Perché tanti suicidi a Sollicciano e in Italia? di Mario Iannucci* Ristretti Orizzonti, 9 agosto 2023 Sabato 15 luglio si è avuta notizia dell’ennesimo suicidio a Sollicciano, il sesto nell’arco di un anno. Gaia Tortora, che ha visitato di recente l’istituto, ha denunciato il clima tremendo dell’istituto. Tremendo non tanto per via del caldo, della fatiscenza delle mura di cemento che rendono quel caldo insopportabile (lo dico con cognizione di causa, poiché ho lavorato per trentacinque anni in quel terribile carcere), non tanto per via delle blatte e della sporcizia. Il clima è tremendo perché, all’interno di quell’istituto, ci si immerge in una totale e inevitabile disperazione, nell’assenza cioè di ogni speranza. Dentro quelle mura fatiscenti ciò che impera è il dilagante disagio mentale. Perché tanti suicidi nel carcere fiorentino? Il meteo può essere invocato, anche se, durante tutti gli anni della mia lunga permanenza a Sollicciano, l’estate era inevitabilmente rovente. La fatiscenza dell’istituto e la sporcizia possono e debbono essere invocate, ma solo perché testimoniano della scarsissima attenzione che la società civile e tutte le istituzioni riservano ad un luogo per il quale lo sguardo e l’attenzione dall’interno e dall’esterno svolgono invece una funzione vitale: scotomizzare il problema del disagio esistenziale recluso è d’altronde indispensabile per chiunque voglia andare al mare o in montagna senza nutrire gravi sensi di colpa. Per cercare di dare qualche spiegazione della fortissima incidenza dei suicidi a Sollicciano, per fortuna non può essere invocato il sovraffollamento penitenziario: se si prescinde dal calo temporaneo di presenze post indulto 2006, a Sollicciano per moltissimi anni non si è scesi sotto la soglia degli 800 detenuti presenti mediamente in istituto, mentre attualmente, stando a ciò che ci racconta Gaia Tortora nel suo articolo, i detenuti a Sollicciano sono appena 436, e quindi attorno alla capienza ‘regolamentare’. Benissimo la ‘sentenza Torrigiani’ della CEDU, che indica la necessità di garantire a ciascun detenuto un minimo spazio vitale. Tuttavia non ho mai pensato che ci si tolga la vita per un metro cubo in meno di spazio abitativo. L’articolo di Gaia Tortora ci dipinge esempi interessanti delle persone con gravi disturbi psichici che la giornalista ha incontrato andando in giro per le sezioni del carcere. Ma soprattutto Gaia Tortora scrive qualcosa che può davvero illuminare se si intende provare a riflettere sulle vere ragioni di tanti suicidi. Ella scrive: “Qui [a Sollicciano], quando arriva lo psichiatra, spesso dice che il soggetto è normale e così la partita si chiude”. Sappiamo, purtroppo, che ciò che scrive la giornalista accade davvero. I soggetti affetti da gravissimi disturbi psichici rappresentano ormai una fetta assolutamente consistente (se non prevalente) almeno dei grandi Case circondariali. Le persone affette da croniche dipendenze da sostanze, da gravi o gravissimi disturbi di personalità o da altri disturbi psichici ‘maggiori’, sono la porzione assolutamente prevalente della popolazione detenuta. Solo una piccola percentuale dei folli rei (persone con gravi disturbi psichici che compiono reati) viene giudicata incapace di intendere e di volere e quindi prosciolta per vizio di mente. Solo taluni dei prosciolti vengono giudicati socialmente pericolosi e destinati al ricovero in una REMS. Eppure, se circa 700 rei folli (persone che hanno compiuto dei reati e sono stati riconosciuti affetti da “vizio di mente”) sono attualmente ospitati nelle REMS, altrettanti sono invece i rei folli che non possono entrare nelle REMS per mancanza di posti. Molti di costoro, sebbene riconosciuti portatori di una consistente pericolosità sociale, restano liberi, con misure di controllo scarse o assenti. Non pochi dei rei folli, poiché fortunatamente ci sono ancora dei Giudici assennati, rimangono in carcere in attesa di entrare delle REMS, perché troppo pericolosi da un punto di vista sociale. Spesso se ne stanno nelle sezioni ordinarie, dove si può immaginare quali problemi creino agli altri compagni di detenzione e al personale della Polizia Penitenziaria che deve necessariamente provvedere alla loro cura molto più che alla loro custodia. Davvero a poco, di fronte al dilagare di un disagio psichico intramurario così profondo e diffuso, serve la sporadica e del tutto insufficiente presenza delle ATSM (Articolazioni Tutela Salute Mentale; già il nome la dice lunga sulla loro quasi totale inefficacia). A poco serve, come al solito, una condanna CEDU per questa detenzione illegittima in carcere di malati di mente che il Giudice ha invece stabilito che debbano essere ricoverati in Residenze sanitarie (le REMS sono sanitarie). Ma il problema è soprattutto costituito dall’atteggiamento ormai prevalente della psichiatria italiana di fronte alla questione ineludibile della pericolosità sociale che è strettamente connessa a molte forme di grave disagio psichico. Qual è dunque tale atteggiamento? E’ quello sintetizzato dalle parole di Gaia Tortora. Allorquando nei pazienti con gravi turbe mentali emergono anche elementi di pericolosità sociale, la psichiatria si tira indietro: dice che la gestione del soggetto compete alle Forze di Polizia, ai Giudici, al Personale Penitenziario, a tutti meno che agli Operatori della Salute Mentale. Dice che i soggetti che presentano elementi antisociali, sebbene presentino anche altri profondi elementi psicopatologici, non sono di competenza della ‘Salute Mentale’, sono cioè “normali”, per dirla con Gaia Tortora. Non solo. Mentre la psichiatria di tutto il mondo si confronta con il problema assolutamente arduo di rendere gentile la coazione alla cura per i gravi pazienti non condiscendenti (non-compliant), dalle nostre parti non si viene considerati bravi e buoni psichiatri se non ci si batte per il “diritto alla pena” dei pazienti psichiatrici autori di reato e per l’abrogazione delle norme sul Trattamento Sanitario Obbligatorio. Ma si va oltre. Mentre la psichiatria accademica di tutto il mondo diffonde le linee guida per la prevenzione del suicidio nei pazienti con gravi turbe mentali, nel nostro Paese (ma anche altrove) ci sono psichiatri che teorizzano l’imprevedibilità del suicidio e, dunque, l’impossibilità per gli Operatori della Salute Mentale di operare una efficace prevenzione. Ci sono addirittura psichiatri e legislatori, in altre parti del mondo, che sottoscrivono norme di legge per garantire il suicidio medicalmente assistito ai pazienti, unicamente affetti da gravi patologie mentali, che chiedano di porre fine alla loro vita. Non ci meravigliamo, allora, se a Sollicciano si impicca un detenuto, padre di cinque figli, che sarebbe dovuto uscire in libertà il prossimo autunno. Non ci meravigliamo, anche se l’uomo “aveva più volte minacciato il suicidio”, anche se “spesso veniva visto con qualche filo o qualche piccola cordicella attorno alla gola”, anche se “si era procurato vari tagli nel corpo per autolesionismo e aveva ingerito in passato delle pile stilo, [anche se] aveva problemi di salute mentale [ed] era stato più volte ricoverato in ospedale, dove però era lui stesso a rifiutare le visite”. Sarebbe un errore, comunque, pensare che quello della psichiatria del carcere fiorentino sia un caso isolato. L’ultimo suicidio a Sollicciano è del 15 luglio. Il giorno prima, nel carcere di Torino, si era impiccato un altro uomo. Anche lui non era nemmeno cinquantenne. Anche lui sarebbe dovuto uscire il prossimo autunno. Anche lui era stato ricoverato in psichiatria nemmeno un mese prima. Nel 2022 i suicidi nelle carceri italiane sono stati 85. Molti di loro avevano documentati problemi psichiatrici. I detenuti in Italia, alla fine del 2022, erano 56.196. Il tasso grezzo e medio di suicidi nelle carceri italiane, nel 2022, è stato all’incirca di 151 suicidi per 100.000 detenuti. Gli ultimi dati diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità sul suicidio, che mi sembrano essere quelli del ISTAT del 2016, riportano per gli uomini un tasso grezzo di suicidi dell’11,8 per 100.000 abitanti (per le donne il tasso è nettamente inferiore). Considerando che la popolazione detenuta italiana è per circa il 90% maschile, possiamo tranquillamente affermare che, in Italia, l’incidenza del suicidio è circa 13 volte superiore a quello della popolazione libera. Anche l’incidenza delle gravi patologie mentali, in carcere, è enormemente superiore a quello che si registra nella popolazione libera. Possiamo continuare a far finta di ignorare questo ineludibile elemento di realtà. Possono di sicuro continuare a farlo gli psichiatri, specie quelli penitenziari, gravati come sono da responsabilità terapeutiche insostenibili. Qualche bravo giornalista, ogni tanto, può continuare a segnalare una situazione penitenziaria che oramai appare indegna di un Paese appena civile. Poco cambierà, però, se il sistema giudiziario/penitenziario italiano non sarà in grado di sollecitare nel sistema di salute mentale un radicale cambio di atteggiamento, che porti all’assunzione di puntuali responsabilità, da parte della salute mentale, nel provvedere, in un proficuo ‘tiro a due’ con la giustizia, a quelle forme di controllo gentile che sono parte essenziale della cura. *Psichiatra psicoanalista, esperto di Salute Mentale applicata al Diritto L’agosto infernale delle carceri di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 9 agosto 2023 Le condizioni dei detenuti peggiorano con l’estate incrementando rivolte e aggressioni. L’intervento della coordinatrice nazionale di Antigone Susanna Marietti. Le condizioni carcerarie, già cronicamente emergenziali, peggiorano nel mese di agosto, quando vengono sospese le attività dei detenuti, il caldo preme certamente più che nelle nostre abitazioni e il personale scarseggia a causa delle ferie. Non è un caso che, secondo i dati degli ultimi anni, i numeri dei suicidi crescano proprio in questo mese, come altri fenomeni di rivolta, di protesta e anche di aggressione tra detenuti o al personale penitenziario. Lo ha dimostrato anche l’episodio del 6 agosto scorso nel carcere romano di Rebibbia: un detenuto si è arrampicato su una gru all’interno dell’istituto, dove sono in corso lavori, ed è sceso solo dopo oltre quattro ore di trattative. Una situazione difficile da immaginare per chi vive in libertà, ma che ci può essere descritta da chi della vita dei detenuti si occupa attivamente e nelle carceri entra, come Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, l’associazione che da anni si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Marietti ci spiega che ci sono pene aggiuntive rispetto alla privazione della libertà, come il sovraffollamento e il caldo insopportabile. Dalle visite effettuate dagli operatori di Antigone nei giorni scorsi è risultato che l’aria è irrespirabile all’interno delle celle, che i detenuti dormono per terra nel tentativo di trovare un po’ di refrigerio, che le vite sono sospese nell’ozio a causa dello stop alle attività di formazione e ludiche. Un forno chiamato carcere. Il caldo estremo aggrava la crisi nelle carceri italiane di Gianluca Lucini ultimavoce.it, 9 agosto 2023 Mentre l’Italia è avvolta da un’ondata di calore implacabile, si staglia un’altra sfida altrettanto urgente: il caldo estremo aggrava la crisi nelle carceri italiane. Le temperature insostenibili e l’affollamento spesso estremo stanno creando condizioni insopportabili per i detenuti, mettendo a rischio la loro salute e il loro benessere. A causa dei cambiamenti climatici, l’Italia sta affrontando un’ondata di calore che sta colpendo duramente il paese. Le temperature raggiungono livelli estremi, rendendo difficile la vita quotidiana per molti cittadini. Gli anziani, in particolare, sono tra i più vulnerabili e spesso subiscono conseguenze gravi, perfino fatali. A Roma, la capitale, le temperature hanno superato i 42 gradi, presentando la necessità di affrontare una situazione critica. Tuttavia, il caldo estremo non colpisce solo le persone all’esterno, ma ha un impatto devastante anche sul sistema carcerario italiano. In molte carceri, l’affollamento è diventato un problema grave. Ad esempio, proprio a Roma, nel carcere di Regina Coeli, il tasso di affollamento è del 160%, con 160 detenuti che condividono uno spazio concepito per soli 100. Situazioni simili si verificano in diverse città, come Brescia, dove l’affollamento ha raggiunto il 181%, o Bologna, dove il tasso è del 158%. Le condizioni nelle carceri sovraffollate durante l’estate diventano ancora più insostenibili. Con la sospensione delle attività scolastiche e dei corsi, i detenuti trascorrono lunghi periodi nelle celle senza sufficiente ricambio d’aria. La mancanza di adeguate strutture per il raffreddamento rende l’ambiente ancor più oppressivo. La situazione è particolarmente critica per gli anziani detenuti, che rischiano problemi di salute seri. Le statistiche rivelano una realtà allarmante. Nel 2023, finora sono morte 81 persone nelle carceri italiane, di cui almeno 39 si sono tolte la vita (purtroppo, i dati sono in continuo aggiornamento). Questi numeri superano quelli registrati nell’anno precedente, che aveva già visto un alto tasso di suicidi in carcere. Il caldo estremo aggrava la crisi nelle carceri e la criticità della situazione richiede interventi urgenti e misure adeguate. È fondamentale che l’amministrazione penitenziaria agisca rapidamente per alleviare le condizioni nelle carceri sovraffollate, magari attraverso l’acquisto di ventilatori o altri mezzi di raffreddamento. È altresì importante garantire il contatto regolare tra i detenuti e le loro famiglie, specialmente durante l’estate, quando l’isolamento può avere effetti negativi sulla salute mentale. L’estate tornerà anche l’anno prossimo, e il ciclo si ripeterà. È essenziale che il governo prenda provvedimenti per garantire che i detenuti scontino la loro pena con dignità e umanità, senza subire ulteriori sofferenze a causa del caldo e dell’affollamento. La situazione carceraria richiede un intervento immediato e una soluzione a lungo termine, affinché nessuno debba scontare la pena con un tale grado di disagio e privazione in un paese civile e moderno. Messina Denaro è grave: lo faranno morire al 41bis come Provenzano? