Nordio voleva tagliare le intercettazioni, ora è costretto a potenziarle per salvare i processi di mafia di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2023 La norma in Cdm. Ha passato mesi a dire che le intercettazioni in Italia sono troppe e il loro uso va ridotto. Ma il primo provvedimento in materia che il Guardasigilli Carlo Nordio porterà in Consiglio dei ministri andrà nel senso esattamente opposto: estenderà la possibilità per i pm e la polizia giudiziaria di ascoltare le conversazioni altrui. A dar vita al paradosso è stata la decisione di palazzo Chigi di intervenire con una norma ad hoc per neutralizzare i rischi di depotenziamento del contrasto alle mafie insiti in una recente decisione della Cassazione. Vediamo di che si tratta. Con una sentenza depositata il 21 settembre 2022 (la numero 34895) nell’ambito di un procedimento per camorra, la Prima sezione penale della Suprema Corte ha dichiarato illegittime e quindi inutilizzabili alcune intercettazioni disposte secondo il regime più “largo” previsto per i “delitti di criminalità organizzata” rispetto a quelli comuni: indizi di reato “sufficienti” anziché “gravi”, durata di quaranta giorni anziché 15 del decreto autorizzativo, possibilità di piazzare cimici anche dove non si sta compiendo attività criminosa. Il motivo? Il reato contestato dalla Procura non era l’associazione mafiosa (articolo 416-bis del codice penale), ma “solo” un reato (nello specifico un omicidio) ad aggravante mafiosa, cioè commesso “al fine di agevolare” l’organizzazione o “avvalendosi delle condizioni” da essa create (articolo 416-bis.1). Secondo i giudici del Palazzaccio, infatti, “indefettibile (…) per integrare la nozione di delitti di “criminalità organizzata”, è la contestazione di una fattispecie associativa, anche comune”. E quindi, nel caso di specie, l’intercettazione (ambientale) andava autorizzata dal gip secondo il regime classico e più restrittivo. Quella della Prima sezione è una sorta di “interpretazione autentica” delle sentenze precedenti emesse dalle Sezioni unite sullo stesso tema, che finora sono state interpretate in modo discontinuo dai giudici di merito. Perciò l’orientamento restrittivo diventerà probabilmente uno standard e rischierà di far saltare i processi in corso in cui le intercettazioni sono state disposte secondo il criterio considerato valido in precedenza. L’allarme è arrivato (in via riservata) negli scorsi mesi al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, magistrato, dai suoi colleghi delle Direzioni distrettuali antimafia e anche dalla Procura nazionale, guidata da Giovanni Melillo: il pericolo, si è detto, è quello di far saltare il sistema del “doppio binario” che distingue la disciplina dei reati di criminalità organizzata da quella dei reati comuni. Così l’esecutivo si è convinto a metterci una pezza. L’intenzione è stata prima anticipata da Mantovano al Corriere della sera (con l’obiettivo, nemmeno troppo nascosto, di controbilanciare l’improvvida dichiarazione di Nordio sul concorso esterno) e poi confermata dalla stessa Giorgia Meloni: nel Consiglio dei ministri dello scorso 17 luglio la premier “ha sottolineato l’importanza delle implicazioni della sentenza”, che “potrebbe comportare l’inutilizzabilità del materiale probatorio acquisito sulla base dell’interpretazione precedente”, e ha definito “necessaria e urgente l’adozione di una norma” che ne sterilizzi le conseguenze, recitava un comunicato di palazzo Chigi. “Un omicidio commesso avvalendosi di modalità mafiose o commesso al fine di agevolare un’associazione criminale non sarebbe un delitto di criminalità organizzata, secondo la Cassazione. Appare evidente come questa decisione si presti a produrre effetti dirompenti su processi in corso per reati gravissimi”, le parole attribuite a Meloni. L’unico a non rivendicare l’intervento, invece, è stato proprio Nordio, cioè il ministro competente per materia: e forse non è un caso. Nell’arco delle ultime settimane, infatti, il piano d’azione del governo è cambiato in un senso a lui poco gradito. In un primo momento Chigi, “d’intesa con il ministro della Giustizia”, aveva comunicato di voler intervenire con una norma di interpretazione autentica, cioè - per usare le parole di Mantovano - “una definizione di criminalità organizzata attraverso una legge, come fu fatto quarant’anni fa per definire l’associazione mafiosa”. La soluzione adottata invece sarà diversa e passerà, appunto, per un ampliamento della possibilità di intercettare: in uno dei due decreti-legge all’esame del Consiglio dei ministri di lunedì (l’ultimo prima della pausa estiva) ci sarà una norma che estenderà in modo esplicito le regole “speciali” alle indagini su una serie di reati, tra cui i sequestri di persona a scopo di estorsione, il traffico illecito di rifiuti, le fattispecie di terrorismo e, ovviamente, quelle ad aggravante mafiosa. Insomma, il Guardasigilli, grande fustigatore degli ascolti telefonici, non è ancora riuscito a ridurne la quantità. Ma in compenso si prepara - suo malgrado - a portare in Cdm il secondo testo in meno di un anno che li estende: il primo, infatti, era il famigerato “decreto Rave” dello scorso ottobre, con cui ha introdotto una nuova fattispecie di reato punita nel massimo con più di cinque anni di carcere. Che quindi consente il ricorso alle intercettazioni. Proprio quelle che per Nordio sono “una barbarie che costa duecento milioni l’anno”. Il ministro Piantedosi: “Controlli più severi per evitare dossieraggi. Bologna strage neofascista” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 7 agosto 2023 Il caso De Angelis, la sfida migratoria e la stabilità economica: “Non sono allarmato e non credo all’autunno caldo. Il Paese è in salute”. La rivendicazione d’innocenza a nome dei condannati per la strage di Bologna da parte di Marcello De Angelis, responsabile della comunicazione istituzionale della Regione Lazio, ha nuovamente incendiato la polemica sull’attentato neofascista del 2 agosto 1980. Ma il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi non vuole entrare in questa nuova disputa. Anche lei è stato criticato perché nel giorno dell’anniversario il presidente Mattarella ha parlato di strage neofascista e lei no... “Ho più volte detto pubblicamente che la matrice accertata è quella riferita esclusivamente alla verità giudiziaria, che ci ha consegnato una responsabilità incontrovertibile di personaggi militanti nel terrorismo neofascista di quegli anni. Ho fatto chiaramente riferimento alla verità giudiziaria. Ogni strumentale polemica su questo argomento è opera di chi pretende di avere l’esclusiva dell’indignazione rispetto a una delle pagine più dolorose e vergognose della nostra storia. Ognuno di noi ha una storia pluridecennale che parla da sé”. Secondo il capo dello Stato si deve ancora cercare la verità... “Ci sono dei processi in corso con l’obiettivo di completare il quadro dei depistaggi, delle complicità e di eventuali mandanti. Ogni ulteriore operazione tendente ad eliminare ogni residua zona d’ombra è utile e opportuna. Per quanto di nostra competenza, al Viminale abbiamo desecretato decine di migliaia di documenti riservati, tutto il materiale relativo agli anni del terrorismo. Ogni sforzo possibile per giungere alla definizione completa del mosaico deve essere intrapreso. Lo dobbiamo alle vittime e ai loro familiari”. La procura di Perugia accusa un finanziere di aver effettuato migliaia di accessi abusivi. Anche lei ipotizza una centrale di dossieraggio? “Sono certo che i magistrati andranno fino in fondo per far luce sulla vicenda. Un’attività di dossieraggio finalizzata al condizionamento della vita politica, se confermata, sarebbe un’inaccettabile attività di destabilizzazione. Un’azione molto grave, tanto più se portata avanti da servitori infedeli dello Stato. Su questo, è auspicabile soprattutto l’unità e la compattezza da parte di tutte le forze politiche e sociali. Il presunto tentativo di indebolire sul nascere il governo Meloni ricorrendo al dossieraggio non è andato a buon fine ma il mancato raggiungimento dell’obiettivo non attenua la gravità dei fatti, laddove vengano confermati”. Il ministro Crosetto ha denunciato e parla di tentativi di attacco alla democrazia... “Voglio esprimere la mia piena solidarietà personale a Guido Crosetto. Conoscendone la tempra, sono certo che non sarà stato minimamente scalfito da questa vicenda, per quanto molto inquietante”. Sono necessari maggiori sistemi di controllo? “I meccanismi di verifica e tracciamento dell’utilizzo delle informazioni contenute in importanti banche dati che sono a disposizione degli apparati dello Stato sono in ogni caso efficaci. La stessa vicenda di cui parliamo sembra dimostrare che è impossibile non lasciare traccia di accessi a queste informazioni. Ma è importante capire cosa abbia motivato questi accessi e che tipo di utilizzo ne è stato fatto. Più in generale, probabilmente una maggior garanzia potrebbe derivare da un rafforzamento della prevenzione per l’utilizzo corretto di informazioni sensibili”. Come? “Penso ad un controllo regolatorio più forte, ove possibile anche da parte di autorità indipendenti, anche già esistenti. E andrà fatta una riflessione sulla opportunità di una riscrittura di alcune regole, come ad esempio la limitazione temporale di mansioni e incarichi di particolare sensibilità, garantendone una maggiore rotazione”. Teme che in vista delle elezioni europee ci possano essere intrusioni a fini politici? “Lo escludo. Saranno gli elettori a decidere chi votare e lo faranno esclusivamente sulla base di programmi e candidature. L’intelligenza e la maturità