Paesi d’origine, i numeri rimarranno gli stessi e questi luoghi serviranno solo a dare un messaggio simbolico quanto fuorviante, perché alle persone che non rimpatri darai un foglio di via che non verrà ottemperato e si ricomincia. Qual è il prezzo di questa inefficacia? La Convenzione europea dei diritti dell’uomo consente la detenzione di persone contro le quali è in corso un procedimento d’espulsione, ma va ricordato che la Convenizione è del 1950, quando si contemplavano casi sporadici. Oggi quel fondamento mi pare tirato come un elastico, mentre nei Cpr manca del tutto la tutela giurisdizionale e, al contrario delle carceri, non c’è il magistrato di sorveglianza. Né ci si preoccupa di trattenere persone senza possibilità di rimpatrio o di detenerle anche sapendo che non potranno partire, come si è fatto durante la pandemia. L’assenza di tutele è evidente anche nella commistione tra chi ha commesso reati, e sta nel Cpr per una misura amministrativa aggiuntiva alla sentenza penale, e chi invece non ha commesso alcun reato. Il mensile Altreconomia ha pubblicato i dati sugli psicofarmaci nei Cpr: l’uso della sedazione sembra fuori controllo... Sono dati inquietanti. I comportamenti di insofferenza acuta sono il prodotto del vuoto delle giornate, che finiscono per essere riempite o con la disperazione (con episodi di autolesionismo e suicidi, ndr) o con il danneggiamento delle strutture. Sono il frutto di uno spazio dove non sei nulla, non fai nulla e nulla avviene, salvo rimuginare sul proprio destino che è un destino di fallimento, quello del rimpatrio. Investire sulla presenza di mediatori culturali e operatori sociali sarebbe un modo per ridurre la disperazione e anche gli psicofarmaci, che in centri come quelli di Milano e Roma valgono più della metà dell’intera spesa sanitaria. E come segnala l’inchiesta di Altreconomia, la maggior parte dei centri non ha voluto fornire i dati. Chi si prende la responsabilità? Per essere ammessa, la persona deve essere certificata dal Servizio sanitario nazionale, che rilascia il nulla osta. Ma una volta dentro il medico è quello dell’ente gestore che ha vinto il bando delle prefetture, quindi anche eventuali trattamenti sanitari già in corso vengono di fatto privatizzati. Anche la vigilanza Asl sulla salubrità degli ambienti è molto rada. Non c’è lo Stato, ma c’è un privato e bandi sempre aggiudicati al risparmio. Nelle stesse strutture si vogliono sempre più persone e sempre meno personale. E siccome le rette non sono mai state riviste, le risorse messe in campo sono sempre più limitate. Allungare i tempi di trattenimento non solo è improduttivo, ma peggiorerà la situazione. Un comportamento che purtroppo riguarda tanta parte dell’Unione europea, dove la paura dell’invasione determina scelte irrazionali. C’è un altro modo? Manca una percezione sociale del problema, anche nell’opinione pubblica più informata. Tutto diventa di nicchia e ideologico. Serve più calma e si può innanzitutto ripartire dai dati, che ormai abbiamo. Facciamo una conferenza nazionale sul problema degli stranieri che devono tornare nel Paese d’origine perché non hanno diritto a rimanere. Va data una valutazione sul piano dell’investimento di spesa e di rapporto con le comunità locali, che è un processo lento che non si esaurisce nei messaggi elettorali. Perché è nelle nostre comunità che tornano le tante persone che transitano dai Cpr senza essere rimpatriate, e ci tornano in una condizione peggiore. Cosa propone? Prima ancora di guardare dentro ai Cpr, ci vuole maggiore attenzione all’inserimento lavorativo e sociale: ho visto nei Cpr persone che parlano perfettamente l’italiano, da anni nel nostro Paese. Quanto ai centri, luoghi di attesa come questi devono avere un investimento nel tempo da spendere lì e ci vogliono tutele giurisdizionali, anche evitando la commistione tra chi ha commesso reati e chi è detenuto per la pura irregolarità amministrativa. Secondo: impegno e trasparenza sugli accordi con i paesi di provenienza. Infine, lo ribadisco, mettiamo insieme le migliori intelligenze per affrontare la questione in modo strutturale. Le azioni di una democrazia devono avere la prospettiva più lunga possibile, non quella di chi mette una toppa di volta in volta. Medio Oriente. La scomparsa del sogno palestinese di libertà è una questione globale di