Ritorno al passato: agli avvocati è vietato usare le mail per assistere i detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 agosto 2023 Alcuni direttori di carcere - basandosi su una nuova circolare del Dap - stanno invitando gli avvocati a evitare l’invio di mail o Pec per consegnare documenti o comunicazioni ai detenuti assistiti. Attraverso comunicazioni dirette al Consiglio Nazionale Forense, alcune direzioni carcerarie stanno invitando gli avvocati a evitare l’invio di email o poste certificate (Pec) per consegnare documenti o comunicazioni ai detenuti assistiti. Questo invito, basato su una nuova circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), è stato diramato da alcuni direttori di carcere. Alcuni avvocati, che hanno segnalato questa problematica a Il Dubbio, esprimono preoccupazione riguardo all’effetto che queste limitazioni potrebbero avere sull’accesso dei detenuti a una difesa adeguata. In effetti, risulta paradossale che, mentre l’evoluzione tecnologica ha semplificato e accelerato lo scambio di informazioni, la comunicazione all’interno del carcere sembri fare un passo indietro nel tempo. Il mondo carcerario costituisce un microcosmo che spesso solleva questioni complesse relative ai diritti dei detenuti e all’equilibrio tra sicurezza e umanità. Recentemente, alcune comunicazioni da parte dei direttori delle carceri di Lanusei e Rossano (ma potrebbero essere molti di più) hanno un aspetto controverso: la limitazione dell’uso delle mail per gli avvocati dei detenuti. Nella comunicazione proveniente dal Direttore del carcere sardo “San Daniele” di Lanusei, emerge chiaramente l’intento di limitare l’utilizzo delle mail e della posta elettronica da parte degli studi legali. Si afferma che questi mezzi di comunicazione dovrebbero essere riservati esclusivamente per comunicazioni con uffici pubblici e per fini istituzionali. Questa limitazione potrebbe creare ostacoli nella comunicazione tra studi legali e istituti penitenziari, rendendo più difficile per gli avvocati inviare richieste o comunicazioni relative ai loro assistiti. La direttrice del carcere di Lanusei sostiene che la motivazione dietro a queste restrizioni è il rischio di congestione del sistema e la possibile difficoltà operativa per il personale coinvolto. Eppure si tratta di un carcere con una ventina di detenuti. Questa restrizione, se da un lato potrebbe essere interpretata come un tentativo di razionalizzare le comunicazioni all’interno del carcere, dall’altro solleva interrogativi sul possibile impatto sul diritto dei detenuti a una consulenza legale adeguata. In sostanza, emerge che è stata diramata una recente circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che aggiorna o integra quella del 1999, la quale suggeriva l’uso del fax solo in casi di urgenza e per comunicazioni con altre autorità. Questa circolare sembra estendere le restrizioni precedentemente applicate al fax anche alle mail e alle Pec, nonostante l’evoluzione tecnologica che ha reso il fax obsoleto. La comunicazione del direttore del carcere sardo menziona l’ormai desuetudine dell’uso del fax, ma nello stesso tempo si fa il richiamo alla vecchia circolare che invitava gli istituti a limitare l’uso del fax solo a casi di urgenza e comunicazioni istituzionali. Questa ambiguità sembra contraddittoria e potrebbe generare confusione. Inoltre, come fa notare a Il Dubbio l’avvocato Antonio Scarano, “la circolare del 1999 terminava con l’invito agli studi legali a comunicare attraverso i mezzi ordinari, come il servizio postale o equivalente. Quindi, il risultato è che, sebbene il fax non sia più in uso, le limitazioni precedentemente applicate a quel mezzo vengono ora estese anche alle mail e alle Pec. In sostanza si ritorna al servizio postale”. Una delle ragioni citate per giustificare queste restrizioni è la preoccupazione per la sicurezza e la riservatezza delle comunicazioni tra avvocati e detenuti. Nella comunicazione proveniente dal direttore del carcere calabrese di Rossano, si sostiene che la ricezione di mail contenenti documenti da consegnare ai detenuti potrebbe compromettere la segretezza delle comunicazioni, poiché il personale dovrebbe “aprire” e stampare i file. Tuttavia, l’imposizione di vincoli tecnologici potrebbe ostacolare l’accesso a un’assistenza legale tempestiva e appropriata per i detenuti. Queste restrizioni nell’uso delle email sembrano contrastare gli sforzi per modernizzare e migliorare il sistema giudiziario. Nonostante l’era dell’intelligenza artificiale in cui ci troviamo, sembra che il carcere stia affrontando difficoltà nell’adattarsi alle moderne tecnologie e semplificazioni delle comunicazioni. È fondamentale non sacrificare il diritto dei detenuti a una giusta assistenza legale. Forse un’accurata valutazione delle restrizioni introdotte è necessaria per garantire che la giustizia sia davvero accessibile e che le pratiche comunicative non generino ostacoli o ritardi nel contesto penitenziario. Il Dap potrebbe intervenire con un correttivo? Il Cnf è prontamente intervenuto con una nota nella quale, condividendo le preoccupazioni espresse dall’avvocatura, si annuncia la richiesta al Dap di revocare l’ordinanza. Greco (Cnf): “Chiederemo al Dap la revoca di questa circolare” Il segretario Giovanna Olla: “Il Consiglio Nazionale Forense condivide le preoccupazioni espresse dall’avvocatura in merito alla recente circolare del Dap”. “Il Consiglio Nazionale Forense - dice Giovanna Ollà segretario del Cnf e penalista del Foro di Rimini - condivide le preoccupazioni espresse dall’avvocatura in merito alla recente circolare del Dap che invita i professionisti a non inviare comunicazioni ai propri assistiti attraverso l’utilizzo di flussi informatici. Stupisce questa “controtendenza” della amministrazione penitenziaria alla informatizzazione delle comunicazioni in un contesto nel quale il contatto fra difensore e indagato o imputato è di fatto ostacolato proprio dalla condizione di privazione della libertà personale”. Il Consiglio Nazionale Forense, che proprio ad avvio della nuova consiliatura ha incontrato il Garante per le persone detenute, è sempre stato sensibile ai diritti delle persone private della libertà personale, e fra questi vi rientra sicuramente la garanzia, ovviamente nel rispetto dell’Ordinamento Penitenziario, del necessario contatto con il mondo esterno e soprattutto con il difensore che non può essere ostacolato da alcuna burocrazia ovvero dalla carenza di risorse. Il Presidente del Cnf, Francesco Greco, assicura che “interverrà quindi con il Dap chiedendo la revoca della circolare, in modo che il flusso di comunicazioni telematiche fra difensore e parte assistita detenuta, modalità peraltro già attiva in alcune realtà penitenziarie, possa essere ripristinata al fine di consentire la necessaria celerità dei contatti attinenti lo stesso esercizio della difesa tecnica”. E se tornassimo a parlare di amnistia? di Alessandro Diddi Il Dubbio, 8 agosto 2023 Si parla molto in questi giorni del possibile fallimento degli obiettivi che il Governo Draghi aveva posto per rientrare nei parametri europei richiesti dal PNRR, la riduzione del 25% dei tempi medi dei processi penali nei tre gradi di giudizio. Stanno infatti affiorando i limiti della riforma Cartabia che, nonostante i numerosi spunti di novità (alcuni apprezzabili, come il tentativo di superare la ormai inattuale logica sanzionatoria e l’implementazione degli strumenti informatici nel processo), non si è contraddistinta per soluzioni davvero originali nell’ottica della accelerazione dei tempi dei processi. I primi sette mesi di applicazione della riforma hanno dimostrato che la riforma delle pene sostitutive, forse la innovazione di più grande rilievo, ha sollevato notevole interesse teorico, producendo tuttavia scarsi risultati sul piano pratico (forse anche a causa della mancata introduzione, tra le pene sostitutive, dell’affidamento in prova). Ma soprattutto è già chiaro che nessuna tra le modifiche concepite dal precedente Governo ha saputo davvero incidere sulle lentezze del processo. Il vero imbuto del sistema è costituito invero dal dibattimento, sul quale a ben vedere la riforma Cartabia non ha apportato grandi novità. La imposizione di un calendario dei lavori nei casi in cui il processo non possa essere definito in una sola udienza non può certo essere definita una “rivoluzione copernicana”. Pur volendo ignorare che si tratta in realtà di prassi già seguita da molti magistrati, il problema a monte - la fatale circostanza che le agende dei giudici sono già sovraccariche - non è stato neppure sfiorato. Forse più efficace appare la introduzione delle videoregistrazioni delle udienze. La regola per la quale ad ogni mutamento del giudice del dibattimento debba conseguire la rinnovazione dell’istruzione è un oggettivo fattore di rallentamento dei processi, soprattutto in alcune sedi periferiche considerate di mero transito dai magistrati. Con il nuovo meccanismo il necessario contatto tra giudice e fonte di prova sarà assicurato, appunto, dalla videoregistrazione dell’udienza. Non può tacersi tuttavia che anche questa soluzione, comunque lesiva delle garanzie difensive ed inidonea ad assicurare anche solo la formale osservanza del principio di immediatezza (non avendo il legislatore spiegato in che modo e quando il giudice dovrà vedere il video, è prevedibile che, soprattutto nei processi più grandi, tale visione difficilmente avrà luogo), intercetterà comunque solo un determinato numero di processi, che certamente non rappresentano la percentuale più significativa delle attuali pendenze. Altro fattore che ha contribuito a determinare il fallimento della riforma Cartabia (critica che peraltro si potrebbe estendere anche a quelle che l’hanno preceduta) è il non aver voluto affrontare quello snodo che era stato considerato cruciale nell’impalcatura accusatoria del nuovo codice, vale a dire l’udienza preliminare. Più volte rimaneggiata dal legislatore per cercare di renderla filtro effettivo delle imputazioni azzardate, fino alla discussa operazione di anticipare a quella fase la regola del BARD applicabile dal giudice del merito per l’affermazione della responsabilità, l’udienza preliminare rimane l’anello più debole del procedimento. I GUP, nonostante il nuovo criterio di giudizio, continuano in modo mortificante a fungere da meri passacarte ai giudici del dibattimento, indifferenti persino agli annullamenti delle ordinanze cautelari da parte della corte di cassazione per insussistenza della gravità indiziaria. Senza bisogno di particolari doti di preveggenza si può guardare poi con un certo scetticismo alla nuova udienza predibattimentale prevista per il rito monocratico a citazione diretta, i cui effetti non si sono ancora potuti apprezzare perché, proprio a causa dei tempi processuali, non si sono ancora celebrate. È difficile immaginare che un modello, che ha fallito nella sua sede naturale, possa apportare un significativo contributo in un settore del sistema da sempre particolarmente sofferente. A non miglior sorte sembra infine destinato il riformato giudizio abbreviato condizionato - che, invece, in un’ottica deflattiva potrebbe davvero costituire una seria ed effettiva alternativa al dibattimento - nonostante la nuova regola dalla quale dipende l’ammissione della prova richiesta dall’imputato al GIP e la possibile ulteriore riduzione prevista per la rinuncia all’appello. Non meraviglia, dunque, che oggi si constati che i “conti” non tornano e che gli obiettivi della riforma si rivelano irraggiungibili. Il vero problema, però, è che non si vedono all’orizzonte possibilità di inversione di questo triste trend del nostro sistema processuale. Neppure il recente disegno di legge governativo sulla riforma della giustizia contiene proposte che vanno nella direzione in cui, ormai urgentissimamente, è necessario andare. Non servono mere opere demolitorie, come sino ad oggi è stato, di un modello concepito 35 anni fa con l’idea di voltare pagina rispetto ad un processo che non garantiva i diritti degli imputati; della sua logica originaria, quella accusatoria, ove si prosegua nella intermittente e casuale riduzione delle garanzie dell’imputato, rischia di mantenere solo il nome. Nelle ultime legislature, dalla riforma Orlando a quella Cartabia, si è assistito a vari ma vani tentativi di rendere più efficiente il processo penale, che però - bisogna prenderne atto - è imploso in maniera irrimediabile e non può più essere rabberciato con interventi di piccolo cabotaggio. Chi frequenta i tribunali sa che i rinvii tra un’udienza e l’altra raggiungono, di regola, i sei mesi; in grandi tribunali i rinvii a giudizio dinanzi ai tribunali in composizione monocratica all’esito dell’udienza preliminare possono avvenire anche ad un anno di distanza dal decreto del GIP. Per non parlare, poi, dei tempi tra il momento della richiesta delle date per la trattazione dei processi a citazione diretta e la prima data dibattimentale, che a volte superano i due anni. Siccome ricette magiche non esistono, si deve auspicare che Parlamento e Governo, di fronte al fallimento delle precedenti riforme, non seguano le strade già battute e coraggiosamente si facciano promotori di una completa riscrittura del processo penale, optando per una diversificazione dei modelli a seconda delle materie e coinvolgendo nell’opera gli operatori della giustizia (a partire dagli avvocati, unici e veri testimoni del disfacimento del sistema). Ma l’auspicio è soprattutto che si arrivi finalmente a parlare di quello che negli ultimi anni sembra divenuto un tema impronunciabile: l’amnistia. È inutile negare che non ci sarà alcuna riforma che, per quanto rivoluzionaria, potrà curare il male del nostro sistema, finché essa si innesterà su una macchina zavorrata dal peso di un arretrato spaventoso. Intercettazioni, altro che stretta: il Cdm le raddoppia di Valentina Stella Il Dubbio, 8 agosto 2023 In Consiglio passa la “linea dura” che allarga l’uso delle captazioni. “Corretta” la Corte di Cassazione. Nordio aveva promesso più volte una stretta sulle intercettazioni e invece ne ha ampliato il perimetro. Con il decreto legge approvato ieri nell’ultimo Cdm prima della pausa estiva si prevede, infatti, l’estensione ad una serie di ipotesi di reato di criminalità grave degli strumenti di investigazione disciplinati dalla legislazione in materia di criminalità organizzata (art. 13 dl 152/ 91) e specificamente si estende l’impiego delle intercettazioni anche ambientali. L’obiettivo, si legge in una nota di sintesi di via Arenula, è quello di “rendere più omogeneo il sistema e rafforzare i principali strumenti di contrasto a reati di particolare gravità, come quelli aggravati dal “metodo mafioso”, con finalità di terrorismo, reati di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti e sequestro di persona a scopo di estorsione”. Tale disposizione si applica anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del decreto: dunque salvi i processi che molti pm antimafia temevano andassero in fumo dopo la sentenza della Cassazione 34895/ 2022 alla quale dunque il governo, come annunciato dalla premier qualche settimana fa su suggerimento del sottosegretario Mantovano, ha “rimediato” nella parte in cui aveva stabilito che non è sufficiente l’aggravante di mafia per accedere al regime semplificato del dl 152/ 91, in sintesi per parlare di criminalità organizzata. Invece quell’articolo 13, riferendosi ai delitti di criminalità organizzata, permette, tra l’altro, di intercettare sulla base di elementi probatori molto minori rispetto a quelli previsti per gli altri reati ordinari, per cui bastano i sufficienti indizi anziché i gravi indizi di colpevolezza. Inoltre il termine per la prima intercettazione è di 40 giorni e non 15. In pratica prevede una serie di previsioni di vantaggio per gli inquirenti, ma di svantaggio sul piano delle garanzie. Adesso il Parlamento avrà 60 giorni per convertirlo in legge, ma non mancano le polemiche. Dall’uso di un decreto legge per correggere una decisione della Cassazione, al fatto che, tolto il mese feriale di agosto, i parlamentari avranno pochissimo tempo per studiarlo ed eventualmente modificarlo. Per il giurista Giorgio Spangher, “quando la giurisdizione dà delle interpretazioni di garanzia, come avvenuto nella sentenza Cavallo e in quella Tardio/ Casa, c’è una parte della magistratura, quella soprattutto dell’antimafia, che reagisce sostenendo che i principi stabiliti in esse non siano funzionali agli accertamenti. E la politica, in questi casi, si piega attuando correttivi addirittura a decisioni delle Sezioni Unite, come la Chioccini, o che recuperano in esse orientamenti delle Su (Petrarca, Donadio e Scurato, ndr). La politica invece resta inerme dinanzi invece a situazioni di minore tutela dei diritti previsti nel nostro codice di rito; per questi casi occorre attendere che la giurisdizione, nei limiti, si adegui alle decisioni di maggiore tutela delle garanzie della Corte Costituzionale, della Cedu, della Corte di Giustizia europea. Tutela e garanzie che avrebbero potuto essere ottenute anche grazie ad una interpretazione della magistratura, ma così non è stato, o ad un intervento della politica che invece sta ferma in attesa di una decisione di una Corte superiore”. Per il deputato di Azione Enrico Costa, il governo “non affronta un problema essenziale, visto ciò che accade di questi tempi: come garantire la genuinità delle intercettazioni, quando l’Intelligenza Artificiale può manipolare la voce originale per costruire dialoghi. Non è un tema marginale, e vale soprattutto per le intercettazioni “preventive”. Una “voce” può essere clonata, riprodotta, rielaborata, manipolata con strumenti di intelligenza artificiale. Una “manina” esperta che aggiunga o sostituisca una parola o una frase, può ribaltare le conclusioni di un’indagine. Si è visto in tante occasioni come errori di trascrizione, scoperti dopo anni, con perizie e riascolti dei dialoghi intercettati, abbiano portato innocenti a processo o in carcere. Ma eventuali manipolazioni attraverso programmi di IA sarebbero quasi impossibili da disvelare. Chiederò con un’interrogazione al ministro