degli italiani sono più forti di qualsiasi tentativo di indebito condizionamento”. Ieri c’è stato un nuovo naufragio e gli sbarchi che avevate promesso di fermare sono raddoppiati rispetto al 2022. Cosa pensate di fare? “Il sistema dell’accoglienza continua ad essere rafforzato grazie alle procedure derogatorie che ci sono consentite dal decreto legge approvato a Cutro e dalla dichiarazione dello stato di emergenza. La capacità dei centri di primissima accoglienza è stata aumentata di quasi 1.500 posti, altri 2.000 si aggiungeranno nelle prossime settimane. Stiamo operando per ampliare la potenzialità complessiva dei centri per il rimpatrio, anche intervenendo su quelli devastati dagli stessi ospiti. Stiamo gestendo una pressione epocale. Ma è evidente che l’obiettivo a cui tendiamo è bloccare le partenze. Ed è un obiettivo raggiungibile solo con iniziative di medio e lungo periodo ma che portano a soluzioni stabili e durature. Ci vorrà del tempo ma ci riusciremo. Anche grazie agli accordi di rafforzamento della cooperazione con i Paesi di partenza”. Lei si fida della Tunisia? “La Tunisia dall’inizio dell’anno ha impedito le partenze di oltre 30 mila migranti irregolari e sta conducendo una dura battaglia contro i trafficanti. Questo ha consentito l’avvio di un proficuo percorso di collaborazione non solo con l’Italia ma anche con l’Unione Europea. È un partner fondamentale con cui vogliamo e dobbiamo lavorare sempre meglio”. Crede che l’Europa aiuterà davvero l’Italia? “È interesse di tutti. Grazie all’azione internazionale del governo Meloni il tema migratorio è diventato prioritario. Per molto tempo si è pensato di scaricare il problema sui Paesi di primo ingresso come l’Italia. Ora non è più così. Siamo riusciti a suscitare un forte impegno delle istituzioni europee. C’è la consapevolezza di lavorare per un approccio complessivo con gli Stati di partenza e di transito per arrivare a un sistema di ingressi che preveda esclusivamente canali regolari, sicuri e pianificati. Il “Patto” sottoscritto nel Consiglio dei ministri dell’Interno europei del giugno scorso va in questa direzione, proponendosi di riformare regolamentazioni storiche europee oramai superate come quella di Dublino”. L’Inps ha comunicato la sospensione del reddito di cittadinanza con un sms. Così non si contribuisce ad alzare la tensione? “La modifica della misura era ampiamente nota da mesi, così come ampiamente noti sono gli effetti distorsivi del reddito di cittadinanza su un’ampia fascia dei percettori. Il governo non ha mai fatto mistero di ritenere che la lotta alla povertà debba essere condotta incentivando la realizzazione delle opportunità di lavoro, non delle alternative allo stesso. Monitoreremo gli effetti delle nuove misure e saremo sempre pronti a intervenire dalla parte di chi vive condizioni di difficoltà”. L’opposizione accusa il governo di non aiutare i poveri... “Che nel dibattito politico ci possano essere posizioni anche fortemente critiche è fisiologico e fa parte della normale dialettica democratica. Ma sono certo che questo avverrà sempre con senso di responsabilità da parte di tutte le forze politiche e sociali”. Prezzi alle stelle, aiuti al palo, disagio sociale in crescita. Teme un autunno di manifestazioni? “Le segnalo che i dati economici restituiscono l’immagine di un’Italia come un Paese in condizione di salute migliore di tanti altri. L’inflazione sta continuando a mostrare una dinamica discendente, riducendo il differenziale tra l’Italia e i Paesi euro. Le condizioni del mercato del lavoro sono molto favorevoli. È confermato il trend di crescita del numero degli occupati che riguarda in maniera particolare la fascia tra i 25 e i 34 anni. Il settore turistico presenta numeri record nei primi sette mesi del 2023 e il numero delle presenze, anche di stranieri, supera i livelli del 2019, anno pre pandemico. Non vedo perché debba prevalere la sfiducia rispetto a dati estremamente positivi anche perché il governo ha già messo in campo importanti iniziative per investire sui nostri asset strategici”. Gli ipocriti dello sputtanamento. L’inchiesta di Perugia, tra dossieraggio e fango legale di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 agosto 2023 Il vero dramma del meccanismo che emerge dall’indagine della procura umbra è questo: la possibilità che venga confermato che è del tutto legale avere una giustizia malata, tarata per entrare discrezionalmente nella vita degli altri. L’indagine aperta dalla procura di Perugia sui presunti dossieraggi illeciti realizzati da un ufficiale della Guardia di Finanza per lungo tempo in servizio alla Direzione nazionale antimafia offre spunti di riflessione interessanti in entrambi gli scenari possibili. Sia nel caso in cui l’indagine dovesse illuminare atti illeciti. Sia nel caso in cui l’indagine dovesse certificare atti perfettamente legali. Nel primo caso, ci troveremmo di fronte a un accesso abusivo a sistemi informatici da parte di un ufficiale della Guardia di Finanza. Nel secondo caso, ci troveremmo invece di fronte alla certificazione di un meccanismo tanto legale quanto perverso: la possibilità cioè di poter avere nel nostro sistema giudiziario delle figure perfettamente legittimate a spiare in modo del tutto discrezionale nelle vite degli altri accumulando con il metodo della pesca a strascico informazioni su informazioni senza doverne dare conto a nessuno. Sul Corriere della Sera Giovanni Bianconi ha raccontato che l’ufficiale indagato si è difeso spiegando di essersi attenuto, “in maniera del tutto lecita”, a un protocollo instaurato all’interno della Direzione nazionale antimafia (sosteneva di essere autorizzato, dice Bianconi riportando le parole dell’ufficiale, a muoversi liberamente tra le varie banche dati sulla base di spunti investigativi individuati anche di propria iniziativa). E sulla Verità Giacomo Amadori ha aggiunto che l’ufficiale incriminato lavorava seguendo regole che gli consentivano di accedere liberamente alle banche dati senza dover compilare o firmare moduli di richiesta di autorizzazione. Nel momento in cui scriviamo non sappiamo ovviamente se le accuse nei confronti dell’ufficiale incriminato si riveleranno solide (non è ancora chiaro se l’indagine sia stata spostata da Roma a Perugia, procura competente per le indagini sui magistrati di Roma, a causa della presenza nell’inchiesta di un magistrato complice del presunto dossieraggio oppure vittima). Ma sappiamo che, nel caso in cui la prassi descritta dovesse confermarsi lecita, non sarebbe un fulmine a ciel sereno. Sarebbe purtroppo solo la conferma di un metodo patologico presente nel nostro sistema giudiziario. E il copione è sempre lo stesso. Attori del circo mediatico che a vari livelli e senza dover rendere conto a nessuno hanno accesso a un numero spropositato di dati sensibili che possono utilizzare arbitrariamente per sputtanare il prossimo senza che magari vi sia la presenza di un reato a giustificare né le ricerche né la diffusione delle informazioni. Si individua un teorema, poi si cercano le prove e se non si trovano le prove si passano le informazioni agli stessi giornali che dopo averne tratto beneficio editoriale denunciano lo scandalo. Il circo mediatico funziona così, in una logica demoniaca anche perché il più delle volte il sistema adottato è perfettamente legale. E funziona così purtroppo, da anni, anche la Procura nazionale antimafia: un organismo non operativo, che non può portare avanti iniziative esterne, che non è mai sottoposto al controllo di un giudice terzo e che essendo sottoposto solo a controlli interni può facilmente accumulare dati processuali ed extraprocessuali infiniti. Il meccanismo perverso che si trova dunque alla base dell’indagine aperta dalla procura di Perugia è lo stesso che alimenta gli ingranaggi incancreniti della giustizia italiana. E il dramma di questo meccanismo, che alimenta ogni giorno il nostro circo mediatico-giudiziario, non è la possibilità che risulti illegale ma è la possibilità che ancora una volta venga confermato che sia perfettamente legale avere una giustizia capace di occuparsi discrezionalmente e senza controllo della vita degli altri. Nipote di una deportata vi dico: il carcere è il nostro nazismo di Rachele Cicogna L’Unità, 7 agosto 2023 Svolgo da anni l’attività di testimone in qualità di nipote di una sopravvissuta di Auschwitz. Mia nonna, Lala Lubelska, polacca di Lodz è stata salvata da mio nonno, Giancarlo Cicogna, di origine veneziana. Nel 1946, nel piccolo paesino del Polesine in cui abitavano, arrivò una signora tedesca in cerca delle spoglie del figlio soldato deceduto; in municipio nessuno parlava tedesco e chiesero a mia nonna che il tedesco lo aveva imparato prima nel ghetto e poi nei campi, se poteva aiutare questa madre. In un primo momento la nonna rifiutò. Aiutare la madre di soldato tedesco? Poi decise di ospitarla a casa sua, di cercare con lei le spoglie e siccome non trovarono nulla, la invitò per l’anno successivo per una breve villeggiatura. Era il 1946 e non aveva perdonato, non aveva dimenticato, era “solo” una donna libera che aveva deciso di aiutare una madre. Al fine di non banalizzare quello che per me è un operato di valore, mi impegno da sempre affinché tutte le persecuzioni abbiamo pari dignità. È difficile, credetemi, in uno stato che ha deciso di svuotare il valore della memoria. È difficile in uno Stato in cui si vuole parlare di memoria ma mai di verità. Ogni anno, in occasione del 27 gennaio, ascolto quanto più di mesto la macelleria politica riesca a produrre. Per non dimenticare. Perché la storia non si ripeta. Sappiamo tutti che la storia non si ripete