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 agosto 2023 Il boss è da tempo malato terminale. Ieri nuovo ricovero e nuovo intervento. La Cedu già condannò l’Italia per il carcere duro al boss Provenzano in precarie condizioni di salute. Le condizioni di Matteo Messina Denaro al 41 bis si sono aggravate ed è stato trasportato all’ospedale al San Salvatore dell’Aquila. I suoi avvocati, Alessandro Cerella che dallo scorso giugno affianca nella difesa Lorenza Guttadauro, nipote del boss, arrestato lo scorso 16 gennaio a Palermo, avevano lanciato l’allarme sulle condizioni del loro assistito e presentato un’istanza di ricovero urgente, evidenziando l’incompatibilità di Messina Denaro con il rigido regime penitenziario. L’ultimo controllo dell’ex latitante risale al 27 luglio e le visite mediche si susseguono ormai a cadenza quasi settimanale, sia in carcere che nella struttura sanitaria realizzata per ospitare il 35esimo vertice del G8 nel 2009. Il 21 luglio scorso il boss era stato di nuovo al San Salvatore per accertamenti dopo l’intervento chirurgico per problemi urologici a cui è stato sottoposto il 27 giugno. Parliamo dell’ultimo boss stragista rimasto in circolazione e arrestato lo scorso gennaio dai Ros sotto il coordinamento della procura di Palermo guidata dal procuratore Maurizio De Lucia. È noto che è un malato terminale, e infatti gli ultimi mesi da latitante li ha passati recandosi spesso in ospedale per la chemioterapia. L’avvocato Cerella ha dichiarato: “Ormai non mangia più, ha difficoltà anche a bere, ha bisogno di un ricovero urgente perché ha bisogno di flebo per essere alimentato. La sua situazione non è più gestibile dalla struttura nella quale è rinchiuso in regime di 41bis”. Secondo il legale sarebbe “un vero e proprio bullismo di Stato a tenerlo dentro. La nostra richiesta è che esca e vada in un ospedale, deve essere ricoverato al più presto. Ha bisogno di un infermiere h24 mentre è sorvegliato h24 dalla penitenziaria”. L’avvocato Cerella ha aggiunto: “Lo stanno lasciando morire, vedono che è un continuo via vai di macchina per l’ospedale. Qualche giorno fa ha subito un piccolo intervento di urologia alla prostata, domenica una tac, adesso si attende l’esito. Quando mi reco da lui, lo vedo debilitato. Se lo lasciano così muore, è questione di giorni, è un cancro al quarto stadio. Ha smesso di mangiare, beve solo integratori e acqua”. Il deterioramento della salute di Messina Denaro ha quindi sollevato preoccupazioni. L’avvocato Cerella ha elogiato il lavoro del professore Mutti e del suo team medico per la dedizione dimostrata nel prendersi cura del suo cliente. Ma le condizioni di detenzione rigide e oppressive sembrano avere un impatto negativo sulla salute di Messina Denaro, portando alla necessità di cure mediche urgenti. La sua condizione di salute rappresenta una questione complessa e delicata all’interno del regime carcerario 41 bis. Queste sue criticità, indubbiamente richiedono un’attenzione particolare e cure mediche adeguate. L’istanza di ricovero urgente presentata dagli avvocati suscita dibattiti riguardo alla gestione dei detenuti considerati ancora capaci di dare ordini e alle condizioni di detenzione del 41 bis. Una materia altamente complessa e sensibile, purtroppo deviata anche da argomenti dietrologici. A causa di ciò, il dibattito è inquinato. Eppure, parliamo del rispetto dei diritti umani. L’Italia, ricordiamo, è già stata condannata in passato per aver trattenuto al 41 bis persone, di fatto, incompatibili. Pensiamo al caso dell’ex boss Bernardo Provenzano. Il regime di detenzione al quale era sottoposto, in base all’articolo 41 bis, prevedeva restrizioni estreme. Provenzano era stato trasferito in reparti ospedalieri protetti a causa delle sue precarie condizioni di salute, ma il regime 41-bis era stato esteso nel marzo 2014 e poi nuovamente nel marzo 2016. Per quest’ultima riapplicazione del regime, l’Italia è stata condannata per aver violato il divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti (articolo 3 Cedu). Mentre le condizioni di detenzione non sono state giudicate incompatibili con la salute di Provenzano, la mancanza di una valutazione individualizzata nella decisione di estendere il regime duro ha portato alla violazione dei suoi diritti umani. La Corte ha osservato che “assoggettare un individuo a una serie di restrizioni aggiuntive (...) imposte dalle autorità carcerarie a loro discrezione, senza fornire sufficienti e rilevanti ragioni basate su una valutazione individualizzata di necessità, minerebbe la sua dignità umana e violerebbe il diritto enunciato all’articolo 3”. La sentenza ha sottolineato l’importanza di proteggere la dignità umana anche nei confronti dei detenuti considerati pericolosi per la società. Pertanto, nel caso di Matteo Messina Denaro, andrebbe valutato il rispetto dei diritti umani. D’altronde, è ciò che ci distingue anche dalla mafia. Messina Denaro, l’ultima sfida del padrino malato: “Non sono mafioso e non mi pento” di Riccardo Arena La Stampa, 9 agosto 2023 Il boss operato e ricoverato a L’Aquila. L’interrogatorio dopo il fermo: “Mi hanno preso per la mia malattia”. Il legale: “Non può stare al 41 bis”. Un boss ferito nell’orgoglio per una cattura che non si aspettava, con buona pace dei dietrologi d’accatto, e anche un boss malato, che magari pensava a un’uscita di scena da questo mondo in grande stile, quando - il 13 febbraio scorso - pensò di abbozzare una specie di show con due clienti poco disponibili, i magistrati che dopo trent’anni avevano posto fine alla latitanza dell’ultimo grande capo libero di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. Come Bernardo Provenzano, come Totò Riina, che sembravano non dover morire mai, il capomafia di Castelvetrano potrebbe essere entrato nell’ultima fase della vita. Malato da tempo e convinto di essere stato preso proprio per questo - lo ha detto ai pm Maurizio de Lucia e Paolo Guido, nel verbale reso appunto il 13 febbraio e depositato giusto ieri - Messina Denaro è stato di nuovo ricoverato nell’ospedale dell’Aquila, la città dove è detenuto dal giorno della cattura, avvenuta il 16 gennaio scorso da parte dei carabinieri del Ros. Sta male, e si sapeva. Stava male pure Provenzano, che per oltre un anno ha vissuto quasi da vegetale al 41 bis, è stato male - anche se per molto meno tempo - Totò Riina. Per i due capi corleonesi si era aperto un dibattito sull’inutilità del regime di carcere duro per le persone gravemente malate o giunte alla fase terminale, per loro l’isolamento e i contatti limitatissimi furono di fatto bypassati solo negli ultimissimi giorni, quando fu consentito ai familiari di vegliare “Binu” Provenzano e poi, un anno e cinque mesi più tardi, a novembre del 2017, anche Riina. Ma in regime detentivo rimasero sempre: ora uno degli avvocati di Messina Denaro, Alessandro Cerella, sostiene che la situazione è del tutto incompatibile con la reclusione in sé, figurarsi col 41 bis. Ieri l’ex latitante è stato operato per un’occlusione intestinale, complicazione che potrebbe avere un collegamento più o meno diretto con il tumore al colon con cui Messina Denaro convive da ormai tre anni e che - lui ne è convinto - è stata l’unica via attraverso cui è stato possibile catturarlo. E questo anche se “non sono né un superuomo né un arrogante”, chiosa. Del resto, con i suoi 61 anni il suo commiato non può essere pari a quello degli ultraottuagenari Provenzano e Riina. Il primo limitava le parole allo stretto indispensabile, addirittura nemmeno voleva far sentire la propria voce quando gli chiedevano le generalità durante i processi. E in breve finì con il disertare le udienze. Riina invece - che aveva 62 anni, qualche mese di più di Messina Denaro, quando fu catturato, il 15 gennaio 1993 - aveva manifestato baldanza e arroganza nella prima fase della vita da detenuto, per poi lentamente scemare nei deliri di onnipotenza e negli sfoghi registrati nelle conversazioni col compagno di socialità Alberto Lorusso, nel carcere di Opera, a Milano. L’interrogatorio di Messina Denaro - il primo reso ai magistrati della Dda palermitana, di cui de Lucia è il capo e Guido l’aggiunto - è un florilegio di mafiologia, quasi un testamento anticipato con una premessa: “Non mi pentirò mai”. Fin qui molto Riina, un pizzico di Provenzano. Poi la conoscenza di Cosa nostra attraverso i giornali, la negazione del fondamento del concorso esterno (“reato farlocco”), che pare quasi un’anticipazione del dibattito politico-giudiziario di queste settimane. Ma lui non parla a caso, dice a chiare lettere che se si deve attribuire un reato a tutti quelli con cui ha avuto a che fare, “a Campobello di Mazara - dove trascorse la latitanza, indisturbato - dovete arrestare almeno due-tremila persone: di questo si tratta”. Ma poi no, di nuovo il sedicente non-mafioso fa capolino (“Però mi sento uomo d’onore”) quando dice che quasi nessuno sapeva chi fosse lui in realtà, in paese. Ma va tolto il 41 bis a uno così? La pericolosità dei supercapi ha sempre sconsigliato qualsiasi allentamento, anche in limine mortis, e per questo il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto mette le mani avanti, dicendo che “tocca ai magistrati verificare se ce ne siano le condizioni”. Poi, in fondo Messina Denaro non pensa di essere pericoloso: “Mai commessi stragi né omicidi”. Per l’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo ha una visione del mondo tutta sua: non di omicidio dovrebbero accusarlo ma solo di sequestro, come mandante, che ne sapeva lui che poi Giovanni Brusca avrebbe fatto assassinare il figlio del pentito Santino Di Matteo? E di fronte alla condanna all’ergastolo anche per questo reato, parla di “ingiustizie: quante ne devo subire?”. C’è molto di Riina, in questo, ricorda le esternazioni del boss corleonese, che si definiva “il parafulmine” di tutte le trame d’Italia. Di certo c’è che ciascuno dei capi dei capi si porta nella tomba i suoi misteri: nessuno dei tre ha mai spiegato, chiarito, parlato apertamente. Messina Denaro ammette i contatti con Provenzano, per qualche affare, “ma mai né stragi né omicidi”. Figurarsi. Ne condanna più Nordio che Bonafede di Claudio Cerasa Il Foglio, 9 agosto 2023 Dai rave all’immigrazione, dalla gestazione per altri all’omicidio nautico, fino al decreto “anti-piromani” approvato ieri in Cdm. Paradosso: un ministro non giustizialista costretto a creare reati e alzare pene. I piromani, questi appiccatori di incendi pazzoidi o prezzolati, chi non li vorrebbe vedere severamente puniti, anzi coperti di pece e piume? Bene ha fatto, dunque, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, a fronte degli incendi dolosi che in questi giorni devastano ampie zone dell’Italia, ad annunciare l’immediato innalzamento, per decreto, “delle pene edittali minime e massime per chi commette questo reato particolarmente odioso”. Bene. E chi può essere contrario? Festeggiata la voglia di piume e pece, c’è però da chiedersi se l’innalzamento delle pene aumenti la capacità delle forze dell’ordine di fermare gli incendi o serva più che altro a calmierare, come spesso accade, l’eccitazione punitiva del popolo. Il ministro Nordio, esperto uomo di legge e solidissimo garantista, che crede nella giustizia ben amministrata più che nella frusta in mano a giudici e carcerieri, si è probabilmente posto la stessa domanda. Ma, purtroppo, da quando siede in Via Arenula il pragmatico ex magistrato di impronta liberale - che era giunto annunciando la contrarietà all’ergastolo ostativo e ad altre forzature nel trattamento dei delitti e delle pene - sta invece introducendo nuovi reati e alzando le pene persino più del professo giustizialista Alfonso Bonafede. A parte il nuovo reato di gestazione per altri, decisione non sua, è arrivato l’omicidio nautico, equiparato a quello stradale; poi le pene aumentate per le violenze al personale scolastico, le pene accresciute per il reato di istigazione sul web, le maggiori pene per l’immigrazione clandestina e quelle contro i rave party. L’impressione è che a ogni emergenza (spesso molto mediatica) la risposta in automatico del governo, anziché individuare meccanismi di intervento e prevenzione, sia quella classica securitaria: più galera per tutti. L’impressione - e se non è corretta, caro ministro, lo dimostri coi fatti - è che Nordio per quieto vivere politico o non potendo fare diversamente - si presti a questo ruolo di Minosse, che “giudica e manda secondo ch’avvinghia”. Non proprio il ruolo di un ministro di buona giustizia. Nordio: “Non sono garantista né giustizialista, così cambierò la giustizia” di Francesco Grignetti La Stampa, 9 agosto 2023 Il ministro della Giustizia sul suo ddl: “L’efficienza è prioritaria. Tempi lunghi per la separazione delle carriere, serve intervento costituzionale”. Il ministro Carlo Nordio è stato un protagonista dell’ultimo Consiglio dei ministri. Suo il decreto legge che estende l’area delle intercettazioni e innalza le pene ai piromani. Non proprio quel che ci si attendeva da un giurista che voleva ridurre i reati. Ma assicura di non sentirsi a disagio: “Non esistono i panni del garantista o del giustizialista - dice - ma la complessità della realtà”. Sembra che per Nordio, insomma, sia lontano il tempo dei libri. Ministro, avete emanato un decreto perché non vi convince una sentenza della Cassazione in materia di criminalità organizzata e l’avete scavalcata. Pur raccogliendo una preoccupazione delle Procure antimafia, non c’è un po’ di propaganda? “Innanzitutto i fatti: è un intervento che assicura ed estende la possibilità di adottare incisivi strumenti di indagine, come le intercettazioni ambientali, per reati aggravati dal metodo mafioso, dalla finalità di terrorismo o per il sequestro per estorsione. È una norma specifica, di tipicizzazione per allontanare il rischio di compromettere molti processi. Di propaganda, c’è solo la “propaganda fide”, la fede nella certezza del diritto”. Con le categorie giustizialismo versus garantismo, il vostro decreto rientra nella prima, mentre la decisione della Cassazione nella seconda. Come si sente il liberale Nordio, che adombrava l’eliminazione del concorso esterno, nei panni del giustizialista? “Il garantismo ha una duplice coniugazione: l’enfatizzazione della presunzione di innocenza e la certezza del diritto e della pena. In questo decreto, si valorizza il secondo aspetto; nel disegno di legge di giugno, il primo. A mio parere, però, non esistono i “panni del giustizialista” o del garantista: esiste la complessità della realtà, del diritto e della politica. Quanto al concorso esterno, ripeto ancora che non è nel programma di governo”. Questo è solo l’ultimo esempio di legiferazione sull’onda di allarmi dell’ultim’ora: i rave, dopo un raduno; il reato universale per gli scafisti, dopo la strage di Cutro. Ora i piromani. Non è a disagio in un automatismo tipico della concezione giustizialista? “I piromani attentano alla vita di intere comunità e al nostro paesaggio, bene costituzionalmente tutelato. Non sono affatto a disagio per l’inasprimento delle pene contro dei criminali: rappresenta l’attenzione dello Stato per la repressione di gravissimi fenomeni e la tutela di chi li subisce. Anche il governo Draghi era intervenuto; noi abbiamo aggiunto un’aggravante per punire chi si procura un vantaggio, mandando in fumo aree del nostro meraviglioso Paese”. Quando il gip di Roma ha chiesto l’imputazione coatta di Delmastro lei ha parlato di anomalia del nostro processo. Eppure, nel suo ddl non c’è nulla. Questa non è la dimostrazione che giudici e pm sono già autonomi, senza aver bisogno della separazione delle carriere? “Il mio ddl è solo un primo passo verso la piena attuazione del codice liberale di stampo anglosassone, fortemente voluto dal ministro Vassalli, eroe delle