Chiara Cruciati Il Manifesto, 10 aprile 2023 Intifada popolari, diplomazia a perdere, lotta armata dalla vita breve, attacchi individuali: nulla ha scalfito il sistema di segregazione israeliano. Perché questi “fallimenti” hanno un responsabile: la complicità internazionale verso il colonialismo d’insediamento, di cui oggi sono volto sia il governo di estrema destra sia le proteste israeliane contro Bibi. Venerdì sera le notizie si inseguivano confuse. Un attentato a Tel Aviv, una sparatoria, poi un’auto lanciata sulla folla. Quattro feriti, sette, un morto, un italiano, Alessandro Parini. Ieri i dubbi sulla terribile vicenda non si erano dissipati, neppure per la polizia israeliana: attentato, dunque atto volontario, o drammatico incidente. Resta una certezza: la questione israelo-palestinese non è relegata a quel pezzo di terra, ha conseguenze nella regione e nel mondo. Non è la prima volta che un cittadino italiano le subisce. Nel marzo 2002 il fotoreporter Raffaele Ciriello fu abbattuto da una raffica di mitra dell’esercito israeliano durante l’assedio di Ramallah, in piena Seconda Intifada. Nell’agosto 2006 Angelo Frammartino, volontario, morì accoltellato da un palestinese nella Città Vecchia di Gerusalemme. E nell’aprile 2011 l’attivista Vittorio Arrigoni fu rapito e ucciso da una banda di islamisti nella Gaza diventata sua seconda casa. Non solo italiani, una su tutti la statunitense Rachel Corrie schiacciata da un bulldozer israeliano a Rafah, venti anni fa. La questione palestinese è globale. Lo è per l’effetto destabilizzante che continua ad avere in Medio Oriente ma soprattutto per le contraddizioni che squarcia in un Occidente che non sa chiamarla con il suo nome: un colonialismo d’insediamento che da 75 anni impedisce l’autodeterminazione di un popolo in diaspora continua. Gli effetti, rivoli di violenze e ingiustizie, colpiscono in crescendo dentro i suoi confini (solo nel 2023, 94 i palestinesi uccisi da esercito israeliano o coloni, 17 gli israeliani) e oltre. E spingono ad analizzare le ragioni dietro atti che da anni ormai definiscono il perimetro della reazione palestinese a un orizzonte che non c’è. Attacchi individuali, spesso commessi da giovani e persone estranee a partiti o movimenti strutturati, che assumono su di sé la dolorosa incapacità di dare forma a una resistenza politica organica. Poco conta la rivendicazione che sempre segue, il cappello che ci mettono le sigle più note, sia Hamas o la Jihad Islami. Dalla fine della Seconda Intifada, il popolo palestinese è caduto in un buco nero. L’assenza di una leadership politica, l’ingombro di un guscio vuoto istituzionale (l’Autorità nazionale palestinese), la crescita degli islamisti, la morte cerebrale dell’Olp, l’indifferenza dei paesi arabi hanno aperto un divario sempre più incolmabile tra i vertici e la base. Le conseguenze le vediamo: oltre agli atti individuali, a emergere in questi mesi è una nuova forma di lotta armata in Cisgiordania che ha vita breve come quella dei suoi combattenti, seguiti e “neutralizzati” uno a uno dalle incursioni sempre più violente dell’esercito. Non è un caso che siano le iniziative popolari, apartitiche ma profondamente politiche, le sole in grado di generare un reale coinvolgimento di massa in ogni enclave della Palestina storica. Come la Grande Marcia del Ritorno, lanciata a Gaza nel marzo 2018, o la mobilitazione contro gli sgomberi di decine di famiglie palestinesi dalle loro case nel quartiere di Sheikh Jarrah, nella primavera del 2021. Cos’è cambiato nella percezione internazionale della questione palestinese o nella reazione israeliana? Nulla. Due Intifada popolari, con la loro portata di disobbedienza civile e partecipazione totale, di classe e di genere, non sono riuscite nemmeno a intaccare il sistema di segregazione israeliano. Non c’è riuscita l’Olp di Arafat, calpestando i sogni di libertà palestinesi pur di ottenere un pezzo di terra da chiamare Stato. Non ci riesce, ovviamente, l’Anp di Abu Mazen che in cambio di una bandiera e di una distribuzione elitaria di ricchezze ha abdicato a qualsiasi forma di movimento di liberazione. Cosa può mai nascere da folli atti di violenza di singoli, mossi non dalla speranza di libertà ma dalla disperazione per la scomparsa non solo di un futuro, ma anche della capacità di immaginarlo? Perché questi