Nordio ed al sottosegretario Mantovano”. Il dl interviene anche sul deposito delle intercettazioni, prevedendo l’istituzione di “infrastrutture digitali interdistrettuali” dei server in grado di custodire la massa di intercettazioni compiute dai pm. I procuratori della Repubblica i cui uffici ricadono nell’area “interdistrettuale” restano i dominus. Si innalza inoltre la pena edittale minima prevista per l’ipotesi di incendio doloso: da quattro anni a sei anni di reclusione; per l’ipotesi di incendio colposo, da uno a due anni di reclusione. Da notare che, rispetto alle previsioni degli ultimi giorni, Nordio non ha portato in Cdm il terna del nuovo Collegio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Probabilmente le polemiche sollecitate sui tre nomi, che non sarebbero all’altezza del compito, ha spinto il ministro a prendersi qualche settimana in più per ripensarci e casomai sostituire uno dei tre uomini con una donna, all’insegna delle quote rosa, che potrebbe essere Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino. Più intercettazioni. La soluzione di Nordio smentisce gli annunci di Mario Di Vito Il Manifesto, 8 agosto 2023 Possibilità estesa e reati meno gravi dell’associazione criminale, basterà la contestazione del metodo mafioso. Garantisti spiazzati. Era la metà di giugno quando il ministro della Giustizia Carlo Nordio giurava e spergiurava, l’ultima volta, che il governo avrebbe messo mano alle intercettazioni per limitarne l’uso, definendole addirittura “una barbarie che costa 200 milioni all’anno per raggiungere risultati minimi”. Domani l’ultimo consiglio dei ministri prima delle vacanze estive approverà però una norma che consentirà alle procure di intercettare molto più di quanto si possa fare già adesso. È questa la sostanza dell’annunciato intervento “salva processi di mafia” emerso come problema capitale lo scorso 17 luglio, quando Giorgia Meloni in persona se la prese con una sentenza di Cassazione che restringeva il concetto di criminalità organizzata ai soli reati associativi, negando l’uso delle intercettazioni negli altri casi. E allora, dopo un lungo ragionare (il decreto doveva arrivare in Consiglio dei ministri già giovedì scorso), si è deciso di non avventurarsi nel terreno scivoloso della dottrina ma di estendere gli strumenti investigativi come le intercettazioni a un ventaglio più ampio di situazioni: il terrorismo, il sequestro di persona a scopo di estorsione, il traffico illecito di rifiuti e le aggravanti mafiose, queste ultime oggetto proprio della sentenza adocchiata da Meloni e ritenuta potenzialmente responsabile di indicibili disastri processuali. Sarà modificato l’articolo 13 della legge 152 del 1991, aumentando le possibilità di ricorrere al regime di deroga stabilendo requisiti meno stringenti per autorizzare le attività di ascolto, a valere anche per i processi e le indagini già in corso. Si afferma così ciò che la Cassazione aveva escluso: chi è accusato di un reato comune aggravato dal metodo mafioso potrà essere trattato nello stesso modo di chi è accusato di un reato di mafia. La questione, in ogni caso, non è affrontata di petto, ma viene lavorata ai fianchi. Nessuna norma di definizione autentica della nozione di criminalità organizzata a partire da un presupposto tutto da verificare, ma l’estensione dei meccanismi propri della lotta al crimine organizzato ad altri reati. In pratica, aumentano di molto le possibilità inquisitorie degli investigatori, cosa che, peraltro, ha anche un non trascurabile peso costituzionale: la Consulta si è occupata in più occasioni di bilanciare l’avanzamento delle tecniche di intercettazione con le necessarie garanzie di libertà e segretezza delle comunicazioni. Un’altra novità sulle intercettazioni contenuta nel decreto che verrà licenziato domani riguarda la futura istituzione di un archivio centralizzato per custodire i dati raccolti dalle varie procure. Un provvedimento che avrebbe un impatto considerevole sul lavoro dei pubblici ministeri ma che ancora è tutto da costruire: prima serviranno i pareri del Csm, del garante della privacy e del comitato interministeriale per la cybersicurezza, poi bisognerà mettere a punto i server e infine gestire la migrazione dei dati già esistenti, operazione che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe avvenire sotto l’attenta supervisione della Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati della giustizia. L’eventuale arrivo di queste “infrastrutture digitali interdistrettuali” sarebbe un modo per provare a recuperare sulle arretratezze tecnologiche della giustizia italiana e per risolvere l’annoso problema della custodia delle intercettazioni e dei dati sensibili, argomento di gran moda in questi giorni con l’inchiesta della procura di Perugia sui presunti dossieraggi ai danni di politici e vip. Il tema, però, non è nuovo. Oltre alle innumerevoli polemiche che si trascinano in avanti da anni, appena due settimane fa, in commissione giustizia, la senatrice Erika Stefani della Lega chiedeva “una riflessione sui protocolli per la certificazione delle aziende che operano le intercettazioni su mandato delle procure”, materia al momento poco o nulla regolamentata. Per dare un’idea della dimensione del fenomeno, le aziende italiane che si occupano di questo sono 148, con un fatturato totale di 275 milioni di euro per circa 200mila interventi annui. Una quantità abnorme di informazioni personali che spesso non ha rilevanza ai fini delle indagini e che non si sa bene come venga custodita. Mafia, corsia preferenziale per le intercettazioni di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 8 agosto 2023 Bastano sufficienti indizi per i reati di mafia e di terrorismo, sequestri di persona e traffici illeciti di rifiuti. Si allarga così la deroga alla necessità di gravi indizi per autorizzare questi strumenti investigativi. Corsia preferenziale per le intercettazioni. Bastano sufficienti indizi per i reati di mafia e di terrorismo, sequestri di persona e traffici illeciti di rifiuti. Si allarga così la deroga alla necessità di gravi indizi per autorizzare questi strumenti investigativi. La novità è prevista dal decreto-legge approvato ieri dal Consiglio dei ministri, il quale, progetta la realizzazione di infrastrutture digitali centralizzate delle intercettazioni, a regime dal 1° marzo 2025. Vediamo, dunque, le modifiche urgenti in materia di giustizia, che consistono anche in un pugno duro contro i piromani e fissano una norma transitoria che permette ai giudici onorari del tribunale dei minori di compiere atti istruttori (tra cui sentire i minori). Intercettazioni - Nelle premesse del decreto-legge in commento si sottolinea la centralità delle intercettazioni per la lotta contro gravi reati. Questa la ragione per cui il decreto allarga l’ambito di applicazione dell’articolo 13 del d.l. 152/1991: questo articolo ammette le intercettazioni se “necessarie” per le indagini, quando emergono “sufficienti” indizi di per delitti di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono. L’articolo 13 citato è una espressa deroga all’articolo 267 del codice di procedura penale che autorizza le intercettazioni solo se “assolutamente indispensabili” e in presenza di “gravi” indizi. Per effetto del decreto legge, approvato ieri, dunque, basteranno sufficienti indizi se è necessario intercettare attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (articolo 452-quaterdecies del codice penale), sequestri di persona a scopo di estorsione (articolo 630 del codice penale), delitti commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni tipiche della mafia previste dall’articolo 416-bis del codice penale o al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose. Il nuovo decreto aggiunge che la deroga ampliata si applica subito anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d-l. Un secondo intervento per le intercettazioni ha natura organizzativa: si progetta la realizzazione di infrastrutture digitali interdistrettuali. Gli obiettivi principali della manovra sono, da un lato, avere strumenti tecnici all’avanguardia e, dall’altro lato, abbattere le spese. Il decreto prevede che progressivamente, a partire dal 1° marzo 2024, in queste strutture migreranno i dati dalle singole procure della Repubblica e partirà il conferimento dei nuovi dati. Il provvedimento stabilisce che le intercettazioni relative ai procedimenti penali iscritti successivamente alla data del 28 febbraio 2025 saranno effettuate mediante le nuove infrastrutture digitali. Considerati problemi per la protezione dei dati, prima dell’adozione di tutti i provvedimenti attuativi di queste infrastrutture, dovrà essere sentito il Garante della privacy. Piromani - Pugno duro contro chi appicca incendi. Il minino della pena per il reato di incendio boschivo (articolo 423-bis codice penale) passa a sei anni (da quattro), se doloso; se il fatto è colposo il minimo è portato a due anni (attualmente è un anno). Il decreto in esame aggiunge una serie di circostanze aggravanti: lo scopo di profitto, l’abuso di poteri/violazione dei doveri di chi ha incarichi o svolge servizi di prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi. Minori - Misura ponte per i procedimenti sulla responsabilità genitoriale: il decreto in esame, fino al 31 dicembre 2023, in deroga al codice di procedura civile (articolo 473-bis.1, comma 2), permette di delegare ai giudici onorari alcuni atti istruttori, tra cui l’audizione delle parti e l’ascolto del minore. Il giudice onorario, peraltro, dovrà osservare puntualmente le modalità di svolgimento e le circostanze oggetto dell’atto disposte dal giudice togato. Altre misure - Il decreto disciplina i corsi di formazione per i magistrati aspiranti ad incarichi direttivi e semi-direttivi e prevede norme transitorie per coprire i posti vacanti di dirigenti degli uffici di esecuzione penale esterna e degli istituti di pena minorili. Il costituzionalismo penale in Italia non è cultura dominante di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 agosto 2023 Difendere il circo mediatico o difendere la Costituzione? Ecco perché i giornali che campano col fango sul “dossieraggio” fischiettano. Le riflessioni che i giornali hanno dedicato in questi giorni al caso dei presunti dosseriaggi che sarebbero stati organizzati da un funzionario della Guardia di Finanza per molti anni in servizio alla Procura nazionale antimafia hanno contribuito a illuminare alcune interessanti dinamiche relative alle follie presenti nel circo mediatico-giudiziario. Due in particolare. La prima dinamica gustosa e orripilante coincide con una tesi assai diffusa all’interno di quei giornali abituati da tempo a speculare sugli schizzi di fango. La tesi è grosso modo questa. Il dossieraggio è una pratica deprecabile, ovvio. Ma questa storia - la storia cioè del finanziere accusato di accedere liberamente al data base della Procura antimafia e capace di usare in modo del tutto discrezionale le informazioni ottenute senza doverne rendere conto a nessuno - è una storia che non va ingigantita. Perché ingigantire questa storia, cari lettori, significherebbe voler fare un passo in avanti per mettere il bavaglio ai giornali e mettere a tacere alcune preziose fonti dei giornalisti. Sintesi estrema: nessuno tocchi il velino (delle procure e della Guardia di finanza). Il ragionamento sofisticato che si trova dietro questa tesi, esposta con modalità diverse da numerosi giornali, da Repubblica al Fatto passando per il Domani e la Verità, è che il compito dell’autorità giudiziaria non sia solo quello di far emergere il malaffare, ovvero i possibili reati, ma anche quello di svolgere un ruolo etico, dando un proprio contributo per portare all’attenzione del grande pubblico i peccati dei potenti. Può sembrare un dettaglio ma è un punto cruciale. È un fatto che molti giornalisti insieme con una parte rilevante della magistratura considerino le indagini della magistratura strumenti utili non solo per scoprire reati ma soprattutto per illuminare il malcostume morale e le malefatte latamente intese del potere. Ed è un fatto che queste categorie professionali facciano di tutto per spacciare il diritto allo sputtanamento per diritto di cronaca, facendo finta di non capire che avere organi dell’autorità giudiziaria che agiscono indisturbati non rappresenta una grande opportunità per la libertà di stampa (quello che conta è ciò che emerge dalle indagini a prescindere dal suo rilievo penale, ha sostenuto Gianni Barbacetto, firma del Fatto) ma rappresenta al contrario una clamorosa ferita per la democrazia (i magistrati non dovrebbero occuparsi di etica, ma di reati, e i magistrati che si occupano di etica, e di peccati, sono magistrati che hanno deciso di far fare all’Italia un passo in avanti verso lo stato etico). “Nel nostro paese - ha scritto sul Foglio il professor Giovanni Fiandaca - i princìpi del costituzionalismo penale (cioè dell’equilibrio tra contrasto alla criminalità e protezione dei diritti individuali) non sono mai diventati cultura dominante. Non solo tra i giornalisti, e quantomeno presso la parte più combattente della magistratura, ma anche tra i cittadini comuni: per cui nella sfera pubblica non si è mai capito quale gravissimo rischio corrano nel nostro paese le libertà individuali in nome di una presunta lotta al crimine, che in realtà è libertinaggio sgretolato. Bisognerebbe discutere pubblicamente dei criteri e metodi di lavoro anche delle strutture speciali, giudiziarie e di polizia che operano in maniera autoreferenziale e coperta senza alcuna forma di controllo o responsabilità esterna”. Accanto a questo tema ve n’è poi un altro più complicato ma altrettanto importante ed è quello che i giornalisti pistaroli fingono di non capire. Ossia: i veri nemici degli inquirenti, a volte, sono proprio i giornalisti che fingono di volerli difendere. I giornalisti più “ammanettati” con le procure chiacchierone e i funzionari infedeli sostengono che non sia necessario essere troppo rigidi o troppo moralisti di fronte a magistrati o a finanzieri desiderosi, come dei novelli Edward Snowden, di usare tutti i loro poteri per cercare reati e far emergere la verità: il fine, la ricerca dei furfanti, giustifica i mezzi, ovvero l’intromissione nella vita degli altri. Se così fosse, però, sarebbero proprio i giornalisti, pubblicando ogni schifezza priva di rilievo penale, a delegittimare l’attività indiziaria (il problema dell’intromissione abusiva nelle vite degli altri è l’utilizzo improprio di quelle attività, non l’attività stessa). E sono ancora loro che, così facendo, illuminano involontariamente la patologia di un paese che considera la violazione della privacy di un potente non indagato come un atto necessario per promuovere la giustizia sociale, considerando un diritto inalienabile di una democrazia avere magistrati in grado di usare le indagini anche per far emergere la Verità, con la V maiuscola. Ed è anche per questo motivo che in queste ore molti giornali abituati a trasformare le indagini in un grande sabba utile per avventarsi contro il potere sono lì che nicchiano (un conto è avventarsi sulle indagini di un magistrato per attaccare la sempre più innocua e vulnerabile casta della politica, un altro conto è usare le indagini di un magistrato per mostrare gli ingranaggi perversi del circo mediatico: impossibile farlo, sennò poi chi ci darà la prossima notizia, la prossima velina). Ed è per questo motivo che diversi giornali stanno cercando di demonizzare (ah, il bavaglio!) chi si azzarda a ricordare che i meccanismi classici del mascariamento sono un problema democratico (se l’acquisizione di dati è illimitata e incontrollata, tutti possono essere spiati, anche il capo dello stato e quello del governo, qui entra in gioco l’assetto democratico). Il tutto è poi aggravato da un elemento in più che illumina un altro lato patologico del rapporto perverso che esiste tra giornali e procure (ed eventuali finanzieri senza scrupoli). Un tempo erano le indagini a influenzare l’opinione pubblica. Oggi è l’opinione pubblica a influenzare le indagini. E non ci vuole molto a capire quanto possa essere pericoloso vivere in un paese in cui il sistema giudiziario consideri lecito occuparsi di verità più che di reati (è il modello della teocrazia iraniana) e in cui le procure si attivino anche per rispondere alle pressione dell’opinione pubblica (è il modello della giustizia degli applausi). I giornali che campano con il fango fischiettano di fronte alla possibilità di mettere in mostra gli ingranaggi della macchina del fango. I giornali che provano a denunciare ogni giorno i meccanismi della melma giudiziaria non possono invece non ricordare ai propri lettori cosa rischi un paese che scelga di essere indifferente di fronte al tentativo quotidiano di abolire il diritto alla privacy per sostituirlo con il diritto allo sputtanamento. Un paese che in buona sostanza sceglie sistematicamente di concedere agli ayatollah delle procure di cancellare un articolo della Costituzione: “Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto a essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni”. E se sentite poche parole su questo tema dai difensori della Costituzione non è perché sono in vacanza ad agosto. È perché da tempo tra difendere i pieni poteri del circo mediatico-giudiziario e difendere le prerogative della Costituzione hanno già fatto la loro triste scelta. Commissariamenti per mafia, quel ruolo a volte troppo “creativo” del Consiglio di Stato di Valentina Stella Il Dubbio, 8 agosto 2023 Alla grande discrezionalità del ministero si affianca l’estrema angustia del sindacato del giudice amministrativo. Dall’entrata in vigore della norma (D.L. 164/1991) che regola lo scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose sono trascorsi trentadue anni durante i quali si sono succeduti diciotto ministri. Come ci spiega l’avvocato Pasquale Simari, che ha stilato una classifica in proposito (vedasi tabella), “il picco si raggiunge nei primi due anni di vigore della norma (1991-1993) con i Ministri Scotti e Mancino, che nel periodo della cosiddetta “mafia stragista” hanno disposto lo scioglimento di ben 73 Comuni”; mentre