Resistenza pluridecorato e convinto socialista. Un codice snaturato negli anni. La commissione da me istituita lavorerà perché ritorni, migliorato, al suo spirito originale e si superi la contraddizione di un processo quando la stessa pubblica accusa non vuole celebrare. Quanto alla separazione delle carriere, è nel programma ma richiede un intervento costituzionale e quindi tempi più lunghi. Ora, le priorità sono l’efficienza agli uffici giudiziari e gli impegni con l’Europa”. Pensa sempre che si dovrebbe cancellare anche l’obbligatorietà dell’azione penale? Affidiamo le chiavi della giustizia alla politica? “Sull’obbligatorietà dell’azione penale, faccio notare che non esiste nei Paesi dove è nata la democrazia, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, dove tra l’altro il pm non è sottoposto al potere esecutivo ma è eletto dai cittadini. Al di là di quanto ho scritto per anni da magistrato e opinionista, ora da Ministro auspico che tutti i temi possano essere affrontati con razionalità, non a colpi di slogan. Poiché mi chiede di capitoli non ancora aperti, posso solo dire che non ci sarà mai alcun controllo politico. La magistratura, però, non deve essere indipendente solo dalla politica, ma anche dalle degenerazioni correntizie, come dimostrato da scandali ben noti. In questo senso si esprime il programma di governo”. Il suo ddl prevede l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. A Bruxelles lo ritengono uno strumento contro la corruzione e così anche molti magistrati. Non pensa che l’Italia andrà in rotta di collisione con la Commissione e con i Trattati, rischiando la procedura di infrazione? “L’Europa non ci chiede di mantenere il reato com’è, ma di assicurare un’efficace lotta alla corruzione. Ho già illustrato in due occasioni al commissario Reynders il nostro arsenale preventivo e repressivo, tra i più forniti d’Europa. I numeri ci dicono che a fronte di 5.000 fascicoli all’anno, le condanne sono una manciata e per reati connessi. Inoltre, come è chiarito nella relazione illustrativa del ddl, “resta ferma la possibilità di valutare in prospettiva futura specifici interventi additivi volti a sanzionare, con formulazioni circoscritte e precise, condotte meritevoli di pena in forza di eventuali indicazioni di matrice euro-unitaria che dovessero sopravvenire”. Con i magistrati, suoi ex colleghi, i rapporti sono al punto più basso dopo l’avvio di un’azione disciplinare per i giudici del caso Artem Uss. Lei ha addirittura detto di non ritenere l’Anm un interlocutore. Proporre un’azione disciplinare perché non condivide una decisione non è un’intrusione nell’indipendenza e autonomia della magistratura? “Dal punto di vista personale, i rapporti con i vertici dell’Anm sono molto buoni. Ho ricevuto più volte il presidente Santalucia e la giunta. Naturalmente esistono delle differenze di vedute che sono e saranno oggetto di confronto. Quanto all’azione disciplinare, il Ministro ha chiesto al Procuratore generale di valutare eventuali presupposti per il suo esercizio, evidenziando profili esclusivamente di natura tecnica. Parlare, come qualcuno ha fatto, di aggressione alla magistratura è improprio, come sarebbe improprio parlare di aggressione al Parlamento quando un pm invia un’informazione di garanzia ad un suo membro. Per il resto, considero l’autonomia e l’indipendenza della magistratura valori sacri e non negoziabili”. Questo giornale con una lunga inchiesta ha documentato le conseguenze delle gravi carenze di organico sull’efficienza. I tempi della giustizia sono ben lontani dagli obiettivi Pnrr. Ciò può mettere a rischio i fondi? “Conosco molto bene le gravi carenze e stiamo facendo il possibile per ovviare, con le risorse disponibili, al male cronico della lentezza, che costa 2 punti di Pil. Questo è un dovere inderogabile, per assicurarci i fondi Pnrr e per garantire ai cittadini un servizio all’altezza delle legittime aspettative. Da subito è in atto un lavoro imponente soprattutto sulla giustizia civile, ma non arriva alla ribalta mediatica. Sul Pnrr, le prossime rilevazioni rifletteranno i primi effetti della massiccia immissione di personale e delle riforme entrate in vigore. Garantisco che “siamo alla stanga”, perché - come ha ricordato il Presidente Mattarella - il raggiungimento degli obiettivi “dipende dall’impegno di tutti”. E voglio ringraziare gli uffici giudiziari per gli sforzi in atto. Contro le carenze di organico, oltre agli 8mila contratti Pnrr a tempo determinato - per i quali ci stiamo battendo perché siano prorogati fino a giugno 2026 - stiamo assumendo altro personale amministrativo con le Regioni. Inoltre è stata aumentata di 1.947 unità la dotazione organica. Per i magistrati, oltre ai due concorsi (da 500 e 400 posti), abbiamo previsto nel ddl l’aumento dell’organico di altre 250 unità. Abbiamo poi iniziato a ridurre i tempi di immissione in ruolo”. Siete in ritardo sulla spesa dei soldi europei. Come pensa di recuperare, vista la tagliola del 2026? “Non siamo affatto in ritardo. In un anno e mezzo sono stati iniettati 450 milioni nel sistema giustizia, come mai prima; sull’edilizia giudiziaria la maggior parte della spesa è prevista dal 2024 in quanto il primo biennio era dedicato alla progettazione delle opere, alcune delle quali già avviate”. In conclusione, dall’abuso d’ufficio al concorso esterno le sue parole hanno diviso il governo. Sente inalterata la fiducia della presidente Meloni? “Ricordo con orgoglio che alla fine dell’esposizione del mio ddl al consiglio dei ministri vi è stato un piccolo applauso. Con la Presidente Meloni, siamo in assoluta sintonia”. Musolino (Md): “Il Parlamento è preda del populismo penale e a rimetterci sono i diritti” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 agosto 2023 Il decreto approvato due giorni fa “dimostra la sfiducia del Governo nella capacità dell’ordinaria dialettica giurisprudenziale di individuare il migliore equilibrio tra i valori coinvolti”. In nome delle garanzie sancite dalla Cassazione e dalle Corte Superiori le aspettative dell’Accusa devono giustamente pagare un prezzo: è questo il messaggio, forse inaspettato da un pm antimafia, che ci consegna Stefano Musolino, Segretario di Magistratura democratica, che aggiunge: la politica è vittima e protagonista del populismo penale. Approvato due giorni fa un decreto legge per rimediare ad una sentenza della Cassazione. Come giudica questa azione del Governo? Come una preoccupante forma di autoritarismo applicato alle dinamiche giurisprudenziali, perché dimostra la sfiducia del Governo nella capacità dell’ordinaria dialettica giurisprudenziale di individuare il migliore equilibrio tra i valori coinvolti. Peraltro, la sentenza che ha giustificato l’intervento urgente del Governo è risalente ad oltre un anno fa ed è stata emessa da una sezione semplice della Corte, quindi non aveva la capacità persuasiva e nomofilattica delle pronunce a Sezioni Unite. Comunque la sentenza Tardio/Caso messa sotto accusa recepiva decisioni delle SU (Petrarca, Donadio e Scurato)... In realtà la Scurato sembrava inserire tutto il catalogo del 51 comma 3bis cpp nell’articolo 13 del dl 152/91. Questo, al di là del dettaglio tecnico, dimostra che c’era un dibattito sul tema. Contrariamente a quanto si percepisce, lo stabilizzarsi dell’interpretazione giurisprudenziale non è assimilabile ad una linea orizzontale, ma piuttosto ad una linea oscillante che giunge ad un punto di equilibrio in esito ad affinamenti progressivi. Il diritto e la sua interpretazione devono poter respirare; in questa vicenda, invece, il mantice giurisprudenziale è stato soffocato dal rigido autoritarismo governativo. Entrando nel merito: si prevede l’estensione ad una serie di ipotesi di reato di criminalità grave - come quelli aggravati dal “metodo mafioso”, con finalità di terrorismo, reati di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti e sequestro di persona a scopo di estorsione - degli strumenti di investigazione disciplinati dalla legislazione in materia di criminalità organizzata. Da pm antimafia è d’accordo? Le preoccupazioni vanno comprese, perché i pubblici ministeri hanno operato confidando in alcune regole; se queste vengono cambiate, a cagione di un mutamento giurisprudenziale, importanti risultati processuali possono venire meno. Tuttavia, l’Accusa esprime le preoccupazioni di una parte processuale (seppure posta a tutela di interessi pubblici), mentre la giurisprudenza della Cassazione tutela tutti i diritti coinvolti, avendo cura di salvaguardare anche quelli del soggetto che subisce il processo. Era già avvenuto, dopo le Sezioni Unite Cavallo: c’è sempre un prezzo da pagare ogni qualvolta un intervento della Cassazione determina una maggiore tutela dei diritti, ma io credo che sia un prezzo che bisogna accettare, per quanto caro esso sia, perché è questa la dinamica di affinamento e protezione dei diritti che la Costituzione affida alla giurisprudenza. Faccio alcuni esempi… Prego... Sezioni Unite Mannino: stabilì delle regole più rigorose per il concorso esterno, altrettanto fecero le Sezioni Unite Franzese sulla causalità; in conseguenza ‘caddero’ una serie di importanti processi impostati su regole probatorie diverse da quelle accreditate dalla Corte. Questa, però, è la fisiologia del sistema di affinamento giurisprudenziale nella tutela dei diritti, non una patologia che giustifica un intervento tramite decretazione d’urgenza. Il professor Giorgio Spangher ha detto: “quando la giurisdizione dà delle interpretazioni di garanzia c’è una parte della magistratura, quella soprattutto dell’Antimafia, che reagisce sostenendo che i principi stabiliti in esse non siano funzionali agli accertamenti. E la politica si piega attuando correttivi addirittura a decisioni delle Sezioni Unite. La politica invece resta inerme dinanzi invece a situazioni di minore tutela dei diritti previsti nel nostro codice di rito; per questi casi occorre attendere che la giurisdizione, nei limiti, si adegui alle decisioni di maggiore tutela delle garanzie della Corte Costituzionale, della Cedu, della Corte di Giustizia europea”. Condivide? Mi pare che quello di Spangher sia un resoconto piuttosto fedele. È quello che è accaduto fino ad ora, nella maggior parte dei casi: mentre la giurisprudenza si assume la responsabilità di tutelare i diritti, il Parlamento è protagonista del populismo penale, per ossequiare il quale i diritti vanno in sofferenza. Il suo collega Albamonte ha detto: “La politica sembra applaudire i pm antimafia, anche per ragioni di consenso popolare, e ostacolare in tutti i modi quelli che si occupano di altri settori, soprattutto quelli di criminalità economica e di reati contro la PA”. Lei è d’accordo? La semplificazione è efficace, ma il tema è più complesso. Ci siamo dimenticati della lezione impartitaci durante l’emergenza pandemica, quando lo Stato ha avuto la necessità di ricorrere a imponenti interventi a sostegno della sanità, dei cittadini più bisognosi e delle imprese. Allora appariva evidente la necessità anche per l’Italia di adeguarsi al rigore con cui la normativa comunitaria tutela gli interessi finanziari pubblici. Le proposte attuali, invece, vanno in direzione opposta (ad esempio in materia di sanatoria tributaria). Quindi condivido la valutazione di Albamonte, perché al fondo sottende il problema più generale relativo al modo in cui intendiamo il diritto ed il processo penale e quindi il modo di governarlo. Il populismo penale si alimenta proprio per questo: dà apparente protezione ad insicurezze sociali (spesso più percepite che reali, perché alimentate dai media), mentre ignora l’aggressione di rilevanti interessi pubblici, trascurati dalla narrazione mediatica concentrata a cavalcare le emozioni; così si distrae l’opinione pubblica e si omette una più efficace tutela degli interessi finanziari dello Stato e, più in generale, non si tutela l’ordine pubblico economico, agevolando poteri economici opachi. A proposito di panpenalismo, nel decreto approvato due giorni fa si innalza la pena edittale minima prevista per l’ipotesi di incendio doloso: da quattro anni a sei anni di reclusione e si prevede una aggravante. Non si tratta dell’ennesima contraddizione del Ministro Nordio che non molto tempo fa diceva: “La sicurezza va garantita in modo preventivo e non con l’inasprimento delle pene”? Ha detto bene lei, è l’ennesima contraddizione del Guardasigilli. Vorrei chiedere a chi ha proposto l’aumento delle pene, quale esito si attenda. Si tratta dell’ennesimo, goffo tentativo di neutralizzare la paura e la legittima rabbia sociale per gli incendi di quest’ultimo periodo. Si fa credere ai cittadini che una sanzione penale più severa risolva i problemi; mentre questi restano e la giustizia viene caricata di aspettative che non le sono proprie. Scioglimento dei Comuni per mafia. In questi giorni, con una serie di articoli, abbiamo messo in evidenza le falle dell’attuale normativa, arrivando a dire che forse dietro ogni scioglimento c’è semplicemente del puro arbitrio. Concorda? Prima ancora delle valutazioni sull’evanescenza della fattispecie, mi piacerebbe si potesse giudicare, laicamente, la sua efficacia. Parlo dalla mia esperienza di cittadino calabrese che ha assistito allo scioglimento, anche reiterato (verrebbe da dire ostinato!), di numerosi Comuni. Ebbene gli effetti sono stati deludenti: è peggiorata la qualità amministrativa, senza autentici effetti “liberanti” per gli enti coinvolti. Soverchiare l’esito di una libera elezione democratica, istituendo un Commissario sulla base di valutazioni approssimative (perché così previste dalla legge), impone degli oneri. Se lo Stato non riesce ad imprimere un’autentica svolta in termini di efficienza e legalità dell’ente coinvolto, il sistema avrà fallito il suo obiettivo funzionale, culturale e sociale. La norma sullo scioglimento degli enti è stata ispirata da una logica emergenziale. Credo sia giunto il tempo di ripensarla. Cosa è il trojan e perché siamo prigionieri dello spionaggio di Alberto Cisterna L’Unità, 9 agosto 2023 L’affaire Crosetto comincia ad assumere contorni meno imprecisi. Un dato, seppure in filigrana e mai esplicitato con chiarezza, appare evidente: le notizie pubblicate sulla stampa nelle fasi cruciali della formazione del governo Meloni provengono da una consultazione della banca dati a disposizione della Procura nazionale antimafia. Altro, al momento, non si può dire. L’asserito responsabile della consultazione offre elementi per sostenere di avere agito del tutto legittimamente, ossia in presenza di un complesso di informazioni finanziarie che meritavano una verifica su l’esponente politico. Cosa diversa sarà, poi, stabilire chi avesse i canali di comunicazione e abbia potuto, così, transitare a qualche giornalista i dati che poi sono stati pubblicati con ampio risalto e hanno suscitato la giusta reazione di Crosetto. La vicenda, per l’importanza delle istituzioni coinvolte e per l’ampiezza dei fatti oggetto di indagine a Perugia, non può essere certo archiviata come