con gli stessi contorni di un secolo fa, ne trova altri e li adegua alla società che percorre. Oggi, dopo 80 anni da ciò che ha vissuto la mia famiglia, la persecuzione che merita la medesima dignità e sulla quale vorrei venissero accesi i giusti riflettori, è quella che subiscono i detenuti. Prima e dopo la detenzione. Sembra una bestemmia, vero? Nessuno tocchi l’olocausto. Mi spiace, ma quello che un tempo si chiamava nazismo, ora si chiama Stato. I nuovi perseguitati sono coloro che vivono in galera e nella galera che li aspetta fuori. La maggior parte dei suicidi dei detenuti si consuma alla vigilia della cosiddetta libertà. Ci siamo mai chiesti perché? Non è che forse il nostro Stato ha appaltato al carcere tutti i nodi che non riesce a sbrogliare? Dalla droga alla immigrazione, dal furto alla pedofilia. Che poi, parlare di suicidi è quasi ridicolo, ricordiamoci tutti i decessi da accertare: li hanno suicidati. Della galera fuori dal carcere siamo tutti conniventi. È la stessa connivenza dei negazionisti dell’Olocausto. I commenti, l’atteggiamento di emarginazione, il pregiudizio, il giudizio … e gli ignavi, che forse sono peggiori di tutti. Su questo è il mio focus, sui perseguitati di oggi, che magari, non essendo ricchi o essendo semplicemente “normali”, da perseguitati sono semplicemente diventati ultimi. Un anno, mia nonna venne invitata a inaugurare una piazza dedicata ai perseguitati della Shoah. In quell’occasione, poco distante da lei, vi era un banchetto di giovani missini che raccoglievano le firme per poter intitolare una via a Norma Cossetto. Nonna venne portata davanti a queste persone con l’intento di farle vergognare ma lei disse loro di proseguire a lottare “perché io sono viva, lei è morta perseguitata”. Questa è stata la mia grande eredità: la memoria senza le bandiere, il riconoscere cosa sia una persecuzione costruita, legalizzata, metodica e sedimentata nelle nostre coscienze. Quando le carceri chiuderanno in favore di soluzioni alternative, quando butteremo via le nostre derive forcaiole e giustizialiste si apriranno nuovamente quei cancelli che ben riconosciamo nelle locandine, nel film e nei libri. Liguria. “Vasi comunicanti”, progetto per l’inclusione di persone sottoposte a provvedimenti penali di Stefano Rissetto telenord.it, 7 agosto 2023 Il programma triennale prevede un finanziamento statale di un milione e 800mila euro con un cofinanziamento di 540mila euro da parte della Regione. Grazie all’adesione di Regione Liguria ai finanziamenti statali della Cassa delle Ammende del ministero della Giustizia, prende il via la manifestazione d’interesse per la coprogettazione di “Vasi comunicanti: dall’esecuzione penale alla rete territoriale del lavoro e del benessere sociale” per la durata di tre anni. Scopo della coprogettazione, indirizzata agli enti del Terzo Settore presenti sul territorio regionale, è quello di promuovere una visione condivisa un “Ponte tra il dentro e il fuori” tramite sportelli per l’inclusione attiva delle persone sottoposte a provvedimenti penali, sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari, favorendo il collegamento con i servizi territoriali, l’accesso alle misure alternative alla detenzione e l’inclusione sociale. Tra le azioni previste, fondamentali sono i percorsi di inclusione socio-lavorativa e attivazione sociale (orientamento formativo, l’accoglienza abitativa e il sostegno alle capacità genitoriali). Prevista anche l’attivazione di azioni di sensibilizzazione della cittadinanza alla giustizia riparativa, mediazione penale e supporto alle vittime di reato. Il programma si sviluppa su tre anni, con un finanziamento di un milione e 800mila euro (600mila euro per ogni annualità) assegnato alla Liguria dalla Cassa delle Ammende, accompagnato con un cofinanziamento di 540 mila euro da parte della Regione. “Vasi comunicanti è un progetto completo, che punta ad armonizzare e rendere più efficienti le misure e le strutture che si occupano del reinserimento sociale delle persone che hanno procedimenti penali - commenta l’assessore regionale alle Politiche sociali e Terzo settore Giacomo Giampedrone - La Liguria, come dimostra il fatto di aver ottenuto il finanziamento della Cassa delle Ammende, può contare su una vasta esperienza su questi temi: pensiamo al decennale del progetto ‘la Rete che Unisce’, che ha come destinatari persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e prevede, ad esempio, la formazione professionale e l’assistenza ai loro nuclei familiari, oltre a servizi pubblici per il sostegno alle vittime di reato, per la giustizia riparativa e la mediazione penale”. “L’auspicio - prosegue l’assessore - è che arrivino tante manifestazioni di interesse da parte del mondo del Terzo Settore ligure, in modo da poter lavorare insieme per potenziare l’assistenza e la qualità inclusiva in questo campo, così delicato e fondamentale per ridurre la recidiva”. Caratteristica principale della misura è proprio la messa a punto di innovativi sportelli, chiamati “Spin Plus”, che faranno da punti di riferimento per la presa in carico di adulti, minorenni e madri con figli al seguito. Divisi in tre categorie (per le iniziative all’interno degli istituti di pena, per quelle di inclusione sociale all’esterno e quelle dedicate il sostegno alle vittime di reato), gli sportelli si avvarranno di personale qualificato, a cominciare dal nuovo profilo del Mediatore di Rete e di comunità, e si occuperanno delle persone sottoposte a procedimenti penali sostenendole in percorsi inclusivi, formativi e lavorativi, oltre ad offrire assistenza e opportunità di giustizia riparativa alle vittime di reato. Il progetto è stato elaborato grazie alla collaborazione tra il Prap (Provveditorato Regionale dell’amministrazione penitenziaria), l’UIEPE (Ufficio inter-distrettuale esecuzione penale esterna) e il CGM (Centro giustizia minorile). L’avviso pubblico per la co progettazione, completo di tutti i requisiti necessari per partecipare e i dettagli della manifestazione di interesse, sarà pubblicato sul sito istituzionale www.regione.liguria.it. Lazio. Medici in fuga dal carcere di Antonio Sbraga Il Tempo, 7 agosto 2023 I camici bianchi non accettano la sede. Deserti i bandi per l’assunzione di nuovo personale. Per gli operatori sono luoghi di lavoro troppo disagiati. A rischio anche i servizi essenziali oltre a quelli specialistici. È l’unica fuga dal carcere che i penitenziari del Lazio non riescono a fermare: quella dei medici. I camici bianchi, infatti, mandano “in bianco” anche i bandi di concorso per le strutture sanitarie negli istituti di pena, sempre più carenti di operatori. “Abbiamo constatato che le Asl - ha detto il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, nel corso di un’audizione in Consiglio regionale - hanno difficoltà serie a garantire servizi essenziali dentro gli istituti, anche nella rete della medicina base, non solo in quella specialistica. Occorre capire come si possa incentivare la presenza di personale, riconoscendo che la prestazione di servizio sanitario all’interno di un istituto di pena è obiettivamente la prestazione in una sede disagiata e che quindi bisognerà trovare degli incentivi. Molti giovani se possono scegliere se fare il medico o l’infermiere dentro un carcere o farlo sul territorio ovviamente scelgono di farlo sul territorio”. E tutti i direttori generali delle Asl hanno confermato la diagnosi del garante: “C’è un forte problema di sovraffollamento e di carenza del personale sanitario: tutte le manifestazioni di interesse sono andate deserte. Stiamo lavorando molto anche sulla telemedicina - ha detto il commissario straordinario dell’Asl Roma 1, Giuseppe Quintavalle - La prima medicina è già in fase di ristrutturazione, poi passeremo alla seconda. Regina Coeli ha 78 posti letto, le 2 camere operatorie saranno in funzione da settembre”. Anche Cristina Matranga, direttrice generale dell’Asl Roma 4, ha ribadito le “difficoltà a far accettare al personale la sede carcere, ma anche difficoltà ad avere equine stabili. Abbiamo provato a introdurre un principio di rotazione del personale, ma in questo caso c’è resistenza da parte della direzione del carcere. Abbiamo avviato il servizio di telemedicina e teleassistenza”. Parzialmente attivata pure “nel carcere di Viterbo, ma non è possibile implementare altri ambiti per problemi legati alla fibra ottica”, ha lamentato l’Asl denunciando che “gli avvisi per l’assunzione di nuovo personale sono andati deserti”. Come a Rieti: “Non si trovano medici penitenziari, preferiscono andare a fare la guardia medica”. Per Francesco Marchitelli, commissario straordinario dell’Asl Roma 6, “il principale problema è l’assistenza psichiatrica: abbiamo una sola professionista, il bando che abbiamo fatto è andato deserto”. Una situazione analoga a quella denunciata dall’Asl di Latina: “Deserti i bandi per nuovo personale, mandiamo psichiatri a rotazione dal Centro salute mentale di Latina”. Pure a Frosinone c’è “carenza di personale, non solo sanitario ma anche di polizia penitenziaria”. Soprattutto “nel nucleo traduzioni, quello preposto ad accompagnare i detenuti alle visite specialistiche all’esterno”. Un’inadeguatezza che, secondo il garante, fa il paio con “la carenza di personale medico e paramedico all’interno degli istituti penitenziari”. Dove finisce per saltare un terzo di visite ed esami prenotati per i detenuti: “Il 35 per cento di procedure inevase per carenza di personale”. Sono queste, ha concluso il garante, “le 3 criticità fondamentali, aggravate dal sovraffollamento che interessa la maggior parte degli istituti penitenziari del