nel ventennio successivo “è stata mantenuta una media annua di scioglimenti compresa tra un minimo di 3 (nel 1995) e un massimo di 13 (nel 2005). Una improvvisa quanto inspiegabile impennata del numero dei commissariamenti per mafia si è invece registrata nel 2012, a seguito della nomina a Ministro dell’Interno del Prefetto Rosanna Cancellieri, che in neanche 18 mesi ha sciolto ben 37 enti, di cui 17 in Calabria. Dopo la parentesi di Angelino Alfano, con il quale i numeri sono tornati nella media ante Cancellieri, c’è poi stato l’exploit del calabrese Marco Minniti, che ha battuto ogni record con lo scioglimento, in meno di un anno e mezzo, di ben 38 comuni di cui 18 nella sua regione di origine”. Spiega ancora l’esperto: “la media si è di nuovo abbassata con il governo Conte 1, in concomitanza con la presenza al Ministero dell’Interno di Matteo Salvini, che ha commissariato 19 comuni in 15 mesi; quando alla guida del Viminale si è insediato il Prefetto Luciana Lamorgese in circa 38 mesi di mandato ha decretato lo scioglimento di 42 pubbliche amministrazioni, tra cui le Aziende Sanitarie Provinciali di Reggio Calabria e Catanzaro”. Da quando si è insediato Piantedosi, ossia nove mesi fa, sono stati 7 gli scioglimenti. Facendo un calcolo tra i mesi di mandato e gli scioglimenti il primo posto in classifica è di Vincenzo Scotti (Democrazia Cristiana), seguito da Marco Minniti (Partito democratico) e Annamaria Cancellieri (tecnica del Governo Monti). Ma c’è la possibilità che un Comune riesca a ribaltare in sede amministrativa il provvedimento di scioglimento? Come ribadisce Simari nel saggio contenuto nel libro Quando prevenire è peggio che punire, curato da Nessuno Tocchi Caino, “alla grande discrezionalità di cui gode il Ministero dell’Interno nella individuazione delle situazioni sintomatiche del pericolo di “infiltrazione” o di “condizionamento”, si affianca l’estrema angustia del sindacato del giudice amministrativo che, secondo la tesi ormai maggioritaria, non può estendersi oltre il profilo della logicità delle valutazioni che sorreggono il decreto di scioglimento e, dunque, non può entrare nel merito degli elementi indicati nella relazione ministeriale. Sicché è preclusa qualunque possibilità di procedere alla verifica in contraddittorio della sussistenza delle circostanze”. Un esempio? Nel 2019 la Prima Sezione del TAR Lazio ha annullato alcuni decreti di scioglimento poiché, dopo aver vagliato una per una le circostanze che motivavano i provvedimenti, è stata in grado di escludere, “per assenza di univocità e concretezza delle evidenze utilizzate, la ricorrenza di un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi, tale da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali in quanto tesa a favorire o a non contrastare la penetrazione della suddetta criminalità nell’apparato amministrativo”. Una delle circostanze addotte dal Viminale per sciogliere un Comune calabrese era stata la partecipazione di un amministratore a un “memorial” in ricordo di un soggetto il cui padre era esponente della criminalità mafiosa. Un altro elemento è che venivano contestati agli amministratori dell’ente due casi di ritardata notifica di provvedimenti di revoca delle concessioni balneari, a seguito dell’emanazione di altrettante interdittive antimafia. “Dalla documentazione complessivamente presentata in giudizio, tuttavia - secondo i giudici del Tar Lazio - emerge un quadro fattuale caratterizzato dalla presenza di un notevole ritardo nel riscontro delle richieste di informazioni antimafia da parte della prefettura reggina; di contro, il Comune risulta essersi attivato celermente, appena avuto notizia delle interdittive”. Racconta Simari che però “la Terza Sezione del Consiglio di Stato, presieduta dall’ex Ministro e Commissario Europeo Franco Frattini, con decreti monocratici emessi a poche ore di distanza dal deposito dei ricorsi in appello da parte della Presidenza del Consiglio, del Ministero dell’Interno e delle Prefetture interessate, ha sospeso l’esecutività delle sentenze del TAR Lazio, ordinando il reinsediamento delle commissioni straordinarie, in quanto “solo una valutazione complessiva, contestualizzata anche territorialmente, può condurre ad una valutazione appropriata di un provvedimento di speciale tutela avanzata dell’ordinamento, quale è lo scioglimento di un Comune, da adottarsi dopo plurime, e di alto livello tecnico e politico, fasi procedimentali”. “In conclusione - dice Simari - allo stato dell’arte, non rimane che segnalare, con estrema preoccupazione, i rischi derivanti dalla sempre più consapevole assunzione, da parte del Consiglio di Stato - ancorché in stretta connessione con il Ministero dell’Interno - di un ruolo proattivo, se non addirittura “creativo”, nella definizione degli strumenti amministrativi di contrasto alle mafie, spesso in aperto contrasto con le indicazioni provenienti dal Parlamento e dalla stessa Consulta”. Lo strapotere del giudiziario spesso finisce per vittimizzare e deresponsabilizzare la politica di Paolo Ferrua* Il Dubbio, 8 agosto 2023 In uno scritto su Il Dubbio, l’amico Edmondo Bruti Liberati lamenta la mancata distinzione tra responsabilità politica per fatti eticamente riprovevoli e responsabilità penale. Si assisterebbe, di fatto, ad una scomparsa della responsabilità politica, con la conseguenza, ad esempio, che le dimissioni di un ministro verrebbero sistematicamente subordinate ad un accertamento della responsabilità penale da parte della magistratura, anche quando ben potrebbero trovare autonomo fondamento in un comportamento penalmente irrilevante ma riprovevole in termini di etica pubblica e, quindi, di responsabilità politica. Concordo sulla circostanza che responsabilità penale e responsabilità politica appartengano a ordini diversi. Quella politica è assai più estesa ed eventualmente riferibile, per i vertici, anche alle azioni dei subordinati in forza del rapporto gerarchico e, persino, alla scelta dei propri collaboratori. Quella penale deve tenere conto dei limiti costituzionalmente imposti dall’art. 27 comma 1 Cost., secondo cui “la responsabilità penale è personale”, ossia sussiste solo per il fatto proprio. C’è un punto però sul quale le nostre analisi divergono. A chi è imputabile la caduta della responsabilità politica? Bruti Liberati attribuisce la colpa alla politica che, incapace di sanzionare autonomamente questo genere di responsabilità, rinvia ogni decisione all’accertamento di reati da parte dell’autorità giudiziaria. Senza dubbio, la politica ha le sue colpe. Credo, tuttavia, che l’eclisse della responsabilità politica derivi, almeno in parte, dalla stessa magistratura; in particolare, da quella inquirente che tende a sovrapporre i due profili di responsabilità, allargando i contorni di quella penale sino ad ipotizzare reati là dove sussiste una responsabilità essenzialmente politica o amministrativa. Troppo spesso si dimentica che le disposizioni penali, specie a fronte di un diritto ipertrofico, devono soggiacere ad un principio di stretta legalità che precluda ogni lettura estensiva. Il fenomeno, naturalmente, non riguarda tutte le fattispecie, ma quelle che, nell’interpretazione giurisprudenziale, più si prestano allo sconfinamento della responsabilità penale in quella politica o amministrativa. Penso alle imputazioni per abuso di ufficio, dove spesso è labile il confine tra le due responsabilità; o a certe imputazioni per omessa vigilanza sui subordinati, talvolta formulate con automatismi poco compatibili con il principio costituzionale della responsabilità personale, che esige sempre una responsabilità colpevole, da verificare in concreto, come affermato dalla Corte costituzionale (sentenze nn. 364 e 1085/ 1988); e, per certi versi, anche al concorso esterno in associazione mafiosa, che la Corte europea dei diritti dell’uomo, senza batter ciglio, ha definito “une infraction d’origine jurisprudentielle”. Spero che la definizione sia erronea; altrimenti, ci si dovrebbe interrogare su come possa un reato, nel quadro costituzionale, trarre “origine” dalla giurisprudenza anziché dalla legge. È probabile, d’altronde, che le frequenti assoluzioni per certi reati siano legate al proliferare di imputazioni per una responsabilità che l’avanzare del processo spesso dimostra appartenente più all’ordine politico o amministrativo che a quello penale. La dilatazione dei reati in sede di esercizio dell’azione penale fornisce un alibi alla latitanza del potere politico nell’affrontare i temi del malgoverno su cui spesso interloquisce l’autorità giudiziaria; e, al tempo stesso, vittimizza gli imputati, pur colpevoli di condotte eticamente censurabili. In epoca di pan- penalizzazione la politica avverte come inutile fissare regole di comportamento etico, sanzionabili, ad esempio, con le dimissioni: all’espansione del penale corrisponde puntualmente la riduzione dell’eticamente riprovevole. Può così accadere che un deputato assolto, ma carico di gravi responsabilità politiche, sia “celebrato” in parlamento come martire dell’ingiustizia umana. “Meno penale e più responsabilità politica o amministrativa”: l’imperativo non è solo depenalizzare; serve anche il self-restraint della magistratura nell’allestire le imputazioni, da mantenere negli stretti limiti della rilevanza penale. Citerò una frase di Georgina Dufoix, già ministro degli Affari sociali in Francia, accusata di omicidio colposo e poi assolta per il caso del sangue contaminato: “Je me sens profondément responsable; pour autant, je ne me sens pas coupable” . Credo che il senso sia all’incirca questo: “Sono pronta a rispondere delle mie azioni in termini politici, ma non riconosco in esse alcuna colpa che cada sotto una qualificazione penale”. “Responsabile, ma non colpevole” è la formula da quel momento divenuta celebre. Resta da capire come si sviluppi questa espansione delle imputazioni oltre la sfera della stretta responsabilità penale. La risposta è: attraverso lo strumento di cui dispongono giudici e pubblici ministeri e che nessuno può loro togliere, ossia l’interpretazione della legge, di certo non sopprimibile all’insegna dell’assurdo slogan “la legge non si interpreta, si applica”. Nessun magistrato sarà così ingenuo da ammettere apertamente di avere disatteso la legge, ma motiverà le sue scelte, per arbitrarie che siano, sotto la rassicurante veste dell’interpretazione. È, nondimeno, innegabile che esista un limite, superato il quale l’interpretazione cessa di essere tale e si converte nell’atto “creativo” di una nuova disposizione, quindi nell’invasione della sfera riservata al potere legislativo. Se non vi fosse una cornice che circoscrive i significati attribuibili ad ogni disposizione, perderebbe senso il principio stesso di soggezione alla legge. Ora, mentre la magistratura con le sue garanzie di indipendenza è, nel complesso, protetta dalle interferenze del potere legislativo o esecutivo, contro le interpretazioni “creative” della giurisprudenza, che di fatto svolgono una funzione legislativa, non esistono rimedi se non quelli “interni”, destinati a chiudersi con l’intervento della Cassazione cui spetta l’ultima parola. L’unico correttivo di cui dispone il legislatore è l’interpretazione “autentica”, raramente praticata, mentre sarebbe opportuno rivitalizzarla istituendo un organismo parlamentare di vigilanza sulla giurisprudenza. Dei tre poteri dello Stato il più forte è, in realtà, il potere giudiziario, a dispetto della Costituzione che lo qualifica come “ordine”; e in eccezionali contingenze storiche la sua “ forza” si è anche rivelata utile. È ciò che, secoli addietro, aveva splendidamente illustrato Jules Michelet, il grande storico della Rivoluzione, deplorando la mancata riforma dell’ordinamento giudiziario: “Ogni potere ha bisogno del potere giudiziario; esso, al contrario, fa a meno degli altri. Datemi il potere giudiziario; tenetevi le vostre leggi, le vostre ordinanze, tutto quel mondo di cartacce; io mi incarico di far trionfare il sistema più contrario alle vostre leggi”. *Giurista Solo la magistratura può fermare il quarto potere delle procure di Giuliano Cazzola Il Dubbio, 8 agosto 2023 Quando la Cassazione, in via definitiva, fa a pezzi una sentenza di merito e stabilisce che i fatti addirittura non sussistevano, gli uffici che hanno indagato saranno pure responsabili di colpa grave se non persino di dolo? Per riformare la giustizia in Italia non ci sarebbe molto da fare, anche se fino ad ora (?) è risultata una missione impossibile: riportare nell’alveo della Costituzione. Il settore deviato della magistratura delle procure ovvero della magistratura inquirente perché quella giudicante è certamente più equilibrata - anche se arriva con troppo ritardo - come si vede osservando le sentenze che demoliscono i teoremi delle procure. Ma questa “terziarietà” deve essere garantita dalla separazione delle carriere. “Solo l’ordine giudiziario e solo a mezzo di un processo può dichiarare un accusato colpevole. Questo principio - ha scritto Sabino Cassese - è stato travolto in Italia dall’affermazione di quello che può chiamarsi un vero e proprio quarto potere, le procure”. Secondo il giurista, quindi, i pm non si limitano a costruire l’accusa, ma giudicano prima del processo. Vogliamo approfondire come avviene quest’ abuso di potere? Ce lo spiega Luciano Violante, una personalità al di sopra di ogni sospetto, in una intervista al Foglio sulla finzione dell’obbligatorietà dell’azione penale, che a suo avviso “offre ai magistrati la possibilità di concentrarsi su reati evanescenti per concentrarsi più sulle persone da indagare che sui reati da dimostrare”. “Si usa un’ipotesi di reato non ben limitata - ha proseguito l’ex presidente della Camera - si apre un’indagine sulla persona, si cerca tutto ciò che in una persona possa essere considerato rilevante dal punto di vista della morale oltre che del penale e si usa il circo mediatico per dare legittimità alla propria azione”. Non a caso le misure proposte da Carlo Nordio riguardano essenzialmente la condotta delle procure e tendono a colpire quegli abusi evidenti che esulano dall’esigenza di “fare giustizia”. Nessun ufficio giudiziario ha mai indagato sul traffico di veline tra le procure e i cronisti giudiziari, perché è un passaggio fondamentale dello sputtanamento pre-giudiziale che è di per sé una condanna che dura per l’intero calvario dell’iter processuale. Basta leggere un ordine di custodia preventiva che di solito consiste nella descrizione di un teorema, di tanto in tanto corredata dalla citazione tra virgolette di una frase carpita da un’intercettazione telefonica, il cui contenuto diventa una prova di reato, a prescindere dal contesto in cui è stata detta. C’è poi la vicenda del concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che non si potrebbe abolire per legge perché nessuna legge lo ha mai previsto e che come ha scritto Filippo Sgubbi “l’imputato potrà apprendere solo dal dispositivo della sentenza - e quindi ex post - se la propria condotta rientra o meno in tale figura”, perché la giurisprudenza - che dovrebbe limitarsi a decidere sul caso concreto - è divenuta, impropriamente, non solo fonte del diritto, ma persino creatrice della norma, al posto e in sostituzione del potere legislativo. Eppure, appena Carlo Nordio ha sfiorato incautamente questa perversione giuridica si è assistito ad un fuggi fuggi disordinato e trasversale, perché tutti i partiti temono il potere delle procure, maligne e vendicative. Perché non si prova a seguire un’altra strada? Piercamillo Davigo era solito invitare la politica a fare pulizia in casa propria prima dell’intervento della magistratura perché - sosteneva a ragione - i comportamenti illeciti che avvengono nel proprio ambiente sono noti. La stessa cosa potrebbe dirsi anche nel caso della magistratura inquirente. I magistrati sono dove esistono dei problemi, dove i loro colleghi costruiscono di proposito indagini che non hanno fondamento, dove arrestano una persona poi vanno alla ricerca di un reato da poter applicare. Era così difficile rendersi conto del fatto che la “trattativa Stato Mafia” era una bufala, fondata su di un pregiudizio ideologico, per affermare il quale non c’è mai bisogno di prove? Siamo sempre lì, a quanto scriveva Pier Paolo Pasolini: “Io so, ma non ho le prove”. Che ci siano collusioni tra pezzi di Stato e la malavita, che ci siano infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici sono cose risapute, ma non possono essere date per certa in ogni caso. È stato Davigo a proclamare in tv la sua dottrina: “Un innocente è solo un colpevole che l’ha fatta franca”. E ancora: “Non è più semplice mandare un ufficiale di polizia giudiziaria sotto copertura a partecipare a una gara d’appalto e quando qualcuno la vincerà, dicendo “tu questa gara non la devi vincere” lo arresta così facciamo prima?”