una delle tante trasgressioni consumate in Italia in pieno accordo tra pubblici ministeri infedeli, polizia giudiziaria compiacente e giornalisti addetti alle salmerie. Di questo ha detto molto (e non tutto) “Il Sistema” e altro certamente verrà fuori su quel capitolo buio della vita della magistratura italiana. Questa volta la dimensione qualitativa della violazione contestata e quella, per così dire, quantitativa si coniugano squadernando un profilo che finora era rimasto in ombra. Sono passati due decenni da quando David Lyon (“La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana”, Feltrinelli, 2002) prefigurava con straordinaria lucidità la costruzione di una gabbia elettronica che avrebbe imprigionato dalla culla alla tomba la vita dei cittadini e questo paradossalmente si è verificato non in paesi soggetti a regimi autoritari o di polizia, ma presso le più importanti democrazie del mondo. La leadership mondiale dell’Occidente nel settore delle comunicazioni e dell’informatica ha, come noto, costruito giganti industriali che possiedono quantità inimmaginabili di informazioni e dati personali di cui le pubbliche autorità possono disporre praticamente in modo illimitato. Se dovessimo misurare la libertà di ciascuno secondo il coefficiente di sorveglianza elettronica e il suo impatto concreto ci si dovrebbe rendere conto di quanto più alto sia il rischio del controllo in qualunque paese occidentale piuttosto che in un regime illiberale asiatico o africano. È chiaro che istituzioni come il Garante per la privacy rischiano di essere travolte dall’ampiezza della “manovra digitale” che è in corso e dalle prospettive dell’IA, con l’orizzonte futuro di un capillare, microscopico controllo della vita dei cittadini. Per comprendere quanto inevitabile sia la tentazione degli apparati investigativi e di intelligence di approvvigionarsi di queste informazioni e di questi dati per alimentare le proprie attività di repressione e di prevenzione, sarebbe sufficiente considerare quanto è avvenuto negli ultimi due decenni con le comunicazioni via cellulare, con i tabulati e, infine, con i trojan e altro di ben più penetrante sembra prossimo a venire. La società della comunicazione è, per definizione, anche la società dell’intercettazione; il binomio è inscindibile. A ogni atto comunicativo (anche interpersonale, si pensi ai microfoni direzionali) corrisponde la possibilità di una captazione. Ecco, probabilmente, il nocciolo duro delle questioni che si agitano intorno al presunto dossieraggio che avrebbe visto coinvolto personale della Procura nazionale. Le informazioni, i dati, i report, le segnalazioni sono indispensabili e irrinunciabili in una strategia moderna di contrasto alle mafie e al riciclaggio. Così come è indispensabile che l’attività di monitoraggio e di prevenzione si svolga senza trame e tracce prefissate. Il buon investigatore segue il proprio istinto, collega, verifica, ipotizza, controlla di nuovo, immagina, sospetta se del caso. È vero quanto è stato sostenuto in questi giorni ossia che così si è creata una categoria di cripto-indagati, ovvero di cittadini la cui vita è scrutinata a fondo senza una notizia di reato, senza una garanzia processuale, senza una regola precisa. Una gigantesca rete a strascico informatica e telematica che affonda nelle acque, più o meno torbide, della società e setaccia alla ricerca di elementi da approfondire e, se del caso, affidare alle vere e proprie indagini. È un prezzo enorme, ma che poco o nulla ha a che vedere con una arcigna bulimia indagatoria o, peggio, con propositi ricattatori. È la deriva incontrollata della modernità tecnologica che ha accresciuto a dismisura la gabbia elettronica in cui ciascuno è stato incasellato ed è inevitabile che le inquisizioni vogliano attingervi a piene mani. Molti anni or sono, in un’altra era ormai, Michel Foucault scriveva il suo celeberrimo “Sorvegliare e punire. Nascita della prigione” (1975); oggi - il circuito malato delle deviazioni tra apparati di investigazione e stampa - imporrebbe forse una minuscola correzione in quel titolo di così straordinaria efficacia e potenza evocativa: “sorvegliare è punire” grazie al linciaggio mediatico praticato dalle nuove dittature del terzo millennio. Ecco perché la giustizia non è uguale per tutti di Iuri Maria Prado L’Unità, 9 agosto 2023 Ci sono molti punti di vista dai quali osservare l’evoluzione del discorso pubblico di questi giorni a proposito della strage di Bologna: un discorso che era cominciato stortignaccolo già prima delle polemiche che lo avrebbero rinvigorito - si fa per dire - sulla scorta delle dichiarazioni innocentiste di un amministratore di destra, quel Marcello de Angelis secondo cui Fioravanti, Mambro e Ciavardini, condannati per la strage, a suo giudizio “non c’entrano nulla” con l’attentato del 2 agosto del 1980. E tra i tanti punti di vista (quello sociologico, quello storico, quello elettoral-rissaiolo, quello del corazziere quirinalizio, quello talmudico-giudiziario) sceglieremmo quelli desueti: il punto di vista da questa postazione un po’ strana che è lo Stato di diritto; e poi il punto di vista democratico. Dal punto di vista dello Stato di diritto la legge è un fatto, ed è un fatto la sentenza che - bene o male, secondo il giudizio di ciascuno - la applica. La giustizia non è un fatto: è un valore. Un valore per definizione mutevole, appunto secondo il criterio di ciascuno. Per questo dietro alle spalle del giudice è scritto il fatto: “La legge è uguale per tutti”; e non il valore, cioè “La giustizia è uguale per tutti”. Perché non esiste una giustizia uguale per tutti, e se pretendesse di esistere non sarebbe giustizia ma arbitrio. Ora, lo Stato di diritto obbliga al rispetto delle leggi e delle sentenze per il fatto che esse sono emesse: non per il fatto che esse sono giuste, perché ciò che è giusto per uno non è giusto per un altro. E quel rispetto non risiede nell’omaggio alla giustizia della legge o della sentenza, né tanto meno nell’obbligo di omaggiarle. Risiede nel dovere di riconoscere quel fatto (la legge, la sentenza) e di rispettarne il contenuto in questo solo senso: nel senso che non va travisato, non certo nel senso che va condiviso. La sentenza che condannasse il delitto di omicidio commesso da un comunista non sarebbe - se non diventando un atto arbitrario - una sentenza anticomunista; e non sarebbe un sovversivo comunista chi denunciasse che non debbono esistere sentenze anticomuniste: sarebbe un ordinario osservatore dal punto di vista dello Stato di diritto, almeno sino a che l’ordinamento non preveda il delitto di omicidio comunista. E semmai lo prevedesse (eccoci al secondo punto di vista, l’altrettanto desueto punto di vista democratico) quell’ordinamento cesserebbe di essere, giustappunto, democratico. Uno può essere spinto al nocumento altrui, o comunque rendersene responsabile, in quanto fascista, comunista, ecologista, liberista, familista, sovranista, monarchico, gnostico, eretico, deista, ateista: ma lo Stato democratico lo condanna per il nocumento che arreca agli altri, non per i suoi convincimenti né per la sua condizione o predilezione politico-religiosa. Né ancora in uno Stato democratico esiste un’autorità con il potere di richiamare chicchessia al dovere di “rispettare” una sentenza in quel senso democraticamente vietato: e cioè nel senso di ritenerla giusta e indiscutibile, perché “Spetta non soltanto ai giureconsulti ma agli uomini tutti affermare in coscienza se non ritengano che lo spirito della legge in quell’occasione sia stato alterato” (Voltaire). E pericolosamente, invece, molto pericolosamente, lo Stato democratico destituisce sé stesso quando qualcuno si lascia andare o è istigato ad assumere quell’autorità, trasformando il proprio ufficio istituzionale in un sacerdozio che non ha nulla a che fare con la legge uguale per tutti, questo “fatto” che obbliga tutti e che bisogna rispettare nella misura in cui (e solo in questa misura) obbliga tutti: e prende piuttosto a maneggiare, “anti” qualcosa o “pro” qualcos’altro, la giustizia, questo “valore” in nome del quale l’umanità si è macchiata dei delitti più atroci e le società umane si sono involute nei più terribili autoritarismi. Arresti per la rivista anarchica “Bezmotivny - Senza Motivo”. Che aveva già chiuso di Mario Di Vito Il Manifesto, 9 agosto 2023 Misure cautelari per nove militanti ordinate dal gip di Genova. Accuse pesanti, ma l’operazione è scattata per “scritti scellerati”. Terrorismo, istigazione, apologia e offesa all’onore e al prestigio del presidente della Repubblica. È per questi reati ieri mattina, tra Genova, La Spezia, Massa e Carrara è scattato un blitz della polizia contro nove anarchici, quattro dei quali sono stati arrestati. Secondo gli investigatori della Digos e del Servizio per il contrasto all’estremismo e al terrorismo interno della polizia di prevenzione, coordinati dalla Dda di Genova, saremmo in presenza di “un’associazione con finalità di terrorismo dedita, tra l’altro, all’ideazione, predisposizione, redazione, stampa e diffusione della pubblicazione clandestina denominata “Bezmotivny - Senza Motivo”, quindicinale divenuto principale strumento di promozione e diffusione del messaggio anarchico più oltranzista, la cui prima edizione risale al dicembre 2020”. Piccolo particolare: Bezmotivny ha sospeso le sue pubblicazioni a luglio perché, come si legge nell’ultimo editoriale, in redazione “sono ormai rimasti solo 3 o 4 compagni, mentre gli altri danno un contributo materiale minimo”. Questo, comunque, viene ritenuto abbastanza per ritenere minacciata la Repubblica. La base operativa è stata individuata nello storico circolo “Gogliardo Fiaschi” di Carrara e nella tipografia “Avenza Grafica” di Massa, posta sotto sequestro dagli inquirenti. La Dda di Genova ha così disposto gli arresti domiciliari per Gino Vatteroni, Paolo Arosio, Gaia Taino e Luigi Palli, e l’obbligo di dimora per Luca Aloisi, Andrea Grazzini, Jessica Butoni, Veronica Zegarelli e Michele Fabiani. L’operazione è stata chiamata “Scripta Scelera”, nonostante l’Italia abbia recepito la direttiva europea che imporrebbe alle procure sobrietà nella scelta dei nomi delle proprie inchieste, al fine di non ledere il principio di presunzione d’innocenza. “È praticamente certo che l’attività apologetica ed istigatoria proseguirà - si legge nell’ordinanza - sostenuta dal vincolo associativo che, in quasi tre anni di vita, si è consolidato ed è il motore della vita del periodico. Tutti sono assiduamente dediti alla formazione della rivista, ciascuno col proprio ruolo principale, che spesso si accompagna ad attività diverse”. Vatteroni viene ritenuto il principale organizzatore, Arosio è uno dei redattori di Bezmotivny, Taino scrive e traduce, Palli è il tipografo e Aloisi si occupa di questioni logistiche come la “ricerca di un macchinario che consenta al sodalizio di rendere autonoma la stampa del periodico”, perché, come ammesso dalla stessa rivista, i costi della stampa sono diventati insostenibili. Diverso il ruolo di Fabiani, che scriveva articoli e “manteneva contatti con Alfredo Cospito”. La faccenda è nota, tant’è vero che Fabiani e Cospito sono stati imputati insieme in diversi processi, l’ultimo dei quali si è tenuto a Perugia pochi mesi fa ed è finito con la caduta di tutte le accuse. Erano gli sgoccioli dell’operazione Sibilla, che pure riguardava la realizzazione di un periodico anarchico ritenuto veicolo di istigazione e apologia di terrorismo. A Bezmotivny, tra le altre cose, viene contestata anche la stampa clandestina, non essendo mai stata registrata la testata in tribunale. Tuttavia la sua diffusione, ancorché assai ridotta, non si muoveva certo per canali misteriosi: sul web sono ancora facilmente rintracciabili tutte le indicazioni per procurarsene una copia o addirittura abbonarsi. Le colonne del giornale erano affollate di riflessioni che in qualche modo possiamo ritenere classiche per l’anarchismo italiano, in un difficile tentativo di tenere insieme un’area pulviscolare e sparsa in tutto il paese, tra richiami alla storia del Novecento e cronaca (abbastanza disordinata) delle varie iniziative anarchiche ancora in campo. Ovviamente nell’ultimo anno e mezzo molto spazio è stato dedicato alla solidarietà nei confronti di Alfredo Cospito (“Dando risalto in termini positivi alle relative rivendicazioni”, si legge sempre nell’ordinanza). Gli investigatori sono convinti che la rivista serviva a definire una linea di condotta e a individuare obiettivi da colpire, cioè a “perseguire un innalzamento del livello dello scontro con le istituzioni”, arrivando ad auspicare “l’utilizzo di armi da sparo”, perché, secondo Bezmotivny, “ciò che più conta è l’azione e non le chiacchiere”. Ma li arrestano per le chiacchiere. Al lavoratore detenuto spetta il “minimo assoluto” previsto per la mansione svolta di Giada Gianola eutekne.info, 9 agosto 2023 Il lavoro prestato dal detenuto in Istituti di pena è remunerato secondo il disposto dell’art. 22, comma 1 lett. f) del D.Lgs. 124/2018. In base a tale disposizione, testualmente, “la remunerazione per ciascuna categoria di detenuti e internati che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria è stabilita, in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, in misura pari ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi”; sulla remunerazione così determinata vengono quindi calcolati i contributi previdenziali e assistenziali (art. 7 del DL 103/91). La norma appena riportata va ovviamente letta tenendo conto dell’art. 36 Cost., che ugualmente fa riferimento alla quantità e alla qualità del lavoro prestato dal lavoratore per determinare la giusta retribuzione da corrispondere allo stesso, la quale deve essere in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Inoltre, per determinare l’entità della retribuzione spettante al lavoratore detenuto in istituti carcerari, si ritiene occorra tenere conto, in relazione alla contrattazione collettiva di settore, del livello di inquadramento maggiormente corrispondente alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore. Nel caso in cui si lamenti la corresponsione di una remunerazione (detta anche “mercede”) inferiore rispetto al limite dei due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro, il lavoratore potrà ricorrere in giudizio al fine di ottenere la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento della differenza retributiva, ciò in quanto il rapporto di lavoro si perfeziona con esso e non con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o la casa circondariale, che costituiscono articolazioni organizzative interne e, in quanto tali, prive di titolarità passiva (cfr. Trib. Bari 10 marzo 2022 n. 725). Le differenze di retribuzione possono anche essere dovute a causa del mancato adeguamento della remunerazione rispetto ai contratti collettivi vigenti al momento in cui sono state svolte le prestazioni (cfr. Trib. Roma 3 febbraio 2023 n. 1129). Sotto il profilo processuale la competenza per materia spetta