Lazio”. Milano. Aperto anche in agosto lo “Sportello vittime” a palazzo di Giustizia di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 7 agosto 2023 È aperto da metà maggio. Nonostante la città si svuoti, non chiude nemmeno ad agosto. Lo “sportello vittime” a palazzo di Giustizia, il secondo presidio dopo l’inaugurazione a fine 2022 di uno spazio identico nel commissariato della polizia locale di via Cittadini, in queste settimane ha accolto cinque persone. Quattro donne e un uomo, vittime di maltrattamenti, violenza domestica e, in un caso, estorsione (oltre una ventina le persone che si sono rivolte al servizio considerando anche via Cittadini). Lo spazio, creato in una stanza al piano terra del palazzo di Giustizia, ospita educatrici del Comune e psicologi. Ogni lunedì e giovedì si può andare spontaneamente oppure dietro suggerimento dei servizi sociali. La prima funzione è quella dell’accoglienza. Un supporto per ascoltare l’esperienza di chi chiede aiuto e decidere come e dove orientare la vittima in base a quello che ha subito. È prevista anche una forma di ascolto e sostegno psicologico. Le storie delle cinque persone che finora hanno bussato alla porta dello sportello, in larga parte si assomigliano: hanno raccontato di violenze e maltrattamenti tra le mura di casa. In via Cittadini, c’è chi si è presentato perché vittima di stalking, lesioni, aggressioni, minacce, percosse. In un caso, ha chiesto aiuto anche la vittima di una truffa sentimentale, particolare tipo di raggiro che ha come obiettivo l’estorsione di denaro. Al di là dei numeri, ogni persona raggiunta è una conquista, anche perché spesso, per chi si bussa a queste porte, vuol dire prendere coscienza di essere una vittima, superare la vergogna, riuscire a chiedere aiuto. L’iniziativa “Un Futuro in Comune” è finanziata dal ministero della Giustizia, vede come capofila la Regione e come partner il Comune assieme a enti del terzo settore, come le cooperative Dike, Cipm, A&I. Da quasi un anno, il progetto riguarda anche tre scuole milanesi in particolare per le vittime di bullismo. Palermo. Per 50 anni ha difeso i diritti dei detenuti, è morta Giovanna Gioia palermotoday.it, 7 agosto 2023 La professoressa - volontaria per mezzo secolo negli istituti di pena palermitani - è stata ricordata da Rita Barbera con parole cariche d’affetto È morta ieri la professoressa Giovanna Gioia, volontaria per 50 anni negli istituti di pena palermitani, ma soprattutto all’Ucciardone. Rita Barbera, candidata sindaco un anno fa a Palermo ed ex direttrice dell’Ucciardone e del Pagliarelli, ha voluto ricordarla con parole cariche di affetto: “Se ne è andata una grande donna ha detto. È stata per me un riferimento di aiuto prezioso nella mia funzione alla direzione degli istituti. Non saprei neanche quantificare quanti detenuti hanno potuto fare riferimento a lei come sostegno alla loro sofferenza, sia materialmente che psicologicamente”. Sempre presente, con il buon tempo ma anche con la bufera o il caldo asfissiante - ha detto Barbera - Giovanna Gioia ha organizzato nei tanti anni di attività, occasioni culturali (come corsi di lettura comprensione di testi e alfabetizzazione) che lei pensava potessero essere strumento di libertà, ma anche aiuti materiali come la fornitura di beni di necessità per i detenuti più indigenti. Ha perorato le cause dei detenuti più sprovveduti a sostenere le ragioni dei propri bisogni, ancorché titolari dei relativi diritti. Insomma, un raro esempio di volontariato puro, quello silenzioso che non cerca protagonismo e referenzialità. Grazie Giovanna a nome di tutto il mondo del carcere. Ti ricorderemo sempre” Bologna. L’ex detenuto che “ripara” la sua anima aggiustando biciclette di Federica Nannetti Corriere della Sera, 7 agosto 2023 Gianfranco Marcelli ha dato vita all’associazione “Chiusi Fuori” dieci anni fa: “L’obiettivo è ridare la libertà a chi come me è uscito di prigione, combattendo gli atti vandalici”. Riparare è diventata la sua missione di vita e non solo nel senso di rimettere a posto un oggetto rotto o malfunzionante. L’obiettivo è quello di ovviare a un errore e, ancora di più, di difendere le persone e i loro beni da un pericolo o da un disagio sociale. Sono già passati dieci anni da quando Gianfranco Marcelli, ex detenuto per alcune rapine in banca e meglio conosciuto come Ribelli per il suo carattere, ha fondato l’associazione Chiusi Fuori di Bologna. Una realtà che vuole riunire e ridare la vera libertà a chi, come lui, è uscito di prigione. Riparare l’anima attraverso il lavoro e la collaborazione è la missione dell’associazione. Proprio per questo motivo Marcelli e i suoi compagni rimettono a posto bici, panchine e persino muri, ripulendoli da graffiti invadenti. La ciclofficina - “Da gennaio a luglio saranno passati per Chiusi Fuori un’ottantina di persone”, ha raccontato lui che, insieme ad altri quattro ex detenuti, ha fondato l’associazione mettendo fuori 250 euro a testa. E sono ancora qui. “La ciclofficina va alla grande - ha poi aggiunto -, cambiamo e sistemiamo un po’ di tutto con gli attrezzi che abbiamo”, non manca proprio nulla. Nemmeno la clientela, che arriva un po’ dappertutto: “Il Comune fornisce a noi e ad altre associazioni le biciclette da sistemare - ha continuato Marcelli - ma non è di certo un modo per arricchirsi. C’è anche chi viene con la sua bici e chiede di sistemarla o, addirittura, chi semplicemente di utilizzare gli attrezzi. Spesso arrivano anche ragazze a chiedere di potersi aggiustare un pezzo: sono rimasto meravigliato le prime volte, ma saranno quattro o cinque mesi che questa cosa è esplosa. È un bel segnale”. Per avere qualche strumento, nemmeno un euro viene chiesto: “Perché dovrei? Per aver fatto gonfiare una ruota? Dovrei chiedere 30 centesimi?”. Nemmeno pensarci. La lotta al vandalismo - Sempre loro, un po’ a turno, in questi giorni stanno riparando anche le panchine di alcuni parchi della città e lo stesso vale per la pulizia dei muri. La chiamano lotta al vandalismo grafico: “È come fornire ogni volta un foglio bianco - dice Marcelli -. Spesso capita che un muro appena pulito torni a essere sporcato e violato da graffiti, ma non per questo ci arrendiamo”. Si può dire che Chiusi Fuori abbia saputo riparare anche il tessuto urbano del quartiere intorno a via San Leonardo, tanto che la comunità ne è “sempre più riconoscente - aggiunge Marcelli -, ci ringrazia per esserci e qualcuno ci indica pure come destinatario per i pacchi Amazon”. Allo stesso tempo Gianfranco ha riconquistato anche il senso della sua libertà: “Ci ho messo un po’ a capire di essere davvero libero una volta uscito dal carcere. Me ne sono reso conto un giorno sotto la pioggia, uscito dalla biblioteca Salaborsa perché mi sono potuto bagnare”. La lettura l’ha scoperta in prigione e ora è pane quotidiano: si ritaglia sempre un po’ di tempo, magari in camper: “Sono intenzionato a lasciare casa, non ne posso più dell’affitto - ha concluso -: vorrei andare a vivere in camper, così da poter organizzare anche qualche viaggio con i ragazzi di Chiusi Fuori”. Cosenza. L’appello della Camera Penale: “Via i pannelli di plastica dalle finestre del carcere” cosenzachannel.it, 7 agosto 2023 La presenza di barriere cagionerebbe un danno alla salute di chi si trova all’interno della Casa circondariale. Un appello che arriva dalla Camera Penale di Cosenza “Luigi Gullo” e indirizzata al direttore della Casa circondariale di Cosenza, al Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, al Direttore generale del DAP e al Garante regionale dei detenuti. “Nella Casa circondariale di Cosenza - scrivono gli avvocati - le finestre di determinate celle sono schermate da una sorta di muro in plastica, un enorme pannello opaco che - non solo annulla anche solo il miraggio dell’esistenza di un mondo esterno ma- amplifica in maniera terrificante e insopportabile la torrida temperatura estiva e impedisce la corretta aerazione, così incidendo sulla salubrità dei locali. Lo abbiamo segnalato, con il nostro “Osservatorio Carcere” al Garante regionale dei detenuti, che, con l’allegata nota prot. 619/U del 24 maggio 2023, ne ha confermato la persistente attualità ed evidenziato ulteriori precarietà. Si verte in tema di diritto alla salute, che deve essere tutelato efficacemente, senza ritardo. Chiediamo di conoscere le ragioni di questo trattamento penitenziario che ingenera sofferenza alla popolazione carceraria e rivolgiamo istanza al Direttore della Casa circondariale di Cosenza. Chiediamo al Direttore generale del DAP, al Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e al Direttore della Casa circondariale di Cosenza, di essere autorizzati, nei termini previsti dall’articolo 117 dell’Ordinamento penitenziario e con le modalità che indicherà l’Amministrazione, Camera Penale di Cosenza “avvocato Fausto Gullo”, all’accesso nella struttura penitenziaria di Cosenza, per verificare l’attuale stato dei luoghi sopra descritti. Chiediamo al Garante regionale dei detenuti la possibilità di supportarci in questa iniziativa”. Pistoia. Infermieri nelle carceri, Opi denuncia le condizioni. Stupore da Santa Caterina di Samantha Ferri La Nazione, 7 agosto 2023 Non solo Firenze, l’ordine alza la voce anche su Pistoia: “In 5 per 50 detenuti”. La replica dalla Casa circondariale: “Qui collaborazione e reciproco rispetto”. L’ordine delle professioni infermieristiche interprovinciale di Firenze-Pistoia punta il dito sulle condizioni di lavoro degli istituti penitenziari locali. Le lamentele spaziano dai risicati organici degli infermieri all’elevato rischio di aggressioni da parte dei detenuti, passando per tecnologie quasi