. Se un sostituto procuratore perseguita un rivale in amore, commette un reato perseguibile d’ufficio. Che differenza c’è con una procura che usa i poteri illimitati di cui dispone per realizzare un disegno politico? Si dirà: come si può provare una siffatta linea di condotta? Ma quando la Suprema Corte di Cassazione, in via definitiva, fa a pezzi una sentenza di merito e stabilisce che i fatti addirittura non sussistevano, gli uffici che hanno indagato saranno pure responsabili di colpa grave se non persino di dolo? Come in politica, anche nell’ordine giudiziario (divenuto illegittimamente un potere) le cose si sanno. La stessa magistratura potrebbe “fare pulizia” al proprio interno, se, in questi casi montati ad arte e sconfessati, la Cassazione trasmettesse gli atti alla Procura generale per l’avvio dell’azione disciplinare o per indagare su di un eventuale reato. Il caso ENI è un esempio di manipolazione delle prove su cui indaga la stessa magistratura. Ma è una eccezione che confermala regola dell’impunità. Strage di Bologna, De Angelis e le finte scuse del revisionista di Niccolò Carratelli La Stampa, 8 agosto 2023 De Angelis precisa: solo mie opinioni. FdI lo salva e lui non si dimette. Rocca: Meloni non era felice. La Russa: non tacere sulla verità giudiziaria. Un altro post su Facebook, questa volte di scuse e precisazioni contrite, per provare a spegnere le polemiche e a conservare il suo posto alla Regione Lazio. Marcello De Angelis, dopo un’energica moral suasion partita dai vertici di Fratelli d’Italia, rinuncia al proposito di “finire sul rogo come Giordano Bruno” pur di rivendicare la sua teoria revisionista sulla strage di Bologna. E accetta, invece, di rivedere la sua posizione: quella che due giorni fa era “certezza” diventa “dubbio”. L’attacco diretto a Sergio Mattarella e alle massime autorità dello Stato, che “conculcano la verità”, viene archiviato sottolineando “il massimo rispetto per tutte le cariche dello Stato, prima tra tutte per la Presidenza della nostra repubblica”. Insomma, prima di incontrare in serata il presidente del Lazio, Francesco Rocca, che resiste alle richieste delle opposizioni di revocargli l’incarico di responsabile della sua comunicazione istituzionale, De Angelis crea le condizioni per essere salvato. È quello che chiede Giorgia Meloni per non vedersi costretta a sacrificarlo, considerata la sua lunga militanza nella (estrema) destra romana e i legami personali (la premier è stata fidanzata con il fratello di De Angelis), ma, soprattutto, ben sapendo che quello che lui ha esplicitato in modo scomposto è un pensiero ampiamente condiviso tra i Fratelli d’Italia e nello zoccolo duro dei loro elettori. “Meloni non era felice e mi ha chiesto di chiarire - conferma lo stesso Rocca - De Angelis ha commesso un errore importante parlando in termini di certezza, anche se a titolo personale”. Che la premier non sia contenta lo dimostra anche la reazione stizzita del ministro Francesco Lollobrigida, in conferenza stampa al termine del Cdm, interpellato sulla vicenda: “Non ne abbiamo parlato”. La linea, comunque, è chiara: puntare sul fatto che il suo ruolo non sia politico, ma tecnico, “un lavoratore e non un rappresentante del popolo - ragionano dentro Fratelli d’Italia - e un lavoratore mai può rischiare il licenziamento per le sue idee, per quanto possano non essere gradite”. Lavoratore assunto su mandato fiduciario e non attraverso un concorso pubblico, vale la pena precisare. Meglio buttarla sui sentimenti e spiegare, come fa De Angelis nel suo post riparatore, che a metterlo nei guai è stata l’”enfasi di un testo non ponderato, ma scritto di getto sulla spinta di una sofferenza interiore, che non passa ed è stata rinfocolata in questi mesi - spiega -. Purtroppo, sono intervenuto su una vicenda che mi ha colpito personalmente, attraverso il tentativo, fallito, di indicare mio fratello, già morto, come esecutore della strage. Questo episodio mi ha portato ad assumere un atteggiamento guardingo nei confronti del modo in cui sono state condotte le indagini”. Se due giorni fa il guardingo De Angelis sosteneva di sapere “con certezza” che Mambro, Fioravanti e Ciavardini (condannati in via definitiva come esecutori materiali della strage) fossero innocenti, adesso ammette che “l’unica mia certezza è il dubbio” ed esprime “le mie profonde scuse nei confronti di chi io possa aver anche solo turbato esprimendo le mie opinioni e tutte le persone a cui ho provocato disagi”. Se qualche dubbio resta sulla spontaneità delle scuse, è probabile che il testo sia stato esaminato anche a Palazzo Chigi prima della sua pubblicazione. Non a caso, verso la fine De Angelis ricorda che “l’attuale governo ha desecretato gli atti riguardanti il tragico periodo nel quale si colloca la strage del 2 agosto 1980: mi auguro che l’attento esame dei documenti oggi a disposizione permetta di confermare, completare e arricchire le sentenze già emesse o anche fare luce su aspetti che, a detta di tutti, restano ancora oscuri”. Esattamente quello dicono Meloni e i suoi, omettendo puntualmente ogni riferimento alla “matrice neofascista” della strage. Citata, invece, la scorsa settimana, da Ignazio La Russa, ritrovatosi bersaglio di De Angelis per aver “rinnegato la verità per salvarsi dai leoni”. Il presidente del Senato è stato tra quelli che hanno spinto per una marcia indietro del collaboratore di Rocca e si limita a richiamare il suo intervento nell’aula di Palazzo Madama: “Credo fossero esaustive le mie parole sia sul dovere del presidente di tutti i senatori di non tacere su una risultanza oggettiva (“ la verità giudiziaria”), sia sul sollecitare ulteriori desecretazioni per fugare ombre e dubbi che tuttora persistono”. Se la destra cerca di chiudere così il caso, da sinistra non mollano: le opposizioni in Consiglio regionale chiedono la convocazione di una seduta straordinaria per discutere della vicenda. Dal Pd Sandro Ruotolo insiste con la richiesta di dimissioni, perché “le scuse di De Angelis non cancellano il suo post revisionista”. Mentre il capogruppo M5s alla Camera, Francesco Silvestri, sottolinea che “noi uno così lo avremmo buttato fuori a calci nel sedere. Il problema è che la destra ha paura di fare pulizia di questi personaggi al suo interno”. Strage di Bologna. Quando era la sinistra a coltivare il dubbio sulle colpe di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 8 agosto 2023 La lezione del Manifesto: si può criticare una sentenza anche senza avere la soluzione alternativa. Il 19 luglio 1990 Il Manifesto, quotidiano comunista diretto da Valentino Parlato, titolò “Lo scandalo di una sentenza giusta”. Nella stessa giornata L’Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci e diretto da Massimo D’Alema, uscì con la prima pagina totalmente bianca, in segno di protesta. Così la sinistra italiana, quella garantista e quella amica dei pubblici ministeri, commentava da visioni opposte la sentenza con cui la corte d’assise d’appello di Bologna aveva mandato assolti Francesca Mambro e Giusva Fioravanti dall’accusa per la strage del 2 agosto 1980. Ancora una volta il gruppo di intellettuali, Rossanda, Pintor, Magri, Natoli, Caprara, Castellina, quelli radiati dal Pci che avevano osato scrivere “Praga è sola” contro i carri armati sovietici, risultava dissonante e isolato rispetto alla sinistra ufficiale. Quella della federazione bolognese che brigava con i pm perché anche le carte dell’inchiesta giudiziaria dessero alla bomba quella patente di “strage fascista”, come recitava la lapide prontamente apposta alla stazione, luogo dell’atroce delitto. Pure qualche crepa si aprì, soprattutto dopo che quel pugno di giudici, togati ma anche popolari, non dimentichiamolo, aveva osato il non osabile, nella rossa Bologna, dove i cittadini avevano scavato a mani nude sotto le macerie che nascondevano 85 morti, ma forse 86, e oltre 200 feriti. Perché le emozioni erano fortissime per tutti, in quei giorni, ed era difficile mettersi quel cubetto di ghiaccio nel cervello che consentisse di studiare le carte freddamente fino a decidere di giudicare colpevoli e innocenti “oltre ogni ragionevole dubbio”. Nella redazione del Manifesto si fece questo sforzo, anche se, e proprio perché, molti redattori di allora erano bolognesi, e si erano precipitati con tanti altri nella loro città ad aiutare, in ogni modo. Ragionare e, per quel che era possibile, verificare anche con avvocati e magistrati amici che aiutassero a sbrogliare le carte sul piano tecnico-giuridico. Questo si fece. Esisteva al tempo una componente di Magistratura democratica, considerata “estremista” perché composta di toghe esterne o addirittura estranee al Pci, fortemente garantista. Non era facile esserlo su due fascistelli terroristi come Mambro e Fioravanti. Ma il Manifesto lo era già stato, provocando qualche malumore, nei confronti di altri due ragazzini di destra che erano accusati di aver tirato una bottiglia incendiaria contro una sede della Fgci. Fu scelta la linea della difesa delle garanzie per loro, e questa prevalse sull’antifascismo. Sempre, a quei tempi. Magistrati di sinistra, avvocati e altri intellettuali furono accanto a noi del Manifesto, consapevoli del fatto che coltivare il dubbio fosse più importante del rimarcare l’appartenenza alla sinistra. Si partì dalle riflessioni più elementari. Due ragazzini di vent’anni che si dichiaravano estranei a un fatto criminale mentre ne ammettevano altri pure gravissimi. I Nar, il loro gruppo di appartenenza, terrorismo di destra, aveva comportamenti e obiettivi speculari a quelli di Br e Prima Linea e in genere il terrorismo di sinistra. Colpirne uno per educarne cento. Non, colpirne cento, a casaccio, gettando la bomba nel mucchio. I loro obiettivi erano politici o magistrati o giornalisti, non passanti. E poi, elemento fondamentale, i pubblici ministeri di Bologna non hanno mai trovato la pistola fumante, la prova della loro colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Infatti furono in seguito costretti a cercare “mandanti”, arrabattandosi tra barbe finte e grembiulini, possibilmente ormai defunti, per far quadrare il cerchio delle responsabilità. E ancora non è finita, a Bologna, Penelope sta ancora tessendo la propria tela. Quando, negli anni novanta, era nato il gruppo “E se fossero innocenti?”, era roba di sinistra, non di destra. Ed è quel mondo che oggi dovrebbe insorgere. Ma è complicato, perché c’è un governo di centrodestra e la premier si chiama Giorgia Meloni, una giovane donna che certamente non è mai stata terrorista, ma conosce il mondo romano dei suoi coetanei, alcuni dei quali portano addosso, come quelli speculari di sinistra, il ricordo del cruento “antifascismo militante”. La stessa premier, se potesse dirlo, manifesterebbe i dubbi sulle condanne di Mambro e Fioravanti. Ma è la sinistra che dovrebbe prendere coraggio. E soprattutto distaccarsi dai quei fratelli maggiori che quarant’anni fa a Bologna vivevano in simbiosi con i pm che indagavano sulla strage e che, certamente in buona fede, avevano in testa solo il fatto che una cosa così orrenda potevano averla fatta solo i fascisti. Oggi Luciano Violante chiede a Marcello De Angelis e agli altri appartenenti alla destra storica di “fare i nomi” dei veri colpevoli, prima di scagionare Mambro e Fioravanti. Ci risiamo, sempre con la toga addosso, anche sulle spalle di uno dei più intelligenti, come l’ex presidente della Camera ed ex magistrato. Non è così che si deve procedere, se vogliamo uscire dallo scontro da curva sud. In dubio pro reo, diceva il diritto romano. Da cui avremmo molto da imparare, prima di tutto per il sistema accusatorio del suo processo. È stata proprio la sinistra a insegnarci che si può criticare anche senza avere la soluzione alternativa. Ancora ieri in un’intervista uno dei pm dell’epoca, Libero Mancuso, si limita a dire che le prove sono talmente tante da non riuscire ad elencarle. Ma quali? Una specie di teste farlocco e mentalmente fragile e un’altra che ha visto vestiti tirolesi in piena estate? I giudici possono sbagliare, facciamocene una ragione. Credo che Massimo D’Alema oggi potrebbe essere d’accordo almeno su questo. Secondo la sua opinione del 1990 sbagliarono quelli dell’appello. Non potrebbero invece essere stati superficiali quelli che hanno condannato? “Mambro e Fioravanti sono estranei alla strage di Bologna”. Parla Furio Colombo di Carmelo Caruso Il Foglio, 8 agosto 2023 “I responsabili sono altri. Sono certo della loro innocenza. A sinistra ho pagato per questa mia posizione. De Angelis è irreale che si dimetta. Meloni è priva di bontà e umanità”. Intervista all’ex direttore dell’Unità. Ha 92 anni, ha diretto l’Unità, cofondato il Fatto quotidiano, scritto su Repubblica, Stampa, ex parlamentare di sinistra: anche per Furio Colombo, come per Marcello De Angelis, i terroristi Francesca Mambro e Valerio Fioravanti non sono i responsabili della strage di Bologna. Colombo, da quanto tempo ritiene Mambro e Fioravanti estranei al massacro? “Da quando li ho incontrati in carcere. Ho riflettuto a lungo sul loro caso. Sono convinto della loro estraneità e l’ho motivata in più articoli. Il primo su Panorama. Ho pagato per questa mia opinione, ma ero persuaso della loro innocenza”. Lo è ancora? “Lo sono ancora”. Si possono avere dubbi sulla loro colpevolezza? “Si possono avere seri dubbi sulla loro colpevolezza. La strage è di matrice fascista, ma Mambro e Fioravanti, che hanno commesso, e ammesso, altri crimini efferati, non sono i responsabili dell’eccidio di Bologna. Ne sono certo”. Come fa a esserne così certo? “Non impugno la validità delle sentenze e non metto in discussione la buona fede dei magistrati. Dico solo che intorno a quel processo c’è ben altro”. Perché decise allora di occuparsene? “Furono Mambro e Fioravanti a cercarmi. Lavoravo a New York quando ricevetti una loro lettera. Mi invitarono a Rebibbia. Ottenni un permesso speciale per incontrarli fuori dalla cella. Gli incontri, due al mese, avvenivano in un prato”. Chi sono gli esecutori, i mandanti della strage di Bologna? “Altri fascisti di sicura appartenenza e di sicura militanza. Mambro e Fioravanti servivano a coprire altre figure”. Ci sono oggi condanne definitive e sono passati quarant’anni dalla strage. Ieri, De Angelis, ex senatore del Pdl, militante di Terza posizione, capo delle relazioni istituzionali della Regione Lazio, a guida FdI, ha chiesto “scusa” per aver dichiarato che “Mambro e Fioravanti non c’entrano nulla con la strage di Bologna”. Ha dunque ragione De Angelis? “De Angelis si serve di Mambro e Fioravanti. Non va al punto. Nega che la strage sia fascista”. Perché De Angelis ha deciso di intervenire? “Ho l’impressione che De Angelis voglia coprire qualcosa e obbedire a qualcuno. È come se gli avessero commissionato di farlo. Non c’era ragione per gettarsi in quella pozzanghera dopo così tanti anni. Nessuno si mette in discussione così malamente come ha fatto lui”. Si deve dimettere? “È irreale che si dimetta in un paese dove non si dimette neppure la ministra Santanché”. A sinistra, negli anni 90, un gruppo di scrittori e intellettuali, tra cui Luigi Manconi, Marco Boato, Miriam Mafai, Oreste del Buono, diede vita a un comitato in difesa di Mambro e Fioravanti dal nome “E se fossero innocenti?”. Lei ne prese parte? “No, ma quei nomi sono la prova che ero in buona compagnia. Alla Camera e al Senato, per anni, sono stato guardato malamente. Non ho mai risposto alle polemiche”. Quando guarda Giorgia Meloni vede la leader del prossimo partito conservatore o la leader di un partito di destra che resterà di destra? “Vedo una leader che non riesce a liberarsi del passato. È in perenne campagna elettorale. Ha il 30 per cento del consenso, ma è un trenta per cento di adesioni. I militanti sono altri. L’organizzazione vera di FdI resta composta dalla vecchia struttura di Msi e An che non accetterebbe mai la rimozione della Fiamma”. Meloni, per Colombo, chi è? “Una leader con un fondo di sincera crudeltà. Bontà e umanità non le appartengono”. Resterà al governo a lungo? “Da osservatore di professione dico che resterà, ma c’è sempre l’inatteso”. Preferisce Salvini a Meloni? “Sono uguali. Nel linguaggio delle fiabe si definirebbero solo in un modo”. Come? “Cattivi”. Centri antiviolenza: più richieste di aiuto del periodo pre Covid di Adriana Pollice Il Manifesto, 8 agosto 2023 Il focus dell’Istat. A chiamare il 1522 sono quasi tutte donne. Oltre il 50% ha figli che hanno assistito ai soprusi sulla madre e nel 19,7% li hanno subiti. In 2.423 hanno trovato ospitalità nelle Case rifugio nel 2021, il 62,5% straniere. L’ultimo caso di cronaca è di sabato scorso: una donna di 61 anni, Iris Setti, è stata aggredita e uccisa a Rovereto da un uomo che voleva stuprarla. In base ai dati del Viminale, tra gennaio e luglio di quest’anno sono stati 70 i femminicidi. Le statistiche dicono che in Italia il 31,5% delle donne ha subito una qualche forma di violenza: le più gravi sono esercitate da partner o ex partner, parenti o amici. Ieri la cronaca ha raccontato di una ragazza disabile psichica abusata da 9 adulti a Enna e una donna di Pinerolo perseguitata da 5 anni dall’ex marito che ha già una condanna per maltrattamenti: giudicato non imputabile per problemi psichici, continua a stalkerarla. IL REPORT ISTAT “Il sistema della protezione per le donne vittime di violenza” fotografa la rete in campo. Nel 2021 erano 21.092 le donne nel percorso di uscita dalla soggezione: prima di contattare il Centro antiviolenza, il 40% si è rivolto ai parenti e il 30% alle forze dell’ordine. Altri nodi della rete sono i Pronto soccorso e gli ospedali, a cui si sono rivolte il 19,3%. Nel Lazio è più alta la percentuale di donne che si rivolge ad altri servizi specializzati (13,5% a fronte di un 5% a livello nazionale). In Sicilia sono di più le donne che hanno contattato il 1522 (18% contro la media del 6%). Nel 2022 c’è stato un calo del 10% delle chiamate valide al numero anti violenza 1522 rispetto al 2021 (da 36.036 a 32.430) ma nel 2021 c’era ancora l’effetto Covid e comunque il numero delle chiamate nel 2022 è più elevato rispetto ai periodi pre pandemia (21.290 nel 2019). L’anno scorso le vittime segnalate al 1522 sono state donne nel 97,7% dei casi (11.632 sul totale delle 11.909 vittime). Nell’80,9% dei casi sono italiane e nel 53% hanno figli. LA VIOLENZA riportata è soprattutto psicologica (77,8%), seguita dalle minacce (6.342) e da quella fisica (52,3%). Nel 66,9% dei casi segnalate più tipologie. È soprattutto una violenza nella coppia: il 50% da partner, il 19% da ex e lo 0,7% da partner occasionali. Il 69,3% dichiara di non aver denunciato per paura della reazione o per non compromettere il contesto familiare. Il 7,1% non procede perché non ha un posto dove andare. Nel 2021 risultavano attivi in Italia 373 Centri antiviolenza e 431 Case rifugio. Nei Cav operano 5.416 figure professionali e 3.219 nelle Case rifugio. La maggior parte è retribuito e sono donne: operatrici, educatrici, psicologhe, avvocate, mediatrici. I Cav sono 0,06 ogni 10mila abitanti; 0,12 ogni 10mila donne; 1,6 ogni 10mila donne vittime di violenza. Al Sud sono attivi il 30,8% dei Cav, nel Nord ovest il 22,5%, il Centro (19,6%), il Nord est (16,4%) e le Isole (10,7%). Le Case rifugio nel 2021 erano 0,07 ogni 10mila abitanti, 0,14 ogni 10mila donne e 1,85 ogni 10mila vittime. Nelle regioni del Nord ovest si trova il 40,4% delle Case rifugio, il 22,7% nel Nord est, il 13,5% al Sud, il 12,3% nelle Isole e l’11,1% nel Centro. Nel 2021 56.349 donne