al giudice del lavoro (cfr. Cass. n. 21573/2007), ma è inapplicabile il criterio di competenza territoriale di cui al comma 5 dell’art. 413 c.p.c., riguardante le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Nelle controversie in tema di lavoro carcerario si devono infatti applicare i criteri di cui al comma 2 del suddetto art. 413 c.p.c. (secondo il quale è competente per territorio il giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto ovvero si trova l’azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto), ciò in quanto quelle del lavoratore detenuto sono prestazioni lavorative svolte nell’ambito di una struttura aziendale finalizzata alla produzione di beni per il soddisfacimento di commesse pubbliche e private, con conseguente instaurazione di un rapporto di lavoro privato (cfr. Cass 8 maggio 2019 n. 12205). Si evidenzia infine che, come chiarito di recente dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 8792/2022 - che si è pronunciata sul caso di un lavoratore che domandava la condanna del Ministero al pagamento degli emolumenti lavorativi dovuti per l’attività di scopino svolta presso la casa circondariale di Rebibbia, ove era stato detenuto - ai fini del pagamento della remunerazione risulta congrua e, quindi, sufficiente la mera deduzione degli elementi riguardanti le mansioni assegnate e l’indicazione in concreto delle mansioni svolte, costituendo il trattamento individuato dall’art. 22 della L. 354/75 il c.d. minimo assoluto. Nel caso di specie i giudici di legittimità hanno così ritenuto ultronee le ulteriori allegazioni richieste dalla Corte d’Appello per l’accoglimento della domanda proposta dal lavoratore, in relazione alle modalità di svolgimento del rapporto, all’orario di lavoro, alla sua articolazione, alle ore di lavoro straordinario, alle ferie non godute, all’indicazione specifica delle voci retributive rivendicate e all’inquadramento. Il possesso di dosi di droga pesante non esclude l’esame del giudice sull’ipotesi di lieve entità di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2023 La fattispecie attenuata può ricorrere in base ad altre circostanze di fatto anche per la detenzione di dosi di crack e cocaina. L’ipotesi della lieve entità del reato di illecita detenzione di stupefacenti, anche a fini di spaccio, non può essere esclusa de plano dal giudice solo perché si tratta di droga “pesante”. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 34537/2023 - ha accolto il motivo di ricorso sulla mancata applicazione del comma quinto dell’articolo 73 del testo unico degli stupefacenti. Infatti, i giudici di legittimità hanno ravvisato un’esclusione automatica dell’ipotesi attenuata del reato in quanto le dosi di cui era stato trovato in possesso il ricorrente erano di cocaina e crack sostanze pacificamente non appartenenti al novero delle droghe “leggere”. La Cassazione chiarisce proprio l’interpretazione da dare al comma quinto della disposizione del Dpr 309/1990. E, afferma che il giudice è tenuto a valutare la ricorrenza di tutti gli elementi indicati dalla norma in un giudizio di bilanciamento tra gli stessi e soprattutto senza alcuna automatica preclusione nel caso ricorra l’ipotesi della detenzione di sostanze droganti “pesanti”. Quindi il giudice del rinvio dovrà - a fronte della conferma della penale responsabilità del ricorrente - valutare se gli elementi che costituiscono la condotta incriminata possano comunque condurre a un giudizio di lieve entità con conseguente riduzione della pena. La sentenza di legittimità - nel rigettare l’altro motivo di ricorso - offre un chiarimento e cioè che non è illegittima la contestazione del reato fondata sui risultati del narcotest. Il ricorrente, infatti, lamentava che l’imputazione e la successiva condanna fossero fondate su tale test di accertamento che non offre la misurazione della capacità drogante della sostanza, ma solo ne individua la tipologia. Lombardia. Carceri, otto suicidi dall’inizio dell’anno di Simone Marcer Avvenire, 9 agosto 2023 Gli istituti di pena lombardi fra sovraffollamento, aumento delle situazioni di fragilità, malattia, tossicodipendenza, deficit di risposte sociali e sanitarie. Ancora un suicidio nelle carceri lombarde. Il terzo in dieci giorni. L’altro ieri un detenuto per bancarotta, italiano di 50 anni, si è tolto la vita impiccandosi nel carcere di Opera, in provincia di Milano. A comunicarlo l’associazione Antigone, che si occupa dei diritti delle persone detenute e il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. Solamente cinque giorni prima a San Vittore un 30enne era morto dopo aver inalato gas da una bomboletta per stordirsi. E quattro giorni prima ancora, il 29 luglio, c’era stato un altro suicidio nello stesso carcere milanese. Un detenuto moldavo 38 enne che si è tolto la vita a pochi giorni dall’ingresso in carcere e dopo che era stato visto da educatori e psicologi. Tre morti che rappresentano più di un terzo dei suicidi nelle carceri lombarde nel 2023: otto le persone morte per gesti di autolesionismo da inizio anno. Tre i morti a San Vittore (c’era stato un altro suicidio il 10 febbraio, un 21enne sudamericano), un’altra persona che si è tolta la vita nel carcere di a Opera (senza contare altri tre detenuti morti che erano ricoverati nel reparto ospedaliero), altri tre i casi a Busto Arsizio (un 29enne il 6 giugno), nel carcere di Brescia (26 maggio, 40 anni), e Como (11 maggio, vittima un 26enne). Dati forniti da Antigone e da Ristretti Orizzonti, altra associazione che si occupa della situazione nelle carceri. Chiaramente l’escalation di queste settimane è dovuta al fatto che nel mese di agosto molte attività interne sono sospese, e di conseguenza si accentuano la percezione della solitudine e dell’isolamento nella popolazione carceraria. L’ultimo picco di suicidi era stato nel dicembre scorso con due morti nelle carceri lombarde nella settimana delle festività di Natale (a Bergamo, il 21 dicembre 2022, e a Pavia il 28). Al di là del fatto, comune anche a chi non è detenuto e vive liberamente, che durante le feste l’isolamento pesa di più, vanno cercate le ragioni strutturali dietro l’alto numero di suicidi in cella. Dopotutto nelle carceri italiane ci si suicida sedici volte di più che nel resto del Paese, che non è certo tra i primi in Europa per atti di autolesionismo, ma lo è invece riguardo ai suicidi dei detenuti. La Lombardia in particolare, tra i suoi tanti primati, perlopiù confinati negli ambiti produttivi, ha anche quello del sovraffollamento carcerario, (136%, e l’anno scorso era al 150%) contro una media nazionale del 112% (secondo i dati forniti da Antigone). Tra gli istituti più sovraffollati ci sono: Busto Arsizio, dove un detenuto si è suicidato due mesi fa, e dove la percentuale di sovraffollamento è di quasi il 175%, Bergamo, (168% circa, un suicidio in dicembre), Brescia Canton Mombello (166%, un suicidio nel 2023), Lodi (164%), Brescia Verziano (156%), Como (152%, un suicidio), Monza (149% e due suicidi nel 2022), Vigevano (138%), Opera (136% e due suicidi nel 2023), Mantova (134%) e Milano San Vittore (sceso al 126%, dopo che negli anni scorsi ha registrato punte di sovraffollamento del 190%), tre suicidi in un anno. Si fa prima a elencare le strutture detentive dove il sovraffollamento carcerario esiste comunque, ma è contenuto entro limiti tollerabili. Il carcere di Bollate, che con 1.371 detenuti è il più grande della Lombardia, ha un tasso di affollamento nella media nazionale (109%) e conta due suicidi avvenuti l’anno scorso; e quello Cremona (110%), dove tuttavia c’è stato un record di 13 incendi dolosi nei primi tre mesi dell’anno 2023. L’altra spia del malessere sono infatti le aggressioni e gli incendi. Ieri il segretario del Sappe Donato Capece ha stimato in 5mila unità la carenza di organico della polizia penitenziaria. A destare particolare preoccupazione è la sofferenza di San Vittore (940 detenuti, 600 stranieri), dato che è una casa circondariale (per gli imputati in attesa di giudizio e condannati fino a cinque anni) da dove poi i detenuti vengono smistati nelle strutture detentive lombarde per scontare la pena definitiva. Invecchiamento della popolazione carceraria, aumento di situazioni di fragilità, di tossicodipendenza, o doppia diagnosi tra i detenuti, mancanza di assistenza psichiatrica, abuso di tranquillanti (in media ne fa uso uno su tre), attività lavorative e spazi interni carenti sono tutti aspetti di una situazione insostenibile. “Oggi c’è sicuramente una quantità di sofferenza sociale maggiore, con un impatto a livello di arresti e passaggio definitivo molto significativo”, spiega Valeria Verdolini di Antigone Lombardia. “Ma che c’è anche un problema di tenuta del sistema carcerario. La regione - prosegue Verdolini - presenta un deficit di cura e presa in carico per la parte sociale, e il carcere ne diventa il collettore. È necessaria una risposta sistemica e sinergica di area sanitaria, sociale e pubblica amministrazione, a livello locale e regionale” conclude Verdolini, che, nei giorni scorsi aveva riportato il caso di una detenuta 90enne a San Vittore, in attesa di ricollocamento in Rsa, e quello di una sessantaseienne apatica, con frattura del bacino che ha bisogno di assistenza igienica e di alimentazione, in condizioni di totale indigenza. “Inoltre - ha aggiunto - da inizio anno sono passate in istituto almeno 28 donne in gravidanza”. Sardegna. Dove l’isolamento dei detenuti vale il triplo La Repubblica, 9 agosto 2023 I direttori non ci vogliono andare, così pure gli educatori e gli agenti: strano posto quest’isola per chi ha a che fare con il sistema delle prigioni. Ma è l’unica regione italiana che non ha rischi di sovraffollamento. Era il 1998 quando - per volontà di Sandro Margara, indimenticato giudice di sorveglianza e capo dell’amministrazione penitenziaria - il carcere dell’Asinara chiuse in via definitiva. Poco meno di vent’anni prima, il 2 ottobre 1979, c’era stata la rivolta nella sezione speciale Fornelli. Altri tempi, quando le carceri erano i luoghi della repressione della lotta armata. Oggi l’isola dell’Asinara è visitata da turisti e il carcere di massima sicurezza è per fortuna solo parte del racconto delle guide locali. Strano posto la Sardegna per chi ha a che fare con il sistema delle prigioni. Forse l’unica tra le regioni italiane che non presenta rischi di sovraffollamento: i detenuti, rinchiusi in dieci istituti penitenziari, sono 2.070, un numero inferiore ai 2.617 posti calcolati per definirne la capienza regolamentare. E, se non fosse per la pratica di spostare dal continente un numero significativo di detenuti stranieri con pochi legami sul territorio, sarebbero ancora di meno. Il caro prezzo di essere un’isola. La Sardegna sconta il suo essere isola. Ce ne siamo accorti in questi giorni in cui siamo in giro a visitare le carceri della regione. Non ci vogliono andare i direttori - oggi sono solo in tre, a dover gestire circa tre carceri a testa - sono pochi i sottufficiali di Polizia Penitenziaria, scarseggiano gli educatori. Si vede però una luce in fondo al tunnel: a fine ottobre verranno immessi in servizio 57 nuovi giovani direttori. Alcuni andranno a riempire i vuoti gestionali della Sardegna. Le nuove carceri nel 2014. L’isolamento è una delle parole chiave nella vita carceraria sarda. Era il 2014 quando furono inaugurate alcune nuove carceri, tra cui Cagliari e Tempio Pausania. Fu deciso di ubicarle lontano dai centri storici e dagli abitati. Per chi ama la natura è affascinante ammirare i fenicotteri che circondano il carcere cagliaritano di Uta o perdere lo sguardo tra le colline di Nuchis vicino Tempio. Ma la lontananza dalle città produce desertificazione sociale. Rende complesso costruire ponti tra dentro e fuori, immergere il carcere in un tessuto relazionale che possa dare qualche significato al periodo detentivo. Si sconta così un doppio isolamento: quello isolano e quello della pianificazione urbana. Un isolamento tragico. Ce n’è poi un terzo, quello classico usato da sempre nelle galere. Un isolamento tragico. Le scene di Steve McQueen che in Papillon cerca strategie per non impazzire ci danno un’immagine cinematografica di quanto le ricerche mediche hanno confermato negli anni: l’isolamento fa male, l’isolamento porta al disadattamento, allo squilibrio, alla follia. Ma viaggiando per le carceri italiane si incontrano tanti detenuti isolati. Accade per le più varie ragioni: motivi sanitari, perché non si interferisca con i processi, per motivi disciplinari, su presunta scelta volontaria. Oppure perché condannati alla pena dell’isolamento diurno. Nel carcere di Tempio Pausania ce n’era uno in questa situazione. Le durezze verso i pluriergastolani. L’articolo 27 del codice penale prevede che ai pluriergastolani si aggiunge la pena dell’isolamento diurno che può arrivare fino a tre anni. Un’eternità capace di devastare la psiche di chiunque. Una pena nella pena, che dovremmo considerare una condizione di vero e proprio maltrattamento. Le cosiddette “Mandela Rules” delle Nazioni Unite ci dicono che la durata massima dell’isolamento non deve superare i 15 giorni. La modalità di esecuzione è poi molto, troppo diversa da carcere a carcere: si interpreta l’isolamento diurno come agganciato all’alba e al tramonto, o alle ore lavorative, o ancora come sconfinante nella notte in un isolamento totale. Una pena produttiva solo di sofferenza, sganciata da ogni istanza di reintegrazione sociale, evidentemente diseguale, in relazione alla quale si attende che un giorno qualche giudice sollevi la questione di costituzionalità. Quelli di cui nessuno si fa carico. In qualcosa le carceri sarde sono ben simili a tutte le altre: nell’essere diventate contenitori degli esclusi dal welfare, di quelle persone di cui nessuno (società, famiglia, servizi) vuole farsi carico. La sofferenza psichica si tocca con mano. Gli operatori raccontano storie di abbandono, solitudine, malattia, dipendenze che paiono senza speranza. È a queste persone che spesso tocca l’isolamento. A differenza dei detenuti più strutturati dal punto di vista criminale, loro non sanno farsi la galera. Entrano in conflitto con il personale, sono abbandonati nelle sole mani di chi li deve custodire. Gli occhi di alcuni poliziotti sono occhi disarmati. Sono lasciati soli nell’affrontare casi complicatissimi. Ma l’isolamento non può mai essere la giusta risposta. Proprio su questa consapevolezza, Antigone sta lavorando, insieme a Physiciens for Human Rights Israel, a linee guida su scala mondiale su alternative dall’isolamento carcerario. L’ergastolano con tre lauree. A Tempio Pausania c’è Marcello Dell’Anna, in carcere da 32 anni, una storia di emancipazione sociale prodotta dall’impegno universitario. Ha conseguito ben tre lauree, scrive importanti articoli sul carcere e la pena, ha portato avanti un percorso che dovrebbe sfociare in qualche possibilità alternativa al carcere al fine di guardare a un pieno riavvicinamento alla società. Dell’Anna è un buon esempio di ricostruzione di una