fallimenti hanno un responsabile: la complicità della comunità internazionale verso un colonialismo d’insediamento che nei decenni si è radicato fino a tramutarsi in ciò che organizzazioni internazionali, palestinesi e israeliane non temono di chiamare apartheid. Etnocrazia, il termine che usano in tanti e che appare il più consono di fronte sia alla radicalizzazione nazionalistico-religiosa assunta dagli ultimi governi israeliani sia alle proteste di questi mesi. Un’apparente contraddizione, viene da pensare vedendo un’ampia fetta della popolazione israeliana, di diversa appartenenza sociale e politica, ribellarsi alla riforma della giustizia teorizzata dal premier Netanyahu e dall’estrema destra. Non lo è. Quella mobilitazione, storica, è una mobilitazione conservativa, volta cioè al mantenimento dello status quo e che finge di non vedere il vulnus che da 75 anni impedisce di definire Israele una democrazia (e di cui il sistema giudiziario è uno dei fautori): l’esistenza di sei milioni e mezzo di palestinesi, di qua e di là dal Muro, sottoposti a identica autorità nello stesso territorio ma privi dei diritti di sei milioni e mezzo di israeliani ebrei. Lo dice il modo in cui la mobilitazione si è per ora spenta, sopravvivendo in numeri ristretti e discontinui: per fargli digerire il rinvio della riforma, Netanyahu ha promesso al ministro razzista Ben Gvir una milizia anti-palestinese, fuori da ogni diritto. Le piazze si sono svuotate, nessuno ha fiatato. Sri Lanka. L’arcivescovo Ranjith: la speranza di Pasqua è di avere giustizia di Luca Collodi vaticannews.va, 10 aprile 2023 Il cardinale arcivescovo di Colombo testimonia le difficoltà del suo Paese in crisi economica e continua a chiedere un’inchiesta per far luce sui responsabili degli attacchi del 2019, quando furono colpite tre chiese e morirono 253 persone: “La solidarietà del Papa ci spinge ad andare avanti verso la riconciliazione”. Durante la Pasqua di quattro anni fa, il 21 aprile 2019, alcuni dei principali luoghi di culto cristiani dello Sri Lanka, oltre ad alberghi di lusso a Colombo, furono colpiti da una serie di attacchi terroristici di matrice islamista. Oltre 250 i morti e circa 500 le persone feriti dalle bombe suicide di sette kamikaze. Da allora le celebrazioni di Pasqua sono ancora di più il centro della vita religiosa e comunitaria della minoranza cattolica del Paese, guidata dal cardinale Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo, in una situazione resa ancora più difficile dalla crisi economica che sta colpendo l’isola dell’Oceano indiano. Cardinale Ranjith che cosa resta nella memoria degli attentati della Pasqua 2019? È ancora viva la memoria di ciò che è successo, ma purtroppo non c’è ancora una soluzione perché i governi che abbiamo avuto fino ad oggi non hanno fatto nessun tentativo serio per indagare e sapere chi c’è stato veramente dietro questi attacchi. In superficie si sono visti alcuni estremisti islamici che hanno compiuto un attacco suicida, però sono emersi degli elementi che indicavano un legame tra alcuni gruppi politici e questi terroristi. Poi sono emerse indicazioni che tale attentato è stato compiuto con uno scopo politico, cioè creare nel Paese una certa islamofobia e galvanizzare gli elettori a votare a favore di un candidato particolare. In questa situazione, dato che probabilmente gli stessi che erano coinvolti sono al potere ora, un’investigazione trasparente, non esiste, non succede. Loro cercano di evitare tale investigazioni, anche se noi lo abbiamo chiesto e persino il Santo Padre ha fatto diversi appelli per una per un’inchiesta trasparente, ma non ci è stata concessa. Perciò noi non sappiamo esattamente chi c’è stato dietro questi attentati, è una situazione di incertezza. La comunità cattolica, ma anche gli altri sono veramente scontenti di ciò che succede e stiamo sempre gridando e chiedendo allo stato una investigazione trasparente sulla colpevolezza di questa gente. Sarà una pasqua di crisi economica che attraversa il Paese? Sì, certo, perché come indicano le statistiche, un terzo della popolazione del paese, cioè almeno 8,3 milioni di persone, non riesce a mangiare almeno una volta al giorno abbastanza bene o a sufficienza. Soprattutto ci sono le sofferenze dei più poveri, dei bambini, dei malati, di diversi settori che soffrono a causa di