hanno contattato almeno una volta un Cav: nel Nord ovest in media 269 donne per ciascun centro, al Sud 75 su una media nazionale di 183. A FINE DICEMBRE 2021 risultavano seguite dai Cav 34.500 donne (le straniere 9.998), 21.252 con figli, 14.307 con figli minorenni. Dei 15.248 minori, il 72,2% ha assistito alla violenza sulla madre e il 19,7% l’ha anche subita. Sono 2.423 le donne che hanno trovato ospitalità nelle Case rifugio nel 2021. Nel 62,5% dei casi si tratta di straniere. I figli ospitati sono stati 2.397. Tra le donne che hanno lasciato la Casa rifugio, il 42,5% ha raggiunto gli obiettivi. Il 12,4% l’ha abbandonato e l’11,6% è tornato con l’autore della violenza. Nel 2021 il 32,8% dei Centri antiviolenza aveva un bilancio in negativo. In attivo soprattutto i Cav del Nord est. “Fondamentale investire di più e fare in modo che i fondi arrivino prima e meglio - il commento della senatrice Pd Valeria Valente, componente della Commissione femminicidi -. I Cav sono di più al Sud ma le donne vi ricorrono meno segno che il cambiamento culturale deve intensificarsi. E poi colpisce il dato dei figli minori coinvolti nella violenza domestica, davvero troppo”. Calabria. Così inchieste flop e scioglimenti copia-e-incolla hanno raso al suolo l’impegno politico di Domenico Forgione* Il Dubbio, 8 agosto 2023 Segnalo il caso del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Il 25 febbraio 2020, la maxi retata dell’operazione “Eyphèmos” privò della libertà - tra gli altri - il sindaco Domenico Creazzo, appena eletto consigliere regionale in quota Fratelli d’Italia, il vicesindaco Cosimo Idà, il presidente del consiglio comunale Angelo Alati, il sottoscritto (consigliere di minoranza) e il responsabile dell’ufficio tecnico Domenico Luppino. Le considerazioni sui provvedimenti di scioglimento dei comuni per infiltrazioni o condizionamenti mafiosi, espresse nella sua lettera a Il Dubbio dall’ex vicesindaca di Rende Marta Petrusewicz, hanno aperto un interessante dibattito, al quale l’avvocato Pasquale Simari ha offerto il contributo dell’esperto: “La vicenda di Rende - ha sottolineato - non si differenzia da quella della maggior parte dei Comuni sciolti per mafia”. Parole forti, suffragate da fatti che purtroppo godono di scarsa visibilità mediatica: le sentenze dei processi che, a distanza di anni dai titoloni dei giornali, ridimensionano o addirittura smentiscono le ordinanze di custodia cautelare. Sarebbe pertanto ora di pensare ad un albo dei comuni sciolti per mafia ingiustamente, da pubblicare (per dirla con Sciascia) “a futura memoria”. Con questo spirito, mi permetto di segnalare il caso del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Il 25 febbraio 2020, la maxi retata dell’operazione “Eyphèmos” privò della libertà - tra gli altri - il sindaco Domenico Creazzo, appena eletto consigliere regionale in quota Fratelli d’Italia, il vicesindaco Cosimo Idà, il presidente del consiglio comunale Angelo Alati, il sottoscritto (consigliere di minoranza) e il responsabile dell’ufficio tecnico Domenico Luppino. La presenza di cinque indagati “infiltrati” nel Comune determinò la sospensione e poi lo scioglimento del Consiglio comunale (14 agosto 2020): “All’esito di approfonditi accertamenti - si legge nel decreto - sono emerse forme di ingerenza della criminalità organizzata che hanno esposto l’ente locale a pressanti condizionamenti, compromettendo il buon andamento e l’imparzialità dell’attività comunale”. Al termine dei diciotto mesi previsti dalla legge, secondo prassi consolidata, seguì la proroga di ulteriori sei mesi, poiché non risultava ancora “esaurita l’azione di recupero e risanamento” dell’ente. Lo scioglimento dei Comuni si fonda sulla relazione del prefetto al ministero dell’Interno: nella sostanza, la condivisione dei contenuti dell’ordinanza di custodia cautelare, a sua volta una sorta di copia-incolla degli “esiti dell’attività di indagine” e delle “notizie di reato” trasmessi dagli investigatori al pubblico ministero. Tre anni dopo gli arresti, la sentenza di primo grado (17 febbraio 2023) ha smentito l’esistenza di un condizionamento dell’amministrazione comunale, poiché all’archiviazione del sottoscritto si è aggiunta l’assoluzione degli altri quattro indagati. Per il sindaco di Sant’Eufemia Creazzo, l’accusa era di scambio elettorale politico- mafioso: a “cercare la ‘ndrangheta è la politica e non il contrario”, aveva sentenziato la relazione del ministro Lamorgese. Quasi un anno e mezzo di arresti domiciliari e un provvedimento di obbligo di dimora, prima della sentenza di assoluzione perché “il fatto non sussiste”. Il vicesindaco Cosimo Idà veniva presentato come “capo, promotore ed organizzatore di una fazione mafiosa all’interno del locale di ‘ ndrangheta di Santa Eufemia”. Nove mesi di carcerazione preventiva, la scarcerazione per accertato scambio di persona e l’assoluzione perché “il fatto non sussiste”. Scambio di persona anche per Angelo Alati, presidente del consiglio comunale accusato di rivestire la carica di “mastro di giornata” e assolto perché “il fatto non sussiste”, l’inconsistenza indiziaria era già emersa nell’udienza del Tribunale del riesame che ne aveva ordinato la scarcerazione, un mese e mezzo dopo l’arresto. Terzo scambio di persona riguardò chi scrive, accusato “di monitorare gli appalti assegnati dal Comune di Santa Eufemia per consentire alle aziende del locale di ‘ ndrangheta di insinuarsi nei lavori”, “da spia” interna al Comune, a disposizione della cosca per compiere atti minatori nei cantieri, di disporre di “agganci” che gli consentivano di conoscere preventivamente gli esiti delle indagini che provvedeva a veicolare tra i sodali per eludere l’attività investigativa o la cattura”. Sette mesi di carcerazione preventiva, scarcerazione e proscioglimento al termine dell’udienza preliminare. Il responsabile dell’ufficio tecnico Domenico Luppino era accusato di prendere parte a riunioni di ‘ ndrangheta e di operare “in favore della cosca affinché gli appalti fossero assegnati direttamente o indirettamente a una ditta gradita all’organizzazione mafiosa locale. Assolto perché “il fatto non sussiste”, dopo ben tre anni di carcere. Il filone politico dell’inchiesta si è rivelato un flop totale. Del “solido complesso probatorio” restano parole che sono sale su ferite ancora aperte: “Nel caso del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte si va comunque ben oltre i “collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso” o le “forme di condizionamento” degli amministratori. L’operazione “Eyphèmos” dimostra che diversi omissis piuttosto che “collegati” o “condizionati dalla ‘ ndrangheta” sono organici alla stessa. Un salto di qualità rispetto alla fattispecie di cui all’art. 143 T.U.E.L. del tutto evidente”. Ma di evidente, purtroppo, c’è soltanto lo scarto tragico tra ipotesi e realtà. Quando, nove mesi fa, si è votato per ridare alla comunità eufemiese un’amministrazione comunale, soltanto due tra i trentanove candidati nella precedente elezione si sono ripresentati. In un piccolo paese esistono dinamiche familiari e sociali che rendono arduo l’impegno politico sulla base delle attuali disposizioni di legge. Molti preferiscono defilarsi: per paura, per delusione, per senso di responsabilità. Prevenzione e pregiudizio sono spesso le facce della stessa medaglia e concorrono alla compressione della democrazia, laddove impediscono l’affermazione della volontà popolare. Per questo, occorre denunciare la criminalizzazione subita da vaste aree del Paese. Affinché gli studenti di domani avvertano lo stesso moto di indignazione oggi suscitato dagli studi sul volto truce del potere nella storia d’Italia: la brutalità della legge “Pica”, la revisione arbitraria delle liste elettorali in epoca crispina, i mazzieri di Giolitti, lo scioglimento dei Comuni nel passaggio dallo Stato liberale al regime fascista. Ogni volta che, in nome dell’interesse superiore del mantenimento dell’ordine pubblico, una “guerra santa” ha ferito i principi democratici, sospeso le garanzie costituzionali e causato un numero spropositato di “vittime collaterali”. Oggi come ieri questo è stato. Ma questo è Stato? *Giornalista, storico e scrittore Calabria. Reinserimento detenuti, Staine: “Il ministero ha finanziato 148mila euro” reggiotoday.it, 8 agosto 2023 Si è svolta la riunione della Cabina di regia, per l’assessore regionale al Welfare è “Un investimento per un sistema di giustizia penale più umano ed efficace”. Ammonta a 148mila euro il finanziamento complessivo del ministero della Giustizia per la Calabria che verranno utilizzati per progetti destinati al recupero e al reinserimento dei detenuti e delle persone soggette a misure di comunità, per la cura, l’assistenza sanitaria e psichiatrica, al recupero dei tossicodipendenti e all’integrazione degli stranieri. Si è tenuta infatti, oggi, la riunione della Cabina di regia, costituita in Regione tra Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna e, con funzione consultiva, la magistratura competente ed il Garante regionale per le persone private della libertà. La Cabina di regia ha stabilito di privilegiare progetti per i figli meritevoli dei detenuti per corsi studio di lingue o computer (Ecdl) o corsi professionali (cucina), nella misura del 40%, per consentire loro di costruirsi un futuro nel mondo del lavoro, nonché iniziative a sostegno dei dimittendi dagli istituti di pena per il reinserimento in società nella misura del 40% e il 20% per il recupero dei soggetti tossicodipendenti. “Finanziare progetti di questo tipo - ha detto l’assessore al welfare, Emma Staine - è importante per una serie di ragioni. Certamente contribuiscono a creare una società più giusta, sicura ed equa, offrendo benefici sia per gli individui coinvolti che per l’intera comunità. Tra le ragioni chiave c’è la riduzione della recidiva, consentendo alle persone di diventare membri produttivi della società anziché tornare nel sistema penale. Parliamo anche del miglioramento delle competenze e dell’istruzione, aumentando le prospettive di lavoro una volta che le persone sono rilasciate”. “Non da meno la promozione dell’autostima e della responsabilità, fattore cruciale nel riadattattamento alla vita fuori dal carcere. I processi di reinserimento sono fondamentali anche per l’aspetto che riguarda la coesione sociale. Infatti, i programmi di recupero spesso coinvolgono la comunità e le organizzazioni locali stabilendo il coinvolgimento sociale e la partecipazione attiva. Fatto, questo, che certamente contribuisce a ridurre la stigmatizzazione associata all’essere stato detenuto, o dell’esserne figli. I progetti di recupero e reinserimento dei detenuti e delle persone soggette a misure di comunità - ha concluso Staine - rappresentano quindi un investimento nella riduzione del crimine, nell’aumento della sicurezza pubblica e nella creazione di un sistema di giustizia penale più umano ed efficace”. La manifestazione di interesse sarà preparata e pubblicata sul sito della Regione Calabria entro la fine del 2023. Torino. Mancano i medici in carcere, agenti addetti a sorvegliare i detenuti “fragili” di Cartlotta Rocci La Repubblica, 8 agosto 2023 “Il detenuto deve essere sorvegliato a vista se il sistema di videosorveglianza non funziona”, è l’indicazione dell’asl che da qualche settimana compare sugli ordini di servizio della polizia penitenziaria per la custodia nella settima sezione, il cosiddetto sestante, reparto dove vengono ospitati i detenuti con problemi psichiatrici. È una conseguenza della carenza dei medici all’interno del carcere torinese, già raccontata sulle pagine di Repubblica dopo le dimissioni del dirigente sanitario e la richiesta di molti sanitari di essere spostati ad altri incarichi, lontani dal penitenziario torinese a causa delle numerose aggressioni subite e per la mancanza di personale penitenziario che garantisca la sicurezza durante i turni servizio. Alcuni hanno chiesto di lasciare il carcere per adulti in favore del minorile, ritenuto meno critico. Negli ultimi giorni hanno lasciato l’incarico anche due dentisti che da anni lavoravano alle Vallette. Il tema è già finito sul tavolo dell’assessore regionale Luigi Icardi e sarà al centro di una serie di incontri già a settembre. Il sindacato Osapp, però, ha scritto una nuova lettera al presidente della Regione Alberto Cirio e all’assessore alla Sanità, indirizzata anche alla direttrice del carcere e al provveditore regionale, protestando contro le disposizioni che demandano al personale in divisa il controllo dei pazienti psichiatrici che - spiegano - potrebbero avere bisogno di assistenza medica. “È stato segnalato a questa organizzazione sindacale - si legge nella lettera - che si stanno sfornando a raffica disposizioni di sorveglianza a vista dei detenuti e delle detenute per motivi sanitari. Dette disposizioni non sono in linea con nessuna norma e, anzi, confliggono con l’articolo 42 del Dpr 82 del 1999, che prevede solo una vigilanza sulla collettività dei detenuti di una sezione e non ad personam sul singolo detenuto”. La notte scorsa, in una delle sezioni del carcere, c’erano cinque detenuti per cui era stata disposta la sorveglianza personale, più del totale degli agenti disponibili in quell’area. In totale - secondo i dati raccolti dal sindacato - sarebbero in tutto otto i detenuti sottoposti a questa disposizione di sorveglianza, per un totale di ventiquattro agenti impegnati nell’arco della giornata. L’Osapp sottolinea che la polizia penitenziaria non può “fare da body guard ai singoli detenuti 24 ore al giorno” e che “la sorveglianza sanitaria è in capo alle figure professionali preposte dell’Asl competente”. L’Osapp invita a “correggere con immediatezza le disposizioni” perché “la polizia penitenziaria non può essere eletta capro espiatorio di competenze istituzionali altrui”. Roma. “Ai detenuti latte allungato con l’acqua e carne di scarto” di Marco Carta La Repubblica, 8 agosto 2023 L’indagine partita da un esposto dell’ex Garante Gabriella Stramaccioni. Dovevano versare 40 litri di acqua ogni 100 litri di latte. Ma anche riciclare i fondi del caffè del giorno precedente, rimacinandoli. Sarebbero state le testimonianze dei detenuti che lavoravano nella mensa del carcere di Rebibbia a far partire le indagini sulla ditta Ventura, che gestisce il servizio nei quattro istituti del penitenziario romano. Due responsabili della società Ventura sono ora indagati per frode in pubbliche forniture. E ora anche il ministero della giustizia sta studiando il dossier per capire se sia possibile arrivare a una rescissione evitando contenziosi legali. L’ipotesi degli inquirenti è che la qualità dei cibi serviti alla popolazione carceraria sia difforme da quella prevista nel capitolato d’appalto. A denunciare le anomalie nel 2021 era stata l’ex garante capitolina dei detenuti Gabriella Stramaccioni con un esposto in procura. Un altro esposto era stato fatto dalla Ladisa di Bari, una società esclusa dalla gara. Poi, dopo sono intervenuti gli investigatori del Nucleo di polizia valutaria della Guardia di finanza che lo scorso 18 gennaio hanno eseguito un blitz dentro Rebibbia per raccogliere campioni del cibo cucinato in carcere. La relazione dei finanzieri è stata poi inviata in procura. I campioni, analizzati in laboratorio, avrebbero confermato molte delle criticità denunciate nell’esposto dell’ex garante, il cui mandato non è stato rinnovato dopo la denuncia. Dal latte allungato, al caffè riciclato. Fino alla carne colorata, il cui grasso era coperto con l’emulsionante per dissimularne la qualità scadente. “Come si può assicurare un menu di dignitosa qualità con 3,92 euro al giorno?” era la domanda contenuta nell’esposto a cui ora gli inquirenti stanno cercando di trovare una risposta. Al centro dell’inchiesta, coordinata dai pm Gennaro Varone e Giulia Guccione, c’è anche il servizio del sopravvitto, gestito sempre dalla Ventura: nel mirino il costo eccessivo dei prodotti venduti ai detenuti, costretti a comprare beni di prima necessità a prezzi fuori mercato: la stessa acqua che nei supermercati di Rebibbia costava 27 centesimi, ai detenuti veniva venduta a 45 centesimi. “Si sono verificati molto spesso dei casi emblematici - si legge nell’esposto - per le carni suine sono state fatte pagare braciole di capocollo come quelle di lombo; salsicce di suino, piene di coloranti e grassi, che quando fatte bollire esce una schiuma viola e si riducono del 50%, per le carni bovine, fettine di bovino tagliata spessa fatta pagare come bistecca di lombo, spezzato di bovino di cui 80% osso ed altro”. Il caso è anche finito sul tavolo del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro. Dal ministero si studia per capire se ci siano margini di manovra per rescindere il contratto con la Ventura, che oltre al carcere di Roma, gestisce il servizio vitto in altri penitenziari italiani. Roma. “Noi costretti a cucinare le polpette con la carne avariata e puzzolente” di Marco Carta e Marina de Ghantuz Cubbe La Repubblica, 8 agosto 2023 Le lettere dei detenuti sulla maxi frode ora sono agli atti dell’inchiesta. “Pagavamo cifre esagerate gli alimenti. Un gambo di sedano, una cipolla e un po’ di prezzemolo ci costavano 2 euro”. Detenuti costretti a preparare polpette con carne marcia, ad acquistare salsicce da cui usciva schiuma viola. Prezzi esagerati per una qualità del cibo a dir poco scadente. Dalle lettere dei detenuti nel carcere di Rebibbia, emerge un racconto degli orrori. Scrivono pagine e pagine, le inviano all’allora garante dei detenuti Gabriella Stramaccioni che denuncia tutto. Oggi, a carico di due responsabili della ditta che si occupava del vitto e del sopravvitto nell’istituto penitenziario, la Ventura, c’è un’indagine in corso. Ma leggendo “le lettere dal carcere” ci si rende conto che l’ingiustizia ai danni dei carcerati si perpetrava da anni. “Nel 2015, dopo la scadenza dell’appalto con una cooperativa, torna la gestione del vitto da parte dell’Amministrazione e della Ventura”, racconta un detenuto che lavora in cucina e a cui è rimasto impresso anche questo episodio: “Ci viene consegnata della carne, apriamo le buste, odore di marcio. Strano, c’erano i responsabili