assenti, documentazione ancora cartacea e software datati. E stando all’Opi le cose non vanno bene neanche nella casa circondariale di Pistoia, “che conta solo cinque infermieri per circa 50 detenuti”. “Ci segnalano che le attività sanitarie sono condizionate dalla disponibilità del personale di polizia penitenziaria e dalla sua organizzazione lavorativa - commenta il presidente dell’Ordine, David Nucci -. Un modo di procedere inaccettabile per la nostra categoria professionale”. Le denunce di mancanza di personale e carichi eccessivi di lavoro sono il comune denominatore in tutti gli istituti penitenziari. “Chiediamo maggiore tutela dei diritti dei nostri professionisti a lavoro nelle carceri - sottolineano da Opi - perché non ci sono infermieri né pazienti di serie A e B: negli ospedali, come in altre strutture, occorre operare nelle condizioni di lavoro garantite dalla legge, a vantaggio non solo della propria qualità di vita, ma anche dei detenuti stessi e di tutta la collettività”. Il carcere di Santa Caterina in Brana recepisce con perplessità la denuncia dell’Opi. “La casa circondariale di Pistoia non presenta le criticità che possono avere altri istituti toscani - specifica la responsabile sanitaria del carcere di via dei Macelli, Matelda Balestra -: date le dimensioni contenute dalla casa circondariale, il personale, sanitario e non, conosce tutti i detenuti e nella maggioranza dei casi vige il rispetto reciproco”. Certo le difficoltà, in particolare per reperire appunto il personale infermieristico, non sono mancate. “Al momento possiamo contare su sei infermieri e un oss - aggiunge -. In alcuni periodi abbiamo avuto poco personale sanitario ma subito abbiamo cercato di reclutarne di nuovo. “Per quanto riguarda invece il rischio di aggressioni non ci sono casi particolari da sottolineare, anzi, tutto il personale sanitario è benvoluto. Ogni mattina lavoro a fianco del personale infermieristico per la somministrazione dei farmaci e il clima è di assoluta collaborazione”. Nel carcere pistoiese il personale infermieristico fa sì uso di documentazione cartacea ma limitatamente alla terapia di somministrazione dei farmaci. “È in corso di valutazione la possibile introduzione del tablet anche per la somministrazione della terapia farmacologica, - sottolinea la responsabile sanitaria -. Per tutte le altre operazioni utilizziamo la cartella informatizzata e lavoriamo in rete da pc”. Infine la presenza di personale di polizia per alcune delle attività sanitarie serve a garantire maggior sicurezza degli operatori. “Ad esempio - conclude Balestra - tutti i farmaci, compreso il metadone, vengono somministrati ai detenuti alla presenza del personale di polizia, per ovvi motivi di salvaguardia e tutela di tutti gli operatori presenti”. Ivrea (To). Il film di Milani racconta il lavoro in carcere come occasione di riscatto La Sentinella del Canavese, 7 agosto 2023 Alla serata interverranno l’Associazione Volontari penitenziari Tino Beiletti e Luca Vonella, regista dello spettacolo teatrale Fahrenheit 451, realizzato con i detenuti del carcere eporediese. Continua la stagione 2023 di Ivreaestate, la rassegna estiva eporediese organizzata dall’associazione culturale Rosse Torri, presieduta da Simonetta Valenti, che lunedì 7, alle 21.30, nel cortile del Museo Garda proporrà il film di Riccardo Milani Grazie ragazzi, con Antonio Albanese, Sonia Bergamasco, Vinicio Marchioni e Giacomo Ferrara. È la storia di Antonio Cerami, un attore di teatro che da tre anni non calca il palcoscenico e doppia film porno per arrivare a fine mese. “Il suo amico Michele - raccontano le note di presentazione - che ha un lavoro stabile presso un piccolo teatro romano, gli trova un incarico insolito: sei giorni di lezioni di recitazione presso un carcere di Velletri allo scopo di far mettere in scena ai detenuti una serie di favole. È un progetto finanziato dal Ministero cui la direttrice del carcere, Laura, ha acconsentito senza troppo entusiasmo”. “A entusiasmarsi, però - continuano - sarà Antonio, che deciderà di mettere in scena un progetto più grande, Aspettando Godot di Samuel Beckett, perché i detenuti “sanno cosa vuol dire aspettare: non fanno altro”. E così i detenuti lavoreranno per interpretare un testo complesso e impegnativo, con risultati tutti da scoprire”. Alla serata interverranno l’Associazione Volontari penitenziari Tino Beiletti e Luca Vonella, regista dello spettacolo teatrale Fahrenheit 451, realizzato con i detenuti del carcere eporediese. Lo spettacolo, tratto dall’omonimo romanzo di Ray Bradbury, era andato in scena, lo scorso gennaio, all’interno della casa circondariale, allestito da attori della compagnia chivassese Teatro a Canone e da persone detenute a Ivrea, ed era il saggio finale del laboratorio teatrale Leggendo evado, condotto da Anna Fantozzi, che Teatro a Canone aveva realizzato all’interno del carcere. Fahrenheit 451 era stato replicato qualche mese dopo, al Teatro Giacosa, nell’ambito delle iniziative di Ivrea capitale italiana del libro 2022 e aveva riscosso un grandissimo successo. La serata di oggi, dunque, accenderà i riflettori su un tema di strettissima attualità quale è la realtà carceraria con tutto il suo bagaglio di criticità, sia a livello generale, sia locale, nell’ottica di tradurlo in un universo integrato nella città e non ignorato o avulso. Anche lo scorso anno Ivreaestate aveva dedicato alcuni momenti al tema del carcere, avendo, tra i suoi obiettivi, quello di intrattenere e, al contempo, favorire la riflessione su temi di attualità. Biglietti: intero, 6 euro; ridotto, 5 euro. Milano. Noi, Gaber e quella “illogica allegria” che nasce intorno a un canto di Alessandro Cozzi ilsussidiario.net, 7 agosto 2023 Un momento conviviale con i volontari di “Incontro & Presenza”, in carcere a Opera, si trasforma in una inattesa domanda su senso della vita. Gaber cantava “Illogica allegria” nel 1992 (mitica rappresentazione del suo “Teatro Canzone” al Carcano di Milano). E già allora, detto da lui, il testo suscitò meraviglia, apprezzamenti e qualche polemica perché il “guru” si permetteva di dire una cosa quasi scandalosa: che riusciva a star bene in un’Italia dove non molto, invece, andava bene. Ma se all’epoca Gaber fece parlar di sé, immaginiamo di sentire oggi questo canto intonato in un carcere. E immaginiamo che faccia da spunto per una riunione conviviale (!), ovvero un pranzo in cui diversi volontari di Incontro & Presenza e molti detenuti, insieme, si trovino a mangiare, discutendone. Immaginiamo che, dopo aver ascoltato e cantato Gaber e per aggiunta anche Meraviglioso di Modugno (“qualcuno alle mie spalle/ forse un angelo vestito da passante/ mi portò via dicendomi così:/ Meraviglioso, ma come non ti accorgi/ di quanto il mondo sia meraviglioso”), queste persone si mettano, una per volta, a parlarne, ordinatamente intervenendo per dire, comprendere e condividere fino in fondo come il mondo possa essere meraviglioso (in una prigione!) e che nonostante tutto, a scapito di ogni scenario, si possa pescare nel profondo dell’anima di ciascuno un’allegria tanti inaspettata quanto “illogica”, ma non per questo meno autentica. Se riuscissimo a immaginarlo, allora avremo un’idea dell’evento che lo scorso sabato 15 luglio i ragazzi di Incontro & Presenza hanno organizzato a Opera, come ogni anno in estate, invitando a tavola (per mangiare, per cantare, per ragionare, per commentare…) un folto gruppo di “ospiti” del carcere, che li frequentano abitualmente. Un momento bello e intenso, non solo per merito dell’organizzazione accurata e precisa; non tanto perché si sia gustato un pranzo squisito con alimenti che nella dieta carceraria sono solo un sogno, e concluso con un ricco gelato mantecato, altra leccornia rarissima. Non basterebbe nemmeno il clima accogliente e le chiacchiere serene che hanno fatto da premessa e da contorno alle ore in cui si è stati insieme, grazie alle quali si coltiva e cementa quella che è diventata proprio un’autentica amicizia tra i volontari e tanti detenuti, che si conoscono da anni. Tutto questo c’è stato, ed è già moltissimo; in un carcere, poi… Ma in più c’è stata proprio la spinta venuta dalle parole di quel canto. Uno, che veniva per la prima volta, era “incantato” dal clima e dell’ambiente e ha avuto la capacità di accorgersene, dichiarando che era stato trascinato a venire da un compagno che gliene aveva parlato e ora si chiedeva: “Perché io? Perché proprio a me?”