situazioni tragiche. Loro soffrono moltissimo, perciò stiamo attraversando un momento triste nel nostro Paese Qual è il messaggio di speranza della chiesa locale al popolo dello Sri Lanka? Ultimamente il governo sta cercando di imporre delle leggi che violano i diritti umani, cercando di creare dei sistemi di controlli sulla libertà di espressione e loro vogliono imporre dei limiti con una legge. Allora il paese sta andando verso una situazione molto più grave di come era prima. Sempre abbiamo la speranza e perciò speriamo che il 21 aprile, il giorno del quarto anniversario, noi possiamo come Paese - non solo la comunità cattolica, ma anche le altre comunità insieme - fare la nostra richiesta ad alta voce al governo di dare giustizia alle famiglie che hanno perso qualcuno a causa di questi attentati e alle persone che sono rimaste ferite e con difficoltà portano avanti la loro vita a causa di queste ferite. Vogliamo giustizia C’è comunque una grande solidarietà della chiesa universale nei confronti dello Sri Lanka… Siamo commossi della solidarietà che abbiamo sentito, soprattutto dal Santo Padre Papa Francesco che dal primo momento in cui ha sentito degli attentati si è messo ad aiutarci, ad appoggiarci, a mandare dei messaggi e degli inviati speciali per mostrare la sua vicinanza a chi ha sofferto. Anche lui è molto conscio della sofferenza generale della popolazione e ha cercato di aiutarci anche finanziariamente per andare avanti con un programma di assistenza alimentare alle famiglie più povere del Paese. Perciò questa solidarietà ci commuove e ci dà anche coraggio per andare avanti con il nostro impegno per la giustizia e la riconciliazione tra i popoli. Giappone. Il prossimo round di Hakamada, un condannato a morte di 87 anni di Emanuela Audisio La Repubblica, 10 aprile 2023 I pugili sono sempre colpevoli perfetti. Aggressivi per professione. Tra chi fa il pasticciere e chi sale sul ring in pochi hanno dubbi. Vuoi non sospettare di loro? Spesso gente semplice, incapace di difendersi fuori dal quadrato (e qualcuno nemmeno dentro). Prendete Iwao Hakamada, ex peso piuma giapponese, che oggi ha 87 anni. Il Guinness World Records nel 2011 ha certificato il suo primato, quello di essere il condannato a morte più longevo. Dead man walking dal 1966. Il detenuto rimasto per più tempo al mondo in attesa della sua esecuzione. Iwao, rilasciato nel 2014, si è fatto 48 anni in galera di cui 30 in isolamento. Quasi mezzo secolo dietro le sbarre. È entrato in carcere da padre di due bambini, ne è uscito da vecchio, pieno di fobie, ormai incapace di intendere. Se su Rubin Hurricane Carter sapete tutto, grazie a Bob Dylan e a un film famoso, la storia del detenuto recordman per cui si sono mobilitati in molti (anche Amnesty) è meno conosciuta. La buona notizia è che a metà marzo l’Alta Corte di Tokyo ha autorizzato la revisione del suo processo. Dopo 57 anni, non male. In Giappone saranno puntuali i treni, come anche la Shinkansen, ma si vede che la levitazione magnetica usata per l’alta velocità non funziona nella giustizia. Nel ‘66 Hakamada ha 30 anni e ha già smesso di combattere (non è stato un fenomeno), lavora in una fabbrica di miso, il 30 giugno un incendio distrugge la casa di uno dei capi. Quando spengono le fiamme si accorgono che ci sono quattro cadaveri: il boss, la moglie e due figli. E che prima sono stati accoltellati. Mancano anche 200 mila yen. L’ex pugile viene fermato ad agosto. Lo interrogano per 264 ore, dalle 12 alle 16 ore al giorno, in una stanza calda, senza aria condizionata. Non può bere né andare a fare i suoi bisogni, gli concedono di parlare con l’avvocato tre volte, per sette, dieci, quindici minuti. Lo trattano duramente. “Ero sdraiato a terra, dolorante, mi hanno piegato il braccio, dato calci, e costretto a firmare una confessione già scritta”. Esausto, dopo 21 giorni, ammette il delitto. Lo sterminio di una famiglia ha finalmente un colpevole. Al processo Iwao ritratta: “Mi hanno torturato”. Direte: le prove del suo coinvolgimento? Un pigiama con qualche goccia di sangue e tracce di benzina. Primo dubbio: uccidi quattro persone in una casa che non è tua in pigiama? Ah sì, l’arma del delitto. Un coltello da frutta, la cui lama, nonostante le molte pugnalate (dalle 6 alle 15 per ogni corpo) non si è rovinata. Insomma, altri dubbi. Guarda caso, 14 