presenti. Ci rifiutiamo di lavorarla, ma ci costringono a fare le polpette con uova, pane e prezzemolo, così si copre l’odore”. La minaccia, racconta il detenuto, era: “O le fate o non vi faccio più lavorare”. E allora i detenuti non si ribellano, eseguono sotto ricatto. Ma poi scrivono. Denunciano di aver dovuto versare “30 - 40 litri di acqua ogni 100 di latte”, raccontano degli “scatoloni di piselli, fagioli, ceci, tutto scaduto”. Ma andavano usati lo stesso. Come la frutta: “se le pesche quel giorno costavano troppo, allora venivano lasciate le mele marce di giorni prima”. Chi è privato della libertà in carcere, oltre ad avere diritto ai pasti (sani e proporzionati), può accedere anche al sopravvitto pagando il cibo che desidera in più. Il tutto è sempre in mano alla Ventura e i prezzi, scrivono ancora i detenuti, sono altissimi. “Il costo di un chilogrammo di pomodorini è di circa 4,30 euro, quello di un chilo d’aglio 9 mentre il costo degli odori è di circa 2 euro con una costa di sedano, una cipolla e un po’ di prezzemolo”. Addirittura anche il gas che serve a cucinarlo, quel cibo scadente, viene fatto pagare caro. “Il costo della bomboletta del gas di 190 grammi è di circa 2 euro e 10”. Una volta diventato fiamma, quel gas, doveva servire a bollire alimenti come “salsicce di suino, piene di coloranti e grassi, che quando fatte bollire esce una schiuma viola e si riducono del 50%”, scrive ancora un detenuto. “Frutta come pesche noci, della stessa qualità del vitto dei detenuti, cioè pessime, insapori e non mature fatte pagare 3,38 euro al chilo”, continua. Tutte queste lettere, testimonianze di un degrado inflitto a chi è sotto la custodia dello Stato, sono state raccolte da Stramaccioni che nel 2021 denunciò tutto in Procura. “Vorremmo che a questo reclamo venga data una esaustiva risposta”, scrivevano i detenuti decisi a far valere i propri diritti e a non sottostare più ai ricatti. Firenze. Botte al detenuto, la procura ricorre in appello: “È stata tortura” di Luca Serranò La Repubblica, 8 agosto 2023 La pm Christine Von Borries contro la decisione del gup di derubricare le accuse in lesioni aggravate: “Atteggiamento crudele e particolarmente riprovevole degli imputati”. Nel dicembre di un anno fa il tribunale di Firenze aveva condannato con pene fino a 3 anni e 6 mesi un’ispettrice e 8 agenti penitenziari in servizio a Sollicciano, alla sbarra per il pestaggio di tre detenuti. Condanne lievi rispetto alle richieste della procura, per via del mancato riconoscimento del reato di tortura: ora, sulla base delle motivazioni espresse dallo stesso tribunale, la pm titolare dell’indagine si è rivolta ai giudici di appello contestando la decisione. Quelle violenze, secondo la pm, dovevano essere catalogate proprio come tortura, per “la crudeltà della condotta, produttiva di sofferenze aggiuntive nella vittima” e per “l’esistenza di elementi sintomatici di un atteggiamento interiore particolarmente riprovevole degli imputati”. Scrive ancora la pm Christine Von Borries: “In ordine all’atteggiamento crudele e particolarmente riprovevole degli imputati, si ritiene sufficiente analizzare la modalità della loro condotta e, in particolare, il fatto che in ben 8 persone, rispondendo ad un ordine dell’ispettore capo, commisero per vari minuti atti di inaudita violenza nei confronti di un detenuto del tutto inerme e, successivamente, lo condussero in isolamento”. Nella sentenza del dicembre scorso il gup aveva derubricato il reato contestato dalla procura in lesioni aggravate, facendo cadere anche alcuni episodi di falso e calunnia. Assolto un agente, prosciolti due medici in servizio nel carcere. La procura aveva chiesto 8 anni per l’ispettrice, ritenendola l’istigatrice dei pestaggi. Sassari. Un lavoro fuori dal carcere, seconda chance per i reclusi di Silvia Sanna La Nuova Sardegna, 8 agosto 2023 Penitenziario di Uta, assunti quattro detenuti. Sono 190 in tutta l’Italia. Sarà bello guardarli negli occhi quando varcheranno la soglia del Vaticano, che da settembre diventerà la loro seconda casa. Sono due detenuti che prima di inciampare nell’errore che li ha portati in carcere, facevano gli elettricisti. E lì, nel cuore della Chiesa cattolica, entreranno nella prima veste, quella di professionisti chiamati a lavorare. Poi, la sera, rientreranno in cella a Rebibbia, benedetti dal Signore e baciati dalla fortuna. Perché, nella sventura, hanno incrociato un progetto che regala fiducia in se stessi e fa venire voglia di ricominciare. È la loro “seconda chance” come si chiama appunto l’iniziativa ideata e portata avanti con grinta ed entusiasmo da Flavia Filippi, cronista di giudiziaria de La7, una persona alla quale, racconta chi la conosce “è difficile dire di no”. E in Sardegna non lo ha fatto Marco Porcu, direttore del carcere di Uta dal 2017, che la seconda chance vorrebbe regalarla a tanti detenuti e detenute nella struttura “perché - spiega - lavorare all’esterno è un grande valore aggiunto. Aiuta le persone a guardare oltre le sbarre, a costruire il futuro che verrà dopo”. Per ora sono 4 i detenuti coinvolti, ma il numero è destinato a crescere presto. Dal carcere in azienda - Ogni mattina escono insieme dal carcere: sono quattro, hanno dai 30 ai 50 anni, tre italiani e un extracomunitario. Grazie all’impegno del direttore Marco Porcu che ha smosso con pazienza e tenacia il muro della burocrazia, sono autorizzati a utilizzare l’auto privata di uno dei quattro per raggiungere il luogo di lavoro a Monastir e per rientrare a Uta al termine del turno. L’azienda che li ha assunti, con contratto settimanale di 39 ore (6 ore e 30 al giorno dal lunedì al sabato) è la Joule, che gestisce la logistica per un importante gruppo in Sardegna e nel Lazio. Il presidente è Roberto Pau: “Sono magazzinieri, lavorano insieme a un team di colleghi nella preparazione degli imballaggi. È un lavoro pesante e faticoso: loro quattro, con noi dall’inizio di luglio, lo stanno facendo benissimo. Sono entusiasti, e noi felicissimi. Il progetto “seconda chance” è una iniziativa lodevole che fa bene a tutti, ai detenuti e alle aziende che li accolgono. Quando Flavia Filippi me ne ha parlato non ho avuto dubbi - spiega Pau - e l’adesione è stata immediata”. L’inserimento dei quattro detenuti sardi in azienda è avvenuto dopo le prime esperienze positive nel Lazio: “Abbiamo avviato la collaborazione con il carcere di Civitavecchia, assumendo a Tarquinia due detenuti che scontano la pena in quella struttura. Anche loro come magazzinieri. Poi se ne sono aggiunti altri due, e visti gli ottimi riscontri, abbiamo ripetuto l’esperimento in Sardegna. Tutti si sono integrati benissimo, da parte dei colleghi sono stati accolti senza alcun pregiudizio: zero domande, sono loro che decidono di aprirsi e raccontarsi, perché si sentono a loro agio. Credo che tante aziende dovrebbero approfittare di questa opportunità: innanzitutto per l’alto valore sociale ma anche per la possibilità di trovare figure molto ricercate, come appunto magazzinieri, tecnici specialisti, addetti nel settore turistico”. Non solo: la legge Smuraglia (193/2000) prevede sgravi contributivi e fiscali per le imprese o cooperative che assumono detenuti in stato di reclusione o ammessi al lavoro all’esterno. “Noi non ne usufruiamo perché la Joule fa parte di un contesto societario più ampio e pertanto non accede alle quote de minimis”. La rete si allarga - “Abbiamo tante manifestazioni di interesse - dice il direttore Marco Porcu - e una solidarietà crescente. Grazie a “seconda chance” la Technogym ha donato al carcere di Uta gli attrezzi per le palestre ed è stato un gesto importante, perché l’allenamento fisico per i carcerati è un toccasana. Più a Nord, ad Alghero, i ristoratori titolari della Botteghina (Ryan Luca Spiga e Giuseppe Ballane) sono andati in carcere per cercare personale e ora stanno assumendo un detenuto-lavapiatti per il loro locale a Roma. La rete si allarga in fretta, gli incontri tra detenuti e imprenditori si moltiplicano in tutta Italia. E quasi tutti si chiudono con un sorriso e una stretta di mano: scatta empatia, voglia di aiutarsi, perché la seconda chance è giusta e fa bene al cuore. Roma. Il Garante in visita all’Alta sicurezza del carcere femminile di Rebibbia garantedetenutilazio.it, 8 agosto 2023 “Troppo poche per qualsiasi attività”. Venerdì 4 agosto il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della regione Lazio, Stefano Anastasìa, si è recato nell’Alta sicurezza del carcere femminile di Rebibbia. “Qui le detenute sono troppo poche per fare qualsiasi attività - ha dichiarato il Garante al termine della visita-, le videochiamate si possono fare solo in una mattina della settimana (il venerdì), per non più di venti minuti, due volte al mese, l’area verde è infestata da insetti e formiche e le otto ore di lavoro al giorno alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, divise per cinque di loro, sono state ridotte a cinque e mezza divise per tre”. La Casa circondariale di Rebibbia Femminile sorge a Roma nel quartiere Rebibbia. Nasce negli anni 50 e in origine ospitava anche detenute minorenni. La Casa circondariale è composta da due grandi reparti e quattro reparti più piccoli, oltre che grandi spazi verdi dove si svolgono regolarmente incontri all’aria aperta tra le detenute e i loro familiari - Vi è anche una grande azienda agricola. Secondo quanto riportato nel sito del ministero della Giustizia, al 6 giugno di quest’anno erano 333 le persone ivi detenute, a fronte di 275 posti regolamentari, di cui 7 non disponibili. Quando anche le cure diventano un lusso di Chiara Saraceno La Stampa, 8 agosto 2023 Più che un mercato regolato dalla legge della domanda e dell’offerta, quello della sanità privata sembra una versione estrema e stereotipica di un suq, dove ciascuno fa il prezzo che vuole. Tocca al malcapitato cliente, in questo caso un malato, se ha tempo e mezzi fare il giro da un ambulatorio, centro medico, specialista, ad un altro per confrontare i prezzi. Chiedendosi se la differenza di prezzo per la stessa prestazione, talvolta enorme, come documenta l’inchiesta pubblicata su questo giornale, risponda a una diversità di competenza e perciò meglio non fidarsi di prezzi comparativamente bassi, o invece sia del tutto arbitraria. Un dubbio non irrilevante, trattandosi di prestazioni sanitarie dove in questione non è se si tratti di un oggetto taroccato e non dell’originale, ma se ci si può fidare o meno ad affidare la propria salute. Ma se si trattasse di (enormi) differenze dovute alla diversa affidabilità dei medici e delle strutture dovrebbero intervenire le autorità di sorveglianza - dagli ordini professionali ai Nas. Non si può giocare con la salute dei cittadini. Se, invece, l’enormità delle differenze non ha a che fare con l’affidabilità professionale si pone la questione di come regolare un mercato evidentemente selvaggio, in cui c’è chi lucra in modo assolutamente esagerato sulla impossibilità della maggioranza delle persone di avere informazioni sufficienti per comparare e valutare il costo delle prestazioni da cui dipende la salute loro o dei loro cari. Tanto più in una situazione in cui non hanno alternative, salvo quella di accettare lunghe attese nelle strutture pubbliche anche per questioni che richiedono di essere esaminate e affrontate con tempestività. È vero che la situazione è nettamente peggiorata a seguito della pandemia Covid-19, con liste di attesa che si sono allungate e che faticano a essere riassorbite a motivo della scarsità di personale, provocando un aumento esponenziale di richieste di prestazioni private, che a loro volta hanno incoraggiato i privati a sfruttare l’opportunità, aumentando i prezzi spesso ben al di sopra dell’inflazione. Ma la pandemia e ciò che ne è seguito sono state anche la cartina di tornasole di una sanità che era già in affanno per scelte sconsiderate dei governi che si sono succedute in termini di finanziamenti, ma anche di modelli organizzativi non sempre efficienti, anche se motivati con l’etichetta dell’aziendalizzazione. La privatizzazione della sanità è in atto da diversi anni, come esito della combinazione di un disinvestimento - finanziario, ma anche rispetto alla valorizzazione del capitale umano - nella sanità pubblica e di incentivazioni a quella privata tramite convenzioni e detrazioni fiscali di vario tipo. Hanno fatto la loro parte anche i sindacati, con accordi contrattuali che prevedono forme di sanità aziendale come fringe benefit, il cui costo per l’impresa è detassato, ovvero grava sul bilancio pubblico. Poteva sembrare un buon equilibrio: chi poteva pagarsi un’assicurazione privata, o era dipendente da un’azienda che la offriva come fringe benefit, era coperto dal privato, alleggerendo così la pressione sul servizio pubblico. Ma era un equilibrio fittizio, che creava grandi ingiustizie mentre sottraeva risorse per beni e servizi destinati a tutti. Con la pandemia si è rivelato in tutta la sua fragilità. Il pubblico è sempre più in affanno e il privato sempre più costoso. Il risultato è che molti cittadini non riescono più ad accedere a cure appropriate in modo tempestivo. Perché le liste di attesa nel pubblico sono lunghe o sono chiuse. Il loro reddito, mangiato dall’inflazione, non consente loro di farsi un’assicurazione privata e non lavorano in un’azienda che la offre; ma non consente neppure di accedere al privato in caso di bisogno, possibilmente facendo prima shopping tra le diverse opzioni presenti nel suq della sanità privata. Tra le persone che faticano ad accedere a prestazioni sanitarie tempestive ci sono anche molti anziani: con pensioni modeste, specie se donne, non più coperti dalle assicurazioni aziendali (se lo erano prima di andare in pensione) e spesso esclusi dalle assicurazioni private perché il loro rischio di morbilità è troppo elevato. Proprio quando la loro salute diventa più fragile, il loro diritto alla cura diviene più debole. In questo quadro, preoccupa che la riorganizzazione della sanità, a partire da quella territoriale con le case di comunità, sia tra gli obiettivi del Pnrr indicati dal governo come difficilmente raggiungibili, non solo per la lievitazione dei costi. La sanità pubblica era un fiore all’occhiello del welfare state italiano ed una delle poche garanzie di un diritto sociale universalistico. Prima di lasciarla diventare un servizio residuale, da cui fuggono non solo medici e infermieri in cerca di condizioni di lavoro migliori, ma anche i cittadini che possono permetterselo, occorre pensarci bene, da parte di tutti, governo e opposizione, sindacati e associazioni professionali. Migranti. L’accordo con la Tunisia è un flop di Eleonora Camilli La Stampa, 8 agosto 2023 Il 3 giorni tre naufragi e decine di vittime, partenze quintuplicate in un anno. Fallisce nei numeri l’intesa siglata con Saied. Le Ong: “Obbligati a partire”. È di almeno undici morti e 44 dispersi il bilancio provvisorio dell’ultimo naufragio davanti alle coste della Tunisia. Il terzo in tre giorni, che allunga il tragico bollettino delle morti in mare lungo quella che è diventata la rotta migratoria principale verso il nostro Paese. Dei 93.685 migranti arrivati dall’inizio dell’anno 58.488 sono stati registrati infatti come partenze dalla Tunisia, un numero quintuplicato rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando erano appena 12 mila. A questi si aggiungono i 30.495 arrivi dalla Libia, più o meno in linea con le cifre del 2022, i 4.315 dalla Turchia e i 387 dall’Algeria, per un numero complessivo 93.685 migranti approdati sulle coste italiane: il 109% in più rispetto allo scorso anno. L’obiettivo del governo di “fermare le partenze” attraverso una serie di accordi con i Paesi di origine e transito dei migranti, vacilla così davanti alla realtà dei dati, che parlano di un aumento degli sbarchi, dei naufragi e dei morti in mare. A tre settimane dalla firma del Memorandum of understanding tra Ue e Tunisia e dalla conferenza di Roma, cha ha visto proprio il presidente tunisino, Kais Saied, come ospite d’onore, l’andamento dei flussi non è cambiato. Per il governo Meloni l’accordo di partenariato raggiunto e le interlocuzioni di questi mesi sono il primo passo di un processo a lungo termine per governare l’immigrazione irregolare. Il titolare del Viminale, Matteo Piantedosi, continua a ripetere che un risultato è già stato ottenuto: dall’inizio dell’anno la guardia costiera tunisina ha intercettato in mare e riportato indietro oltre 30 mila persone. Ma gli incontri tra i due Paesi, iniziati in primavera, avrebbero dovuto scongiurare il picco degli arrivi in questi mesi estivi. Un obiettivo ambizioso e difficile da raggiungere per l’instabilità sulla questione migratoria nel Paese nord africano. “Non era mai successo che ci fossero così tante partenze dalla Tunisia”, sottolinea Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). “La rotta ha iniziato a intensificarsi già a fine 2022, tra ottobre e novembre, ma l’incremento maggiore c’è stato tra gennaio e febbraio, dopo le dichiarazioni di Saied contro i migranti nel Paese, il 21 febbraio scorso”. L’accusa rivolta agli stranieri di “sostituzione etnica” ha generato infatti un’ondata di discriminazioni e una vera e propria caccia al nero. “Sono aumentati così gli arrivi soprattutto di cittadini subsahariani, provenienti da Guinea e Costa D’avorio. Le persone hanno iniziato a scappare in maniera consistente dal Paese. La maggior parte di quelle con cui abbiamo parlato non aveva intenzione di intraprendere un viaggio verso l’Europa. Molti migranti, grazie ai visti facilitati per alcuni paesi, erano arrivati a Tunisi per lavorare. Ma da quando sono iniziate le discriminazioni e la situazione in Tunisia è deteriorata sono stati costretti a prendere la via del mare. - continua Di Giacomo -. L’ unico mese in cui abbiamo registrato una diminuzione è stato maggio, ma solo perché in quel periodo ci sono state condizioni meteomarine proibitive. A giugno le partenze sono ricominciate e la rotta ha mantenuto gli stessi ritmi fino a oggi, non abbiamo notato cambiamenti”. Ad aumentare oltre agli arrivi è anche il numero delle vittime del mare: 1844 da gennaio. Una cifra che l’Oim per le migrazioni