. Viveva un’occasione che giudicava straordinaria e non credeva di essersela “meritata”. O come quell’altro che ha detto che l’allegria vera viene solo da un inaspettato incontro, da un qualche evento che cambia la vita, o almeno una sua frazione. O un amico di fede islamica che ha dichiarato che la felicità si trova soltanto in Dio ed è su di Lui che si appoggia. Ancora, uno ha un po’ ricamato sul significato del senso della vita, che c’è, c’è sempre anche quando sembra sfuggire. Infine, quell’habitué di Incontro & Presenza che nel ringraziare per tutto ha detto che avrà anche da scontare una pena lunghissima, ma la presenza dei nuovi amici gli conferma che la vita può davvero essere meravigliosa. Insomma, una realtà, quella di sabato 15, che supera le immaginazioni. Una gioia per chi c’era e per chi aveva lavorato alla preparazione di un incontro che si è rivelato più che prezioso. Anche per questo, ha avuto pieno senso il fatto che in chiusura uno degli “ospiti stabili” di Opera, Giuseppe, valente chitarrista e cantante, abbia chiuso con Gracias a la vida di Violeta Parra: “Grazie alla vita che mi ha dato tanto”. Cantare questo adesso e in queste condizioni (in galera, in un giorno di luglio eccessivamente caldo e afoso, in uno stanzone dove non c’era nemmeno un ventilatore). Qui. Ora. E poi dicono che i miracoli non ci sono più. Se le Camere sono al servizio del Governo di Montesquieu La Stampa, 7 agosto 2023 Si chiude una sessione parlamentare che lascia dietro di sé l’ormai abituale scia di mediocrità, di banalità, di rissosità. E di nostalgia, perché non dirlo? Si chiude con temi e dibattiti d’autore, perché nessuno si illuda sul domani. Gli ultimi fuochi hanno riguardato i temi dell’abbigliamento nelle Camere, delle ferie dei parlamentari, delle indennità. I vitalizi, appena prima. E, per i populo-pauperisti sempre vigili, non conta la consapevolezza contingente del progressivo prosciugamento delle funzioni parlamentari, fino alla scomparsa delle stesse. Nemmeno per un sussulto di autoalutazione: no, è convinzione, quella che il lavoro parlamentare sia un lavoro di braccia, di straordinari, di quantità. Si conclude, questa fase, con una aggressione a un galantuomo, tale Fassino, memore di ben altre stagioni, quelle della rappresentanza come responsabilità di deputati e senatori, vedi l’articolo 67 della Costituzione. Fuoco amico, per di più, il più sgradevole, del nuovo Pd: avrebbe parlato a titolo personale, guarda un po’. Il fuoco più doloroso, quello degli ormai presunti reduci costituzionali. Non dei populisti. Dileguata l’idea della rappresentanza che esaurisce il vero “lavoro” del parlamentare, la funzione. Non si computa con le ore passate sugli scranni, ma permea ogni respiro. Profila una relazione con l’elettore che la lettera della Costituzione ancora sembra pretendere, per come è fortunatamente ancora scritta. Epperò è malauguratamente seviziata. Tranciata, per le angherie trentennali che un manipolo cangiante di capi partito (anche qui, nulla di più lontano dall’art. 49 della Costituzione) riserva a rappresentati senza diritto di scelta, cooptando rappresentanti scelti con il titolo usurpato di una sovranità rapinata. Si conclude una fase, con il concreto rischio che la prossima, o la immediatamente seguente, si rivendichino costituenti. I brividi, se solo si pensa che saranno gli stessi (quelli di ferie, vestiario, vitalizi, soldi) a decidere chi far eleggere direttamente dal popolo (sol che ricordino come si fa). E per fare che cosa. Magari al posto di Sergio Mattarella, o in competizione con la figura nostro Capo dello Stato. In Costituzione. E tutto il contorno. Obiettivo, rafforzare i poteri del governo rispetto a un Parlamento il cui potere legislativo è già integralmente nelle mani del governo, e non è un gioco di parole. Non è importante quante leggi vengano scritte direttamente dal governo: non solo leggi a scadenza (decreti legge, manovre finanziarie, e altro), ma qualsiasi legge ordinaria può essere, a discrezione del governo, manufatta a Palazzo Chigi, lasciando che su di essa le Camere possano l’inchino con reverenza di un voto di fiducia. Perfino le leggi elettorali. Non occorre che gli onorevoli presidenti delle Camere leggano queste poche righe per sapere come stanno le cose. E nemmeno come porvi rimedio. Ci sarà tempo per riparlarne. Lo stillicidio identitario, il passato e le ossessioni di Antonio Polito Corriere della Sera, 7 agosto 2023 Spesso si elevano voci e polemiche figlie di una volontà di riscrivere la storia per rimediare a presunte ingiustizie subite. In un vecchio film, “Prigionieri del passato”, il protagonista soffre perché ha perso la memoria. La destra post-missina, invece, finisce spesso prigioniera del passato per la ragione opposta: ha troppa memoria. Intendiamoci: avere una lunga storia alle spalle in politica non è un male. L’ascesa di Giorgia Meloni sembra anzi più solida di tanti exploit leaderistici degli ultimi anni proprio perché ha fondamenta antiche, che le danno radicamento e consapevolezza. I Fratelli d’Italia non sono “parvenu” della politica. Però la loro vicenda repubblicana è stata a lungo minoritaria, e ha intrecciato le sue radici anche con il sovversivismo. Va dunque necessariamente rielaborata e ripensata di fronte alle nuove responsabilità di governo, che la mettono a confronto con le esigenze e le opinioni della maggioranza degli italiani. Invece con troppa frequenza nel partito di Giorgia Meloni si levano voci e si agitano polemiche che sembrano ossessionate da una volontà di riscrivere la storia. Quasi come se aver vinto le elezioni desse il diritto di riaprire i conti con il passato, e di vendicare le presunte ingiustizie subite. Mentre vincere le elezioni dà diritto solo a governare, e nell’interesse di tutti. Si spiega forse con questa ossessione perché la destra abbia finora esercitato il suo nuovo potere con maggior furia e zelo nella conquista delle istituzioni culturali del Paese, dalla Rai al Centro sperimentale di cinematografia, che nella guida delle aziende partecipate. Come se l’esigenza di una nuova “narrazione” fosse perfino più importante del controllo dell’economia. E come se in questa opera ci si potesse fidare solo di chi ha condiviso negli anni la stessa storia. Se un episodio è un episodio, e può essere giustificato dallo sforzo di cambiar pelle dopo il successo elettorale, tanti episodi uno di seguito all’altro rischiano di segnalare invece una vera e propria sindrome. Pericolosa per una forza di governo. Più che di “reducismo”, si potrebbe parlare di “provincialismo”: di un rifiuto sordo ma diffuso dell’orizzonte europeo e contemporaneo su cui una moderna destra di governo, conservatrice e non reazionaria, deve costruire la sua azione politica. Non giova infatti innanzitutto alla premier Meloni, alla sua ambizione di trasformarsi in statista e alla credibilità che si sta conquistando sul piano internazionale, essere trascinata nella continua sarabanda un po’ sguaiata che dalla Resistenza alla strage di Bologna prova di continuo a contestare le verità sprezzantemente definite “ufficiali”. Naturalmente ognuno ha diritto alle sue idee, e anche a manifestarle e a fare proselitismo. Perfino le sentenze giudiziarie si possono criticare (e si criticano in abbondanza in Italia, anche a sinistra). La storia della strategia della tensione e degli Anni di piombo è ancora per molti aspetti controversa, non è davvero stata tutta chiarita nelle aule di giustizia anche a opinione di commentatori e analisti non imputabili di “neofascismo”, e la ricerca della verità è un anelito giusto da qualsiasi parte provenga. Ma quando ci si trova di fronte a sentenze definitive emesse “in nome del popolo italiano”, come è nel caso della strage di Bologna, chi ha cariche pubbliche, chi rappresenta le istituzioni ed è perciò tenuto a coltivare una memoria condivisa, viene meno al suo dovere se le rinnega o ambiguamente le rimuove. È per questo che il capo dello Stato ha voluto ricordare, nell’anniversario del 2 Agosto, la “matrice neofascista della strage accertata nei processi”. Se non si capisce questo si rischia di fare un passo indietro rispetto alle acquisizioni che la destra italiana aveva già fatto nella sua prima stagione al governo, quella di Gianfranco Fini, quando i conti col passato erano stati forse perfino un po’ sbrigativamente chiusi, e si potè così cominciare una nuova storia. Nei Fratelli d’Italia sono invece ancora troppi quelli che pensano che tra i compiti per così dire pedagogici della politica ci debba essere anche il “revisionismo storico”. Tra l’altro, un revisionismo che finora si è applicato ad aspetti marginali, a contestazioni minori, a ricostruzioni un po’ goffe e di scarsa robustezza storica. Non si è insomma finora nemmeno trattato di un’operazione di una qualche seria portata culturale, che del resto solo agli studiosi e agli intellettuali potrebbe competere. Alla politica spetta piuttosto il compito di creare un clima generale di rispetto reciproco e di condivisione dei valori repubblicani, che possa eventualmente consentire anche una lettura più obiettiva ed equanime delle vicende del passato. Mentre invece - siamo sicuri se ne sarà accorta anche Giorgia Meloni - questo stillicidio identitario ottiene solo il risultato opposto, di esacerbare gli animi e di riaccendere i contrasti su vicende di molti decenni fa. Rendendo così più difficile e drammatico il confronto sulla storia recente della nazione, e paradossalmente più affilate le armi di chi lo rifiuta in nome di una irriducibile contrapposizione ideologica. Così l’Europa ha perso la sua influenza in Africa di Mario Giro* Il Domani, 7 agosto 2023 In Niger e Mali i colpi di Stato non sono una novità. Occorre trattare con i militari africani per contenere l’influenza russa o delle milizie. La scelta del pensiero unico securitario si è rivelata un’arma a doppio taglio e ha ridotto l’influenza europea nel continente. Il Niger non è nuovo ai colpi di stato militari. Dall’indipendenza, oltre a numerosi falliti, ce ne sono stati almeno quattro che hanno avuto successo: quello condotto dal tenente colonnello Seyni Kountché nel 1974; il golpe del colonnello Ibrahim Baré Maïnassara del 1996 seguito dal putsch del 1999 guidato dal maggiore Daouda Malam Wanké, nel quale Baré ha perso la vita. Infine c’è stato il colpo del 2010 del maggiore Salou Djibo, anche se in quel caso abbastanza presto l’esercito ha accettato di negoziare con la società civile e i partiti. I colloqui tra i principali attori nigerini, tra i quali l’esercito e il governo transitorio, si sono svolti a Sant’Egidio e hanno portato alla firma del patto repubblicano, una road map verso nuove elezioni democratiche che si sono tenute nel marzo 2011 e dalle quali è uscito vincitore Mahamadou Issoufou. Quest’ultimo era un politico di lungo