mesi dopo il crimine, in una botte del miso, condimento a base di soia fermentata, trovano un resto di maglietta e di pantaloncini con tracce di sangue scuro, ma colori ancora chiari. La taglia non è quella di Iwao, ma dice l’accusa sarà perché con il tempo si è ristretta nella cisterna di soia. Allora perché i colori no? Nuova ipotesi: Hakamada prima ha ucciso e poi si è messo il pigiama (che però scompare dalla scena). Iwao dalla prigione scrive 5 mila lettere, anche alla madre, ribadisce con senso poetico che non è stato lui: “Prego e spero che le mie parole vi arrivino attraverso i venti di Shizuoka”. Nel ‘68 tre giudici lo condannano a morte e sgridano la polizia per i metodi violenti: “Non si ottengono le confessioni così”. Vero, ma nemmeno i processi si fanno così. La Japan Pro Box Association protesta: “Il vostro è un pregiudizio contro i pugili, non avete prove”. La difesa fa ricorso, ma nell’80 la pena viene riconfermata, tre giudici lo condannano a morte. Nell’81 Iwao cambia il team di avvocati e chiede la revisione del caso: il coltello è troppo piccolo per aver inferto quelle ferite, la porta attraverso la quale Hakamada sarebbe entrato nella casa era chiusa a chiave, gli abiti trovati non sono della sua misura. La Corte di Shizuoka nel ‘94 gliela nega. Ci mette tredici anni per dire no. Lui intanto scrive al figlio: “Proverò che sono innocente, romperò le catene di ferro e tornerò da te”. Illuso. Resta nel braccio della morte, ogni giorno in attesa della fine, ma non viene giustiziato perché il ministro della Giustizia si rifiuta di firmare l’ordine. “Troppe incongruenze”. Nel 2006 la difesa avanza una nuova richiesta di revisione. A marzo 2007 il giudice Kumamoto, uno dei tre che hanno emesso la sentenza, si dimette e rivela che ha sempre ritenuto Hakamada innocente. “Forse avrei dovuto parlare prima, mi dispiace non essere riuscito a convincere i miei due colleghi, andrò personalmente in carcere a portare le mie scuse”. Glielo vietano. E lo incolpano anche di rivelare notizie sul sistema giudiziario solitamente segreto e sulla disumanità degli interrogatori. Riparte una campagna di opinione, vi partecipano anche il pugile americano Rubin Hurricane Carter, che si è fatto ingiustamente 20 anni di galera, e l’attore inglese Jeremy Irons che si batte per “the world’s longest-serving death row prisoner”. Lo stesso giudice Kumamoto chiede un nuovo processo. Nel 2008 l’Alta Corte nega la richiesta: “Non ci sono dubbi sulla colpevolezza di Hakamada”. Già, il 10 marzo 2011, giorno del suo 75esimo compleanno, Hakamada diventa il campione dei condannati a morte, il più duraturo. Ha vinto il titolo, quello che non gli era riuscito sul ring. Nel 2012 gli prelevano un campione di sangue per un test del Dna da confrontare con la traccia trovata sulla maglietta dell’assassino. Non corrisponde. Un ex poliziotto che seguì le indagini rivela: “Quattro giorni dopo il fatto esaminammo quella botte di miso con un lungo bastone, non trovammo niente, strano che un anno dopo abbiano scoperto resti di indumenti”. Iwao a marzo del 2014 viene rilasciato, la Corte motiva: “Prove fabbricate, mantenere un 78enne in carcere in attesa del nuovo processo è insopportabilmente ingiusto”. Diventa così il sesto condannato a morte giapponese a cui viene concesso il diritto di tornare in tribunale (quattro dei cinque sono stati assolti). Ma non può festeggiare, viene subito portato in ospedale. Diabete, ma soprattutto non ci sta più con la testa, è psicotico. Se per oltre 40 anni il tuo giorno può essere l’ultimo, è il minimo. A giugno 2018 l’Alta corte di Tokyo ribalta la sentenza che ha rilasciato Hakamada: il test del Dna non è ammissibile, il caso torna alla Corte Suprema (il quarto grado di giudizio nel sistema legale giapponese), che lo rinvia all’Alta Corte che tre settimane fa ha deciso: Hakamada merita un nuovo processo. Sapete chi ha lottato meglio di un pugile in questa eternità di tempo per lui? Sua sorella Hideko, novantenne, che lo ha accolto a casa (madre e fratello sono morti). Grazie per la pazienza, Iwao a 87 anni attende: non è stato ancora assolto. Dice la sorella che lui cammina per ore nella stanza avanti e indietro. “Come stesse ancora in cella”. Hurricane Carter titolò il suo libro “Il 16esimo round”. Quello che non esiste. Quello del pregiudizio contro i pugili.