considera al ribasso. Potrebbero essere molti di più perché i natanti utilizzati per le partenze dai porti di Sfax sono spesso barchini di ferro inadatti alla navigazione. Una volta in alto mare si spezzano o si ribaltano. In termini assoluti i dati sono simili all’andamento degli anni 2016 e 2017. “Non siamo in emergenza, 93 mila arrivi sono numeri alti ma gestibili - aggiunge il portavoce di Oim -. Il problema è che in mancanza di una missione coordinata di salvataggio in mare i migranti vengono portati tutti a Lampedusa e l’isola torna sotto pressione”. Nelle ultime ore l’hotspot dell’isola ha registrato il numero record di 2250 presenze, tra cui 550 minori (400 dei quali non accompagnati). Stando ai dati, a lasciare il Paese tunisino sono anche tante famiglie stremate da una condizione economica e sociale, ormai deteriorata nel paese. “Si pensa che dando dei soldi alla Tunisia i migranti smettano di venire in Italia e in Europa. Non è così” spiega Sara Prestianni, esperta di politiche migratorie e direttrice advocacy dell’organizzazione EuroMed rights -. La deriva autoritaria, l’instabilità politica, sociale ed economica, la repressione della libertà di espressione e l’aumento di razzismo e dei discorsi d’odio non potevano che far aumentare il numero di persone in fuga. Era impossibile pensare il contrario. Eppure questi elementi non vengono mai presi in considerazione nelle trattative tra i paesi. Non si risolve il problema dando delle motovedette per intercettare in mare e rimandare indietro i migranti verso la Tunisi, perché queste persone cercheranno di nuovo di tentare il viaggio e ripartire. Sono le situazioni di vita nei paesi di origine e transito che spingono le migrazioni. Invece, la soluzione che viene venduta di dare fondi per rafforzare il controllo delle frontiere non funziona. Quello che abbiamo assistito in questi mesi è solo la legittimazione di un potere autoritario, che deporta i migranti al confine con la Libia lasciandoli morire nel deserto. In cambio di un risultato che non sarà raggiunto: quello di fermare le partenze”. In queste ore una denuncia sul “regime autoritario e razzista” del presidente tunisino arriva anche da 270 accademici europei, americani o tunisini che in una petizione pubblica hanno chiesto il ritiro della laurea honoris causa conferita nel 2021 dall’Università italiana La Sapienza. L’accusa per il capo di Stato tunisino è “di aver commesso gravi abusi nei confronti dei migranti che risiedono o transitano nel Paese”. Tra i firmatari, Mouna Balghouthi, coordinatrice tunisina dell’Ong Mobilizing for rights associates (Mra) e ricercatrice in filosofia all’Università El Manar di Tunisi, Sana Ben Achour, attivista femminista e professoressa di diritto pubblico, e il matematico francese Cédric Villani. Gli accademici condannano anche le riforme costituzionali “intese a concentrare il potere nelle sue mani, a minare i fondamenti istituzionali essenziali per i diritti umani, anche a minare l’indipendenza della magistratura e il diritto alla libertà di espressione”. Migranti. Il modello Zaia per l’accoglienza funziona. E infatti la Lega lo sabota di Federica Olivo huffingtonpost.it, 8 agosto 2023 Il Carroccio contro il (suo) sindaco di Treviso, che ci spiega: “È un’emergenza umanitaria, o la governiamo o la subiamo”. I colleghi di Padova, Verona e Vicenza sono con lui. Possamai: “Collaboriamo, ma no ai maxi hub”. Biffoni (Anci-immigrazione): “Numeri raddoppiati, territori in difficoltà”. Basta guardare i freddi numeri, riportati in altrettanto freddi grafici, per capire la portata che dell’immigrazione negli ultimi mesi in Italia. Ad oggi sono sbarcate sulle nostre coste 93.685 persone. L’anno scorso di questi tempi erano poco meno di 45mila. Cifre più che raddoppiate rendono molto più difficile l’accoglienza. E i sindaci vanno in allarme. “Dire che siamo nel caos è riduttivo - spiega ad HuffPost Matteo Biffoni, sindaco di Prato e referente Anci per l’immigrazione - dopo il decreto Cutro le grandi organizzazioni non partecipano ai bandi per l’accoglienza e i territori sono in grande difficoltà. I prefetti chiedono a noi sindaci aiuto per trovare i posti, ma siamo di fronte a numeri mai visti e la stessa accoglienza diffusa, che in Toscana pratichiamo da sempre e senza problemi di ordine pubblico, diventa complicata se manca un’organizzazione. E se mancano le risorse”. Tutte le difficoltà vanno poi a ricadere sui sindaci: “Ha mai visto un cittadino arrabbiato andare a bussare alla porta di un prefetto?”, chiede Biffoni, rendendo l’idea di cosa sta accadendo. I primi cittadini si trovano a gestire una situazione che è più grande di loro. Che certamente non potranno fronteggiare da soli. Mentre il Viminale continua ad assicurare che aumenterà i posti dell’accoglienza - e un po’ lo fa - e a garantire un’equa redistribuzione sui territori. Senza riuscire a trovare soluzioni strutturali, nei Palazzi di città una parola si diffonde: collaborazione. Se le istituzioni, anche locali, non collaborano tra loro, non si va lontano. E puntava proprio alla collaborazione il protocollo siglato in Veneto tra Regione, Anci e sindaci per dare il via a progetti di accoglienza diffusa. Si tratta di quella modalità di accoglienza che rifiuta le grandi concentrazioni di persone in strutture come ex caserme o ex carceri, ma favorisce l’integrazione. Il progetto prevede che piccole quantità di migranti vengano accolte in ogni paese o città. In proporzione al numero di abitanti. La notizia è che questa volta - come per la verità ultimamente spesso accade in Veneto - si è creato un sodalizio tra il governatore leghista Luca Zaia, tre sindaci di centrosinistra - Sergio Giordani di Padova, Damiano Tommasi di Verona e Giacomo Possamai di Vicenza - e Mario Conte, sindaco leghista di Treviso nonché referente dell’Anci Veneto. Il problema è che questo protocollo - che in realtà prende spunto da situazioni già operanti nella regione - ha fatto andare su tutte le furie una parte del centrodestra. Innanzitutto la parte salviniana della Lega, rappresentata in Veneto dal segretario Alberto Stefani, ma anche molti sindaci di centrodestra. Al punto che da via Bellerio è arrivato un diktat: “Di questo protocollo non si deve parlare più”. Il motivo? Il solito: “Prima gli italiani”. Con la grande differenza, rispetto alla solita narrazione, che in Veneto anche i leghisti più puri sanno bene che l’immigrazione può dare una mano all’economia. E per questo sono pronti ad accantonare gli slogan. “Zaia e il sindaco Conte - ragiona una fonte favorevole al protocollo - si sono trovati isolati, sia a livello locale che nazionale. Sono stati accusati di collaborazionismo con il centrosinistra”. E proprio queste accuse hanno creato un corto circuito. A finirci in mezzo è stato il sindaco di Treviso. La sua colpa? Aver espresso il timore che il prefetto potesse aprire dei grandi hub nelle varie province. Parole che, però, sono state riportate male, lasciando intendere che il suo non fosse un timore ma un auspicio. Che avesse, cioè, sconfessato quanto detto - e siglato - fino a pochi giorni prima. E così Conte ha dovuto passare tutta la giornata a rettificare. Lo ha fatto anche con HuffPost, a cui ha spiegato: “Io rispetto le posizioni di tutti i partiti, il mio compreso, ma qui ci troviamo di fronte a un’emergenza umanitaria. O ognuno contribuisce, in base alle proprie possibilità, oppure subiremo le scelte della prefettura. In Veneto rappresento l’Anci ed il mio è un richiamo alla responsabilità. Con Zaia e con la prefettura abbiamo condiviso il principio secondo cui o governiamo questa situazione o, in alternativa, la subiamo”. E sulla polemica sugli hub dice: “A Treviso ne abbiamo uno con 550 persone. Se non funziona qui, non funziona da nessun’altra parte. Il mio era solo un timore. I sindaci di Padova, Verona e Vicenza si erano allarmati per le parole di Conte e avevano fatto un comunicato per dire che non avrebbero mollato. Che per loro la strada è l’accoglienza diffusa. Oggi rilanciano. E sperano di coinvolgere anche altre realtà: “A Verona l’accoglienza e provincia ci sono già progetti che vanno in questo senso - ci dice una fonte della città amministrata da Damiano Tommasi - il problema è far aderire i sindaci di centrodestra”. Del resto, aggiungono da Padova, “l’accoglienza in Veneto è materia delicata. E la polemica è tutta interna al centrodestra”. A Verona, i progetti già partiti consentono l’accoglienza di una trentina di minori non accompagnati, di altrettanti componenti di nuclei familiari con minori e di circa quaranta uomini soli. Numeri piccoli, che però possono essere un punto di partenza. A patto che la linea da seguire sia quella proposta dai sindaci. “Siamo disposti a collaborare - dice ad HuffPost Giacomo Possamai, sindaco di Vicenza - ma solo all’interno di un progetto di accoglienza diffusa. Ribadiamo un no categorico ai grandi hub all’interno delle città”. In Veneto, del resto, è vivo il ricordo dei centri d’accoglienza di massa riempiti all’inverosimile intorno al 2016, quando c’era stata l’altra emergenza migranti. Un’emergenza con numeri ben più bassi di quella attuale. I sindaci di centrodestra, dicevamo, stanno ponendo molta resistenza all’idea dell’accoglienza diffusa. Eppure proprio in Veneto ci sono dei progetti pilota che possono essere considerati virtuosi. Abbiamo citato l’esempio veronese, ma casi simili ci sono anche in altre città. A Padova è attivo il progetto 6+6x6: si tratta di una formula teorizzata dal professor Antonio Calò che per primo ha accolto dei migranti in casa. Il progetto, spiegano dal Comune, è sperimentale, finanziato con i fondi europei. A sentire chi lo sostiene, “sta andando molto bene”. Qualcosa di simile viene fatto anche nell’Alto Vicentino. Protagonista di questa storia, che si chiama La tenda di Abramo e inizia molti anni fa, è Franco Balzi, sindaco di Santorso: “Il nostro progetto - racconta ad HuffPost - parte dall’idea della sostenibilità: ogni comune che aderisce può ospitare 3 migranti ogni mille persone. C’è un comune capofila e l’idea di non scaricare l’emergenza sul vicino, ma di fare ognuno la propria parte, in base alla propria capacità. Solo così si favorisce l’integrazione”. Il progetto, partito con l’adesione di 13 comuni, ha visto raddoppiare le adesioni quando sono arrivati i profughi ucraini. Le persone sono accolte in case del comune, di privati o in strutture offerte da associazioni e parrocchie. “Avremmo dovuto finire ad agosto, ma visto che c’è una nuova emergenza andremo avanti. Abbiamo parlato con il prefetto e stiamo aspettando le nuove autorizzazioni”. I comuni aderenti da 27 ora sono scesi a 21, ma è comunque un buon numero di partenza. A partecipare, ci spiega il sindaco, amministrazioni di ogni colore: “C’è chi accoglie, e prova a integrare per una questione di sensibilità. Ma c’è anche qualcuno che lo fa perché ha capito che, diversamente, subirà il fenomeno”. Un progetto esportabile in altre provincie o magari fuori regione? Per Balzi sì: “Ricevo tante telefonate di persone interessate. Mi auguro che anche in loro maturi l’idea di seguire questa strada”. Se avranno bisogno di un esempio, possono cominciare da lì. Da Santorso, Veneto profondo. Quel Veneto a trazione leghista che litiga sull’immigrazione ma che, alla fine, sa accogliere. Stati Uniti. Biden non ha fermato la macchina della morte di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 8 agosto 2023 Le esecuzioni capitali continuano in 24 Stati degli Usa, sono già 14 dall’inizio dell’anno. E c’è addirittura chi ha ripristinato la fucilazione. L’ultimo è stato Robert Bowers, condannato a morte per il massacro di 11 persone in una sinagoga di Pittsburgh, in Pennsylvania. Gli Stati Uniti continuano a condannare e uccidere. Sono già 14 le sentenze eseguite quest’anno, anche se la macchina repressiva ogni tanto si inceppa. In Alabama diverse esecuzioni sono state rinviate perché l’iniezione letale non ha funzionato. Metodo scelto da molti dei 24 Stati americani che ancora prevedono la pena di morte, e preferito a impiccagione e sedia elettrica. Alcuni - come Idaho, Mississippi, Utah, Oklahoma e South Carolina - hanno scelto di affidarsi al plotone di esecuzione: cinque membri volontari dello staff della prigione sparano da otto metri, con fucili calibro 30. Una delle cinque armi è caricata a salve, per salvare la coscienza dei fucilatori volontari. Joe Biden in campagna elettorale ha promesso l’abolizione federale e incentivi per vietarla a livello statale. Ma non ha mantenuto le promesse. Non è solo l’America a proseguire nella politica degli omicidi di Stato. Nel mondo sono soprattutto Iran, Cina, Arabia Saudita, Iraq e Egitto a uccidere “legalmente”. L’Europa è immune. A parte la Bielorussia, nessuno dei Paesi Ue ed extra Ue prevede la sentenza capitale. Per chi è sempre in cerca di patenti identitarie, questa è perfetta. A chi chiede cosa vuol dire essere europei, possiamo dirlo con fierezza: vuol dire considerare una barbarie la pena di morte, abolita da decenni, sulla scia della Convenzione dei diritti dell’uomo. Tra i valori fondativi dell’Europa c’è non solo la solidarietà, ma anche l’adozione di un sistema giudiziario che rispetta i diritti umani, proibisce condanne a morte e tortura e assegna alla pena una funzione non solo afflittiva ma di reinserimento nella società. Non è poco, in un mondo dove, nel 2022, c’è stato un aumento di esecuzioni, numero mai così alto dal 2017: sono state 883 in 20 Stati, con un aumento del 53 % rispetto al 2021. Gran Bretagna. L’ultima idea per i richiedenti asilo: “spedirli” su un’isola in mezzo all’Atlantico di Matteo Persivale Corriere della Sera, 8 agosto 2023 All’Ascensione, territorio dipendente da Sant’Elena. Intanto da ieri decine spostati su una chiatta a Portland. La buona notizia è che, causa golpe, è tramontata definitivamente l’ipotesi di spostare i migranti in Niger. La cattiva notizia? Tutto il resto. Gli arrivi record nel Regno Unito stanno mettendo a durissima prova il governo Sunak, anche se tra i presunti vantaggi di Brexit c’era proprio quello di “riprendere il controllo dei confini britannici” sottraendoli agli odiati burocrati di Bruxelles. Così l’ultima ipotesi è quella di portare migliaia di persone - in attesa di verdetto sulla richiesta d’asilo - su un’isola sperduta tra costa africana (1.600 chilometri) e costa sudamericana (2.300 chilometri), l’Isola dell’Ascensione, nell’amministrazione di Sant’Elena di napoleonica memoria. Charles Darwin, che durante il suo viaggio con il veliero Beagle la visitò nel 1836, la definì “orribile”. L’esilio agli antipodi dei migranti non è neanche il problema più urgente di Sunak, che peraltro è in vacanza negli Stati Uniti con la famiglia, sadicamente pedinato dai tabloid inglesi anche alla lezione di spinning in una palestra di lusso a Santa Monica con accompagnamento musicale di Taylor Swift. È cominciato infatti ieri pomeriggio il trasferimento di alcune decine di migranti su una chiatta, la Bibby Stockholm, ancorata nel porto di Portland. Arrivano da alberghi di Oxford, Bristol, Torbay e Bournemouth: proprio il problema degli hotel è quello più urgente. Il governo paga infatti sei milioni di sterline al giorno (sette milioni di euro) per ospitare in albergo migliaia di migranti. L’idea della chiatta è venuta, semplicemente, per risparmiare mentre le lista d’attesa per le richieste d’asilo si allungano spaventosamente. Neanche i tabloid stanno facendo sconti al governo: due mesi fa campeggiava sulle loro prime pagine la protesta dei migranti iraniani che rifiutavano la sistemazione in un albergo londinese di Pimlico (centralissimo, 175 euro a notte) perché pretendevano camere singole, e per questo si erano accampati in strada. La capacità ricettiva dell’apparato dello Stato britannico pare uscita da un vecchio sketch dei Monty Python, e sarebbe un brutto gesto, oggi, quello di rinfacciare alla fazione pro-Brexit le vecchie critiche alle (effettive) falle nell’accoglienza ai migranti targata Ue. Ma certo è che il “piano B” è una priorità del governo Sunak: s’intende l’idea di trasferire fuori dai confini nazionali i migranti finché non sarà definito l’esito delle loro richieste d’asilo. Soltanto quattordici mesi fa, quando il governo Johnson ormai al capolinea ipotizzò di utilizzare il Ruanda come parcheggio per i migranti desiderosi di vivere nel Regno Unito stringendo con Kigali un accordo di cooperazione da 160 milioni di euro, l’allora principe Carlo con una clamorosa e inedita violazione della tradizionale neutralità politica della Corona - sempre silente sulle scelte governative - lasciò trapelare di essere rimasto “allibito”. Un trasferimento di seimila chilometri nel territorio britannico d’oltremare nell’Atlantico meridionale provocherebbe, al netto di ogni altra considerazione politica e umanitaria, una serie di complessi problemi organizzativi, dato che l’isola di 88 chilometri quadrati ha soltanto ottocento abitanti e non è ovviamente attrezzata per diventare un campo profughi. Perfino il Daily Mail, giornale per nulla favorevole all’apertura delle frontiere, la definiva ieri “una pietra vulcanica in mezzo al nulla”. Al momento il piano di collaborazione con Kigali è stato bloccato da un tribunale, ma il governo aspetta il pronunciamento definitivo della Corte suprema in ottobre. Così Londra stipa i migranti su una chiatta. “Siamo in prigione, qui ci manca l’aria” di Caterina Soffici La Stampa, 8 agosto 2023 Nel Regno Unito apre Bibby Stockholm, l’”albergo” galleggiante per 506 richiedenti asilo. È bufera sul progetto del governo: “Non rispetta gli standard di sicurezza, la gente muore”. Si chiama Bibby Stockholm. Sembra il nome di un personaggio di libri per bambini, ma spesso i nomi ingannano. Anche all’ingresso di Auschwitz-Birkenau c’era scritto “il lavoro rende liberi”. Bibby Stockholm è il nome della infausta chiatta dove il governo inglese ha deciso di “stoccare”, come dicono parafrasando il gergo mercantile, i migranti in arrivo sull’isola in cerca di asilo politico. Il governo conservatore britannico cerca in ogni modo di dissuadere gli ingressi di migranti. Hanno provato a far passare una legge che impedirebbe di ottenere asilo e di