corso riparato all’estero durante il regime militare, fondatore del partito socialdemocratico Pnds-Tarayya. Dopo due mandati costituzionali, Issoufou ha lasciato il posto al suo braccio destro Mohamed Bazoum che è stato eletto nel settembre 2020 ed è restato in carica fino allo scorso 26 luglio. Anche se l’esercito nigerino è da sempre considerato a forte rischio golpe, nulla lasciava presagire il rovesciamento di Bazoum in questo momento. Purtuttavia c’erano già stati due tentativi impacciati contro di lui (nel 2021, a due giorni dall’insediamento, e nel 2022). Come in altri paesi africani, anche in Niger tra civili e militari non corre buon sangue: ognuno accusa l’altro di non saper gestire il paese, di essere corrotto e pretende la guida dello stato. Dal canto suo l’esercito si presenta come la sola vera istituzione nazionale unitaria. Inoltre i militari risultano sensibili alla catena dei golpe della regione: Mali, Guinea, Burkina Faso e Ciad. Tradizione militare - In Africa saheliana la tradizione militare ha una sua storia e rivendica da sempre un ruolo di governance nazionale. La complicazione attuale non è data tanto dai jihadisti ma dalla polarizzazione causata dalla guerra in Ucraina. Pur minaccioso, il jihadismo odierno ha preso il posto delle endemiche ribellioni tuareg, che esistono fin dagli anni Sessanta e che si sono fuse con esso. Dall’indipendenza vi sono state almeno quattro guerre tuareg in Mali e due in Niger, senza contare le rivolte minori. Gli eserciti saheliani del Mali e del Niger sono avvezzi a tali sfide e nel tempo hanno elaborato una loro peculiare tattica che consiste nell’isolare le rivolte, tagliando fuori interi pezzi di territorio e facendo marcire le crisi lontano dalle capitali e dai giacimenti più redditizi (come ad esempio l’uranio nigerino). Questione molto diversa è l’influenza che possono avere crisi geopolitiche esterne, lontane dal Sahel ma strategiche e globali per la loro stessa essenza, come la guerra in Ucraina. La contaminazione russa - Si parla molto sui media occidentali della possibile contaminazione russa anche in questo colpo di stato, tramite la milizia Wagner. Tuttavia Mosca si è allineata all’occidente nel condannare l’estromissione del presidente Bazoum, affermando di non condividere le dichiarazioni della Wagner. Non sembra per ora che l’esercito nigerino sia orientato a far entrare i russi nel paese, anche se strumentalizza la paura occidentale e manipola i sentimenti anti coloniali della popolazione pur di mantenersi al potere. In questo i nigerini paiono più vicini alla giunta militare del Burkina Faso, la quale sta continuando a chiedere ai paesi europei (anche all’Italia e salvo ovviamente alla Francia), un sostegno militare nella lotta al jihadismo. La Germania ha appena offerto un supporto di strumenti medevac (evacuazione medica militare). La “teoria del domino”, cioè che la caduta di una democrazia saheliana trascini con sé tutte le altre, deve tener conto delle differenze tra paesi ed eserciti. Malgrado le dichiarazioni ufficiali, i burkinabé sopportano a fatica l’influenza maliana che tende a essere pervasiva: non si sono certo allontanati da Parigi per finire sotto Bamako. Le voci di un possibile intervento militare della regionale africana Ecowas, guidato dalla Nigeria, certamente non piacciono alle popolazioni: temono le conseguenze di un conflitto aperto tra paesi e che il jihadismo ne approfitti. Tra l’altro l’esercito nigeriano non ha buona reputazione né può vantare molti successi nelle operazioni all’estero. La preoccupazione europea - Certo l’Europa è preoccupata soprattutto perché il Niger di Issoufou e Bazoum era l’alleato più fedele nella lotta contro le migrazioni illegali. Oggi un certo timore sussiste anche per la questione dell’uranio. È probabile che, dopo un primo momento di disorientamento, si riesca a trattare con la giunta per evitare l’allargamento della sfera di influenza russo-maliana (o magari wagnero-maliana). Il paradosso di questa situazione è che negli anni Sessanta-Ottanta eravamo abituati ai golpe militari dell’Africa occidentale fomentati, sostenuti o quantomeno autorizzati da Parigi. Non a caso tutti gli alti gradi militari saheliani vengono formati nelle scuole di guerra francesi, salvo eccezioni. Ora, invece, i colpi avvengono fuori da ogni controllo, quasi vi sia un’affermazione di indipendenza da parte africana. Pensiero unico - L’altro paradosso è che i corpi militari che li commettono sono in genere quelli meglio armati e addestrati dagli occidentali, una deviazione che abbiamo già visto altrove (come in Afghanistan). Negli ultimi anni la collaborazione tra eserciti e polizie è la forma di cooperazione più finanziata dall’Europa, dovuta al dossier migratorio. Lo si è visto in maniera eclatante nel caso libico: armi e mezzi che alla fine si ritorcono contro chi li ha forniti. Tali “tradimenti” mettono in crisi la scelta del pensiero unico securitario prediletta dall’Europa fino a oggi, che alla fin fine favorisce le milizie private (come Wagner ma anche altre come Haftar o altre libiche). La decisione di concentrarsi soltanto sugli aspetti di sicurezza ha ridotto le capacità di influenza europea e occidentale ed è divenuta un’arma a doppio taglio. Non è con tali mezzi che si può riconquistare la simpatia dei popoli saheliani, sempre meno convinti del futuro dei loro paesi. *Politologo Il caso Navalny o la tragica solitudine del dissenso russo di Giuliano Ferrara Il Foglio, 7 agosto 2023 “Liberare Navalny” dovrebbe essere una campagna internazionale visibile e rumorosa. E bisognerebbe dare ope legis a questi dissidenti la cittadinanza europea, rivendicare la libertà per i combattenti della libertà. Ma non succede alcunché. La condanna a 19 anni per Alexei Navalny, oltre al resto delle altre condanne e della detenzione dura, è una mezza notizia. C’è e non c’è. Qualche protesta istituzionale, qualche alzata di spalle, basta così. Basta? Non basta. Il condannato ha evitato di morire avvelenato, è stato curato in Germania, è tornato nella Russia di Putin per continuare a testimoniare il dissenso in forme che possono o no piacere ma che in un paese ordinario, non dico liberaldemocratico ma passabilmente tollerante, è consentito senza il rischio di morte o di incarcerazione praticamente a vita nel solito universo concentrazionario. “Liberare Navalny” dovrebbe essere una campagna internazionale visibile e rumorosa. Ci vorrebbero fior d’appelli di intellettuali, di imprenditori, di figure pubbliche dello star system, di gente comune, di politici di ogni schieramento, di ogni paese, di lavoratori, insegnanti, militanti politici, chissà, perfino giornalisti. Il volto di Navalny dovrebbe essere riconosciuto a prima vista, stampato su migliaia di manifesti stradali, dovrebbe diventare una bandiera di mobilitazione la sua storia, la crudeltà indecorosa del suo trattamento dopo il ritorno in patria, la freddezza con cui viene sottoposto al boia di stato che lo processa per “estremismo”, senza addebitargli alcunché in termini di fatto e bollandolo come un nemico del regime. Insieme a lui dissidenti di altro genere e natura, come Vladimir Kara-Murza, condannato a 25 anni in carcere di massima sicurezza, Ilya Yashin, un altro che non è espatriato, ha parlato pubblicamente, ha pagato e paga. Alcuni erano collaboratori di Boris Nemtsov, assassinato come un cane su un ponte non distante dal Cremlino. È almeno dal 2014, dall’invasione e annessione della Crimea, e dal momento in cui cominciò a destabilizzare il Donbas per poi cercare di prendersi l’Ucraina, che Putin, incurante del passato, dell’affaire della Politkovskaja, con un senso acuto di impunità a fronte dell’opinione pubblica internazionale distratta, tampina, bastona e mette in carcere chi dissente. La carota, si fa per dire, per Khodorkovsky, liberato dopo dieci anni di carcere duro, e poi bastone per tutti. Bisognerebbe dare ope legis a questi dissidenti la cittadinanza europea, italiana francese tedesca spagnola britannica, bisognerebbe che il Papa di Roma tirasse fuori artigli poco ecologici ma molto graffianti e puliti per rivendicare la libertà per i combattenti della libertà. Ma non succede alcunché. C’è stata l’eccezione di un Nobel per alcuni dissidenti, ma nessun cordone sanitario, nessuna misura umanitaria o simbolica, è efficace al fine di penetrare nello spazio psicologico russo, dominato dagli psicotici che affollano le televisioni di regime. Navalny e gli altri sono sfrontati, coraggiosi, dicono che ce la faranno, che sopravviveranno, che alla fine prevarranno, ma sono tragicamente soli. I loro nomi non sono oggetto di convegni, di una nuova Biennale del dissenso antiputiniano, la loro vicenda non penetra nelle scuole, nelle università, il sistema dei poteri deboli e forti dell’occidente fa molto per aiutare l’Ucraina, niente o quasi per fermare la mano dei carcerieri. Navalny, da dissidente a oppositore: così è diventato il nemico pubblico numero uno di Putin di Ezio Mauro La Repubblica, 7 agosto 2023 Dallo Zar a Cernenko, le Russie hanno conosciuto l’eroismo dei dissidenti, ma Navalny è un soggetto politico, candidato a contendere il potere. Nella luce sintetica delle cellule fotoelettriche che lo circondano tra le sbarre della prigione, si fa fatica a riconoscere Aleksej Navalny in quella figura smagrita e allucinata che si alza in piedi nella tuta nera dei reclusi, per ascoltare la sentenza che lo condanna a 19 anni di carcere a regime speciale per “estremismo”. Una pena che è un’esclusione perpetua dalla vita civile della Russia per l’uomo di cui Vladimir Putin non pronuncia mail il nome, ma che è ormai da anni il