biografia nel segno della trasformazione culturale. A Tempio, carcere interamente dedicato all’alta sicurezza, sono una trentina i detenuti iscritti all’Università di Sassari. Girando per le celle, ben tenute, si vedono i pc che i detenuti possono utilizzare nello studio (anche se non collegati in rete). Tra le mura il liceo “Fabrizio De Andrè”. L’Italia ha una sua buona prassi: l’impegno di molte Università per offrire un’occasione di studio qualificato. Esiste una Conferenza dei delegati dei rettori per i poli universitari in carcere. L’educazione e la cultura sono straordinari fattori di emancipazione sociale. Nel carcere di Tempio è presente anche una sezione del liceo artistico “Fabrizio De Andrè”. “Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”, cantava Faber. Siamo tutti coinvolti. Nessuno escluso. (Testi ripresi dal sito internet dell’Associazione Antigone) Campania. Sono 93 i ragazzi detenuti negli Istituti Penali per i Minorenni ansa.it, 9 agosto 2023 Secondo il Garante regionale, il numero più allarmante riguarda i 35 accusati di omicidio volontario, tentato (31) o consumato (4). Negli Ipm, gli Istituti penali per minorenni della Campania, al 31 luglio sono presenti 93 detenuti: 59 a Nisida (43 italiani e 16 stranieri) e 34 ad Airola (23 italiani e 11 stranieri). Dei 93, 49 hanno tra i 14 e i 18 anni (29 italiani e 20 stranieri) 40 sono giovani adulti ed hanno tra i 18 e i 20 anni (33 italiani e 7 stranieri) e 4 detenuti italiani hanno un’età compresa tra i 22 e i 25 anni. Il “dato più allarmante” relativo a questi 93 detenuti, dice il garante campano Samuele Ciambriello, “riguarda i 35 accusati di omicidio volontario, di cui 31 per tentato omicidio e 4 per omicidio consumato”. Altri 35 sono poi accusati di reati contro il patrimonio: 25 per rapina e 20 per furto. Secondo Ciambriello, che cita anche i 119 giovani in misura alternativa al carcere ospiti delle comunità per minori della Campania (sono 902 in tutta Italia), “da tempo assistiamo a fatti di cronaca sempre più violenti e immotivati compiuti da baby gang, composte ragazzi la cui età va progressivamente diminuendo fino a coinvolgere bambini in età scolare. Giovanissimi, aggressivi e violenti, che ‘giocano a fare i grandi’ a spese degli altri. Aggredendo e ferendo gravemente i loro coetanei senza un motivo, per il mero gusto di farlo”. “Sono giovani - aggiunge il garante campano - che si uniscono per fare il male, per provare emozioni. In una subcultura, a Napoli, usano armi per difendersi e la cattiveria per offendere. Vivono insomma d’istinti e d’istante, vogliono tutto e subito e non avvertono la gravità e la responsabilità di quello che hanno fatto, hanno vuoti relazionali, valoriali ed affettivi. Il comune denominatore per migliaia di questi adolescenti che passano dal disagio alla devianza e dalla devianza alla microcriminalità è la non cultura, la dispersione scolastica. Occorre invertire la rotta, farlo subito altrimenti dopo è tardi”, conclude Ciambriello. Milano. Suicidio nel carcere di Opera, detenuto di 56 anni si impicca: era recluso da due mesi di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 9 agosto 2023 Italo Calvi, originario del bellunese, si era costituito a inizio giugno dopo la condanna definitiva per bancarotta. I conoscenti: “Era malato e confidava di accedere a misure alternative”. Nei giorni scorsi altri due suicidi a San Vittore. Ancora un suicidio in carcere. La scorsa notte un detenuto di 56 anni, Italo Calvi, originario di Farra d’Alpago nel Bellunese, recluso per scontare una condanna a sei anni per reati fallimentari, si è impiccato nella sua cella all’interno del carcere di Opera. Inutili i soccorsi degli agenti della polizia penitenziaria e del 118. Calvi, che viveva in Germania da diversi anni, si era consegnato nel carcere milanese a inizio giugno dopo che la Cassazione aveva rigettato il suo ricorso rendendo così definitiva la condanna per bancarotta fraudolenta legata al fallimento della società Ic Group. Sembra che Calvi fosse malato e che confidasse di poter accedere a misure alternative alla detenzione in carcere. Verona. Studio e formazione per i detenuti di Montorio, l’accordo tra comune e università di Giulia Cambazzu veronaoggi.it, 9 agosto 2023 Fornire un’opportunità di studio universitario e formazione professionale ai detenuti della “Casa 2 circondariale” di Montorio, in carico all’Uepe di Verona e Vicenza e al centro per la giustizia minorile del Veneto: è questo l’obiettivo del nuovo accordo di collaborazione firmato tra comune e università di Verona- che ha proposto il progetto- al fine di sviluppare iniziative tese a promuovere il tema dei diritti e garantire l’opportunità di studio universitario alle persone in esecuzione della pena. Da parte del comune, l’impegno sarà quello di assicurare il supporto istituzionale, facendosi da tramite con tutti gli attori coinvolti. “Un modo per aiutare le persone a rientrare nella società” - “L’iniziativa”, ha spiegato l’assessora Stefania Zivelonghi, intervenuta anche a nome del collega Buffolo, “si sviluppa in ambito di pari opportunità, ma ha grande attinenza anche con la mia delega della sicurezza. L’accordo, preso su input e su proposta dell’università, rinsalda e ripropone un percorso di collaborazione tra il comune e l’ateneo veronese, in favore del recupero di chi è soggetto a limitazione della propria libertà. Verona ospita una casa circondariale dove sono presenti persone adulte, non minori, ma anche di giovane età, a cui può essere proposto un percorso di recupero che dia loro nuove prospettive attraverso una crescita formativa. Sappiamo che la detenzione è solo una parte residuale del percorso di repressione, quindi è fondamentale integrarla con interventi che possono aiutare i soggetti coinvolti a rientrare in modo positivo nella società civile”. Aderiscono all’accordo anche il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto, il centro per la giustizia minorile per il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e le province autonome di Trento e Bolzano, il centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia), il garante dei diritti delle persone private della libertà personale, il tribunale di sorveglianza di Venezia, l’ufficio di sorveglianza di Verona e l’ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna di Verona. Migranti. Arriva la stretta per chi delinque: pronto il pacchetto sicurezza Meloni-Piantedosi di Grazia Longo La Stampa, 9 agosto 2023 Rimpatri più veloci, norme baby-gang e “malamovida”. Previsto l’aumento degli organici di polizia, carabinieri e finanzieri. Un faccia a faccia di oltre un’ora, subito dopo il consiglio dei ministri di lunedì sera, l’ultimo prima della pausa estiva. La presidente del consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si sono incontrati a Palazzo Chigi per discutere di nuove norme a tutela dei cittadini. Dal vertice è emersa la necessità di un pacchetto sicurezza, pronto per settembre, già anticipato domenica da Piantedosi dopo il femminicidio di Rovereto. Sei i cardini principali attorno ai quali sta ragionando l’ufficio legislativo del Viminale. Eccoli: la possibilità di accelerare il rimpatrio di immigrati che si macchiano di atteggiamenti violenti e aggressivi, il potenziamento delle pene per chi commette reati contro le forze dell’ordine, l’aumento degli organici delle forze dell’ordine, la predisposizione di norme ad hoc contro le baby gang e la mala movida, incremento degli impianti di video sorveglianza e maggiori controlli nelle stazioni ferroviarie e sui treni. E se per quest’ultimo aspetto specifico è stata avviata una collaborazione con i ministeri dei Trasporti e della Difesa, per l’approvazione del pacchetto in generale ci sarà un confronto con il ministro della giustizia Carlo Nordio. Si tratta di una serie di provvedimenti, che in parte affondano le loro radici in episodi di cronaca che hanno scosso molto l’opinione pubblica. A partire da quello che appare il più spinoso e cioè la stretta sulle espulsioni dei migranti irregolari, in particolare i soggetti problematici e pericolosi con alle spalle comportamenti violenti. Evidente il richiamo al recente caso di Rovereto, dove una sessantenne è stata uccisa in un parco da un nigeriano senza fissa dimora noto alle forze dell’ordine per numerosi precedenti, la maggior parte per reati violenti. A suo carico vi era una misura cautelare di obbligo di firma, ma per il resto poteva girare tranquillamente. L’obiettivo del governo è evitare altre simili circostanze, accorciando i tempi e semplificando l’espulsione di chi dà segnali di pericolosità sociale. E i collaboratori di Piantedosi precisano che si tratta di interventi mirati, “non a strascico di tutti gli immigrati irregolari”, diretti esclusivamente a chi ha manifestato comportamenti violenti o particolarmente aggressivi. Nessun atteggiamento discriminatorio nei confronti degli extracomunitari, dunque, ma un intervento preventivo che possa contribuire a rafforzare la sicurezza per i cittadini. “Il presidente del Consiglio e il ministro - ribadisce il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni che ieri ha partecipato al comitato per l’ordine e per la sicurezza a Rovereto - hanno avvertito la necessità di presentare un pacchetto di sicurezza per velocizzare l’allontanamento dei soggetti pericolosi e violenti. La volontà è quella di avere delle procedure semplificate che possano consentire a soggetti con un profilo criminale importante o patologie di natura psichiatrica di non rappresentare un pericolo per il territorio”. La modifica normativa che il governo sta studiando, osserva Molteni, è quella di “consentire l’immediato allontanamento attraverso i Centri di permanenza per i rimpatri”. Tra le misure in cantiere anche l’aumento degli organici delle forze dell’ordine, dalla polizia locale a quella di stato oltre ai carabinieri e finanzieri. Un tema, questo, molto caro ai sindacati di categoria che da tempo lamentano carenza d’organico e dotazione di mezzi non sempre all’altezza della situazione. Sul fronte forze dell’ordine si punterà, inoltre, ad inasprire le pene nei confronti di chi commette reati contro di loro. Previsti anche provvedimenti ad hoc per il contrasto al fenomeno della baby gang e, più in generale, alla lotta contro la violenza minorile innalzando i livelli di sicurezza nelle città. Attenzione sarà rivolta anche alla prevenzione della “mala movida”, un capitolo su cui si segnala la richiesta di Comuni ed enti locali per regolamentare gli orari dei locali preferiti dai giovani. E infine c’è un protocollo firmato Interno, Infrastrutture e Difesa. Un modello di intervento, sinergico e condiviso, con il coinvolgimento delle forze dell’ordine, dei militari e della security ferroviaria, con la regia del Viminale, per garantire più sicurezza nelle stazioni e nelle aree limitrofe. Il ministro e vicepremier Matteo Salvini ha assicurato la presenza, a bordo dei treni e nelle stazioni, di oltre 1500 tra donne e uomini della security, con ulteriori assunzioni che avverranno a breve. Migranti. Espulsioni veloci e Cpr, il governo prepara la stretta di Marina Della Croce Il Manifesto, 9 agosto 2023 Sui migranti il Viminale prepara un nuovo pacchetto sicurezza per settembre. Più che di immigrazione è forse un problema di controlli mancati ma tant’è, anche la tragedia di Rovereto, dove una donna di 61 anni, Iris Setti, è stata brutalmente aggredita e uccisa da un immigrato nigeriano violento per il quale anche le sorelle avevano chiesto un ricovero in un centro di salute mentale, per il governo è il motivo per annunciare una nuova stretta che finirà inevitabilmente per riguardare tutti gli stranieri che si trovano in Italia senza un regolare permesso. “A Rovereto un migrante che aveva dimostrato la sua pericolosità poteva girare tranquillamente in attesa dei provvedimenti delle autorità”, spiegavano ieri fonti di palazzo Chigi nell’annunciare per settembre il nuovo giro di vite al quale stanno già lavorando i tecnici del Viminale con l’obiettivo, tra le altre cose, anche di rendere più veloci le procedure di espulsione dei migranti irregolari. La premier Giorgia Meloni e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ne hanno parlato lunedì sera dopo il consiglio dei ministri in un incontro durato due ore e durante il quale è stato fatto il punto su un insieme di misure riguardanti l’ordine pubblico, di fatto l’ennesimo pacchetto sicurezza. “Siamo già al lavoro - aveva annunciato Piantedosi dopo la tragedia di Rovereto - per presentare un pacchetto di norme per rafforzare ancora tutti gli strumenti a disposizione delle forze dell’ordine per contrastare i più ricorrenti fenomeni criminali e di insicurezza dei cittadini”. In cantiere c’è un inasprimento delle pene per chi - a prescindere se italiano o straniero - ha atteggiamenti violenti o aggressivi nei confronti di esponenti delle forze dell’ordine, per le quali è previsto anche un aumento degli organici per garantire “una maggiore presenza di agenti in strada”. Novità anche per quanto riguarda la polizia locale per la quale, insieme a un maggior numero di uomini, si pensa a un aumento dei mezzi accompagnato da un incremento dei sistemi di videosorveglianza nei centri urbani. Per questi ultimi sarebbero già a disposizione le ricorse necessarie. Infine sono allo studio anche misure per contrastare il fenomeno delle baby gang. Ma il centro del pacchetto riguarda come si è detto l’immigrazione irregolare e in particolare, sottolineano dal governo, quei soggetti che danno segnali evidenti di pericolosità sociale. Oltre a un aumento dei Cpr, i Centri per il rimpatrio che l’esecutivo vorrebbe aprire in ogni regione, si sta lavorando a un modo per accelerare le espulsioni. Non si tratta di una novità. Già oggi il giudice può decidere l’espulsione di uno straniero che si è macchiato di un reato come misura sostitutiva di una condanna non superiore ai due anni di reclusione. Inoltre con il decreto Cutro, varato dopo il naufragio costato la vita a 94 persone, è stato prevista l’espulsione diretta, senza giudice di pace, per chi, in carcere per aver commesso un reato, ha finito di scontare la pena. “La volontà -ha spiegato il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni al termine di un comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza che si è tenuto ieri a Rovereto - è quella di avere procedure semplificate che possano consentire a soggetti con un profilo criminale importante o patologie di natura psichiatrica di non rappresentare un pericolo per il territorio”. Migranti. “Il vero problema è il caporalato, bisogna creare occasioni di lavoro legale” di Dario Del Porto La Repubblica, 9 agosto 2023 Il Viminale ha proposto espulsioni di massa sul territorio di Castel Volturno. “Sarebbe una sconfitta, me lo dice l’esperienza che ho maturato in questi anni: tra i miei ragazzi c’è chi ha i genitori irregolari, ma frequenta la scuola quotidianamente e con profitto. Che facciamo, espelliamo anche loro?”