rimanere sul suolo britannico a chiunque entri illegalmente (per il momento bloccata e oggetto di una battaglia legale). Stanno discutendo sull’ipotesi di spedire i migranti in Rwanda (anche su questa proposta è in atto una battaglia legale), o in alternativa (la notizia è di ieri), sull’isolotto vulcanico di Ascensione, a 4 mila miglia dalla costa africana, nel mezzo dell’Oceano Atlantico. L’idea era già stata proposta dall’ex ministra degli interni Priti Patel, inquietante figura, così apertamente razzista che in confronto Salvini è uno scolaretto di prima elementare. Qualcuno ha anche proposto di creare delle onde artificiali per rimandare oltre manica i barchini (non è inventata, l’hanno proposto davvero). La linea del governo è chiara e l’attuale ministra dell’Interno Sarah Dines non usa giri di parole: “Dobbiamo ridurre il fattore di attrazione delle bande criminali illegali che portano le persone in questo Paese, abusando sostanzialmente del sistema”. Poco importa se sono profughi di guerra o perseguitati politici. Alla luce di questi precedenti, l’idea della chiatta sembra quasi un provvedimento liberale. Nasce dall’esigenza di contenere i costi - dice il governo - offrirebbe cioè un miglior rapporto qualità-prezzo per i contribuenti rispetto agli alberghi (dice che costano 5,6 milioni di sterline al giorno), ma secondo le opposizioni il risparmio sarebbe irrisorio. Per non parlare di quanto costerebbe spedire i migranti in Rwanda o sull’isola di Ascensione. Sul Guardian di domenica c’era la storia di un profugo iraniano, avvocato e attivista per i diritti umani, incarcerato per le sue attività antigovernative e poi riuscito a fuggire dalle simpatiche prigioni di Teheran, dove sappiamo bene cosa accade ai dissidenti. Ha chiesto asilo al suo arrivo nel Regno Unito diversi mesi fa ed è stato alloggiato temporaneamente in un albergo della costa meridionale, ma la settimana scorsa ha ricevuto la lettera che annunciava il trasferimento sulla Bibby Stockolm. Da quel giorno, dice, non è più riuscito a dormire: “È come tornare in prigione. All’hotel posso uscire, fare una passeggiata, avere il sostegno della comunità. Lì è come tornare in una cella”. La controversa chiatta è arrivata nel Dorset dove è attraccata in una banchina nel porto di Portland, e ieri sono saliti a bordo anche i primi migranti. È una sorta di prigione dormitorio galleggiante, lunga 93,44 metri e larga 27,43, con una capienza da 222 persone, su cui però il governo ha intenzione di trasferire 506 richiedenti asilo. Appartiene alla compagnia Bibby Line Group Limited, fondata da John Bibby nel 1807, anno in cui il Regno Unito abolì la tratta degli schiavi. Prima dell’abolizione, Bibby era un commerciante di metalli e intermediario di navi e possedeva una quota in almeno tre viaggi negrieri. C’è da dire che l’uso di questi dormitori galleggianti non è una novità per la Gran Bretagna. Durante la Seconda Guerra mondiale servivano da alloggio per i marinai ancora non assegnati a una nave o per accogliere marinari di navi affondate dai siluri tedeschi. La chiatta in questione, ha girato mezza Europa prima di approdare nel Dorset. Dal 1994 al 1998 è stata utilizzata per ospitare i senzatetto, compresi alcuni richiedenti asilo, ad Amburgo, in Germania. Nel 2005 nei Paesi Bassi per trattenere i richiedenti asilo a Rotterdam (nel 2008 un richiedente asilo residente è morto per insufficienza cardiaca per mancanza di assistenza sanitaria). Poi è finita nelle isole Shetland, come alloggio per lavoratori di un impianto petrolifero e nel 2017, una società di gestione immobiliare ha discusso la possibilità di affittare la chiatta per fornire alloggi universitari a 400 studenti a Galway, in Irlanda. Il piano è stato bocciato dalla Corte Suprema d’Irlanda perché non garantiva gli standard di sicurezza. Ora la Bibby Stockholm è riapparsa e a nulla sono valse le proteste delle organizzazioni umanitarie e degli attivisti per i diritti dei migranti. Qualcuno l’ha definita una “Grenfell galleggiante”, con un chiaro rimando alla torre di appartamenti popolari andata in fiamme a Londra nel 2017. La chiatta sarebbe infatti anche a rischio incendio, visto lo stato pietoso in cui è ridotta. Dato confermato anche dal Financial Times, non proprio un foglio rivoluzionario, che ha riferito di ritardi dovuti a frettolosi lavori di saldatura delle lamiere. In Niger un disastro che è iniziato in Libia di Alberto Negri Il Manifesto, 8 agosto 2023 È una storia da periferia del mondo, una storia sbagliata, che improvvisamente si addensa sulla capitale del Niger Niamey, dove sono di stanza tremila soldati Nato e americani, evocando i fantasmi della caduta di Kabul nel 2021. Scaduto l’ultimatum lanciato dopo il golpe del 26 luglio scorso che ha deposto il presidente Mohamed Bazoum, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale si era detta pronta a intervenire militarmente ma in attesa di una comunicazione ufficiale, secondo fonti militari riferite dal Wall Street Journal, per ora l’organizzazione degli stati africani non avrebbe ancora “la forza necessaria per partecipare a una simile operazione militare”. La questione è evidente: con una base Usa di droni nel Nord e 1.100 soldati americani sul terreno (i francesi sono 1500, gli italiani 340 circa) la Casa Bianca, nonostante la solidarietà espressa a Bazoum, teme che un intervento militare mal riuscito possa risolversi in un disastro. E in Africa americani ed europei di disastri ne hanno già combinati a sufficienza. Sono stati i loro errori che hanno lasciato spazio a russi, cinesi, turchi: queste potenze fanno esattamente il lavoro che facevamo noi un tempo, rafforzano chi è al potere e sfruttano le risorse minerarie e umane. Il paradosso è che molte delle élite militari oggi in sella le abbiamo armate e addestrate nelle scuole militari di Francia e Stati uniti. Come sottolineava Marco Boccitto sul manifesto del 5 agosto anche in Niger i militari golpisti hanno ricevuto dall’Occidente la loro “educazione sentimentale”. Gli stessi militari italiani - sulla cui sorte ci rassicura il ministro della difesa Crosetto - sono a Niamey per addestrare i nigerini. Tutto comincia con la fine della Libia di Gheddafi nel 2011, iniziata con l’intervento francese, britannico e americano diventato poi Nato. Era lui il “guardiano” delle coste del Mediterraneo e del Sahel. Un dittatore detestabile ma che teneva in piedi il Sahel: dal Mali al Niger, i dinari libici oliavano i regimi e tenevano in piedi confini di sabbia. Sia l’Unione africana che il presidente del Niger Issoufou Mahamoud avevano messo in guardia l’Occidente dall’attaccare la Libia. Ma chi li ha ascoltati? Nessuno si è preoccupato seriamente di frenare la deriva dei confini. Dopo la storia è nota: con la disgregazione della Libia avanzano ovunque i gruppi jihadisti, da Al Qaeda all’Isis, e i movimenti irredentisti. Le frontiere che vediamo oggi disegnate sulle mappe sono più virtuali che reali, in particolare quelle nel triangolo tra Niger, Mali e Burkina Faso. I francesi nel 2022 fanno le valigie e mettono fine all’operazione Barkhane ripiegando dal Mali al Niger, a loro posto a Bamako arrivano nuovi generali al potere e i russi della Wagner: che, è bene sottolinearlo, non riscuotono un così grande successo ma agli occhi di chi è al potere hanno un verginità coloniale e non chiedono alcun rispetto dei diritti umani e politici. Del resto che rispetto abbiamo noi dei Paesi africani? Siamo qui a spingere perché diventino i guardiani delle nostre frontiere, cosa che non piace a nessuno, come ha ribadito più volte il presidente tunisino Saied, criticabilissimo per le sue espressioni razziste sui migranti ma con le spalle al muro per la crisi economica e finanziaria di un Paese che sta affondando. Non sono crollate solo le frontiere del Sahel. A Ras Jedir, confine tra Libia e Tunisia ormai fuori controllo, c’è un giro d’affari di contrabbando per 500 milioni di dollari l’anno: il carburante arriva dalla Libia, dove il costo è sostenuto all’80% dallo stato, passa l’alcol dall’Algeria, l’hashish dal Marocco, poi frutta, verdura elettrodomestici e, naturalmente, esseri umani in mano ai trafficanti. Un’intera regione dell’Africa del Nord ma anche sotto, nel Sahel, vive di traffici illeciti. E come farebbe altrimenti a sopravvivere la Tunisia? Con la fine di Gheddafi Tunisi ha perso 350mila posti di lavoro in Libia che sostenevano l’economia mentre con le “primavere arabe” settemila tunisini si arruolavano con i jihadisti per la guerra in Siria. Oggi Assad è stato riammesso nel grembo del mondo arabo e loro sono tornati in un Paese che non riesce a dare lavoro e pane a nessuno. Non si può pensare che rivolgimenti del genere non abbiano conseguenze. L’Africa sulla questione dell’intervento in Niger è divisa. Dal Maghreb all’Ovest del continente si levano voci discordanti. Il blocco degli interventisti è guidato dalla Nigeria, 215 milioni di abitanti, con l’esercito più forte della regione e un’economia predominante. Contrari sono i Paesi dei “nuovi golpisti” come Mali e Burkina Faso. Ma anche l’Algeria, che non fa parte di Ecowas, è una potenza assai influente. “Senza di noi in Niger non ci sarà una soluzione”, ha ammonito il presidente Tabboune. A Roma devono aprire le orecchie visto che Algeri è il nostro maggiore fornitore di gas e il perno di quel Piano Mattei che nessuno ha ancora visto. Come l’araba fenice di Metastasio, “che ci sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa”. Brasile. Polizia scatenata nelle favelas, in pochi giorni 28 morti tra cui un tredicenne Il Manifesto, 8 agosto 2023 Dolore e rabbia a Rio e a San Paolo per il grilletto facile degli agenti. In Brasile cambia il governo, ma non i metodi della polizia. C’è rabbia a Cidade de Deus, periferia orientale di Rio de Janeiro, per la morte di un tredicenne raggiunto nella notte tra domenica e lunedì da numerosi colpi d’arma da fuoco esplosi dagli agenti impegnati in una delle tante operazioni anti-criminalità che vengono periodicamente condotte nelle favelas. Il ragazzo viaggiava su una moto insieme a un amico e secondo la famiglia era tutto chiesa e campo di calcio, senza relazione alcuna con la criminalità. Gli agenti sostengono di aver aperto il fuoco in risposta ai colpi esplosi al loro indirizzo da una moto, senza specificare se si trattava o meno del mezzo su cui viaggiava il 13enne. Numerosi testimoni lo escludono. La polizia in seguito ha fatto uso di proiettili di gomma e spray urticante per disperdere i parenti e la folla che si era riunita intorno al corpo del ragazzino. Meno di 24 ore prima un altro giovane era stato ucciso dai colpi di un poliziotto che non è ancora stato identificato. nel quartiere centrale di Santa Teresa. Guilherme Lucas Martins Matias aveva appena festeggiato il suo 26mo compleanno a un baile funk nella zona sud della città, sulla collina di Santo Amaro. Aveva un lavoro stabile come benzinaio e nessun precedente. Era in macchina con tre suoi amici che sono rimasti feriti. Il 2 agosto invece, durante un blitz congiunto di Polizia civile e militare nel Complexo da Penha, zona nord di Rio, favela Vila Cruzeiro, ben10 persone sono state uccise, tutte sospettate di legami con la malavita, sostengono le autorità. Intanto si continua ad aggiornare il bilancio dell’“Operazione Scudo” a Baixada Santista, nella regione metropolitana di San Paolo. Scattata il 28 luglio in risposta all’uccisione di un agente delle forze speciali, andrà avanti - annuncia la polizia - fino a quando non verrà “stroncato il traffico di stupefacenti”. Finora siamo a 16 morti e 160 arresti. Il Karabakh come un lager, il mondo fermi il genocidio degli armeni di Roberto Travan La Stampa, 8 agosto 2023 L’Azerbaijan da otto mesi tiene in ostaggio 120.000 persone privandole di cibo, acqua e cure mediche. “Il mio Paese è stato trasformato in un immenso campo di concentramento, il più sofisticato dai tempi della Seconda Guerra mondiale”. Parole pesanti come macigni scagliate da Araik Arutyunyan, presidente del Nagorno Karabakh, all’Europa e al mondo. Dal 12 dicembre 2022 l’enclave armena è infatti completamente isolata: l’Azerbaijan, che continua a rivendicarne la sovranità, ha chiuso il Corridoio di Lachin, l’unica via di accesso, impedendo i rifornimenti di cibo e generi di prima necessità, 400 tonnellate di merci al giorno. Paese allo stremo - “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” ha scritto Marut Vanian sulla sua pagina Facebook in cui da otto mesi annota giorno dopo giorno la lenta agonia di Stepanakert, la capitale. La città è in ginocchio, le scorte di cibo ridotte al lumicino, i negozi letteralmente svuotati. Da tempo sono iniziati i razionamenti e il prossimo raccolto, a causa della penuria di carburante e fertilizzanti dovuta al blocco dell’Azerbaijan, crollerà del 70%: presto sarà impossibile sfamare tutta la popolazione. Gli azeri hanno anche tagliato le forniture di elettricità, gas e acqua potabile. Sono le cifre a spiegare con eloquente chiarezza il dramma che sta sopportando questa piccola Repubblica de facto conficcata nel Caucaso meridionale: 240 giorni ininterrotti di isolamento, 120.000 persone tenute letteralmente in ostaggio di cui 8450 malati gravi privi di cure adeguate, 2000 donne in gravidanza senza assistenza, 30.000 bambini e 20.000 anziani a rischio malnutrizione, 9000 disabili abbandonati a sé stessi. La pace impossibile - Europa e Stati Uniti hanno lanciato numerosi appelli per sciogliere l’assedio e scongiurare l’emergenza umanitaria, inviti inesorabilmente caduti nel vuoto. “Se l’Armenia accetta di astenersi da qualsiasi rivendicazione territoriale contro l’Azerbaijan, penso sarà davvero possibile firmare un trattato di pace entro la fine di quest’anno. In caso contrario non ci sarà pace” ha chiarito il presidente azero Ilham Aliyev lo scorso 21 luglio. Sarà nuovamente guerra, allora, perché Erevan difficilmente abbandonerà al suo destino il Karabakh, terra in cui la difesa delle profondissime radici armene e cristiane è già costata in trentacinque anni di scontri oltre 30.000 morti e più di un milione di sfollati interni. Nel frattempo, l’offensiva azera prosegue: domenica 6 agosto un avamposto armeno è stato pesantemente bombardato. Malati condannati a morire - Drammatica la situazione negli ospedali perché medicinali e ossigeno scarseggiano da settimane. L’Azerbaijan, inoltre, impedisce il trasferimento dei malati più gravi in Armenia, fatto che sta aumentando la mortalità fra le fasce più deboli della popolazione. “Solo pochi pazienti sono riusciti a raggiungere Erevan per proseguire le cure” spiega un funzionario governativo. Ma hanno pagato un prezzo altissimo perché “gli ammalati e i loro accompagnatori sono stati sottoposti a procedure di controllo umilianti e a trattamenti degradanti: li hanno filmati e successivamente le immagini sono state sfruttate dalla propaganda azera per dimostrare la normale apertura del Corridoio di Lachin. Ma era tutto falso”. Il 29 luglio l’episodio più grave: “Vagif Khachatryan, 68 anni, a bordo di un’ambulanza della Croce Rossa Internazionale autorizzata a trasportarlo in Armenia, è stato fermato e rapito dalla polizia di frontiera azera: da allora non si hanno più sue notizie” raccontano alcuni testimoni. Il tradimento della Russia - La forza di interposizione russa, che in base agli accordi firmati nel 2020 dopo la Guerra dei 44 giorni avrebbe dovuto garantire l’accesso e la sicurezza del Karabakh, è accusata di tradimento. “Non ha fatto nulla per difenderci: sono complici dei gravi crimini commessi dall’Azerbaijan, devono andarsene” accusa Karen Ohanjanyan, fondatore dell’organizzazione per i diritti umani “Helsinky-Iniziative 92”. Non basta la gigantografia dedicata a “Putin uomo dell’anno” piazzata all’ingresso di Stepanakert a rischiarare gli opachi rapporti tra lo “zar” e la famiglia Aliyev. Perché la Russia nonostante sia al fianco dell’Armenia nel Csto - l’alleanza militare che lega alcuni Paesi dell’ex Patto di Varsavia - è allo stesso tempo il principale fornitore di armi dell’Azerbaijan, armamenti da oltre trent’anni usati proprio contro gli armeni. Ma verso Baku scorre anche il fiume di petrolio estratto in Russia e poi triangolato all’Europa aggirando le sanzioni per la guerra in Ucraina. Difficile quindi pensare che Mosca possa rinunciare a un partner così prezioso con cui condivide pure l’amicizia con la Turchia, l’eterna nemica dell’Armenia. Pulizia etnica - “Tutte le azioni intraprese dall’Azerbaijan in questi mesi, dalle manifestazioni dei finti ecoattivisti (tra cui simpatizzanti della formazione terroristica turca dei Lupi Grigi, ndr) all’installazione del posto di blocco illegale a Lachin, sono state pianificate per rendere impossibile la vita alla nostra popolazione: in Nagorno Karabakh è in corso un’autentica operazione di pulizia etnica” denuncia il Ministero degli Esteri armeno. “Negare il diritto alla libera circolazione di persone, veicoli e merci costituisce plausibilmente una discriminazione razziale” ha invece sentenziato il Tribunale internazionale dell’Aja lo scorso 6 luglio, ordinando a Baku l’immediata riapertura della frontiera, intimazione rimasta inascoltata. L’appello all’Onu - L’Armenia si è appellata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché “utilizzi tutti gli strumenti a sua disposizione per garantire l’attuazione degli ordini della Corte internazionale di giustizia, impedire la catastrofe umanitaria e fermare la pulizia etnica in Nagorno Karabakh”. Nette anche le dichiarazioni dell’ambasciatrice delle Repubblica d’Armenia in Italia, Tsovinar Hambardzumyan: “Non è più tollerabile che l’Azerbaijan continui ad ignorare sentenze, risoluzioni e dichiarazioni violando sistematicamente i suoi obblighi internazionali”. Parole condivise dal presidente del Karabakh, Araik Arutyunyan, nella sua ultima lettera al Consiglio europeo: “Non abbiamo ancora perso la speranza della superiorità del diritto internazionale su quelle forze oscure che, in questi giorni bui per l’intera umanità, stanno cercando di commettere il genocidio di un popolo che ama semplicemente la sua libertà”. La libertà di un Paese che dalla sua nascita non ha mai conosciuto un giorno di pace.