. Max Antonelli, uno dei fondatori di Tam Tam basketball, l’associazione dilettantistica che a Castel Volturno avvia allo sport tanti giovani di origini africane, scuote il capo alle parole del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Il responsabile del Viminale, ieri in visita nella città del litorale domitio, ha parlato di circa 10mila migranti sprovvisti di permesso di soggiorno, e ha aggiunto: “Vanno espulsi, non lo penso io, ma lo dice la legge. Poi verrà visto caso per caso, non si sono mai fatte espulsioni alla cieca”. Cinzia Massa, segretaria della Cgil a Napoli e in Campania, argomenta: “Siamo per una società multietnica che favorisca l’integrazione, non per le espulsioni. Bisogna creare le condizioni per restituire diritti e dignità agli immigrati, creando lavoro legale e combattendo il caporalato”. Al ministro replica anche la rete Castel Volturno solidale (che riunisce Caritas diocesana di Caserta, centro sociale Ex Canapificio, centro Fernandes, comboniani di Castel Volturno, Emergency, Movimento migranti e rifugiati di Caserta) e afferma: “Sulla pelle della popolazione italo-africana, sulla povertà e il degrado ambientale di quest’area si sparano numeri sulla presenza dei migranti senza andare a fondo dei problemi, restando sulla linea della propaganda. Invitiamo le istituzioni a valutare i danni provocati da alcune norme, dalla cancellazione del reddito di cittadinanza alla conversione del cosiddetto decreto Cutro”. Mimma D’Amico, del centro ex Canapificio, argomenta: “Chiedo al ministro di affrontare davvero caso per caso la situazione. Si accorgerebbe che quasi nessuno degli immigrati di cui parla merita di essere rimandato a casa. Spesso sono costretti a combattere per il riconoscimento di diritti elementari: dopo una richiesta di protezione internazionale possono trascorrere sei mesi solo per il rilevamento delle impronte”. La rete Castel Volturno sollecita “un’analisi dei problemi concreti. Da tempo ci battiamo affinché vi sia un piano per Castel Volturno che favorisca l’emersione, il consolidamento del permesso di soggiorno e il coinvolgimento dei cittadini stranieri in un percorso di formazione e inclusione sociale”. Cinzia Massa della Cgil chiede di “rinforzare il personale nelle questure e nelle prefetture. Non esiste solo il problema della sicurezza: il rilascio delle pratiche di permesso procede a rilento e invece vanno garantiti tempi ragionevoli”. Antonio Casale, del centro Fernandes, prova “a intravedere una luce nelle parole del ministro: ha detto che valuterà caso per caso. Ecco, tra le pieghe di queste parole voglio coltivare la speranza di nuove regolarizzazioni, soprattutto per chi vive qui ormai da tanti anni ed è stato solo danneggiato da tante restrizioni”. Max Antonelli è preoccupato: “Abbiamo lottato per i diritti di questi ragazzi e continueremo a farlo - sottolinea - senza mai preoccuparci dello status dei loro familiari. Certo, se uno commette reati, il discorso cambia. Ma se una persona non riesce a regolarizzarsi a causa delle norme e, nonostante, questo, fornisce un servizio allo Stato, non ha senso mandarla via. Qui tantissima gente crea, letteralmente, economia. Voglio proprio vedere chi andrà a spezzarsi la schiena nei campi o a svolgere lavori umili al posto loro”. Migranti. Uno sterminio quotidiano di Flore Murard-Yovanovitch* Il Manifesto, 9 agosto 2023 Negli ultimi mesi le scomparse di massa in mare hanno conosciuto una mostruosa accelerazione. Solo dal 4 agosto ad oggi, in almeno 4 naufragi sulle coste tunisine e al largo di Lampedusa, sono scomparse più di un centinaio di persone (circa 120). Le foto dell’orrore. I cadaveri di uomini, donne e bambini morti di fame e di sete in pieno deserto al confine tra Tunisia e Libia per abbandono e respingimento in pieno Sahara - le vittime, erano state scacciate da poliziotti tunisini -, non sono state inquadrate in maniera adeguata come importanti prove del “migranticidio” in corso. Queste vittime sono la diretta conseguenza di prassi “eliminazioniste” dei profughi/migranti dei quali vengono totalmente cancellate la dimensione umana e il diritto alla vita. Prassi “eliminazioniste” perché è fin troppo ovvio che respingere e abbandonare delle persone in pieno deserto equivale a condannarle alla morte sicura. Queste espulsioni collettive oltre confine ordinate dal governo tunisino sono i diretti, immediati effetti del Memorandum d’intesa tra la Tunisia di Kais Saied e l’Unione europea e come tali devono essere analizzate: scelte politiche intenzionali. L’Italia e l’Ue sono i veri, diretti mandanti, visto che stipulano “accordi” con paesi detti “terzi” a cui si appaltano il controllo delle frontiere con l’obiettivo di respingere i migranti prima che approdino in Europa, a tutti costi. A tutti costi, facendo agonizzare le persone migranti di fame e disidratazione, di respingimento, di detenzione e di deportazione o, più spesso, facendole sparire nel Mediterraneo come si verifica ormai da 10 anni con numerosissimi naufragi. Negli ultimi mesi le scomparsa di massa in mare hanno conosciuto una mostruosa accelerazione. Solo dal 4 agosto ad oggi, in almeno 4 naufragi sulle coste tunisine e al largo di Lampedusa, sono scomparse più di un centinaio di persone (circa 120). Ma quante altre vite hanno inghiottito il Mediterraneo e l’Atlantico o sono scomparse per sempre lungo le vie di terra nel 2023? Secondo il censimento elaborato dal Comitato Nuovi Desaparecidos, lungo le vie di fuga verso l’Europa, dal primo gennaio al 7 agosto vanno calcolate 3.551 vittime tra morti e dispersi: 147 nel deserto o comunque “a terra” e 3.404 a mare. Le cause? Si è accelerata la macchina del crimine, con la moltiplicazione degli accordi sul modello Memorandum Italia-Libia e perché sono aumentate le partenze e le intercettazioni violente e le prassi di manovre pericolose per bloccare le barche da parte delle guardie tunisine e libiche finanziate dall’Italia. A terra e in mare, in tutto il bacino migratorio del Mediterraneo e dell’Atlantico verso le Canarie si sta commettendo un crimine ormai non più invisibile. Le foto di alcune delle vittime - autentiche prove del migranticidio in atto (un neologismo coniato da un gruppo di giuristi nel maggio scorso per illustrare e inquadrare il crimine in corso) - avrebbero dovuto scatenare una presa di coscienza civile collettiva su quanto sta avvenendo, giorno per giorno, su tutte le frontiere europee in un arco di barbarie che va dai Balcani all’Africa Occidentale, ovunque si sono esternalizzate le frontiere dell’Ue: un crimine intenzionale, perché frutto di precise scelte ma che si vuole nascondere dietro la narrazione della cosiddetta “lotta a scafisti e trafficanti”. E mentre arrivano queste foto, il sito Statewatch ha ricordato che la Commissione europea ha recentemente proposto aumenti di 15 miliardi di euro al bilancio dell’UE per il periodo 2021-27, sostenendo che le finanze esistenti sono “vicine all’esaurimento”. Tra le proposte vi sono piani per aumentare la spesa a titolo di “Migrazione e gestione delle frontiere” di 1,7 miliardi di euro - che può essere utilizzata per erigere altre barriere di varia natura ai confini - e “Vicinato e mondo” - che può essere utilizzata per finanziare progetti di esternalizzazione delle frontiere nei paesi terzi - di quasi 9,7 miliardi di euro. Cioè più respingimenti e più morti ai confini dell’Europa, in un crimine ormai strutturale, un crimine di sistema. *Giornalista e scrittrice La spietatezza dei penultimi nei confronti degli ultimi di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 9 agosto 2023 Il premier britannico Sunak, figlio e nipote di immigrati, propone soluzioni durissime nei confronti degli immigrati di oggi. Come spesso è avvenuto un po’ ovunque. Dio salvi gli ultimi dai penultimi. L’estrema durezza del premier britannico Rishi Sunak nei confronti degli immigrati, soprattutto quelli africani, conferma una volta di più una costante delle migrazioni. Dicono infatti le cronache che il capo del governo inglese, per scoraggiare il costante arrivo di disperati che riescono a sbarcare in Inghilterra a dispetto delle crescenti rigidità nei controlli dopo la Brexit spacciata dai demagoghi come il magico ritorno ai tempi antichi con le frontiere blindate, butta lì ogni giorno un’idea diversa. Prima quella di deportarne il più possibile in Ruanda. Poi di depositarne una parte sulla vulcanica Ascension Island, a metà oceano tra l’Angola e il Brasile. Quindi di ammassare gli indesiderati su dormitorio galleggiante attraccato nel porto di Portland. Tutte scelte impraticabili già un secolo e mezzo fa (ci provò l’allora capo del governo italiano Federico Menabrea a liberarsi di tanti meridionali invisi chiedendo di accoglierne un po’ prima all’Argentina poi al Borneo: richieste respinte) ma a maggior ragione sorprendentemente dure perché lo stesso Sunak è figlio e nipote di emigrati. I nonni cercarono una vita migliore partendo dall’India verso la costa orientale africana (come moltissimi indiani, si pensi a Gandhi nel Sudafrica britannico), il padre e madre dal Kenya e dalla Tanzania in Inghilterra. E provarono tutti sulla loro pelle, per citare l’esule Dante Alighieri, “sì come sa di sale lo pane altrui”. Nessuno stupore, però. La storia millenaria delle migrazioni insegna che chi si insedia in un nuovo Paese e fa di questo la sua nuova patria (“La patria è là dove si prospera”, scrisse Aristofane) tende sempre o quasi sempre a proteggere il proprio insediamento da chi arriva dopo di lui e aspira a insediarsi (esattamente quanto lui stesso aspirava un tempo) mettendo a rischio le “sue” conquiste. Gli italiani, che emigrarono in almeno 27 milioni, lo sanno bene. Sanno quanto fu dura inserirsi fra i vignaioli poveri della Riverina in Australia, tra i contadini della pampa in Argentina o i boscaioli nel Mato Grosso in Brasile, tra i miserabili costretti a lavorare nelle saline in Francia. Dicono tutto certe tragiche rivolte contro i nostri nonni che “rubavano il lavoro”. Su tutte quella del 14 marzo 1891 a New Orleans dove undici italiani accusati ingiustamente d’aver ucciso un poliziotto furono linciati nonostante fossero stati assolti. I più feroci nell’assalto, scriveranno i giornali, furono migliaia di neri già schiavi nelle piantagioni di cotone. Uccidere i nostri nonni era un modo di dire: non siamo più noi gli ultimi, adesso siete voi. Niger. L’Ue sul colpo di Stato: “Pregiudica la stabilità e mette a rischio la gestione dei flussi migratori” di Emanuele Bonini La Stampa, 9 agosto 2023 Il portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea: “Cooperazione ormai compromessa, non lavoriamo con il governo dei golpisti”. L’aumento dei flussi migratori “è uno dei rischi che pone la situazione” in atto. Adesso il colpo di Stato in Niger inquieta non poco la Commissione europea, preoccupata per le ripercussioni su un tema da sempre divisivo in un’Unione mai davvero unita su questioni di accoglienza e asilo. Peter Stano, portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, riconosce che il golpe rimette tutto in discussione. Anche perché, sottolinea, “non lavoriamo con le autorità al potere” attualmente, vale a dire i golpisti che l’esecutivo comunitario non riconosce né intende riconoscere. “La cooperazione è sospesa” in ogni sua forma, inclusa quella in materia di migranti. Le frontiere con Algeria e soprattutto Libia potrebbero tornare ad aprirsi, dopo anni di investimento economico e politico dell’Ue per fare del Niger un partner strategico per bloccare sul continente africano i flussi di richiedenti asilo e ridurre il numero di quanti raggiungono le coste del nord Africa per mettersi in mare, destinazione Italia. Un lavoro certosino iniziato con la Commissione Juncker, e proseguita con l’attuale, rimesso in discussione dalla giunta militare. “Il golpe crea molti rischi per la stabilità della regione, inclusa la gestione migratoria”, ribadisce il portavoce di Borrell nel corso del tradizionale briefing con la stampa. A Bruxelles si attendono le prossime mosse dell’Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale che giovedì terranno una riunione straordinaria e d’emergenza per decidere come rispondere al colpo di Stato in Niger, sospeso dall’organizzazione regionale dei Paesi africani a seguito del golpe. L’auspicio è un ritorno alla normalità, perché “non ci saranno conseguenze positive se il golpe prosegue”, ammette Stano. Ma re-insediare al potere il deposto presidente Mohamed Bazoum e ripristinare governo e parlamento al momento appare uno scenario di difficile realizzazione. L’esecutivo comunitario è in contatto con le capitali degli Stati membri dell’Ue, e lavora per come può con l’Ecowas, che “resta l’attore principale per le decisioni” del caso. Al netto degli auspici a Bruxelles si fa fatica ad esprimere aspettative e scenari. “Abbiamo a che fare con una situazione in evoluzione”, ammette Stano. Una situazione già sfuggita al controllo, che l’Ue non può controllare, e che rischia di controllare ancora meno. Stati Uniti. Differenze e lezioni per l’Italia, partendo dalle vicende giudiziarie di Trump di Marco Bardazzi Il Foglio, 9 agosto 2023 Un politico americano raramente può dire di aver “appreso dai giornali” di essere sotto inchiesta, in America non ci sono legami malati tra inquirenti e media. Quando la scorsa settimana negli Stati Uniti è diventato pubblico l’atto d’accusa contro Donald Trump per aver cercato di far saltare in aria la democrazia americana, un dato di fatto è apparso scontato e non degno di nota: fino al momento in cui il documento è stato notificato all’ex presidente, nessuno sapeva che cosa contenesse, né come ricostruzione dei fatti, né come capi d’imputazione. È significativo, perché le 45 pagine di quell’indictment che passerà alla storia raccontano una vicenda, l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, di cui in teoria si sapeva già tutto. Era stata al centro dei lavori pubblici di una commissione d’inchiesta del Congresso; era già stata trasformata in un “processo” politico, con il secondo impeachment deciso contro Trump; era stata analizzata nel dettaglio in una infinità di inchieste giornalistiche e ricostruita in decine di processi contro i protagonisti dell’assalto (oltre 700 sono già stati riconosciuti colpevoli e 550 condannati, con altre centinaia in attesa di giudizio). Eppure l’atto di incriminazione conteneva novità importanti, nessuna delle quali è stata oggetto di fughe di notizie prima del deposito formale che ha reso il documento pubblico. Non si è saputo, fino a quel momento, neppure di quali e quanti reati sarebbe stato chiamato a rispondere Trump. Tutto questo in un’inchiesta federale che va avanti almeno dal novembre 2022, quando è stata affidata dall’amministrazione Biden al procuratore speciale Jack Smith. Basterebbe questo a cancellare un dubbio che potrebbe sorgere sulle vicende giudiziarie di Trump: non è che l’ex presidente è vittima di una commistione “all’italiana” tra giustizia e media che punta solo a farlo fuori? C’è anche in America un rapporto tra procure e giornalisti che utilizza le inchieste e le fughe di notizie per far politica con altri mezzi? Dopotutto siamo di fronte a un leader politico che cerca di farsi rieleggere democraticamente e che si trova nel giro di un anno nel mirino di tre inchieste giudiziarie a New York, Miami e Washington (con una quarta in arrivo in Georgia). Qualche paragone con Silvio Berlusconi, per dire, ci potrebbe anche scappare. Cosa differenzia l’inchiesta sui soldi di Trump alla pornostar Stormy Daniels, da quelle sul bunga-bunga e le olgettine? Si possono fare paralleli tra l’accusa enorme a Trump di aver cercato di sabotare il processo democratico e le accuse enormi che si susseguono da anni su Berlusconi, la mafia, gli attentati del 1993 e la nascita di Forza Italia? Suggestioni a parte, la realtà è che in America non ci sono fughe di notizie sulle inchieste giudiziarie e non c’è niente di lontanamente paragonabile al rapporto che esiste in Italia tra inquirenti e media. Lo stesso Trump e i suoi seguaci accusano l’Amministrazione Biden e quello che loro chiamano “deep state” di Washington di star cospirando per sabotare la sua rielezione, attaccano la stampa liberal “corrotta” sostenendo che ha un’avversione ideologica per il movimento Maga (Make America Great Again), ma non parlano di legami dubbi tra procure e media. Un politico americano raramente può dire di aver “appreso dai giornali” di essere sotto inchiesta e non legge atti giudiziari sulla stampa prima di averli ricevuti formalmente, mentre le intercettazioni telefoniche o ambientali riguardano solo la lotta ai narcotrafficanti e ai terroristi, non la politica. Le “carte” non girano fino a quando non sono depositate e notificate a tutti nello stesso momento, stampa compresa. Negli ultimi anni si ricorda solo un caso in cui atti giudiziari secretati siano usciti prima del previsto, e non si trattava di un’inchiesta, bensì di una sentenza. E’ stato quando nel maggio 2022 dalla Corte Suprema qualcuno - mai identificato - ha fatto arrivare a “Politico” una bozza della sentenza che ha cancellato il diritto costituzionale all’aborto che i giudici avrebbero poi pronunciato un mese dopo. Un tentativo di sabotare il percorso giudiziario di una sentenza storica. Gli indictment non circolano prima di quando devono e gli stessi giornalisti non ritengono sia il loro lavoro pubblicare in anteprima un atto giudiziario (senza contare che le pene previste in questi casi sono severe). Le grandi fughe di documenti in America hanno sempre riguardato gli atti del governo, il materiale classificato, non le “carte” di un’inchiesta in corso. Dai Pentagon Papers alle rivelazioni dei vari Snowden o Assange, l’obiettivo di attivisti e media è cercare di capire cosa “nasconde” il governo, non anticipare i contenuti di un’indagine giudiziaria che potrebbe anche finire in niente. Proprio quest’ultimo aspetto, il fatto che non è detto che un’indagine diventi un processo, è al centro di una garanzia che hanno i potenziali imputati americani prima di diventare tali. Qui un ruolo chiave lo svolge il grand jury (o grand giurì all’italiana). L’atto di incriminazione contro Donald Trump formalmente non è stato deciso da Jack Smith, ma da un grand jury di 23 cittadini qualunque sorteggiati a caso, che hanno studiato la vicenda e lavorato in segreto per sei mesi. La procura deve convincere in primo luogo questa giuria popolare che ci sono elementi solidi per andare a processo. E il grand jury ha poteri assoluti, può ascoltare testimoni, chiedere di vedere ogni indizio, contestare la linea dei pm e alla fine anche decidere che non ci sono le condizioni per proseguire con l’inchiesta. Nel libretto che viene dato ai membri del grand jury con le istruzioni per il lavoro che dovranno fare, viene sottolineato che dovranno agire nel massimo segreto e decidere in piena coscienza, anche per tutelare la reputazione della persona sotto inchiesta ed “evitare lo stigma pubblico” legato a eventuali fughe di notizie sull’esistenza di un’inchiesta che potrebbe finire in niente. Di quei 23 cittadini che per mesi hanno passato al setaccio tutte le prove contro Trump e ascoltato decine di testimoni, non sapremo mai niente. I loro nomi resteranno segreti e non potranno raccontare nulla. Ma l’indictment che hanno presentato è ora molto più solido di quanto lo sarebbe stato un documento nato solo negli uffici di una procura. Quella del grand jury nei paesi di “common law” è una tradizione che risale alla Magna Charta concessa dai re inglesi del tredicesimo secolo. Nel corso del tempo divenne un organo totalmente indipendente dalla Corona e i coloni americani si sono tenuti l’istituzione anche dopo essersi liberati dal dominio inglese, perché l’hanno ritenuta una garanzia contro gli eccessi dei poteri esecutivo e giudiziario. Giusto per ricordare che quando dall’Europa, con un filo di superiorità, si parla dell’America come di una democrazia “giovane”, bisogna anche ricordarne le radici. Comprese quelle del diritto. Brasile. Ora è incostituzionale la “legittima difesa dell’onore” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 9 agosto 2023 Storica sentenza della Corte suprema. L’avvocata Rubia Abs da Cruz: “Decisione importante anche se tardiva”. La giudice Marcia Kern: “Ha un carattere pedagogico”. La Corte suprema del Brasile (Stf) è intervenuta sul delitto d’onore, dichiarandolo con una storica sentenza incostituzionale. Una decisione, quella dei giudici di Brasilia, che mette mano alla tesi, consolidatasi nel tempo tanto nella società quanto nei Tribunali, della “legittima difesa dell’onore” per giustificare i femminicidi o per riconoscere le attenuanti nei casi di violenze. La sentenza è stata pronunciata all’unanimità ed è destinata a cambiare, seppur in parte, il volto di un paese in cui un certo retaggio si era sedimentato non nel corso degli anni, ma addirittura dei secoli. Le difese delle persone accusate di aggressione o femminicidio sovente hanno fatto leva sulla possibilità di giustificare il loro comportamento per aver visto leso un elemento intoccabile: l’onore. La Corte ha motivato la propria decisione facendo leva sulla tesi secondo la quale la “legittima difesa dell’onore” è contraria ai principi della dignità umana, della tutela della vita e dell’uguaglianza di genere. A imprimere una accelerata al nuovo e confortante orientamento giurisprudenziale è stato il Partito democratico laburista (Pdt), che ha presentato un esposto in cui si rilevava che le assoluzioni degli imputati da parte di Tribunali, fondate sulla tesi della “legittima difesa dell’onore”, dovessero finalmente essere classificate come “nefaste, orrende e anacronistiche”, nonché incompatibili con la Costituzione brasiliana. La Corte suprema del Brasile ha stabilito che la “legittima difesa dell’onore” non può essere utilizzata dagli avvocati, dalla polizia o dai magistrati, sia direttamente che indirettamente, a sostegno delle argomentazioni addotte. A questo punto sorge anche un’altra rilevante questione: i giudici costituzionali hanno stabilito che le Corti d’appello potranno ricevere ricorsi per l’annullamento delle assoluzioni, qualora si siano basate sulla tesi della “legittima difesa dell’onore”. Si potrebbe, pertanto, aprire una stagione di revisione dei processi, seppur per una precisa fetta di procedimenti già definiti (circa un’ottantina di casi). Il giudice, Dias Toffoli, relatore della causa davanti alla Corte suprema, ha sottolineato che il Brasile ha voltato pagina e finalmente ha assunto una posizione chiara a sostegno delle donne. “La cosiddetta “legittima difesa dell’onore” - ha detto l’alto magistrato - corrisponde, in realtà, a un odioso, disumano e crudele ricorso argomentativo- retorico, utilizzato dalle difese degli imputati di femminicidio o di aggressione alle donne, per attribuire alle vittime la causa della propria morte o della propria aggressione. Una situazione che ha contribuito alla giustificazione della cultura della violenza contro le donne qui in Brasile”. Nel paese sudamericano il dibattito si è fatto sempre più acceso negli ultimi anni. Già nel 2021 il ministro Gilmar Mendes ha classificato la tesi sulla legittima difesa dell’onore come inammissibile, “poiché basata su argomenti sessisti e patriarcali, in grado di fomentare la violenza di genere nella società”. L’avvocata Rubia Abs da Cruz, esperta in diritti umani, partner della Ong Themis e membro dell’associazione a difesa dei diritti delle donne “Maria da Penha Law”, ritiene che la decisione della Corte suprema rappresenti un risultato molto importante per tutto il popolo brasiliano. “Tuttavia - commenta -, ritengo che sia deplorevole che un tema del genere debba ancora essere discusso oggi. Ci troviamo di fronte ad una svolta? Chissà. Ma è un peccato che nel 2023 dobbiamo ancora parlare di certi temi. La Corte suprema si è fatta carico di un problema culturale, ha preso una posizione e ha messo in discussione quanto si era affermato nella nostra società. È stata una decisione importante anche se tardiva”. La giudice penale Marcia Kern, si occupa da sempre di violenze domestiche e femminicidi. A suo dire, la sentenza della Corte suprema ha un “carattere pedagogico”. “Non si può più rivendicare una legittima difesa dell’onore in caso di femminicidio. Ma non si può neanche dimenticare che il Brasile, culturalmente, ha avuto, fino alla decisione della Corte suprema, una storia che ha permesso l’omicidio di donne accusate di adulterio”. A proposito dell’evoluzione storica è opportuno ricordare che nel 1976 una donna, Angela Diniz, venne assassinata dall’ex compagno, il quale però riuscì a dimostrare la tesi della legittima difesa dell’onore e venne assolto. Facevamo prima riferimento al retaggio che ha consentito ad una cultura maschilista e violenta di rafforzarsi nel tempo. La storia affonda le radici addirittura nei secoli scorsi. Tra il 1605 e il 1830, un uomo che vedeva “danneggiato” il proprio onore dall’adulterio poteva agire con violenza contro le donne. Negli anni successivi, tra il 1830 e il 1890, le norme penali dell’epoca iniziarono a punire l’omicidio, ma l’adulterio veniva considerato un crimine. Solo con il codice penale del 1940 l’assoluzione degli imputati responsabili di un crimine violento per difendere l’onore ha avuto vita più difficile. Tuttavia, la tesi relativa alla difesa dell’onore è stata utilizzata a sostegno degli imputati per attenuare la posizione processuale. La decisione della Corte suprema ha permesso al Brasile di fare i conti con la propria storia e di guardare al futuro con un nuovo approccio. Ecuador. Umanità carcerata, umanità negata di isabella piro L’Osservatore Romano, 9 agosto 2023 Mani dietro la testa, a torso nudo e con la fronte schiacciata sulla schiena del compagno di cella: sono i detenuti del penitenziario “Litoral” di Guayaquil che, con i suoi 9.500 detenuti, è il più grande e popoloso dell’Ecuador. La prigione, recentemente, è stata al centro di violenti fatti di sangue: lo scorso 25 luglio sono stati uccisi 31 detenuti, anche se le autorità non confermano i dati. Una vicenda drammatica che ha avuto conseguenze anche a livello nazionale: in tredici carceri del Paese i detenuti hanno avviato uno sciopero della fame e in sette prigioni si sono verificati disordini, con il sequestro di 137 agenti penitenziari. La violenza si è poi riversata anche nelle strade, con i gruppi della criminalità organizzata pronti a contendersi il controllo delle rotte del narcotraffico che ha reso l’Ecuador uno dei principali hub per la cocaina diretta in Europa e Nord America. Per cercare di arginare il problema, il presidente ecuadoriano, Guillermo Lasso, ha decretato lo stato di emergenza per 60 giorni, mentre le forze armate del Paese hanno effettuato almeno tre blitz al “Litoral”: l’ultimo è avvenuto il 4 agosto e ha visto impegnati circa 3.000 tra poliziotti e militari. L’operazione ha portato al sequestro di armi, cartucce, giubbotti antiproiettile, quasi 26 kg di droga e persino allevamenti illegali di animali, come la tilapia. Due direttori del penitenziario sono stati arrestati, insieme a cinque funzionari e a cinque guardie. Ma la violenza carceraria in Ecuador ha radici antiche: alla fine del 2020 Jorge Luis Zambrano Gonzaléz, leader della banda dei Choneros, è stato assassinato da uno sconosciuto. Da tre anni a questa parte, dunque, gli scontri tra bande rivali nelle prigioni del Paese hanno portato alla morte oltre 400 persone. Solo nel 2021 il totale dei reclusi vittime di scontri è stato di 327, numero cresciuto del 587 per cento rispetto al 2020. A settembre di due anni fa, proprio la prigione “Litoral” ha visto la rivolta più violenta nella storia del Paese, con 118 detenuti uccisi - alcuni in modo brutale - e 80 feriti, seguita a novembre da un’ulteriore rivolta che ha provocato 68 decessi. Dati allarmanti emergono anche dal rapporto “Persone private della libertà in Ecuador” pubblicato dalla Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh) dopo un monitoraggio eseguito a dicembre 2021. Dallo studio si evince che a causare la violenza carceraria è soprattutto la mancanza di controllo degli istituti penitenziari da parte dello Stato, il che consente ai reclusi, a loro volta guidati dalle organizzazioni criminali, di gestire in autonomia il territorio di detenzione. La scarsa sorveglianza, inoltre, favorisce l’ingresso di droghe e armi dietro le sbarre, aggravando violenza e corruzione. Al riguardo, è significativo che il tasso di pericolosità di molti detenuti sia maggiore nel momento in cui escono di prigione, rispetto a quando vi sono entrati. A tutto questo vanno aggiunte le precarie condizioni di vita per i carcerati, definite dalla Cidh “distanti dagli standard interamericani” a causa di infrastrutture carenti, esiguo livello di cure mediche, alimentazione inadeguata, personale insufficiente e ostacoli a un efficace reinserimento sociale. Senza dimenticare il sovraffollamento, il quale deriva anche dall’eccessivo ricorso alla custodia cautelare, misura ormai passata da “provvisoria ed eccezionale” a “ricorrente”, tanto da riguardare “più del 39 per cento della popolazione carceraria totale”. Per questo, la Cidh presenta alle autorità di Quito una serie di raccomandazioni: attuare una politica penitenziaria trasversale per prevenire tutti i tipi di violenza; ridurre la popolazione carceraria attraverso l’applicazione della custodia cautelare in via eccezionale; garantire il reinserimento sociale dei reclusi e assicurare loro condizioni di detenzione “compatibili con la dignità umana”. Il clima pesante che si respira dietro le sbarre in Ecuador ha allarmato anche l’Onu: solo una settimana fa, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, ha espresso “profonda preoccupazione”, ribadendo che “le autorità devono proteggere la vita delle persone, comprese quelle sottoposte a custodia statale”. Türk ha poi chiesto una riforma globale del sistema giudiziario penale e ha incoraggiato il governo di Quito ad attuare la politica di riabilitazione sociale dei detenuti, stabilita nel 2022.