suo vero oppositore, più ancora l’elemento di contraddizione del suo potere, comunque il nemico pubblico numero uno del Cremlino. Le parole della condanna lo hanno raggiunto nel penitenziario IK-6 di Melekhovo, 250 chilometri da Mosca, dove sta scontando un’altra pena per “frode” a 11 anni e mezzo in isolamento davanti a un ritratto di Putin, senza vedere i genitori da un anno, rinchiuso in una cella “grande come la cuccia di un cane” su uno sgabello senza schienale, come hanno denunciato 600 medici russi firmando un appello per la sua salute. Lui aveva calcolato in anticipo con esattezza la nuova condanna, quasi fosse una misura meccanica della sua indagine permanente sul potere: “Il numero di anni di reclusione non ha nessuna importanza - aveva detto tre giorni fa - perché è comunque una condanna a vita. O per la durata della mia vita, o per quella del regime”. Poi ha spostato il problema da lui a noi tutti, in Russia e fuori: “Non perdete la volontà di resistere. Riflettete, agiscono così per intimidire: non me, voi”. Aveva indossato quella tuta carceraria appena rientrato in Russia dalla Germania dopo le tre settimane di coma e la lunga cura per il tè avvelenato dalla polizia segreta russa, secondo la pubblica denuncia ripetuta più volte, in patria e all’estero, cui si aggiungerà la rivelazione dell’agente chimico tossico sparso dall’Fsb, il Servizio di Sicurezza Federale, sulle sue mutande. Non era riuscito nemmeno a raggiungere Mosca, perché gli Organi di sicurezza lo avevano immediatamente arrestato all’aeroporto di Sheremetyevo. Molti non hanno capito nemmeno oggi la scelta di ritornare in Russia dopo che il potere aveva tentato di ucciderlo, quasi fosse l’esibizione di un duello mortale, la mistica del martirio. Ma le cose per Navalny sono più semplici: “Qui è casa mia, e poi io so che ho ragione, e che le accuse criminali lanciate contro di me sono fabbricate a tavolino. Per questo non ho paura e vi chiedo di non avere paura di niente”. Questa piena assunzione del rischio, accompagnata da una totale svalutazione della soggezione al potere è la cifra politica dell’ostinazione di Navalny, ciò che lo motiva, lo guida e lo sorregge in una partita con il Cremlino talmente sproporzionata da poter essere giocata soltanto in una dimensione immateriale, dove anche la prigione, la costrizione fisica, il veleno e infine il corpo non riescono a contenere la portata della sfida, e a controllarla. Lui era già così all’inizio, quando aveva 36 anni. Teneva le mani in tasca, come se il suo corpo fosse già un problema, nella penombra dell’internet caffè coreano sulla Nikolymskaja, che considerava il suo ufficio volante. Più che un bar, quelle due stanze a Mosca sembravano la stazione d’ingresso in un mondo a parte, che lui raccontava come possibile. Ogni volta che si apriva la porta, ricominciavano le note di Magic Moments che risuonavano anche giù in fondo, dove Aleksej Navalny riceveva gli ospiti su un divano rosso, il suo posto, davanti al cosiddetto tavolo del dissidente. Ero arrivato fin qui nel febbraio 2012, guidato da Nicola Lombardozzi allora corrispondente di Repubblica dalla Russia e Fiammetta Cucurnia, che conosce ogni angolo di Mosca. Navalny ci aveva portati nella sede del movimento che spontaneamente stava nascendo attorno a lui con la rete che i “criceti” ventenni - come li chiamava Putin - chini sui computer stendevano sotto i nostri occhi, in tutto il Paese, tra uomini e donne sconosciuti, a cui nessuno chiedeva le idee politiche così come non cercava di vender loro una tessera. La forma dell’ingaggio era nello stesso tempo moderna e pre-politica, e il piffero incantatore di Navalny suonava una musica trasparente e populista, contro la corruzione, che in un sistema bloccato, col vertice fuori da ogni controllo, diventava immediatamente eversiva, oltre che popolare e incandescente. Il sito internet che radunava il tutto si chiamava RosPil, cioè segatura, lo scarto sporco che resta dopo i lavori. Attraverso le segnalazioni che arrivavano in quel piccolo ufficio vicino al Kolzò si accendeva un faro per illuminare e controllare come venivano spesi i soldi pubblici negli appalti di Stato, dove la corruzione faceva man bassa e ogni anno su 5 trilioni di rubli uno veniva rubato. Ogni denuncia ricevuta diventava pubblica sul sito, 93 avvocati indagavano e se scoprivano abusi presentavano la denuncia, mentre un portafoglio elettronico raccoglieva e rendicontava costantemente i contributi liberi dei cittadini per far fronte alle spese e sostenere la battaglia. Schiacciammo un tasto: al saldo di quel giorno, la “segatura” raccolta da RosPil arrivava a 40 miliardi di rubli, un milione di euro. Si rischiava ogni giorno la demagogia, naturalmente, e anche la condanna sommaria. Ma si abituava anche la società russa a considerarsi per la prima volta autonoma, capace di iniziative proprie, distinta dal potere e capace di sorvegliarlo, attraverso i “criceti” volontari che spaventavano la nomenklatura di comando, abituata nei decenni a considerarsi “classe eterna”. Per Navalny diventa naturale andare un passo più avanti. Compra un pugno di azioni di società di Stato finite agli oligarchi vicini al Cremlino, va in assemblea dopo aver letto i bilanci, fa le domande che nessuno si è mai sognato di fare, e soprattutto filma tutto e trasmette sul sito. Privo di conoscenza del web, il potere attirato nel nuovo territorio perde l’equilibrio, inciampa. “Non era abituato a questo show quotidiano contro la malversazione. E io mi sono trovato all’improvviso a far politica, senza averlo deciso”. Succede all’incrocio tra la nuova popolarità e la libertà sconosciuta: qualcuno chiede a Navalny cosa pensa di Russia Unita, il partito di Putin, lui risponde che è “un partito di ladri e di malfattori”, il giudizio filmato corre sul web, si gonfia nelle Rete, diventa una bomba mai sperimentata in Russia, e un certificato politico alternativo. Mentre raccontava, Navalny si sentiva inafferrabile, quasi invulnerabile. Teneva su una sedia del suo ufficio la borsa del galeotto, con il necessario da portarsi in galera nel caso di un arresto improvviso, come spesso accadeva. Ma aveva scoperto la “quarta dimensione”, conosceva la porta magica da attraversare per raggiungerla, e dunque niente poteva fermarlo. Era quasi come fuoruscire dal proprio corpo, che gli Organi braccavano. “È un conflitto tra vecchio e nuovo mondo. In poco tempo l’esperienza quotidiana ci ha fatto capire che non potevamo usare nessun mezzo fisico, nessuno strumento classico per farci conoscere, nessun sostegno materiale per farci propaganda, perché la polizia è abituata a sorvegliare i corpi, le case, gli scritti, gli oggetti, i comizi, le manifestazioni e i cortei. Così abbiamo rinunciato completamente a volantini, manifesti, giornali, luoghi fisici, tutte cose che gli Organi controllano facilmente. È stato naturale spostarci nello spazio virtuale della Rete. È questa la quarta dimensione, dove loro non riescono a seguirci perché hanno un addestramento fisico, un obiettivo materiale, una cultura corporale. In quel mondo, abbiamo sfruttato la nostra libertà”. Ma in realtà c’è molto di più. Perché inconsapevolmente Navalny riassume nella sua immagine - imprigionata o libera - una metamorfosi storica per la Russia, vale a dire il passaggio dal dissenso all’opposizione. Dallo Zar a Cernenko, le Russie hanno conosciuto in ogni stagione l’eroismo dei dissidenti, ma anche la loro solitudine, l’isolamento, la condanna a vivere la condizione separata e sorvegliata di una testimonianza individuale, sia pure di altissimo valore culturale e spirituale, come quella di Solgenitzin, o di risonanza mondiale ma sperimentata come un obbligo della coscienza personale, come nel caso di Andrej Sakharov. Qui è diverso. Navalny è un soggetto politico vero e proprio, ha dimostrato di poter suscitare un movimento, mobilita i seguaci, è naturalmente candidato a contendere il potere. Rappresenta cioè la radicalità antisistema, dunque l’obiezione permanente, quindi l’opposizione possibile. E per incarnare tutto questo, lui è addirittura disposto a lasciare il corpo in ostaggio al regime: che mentre lo imprigiona lo sente sfuggire, perché coraggio e coerenza non si possono mettere in cella. L’appuntamento è indefinito, ma sicuro, e inquieta il regime perché è una sfida senza scadenza, fuori dal tempo: “Un giorno, prima o poi, la Russia si risveglierà”. Un mese dopo l’incontro con Navalny, quando ho intervistato Putin nella dacia di Novo-Ogarevo, gli ho chiesto come prima domanda se si impegnava a non usare dopo le elezioni il tallone di ferro per schiacciare il dissenso. Seduto sulla punta della sedia, il presidente ha fatto una pausa, si è guardato intorno, poi ha risposto: “Ma di che cosa hanno paura? Io rispetto la piazza, parlo con tutti. E la nostra strategia è quella del dialogo. Perché dovrei usare la forza?” Poi si è appoggiato allo schienale, mentre un cameriere silenzioso serviva il tè. Dopo l’ultima condanna che cancella l’opposizione per i prossimi trent’anni l’Onu, l’Alto Commissario per i diritti dell’uomo, il presidente del Consiglio Europeo, i premi Nobel denunciano “un simulacro di processo” e chiedono la liberazione immediata di Navalny. Sembra una richiesta impossibile, nel momento in cui l’autorità di Putin è già messa in crisi dal conflitto ucraino, che proprio Navalny ha denunciato come “la guerra più stupida e insensata del XXI secolo”. Ma la storia tragica della Russia conosce la follia eroica di Anatolij Marcenko, quando nell’agosto 1986 annuncia uno sciopero della fame ad oltranza con un obiettivo che sembra irraggiungibile, la liberazione di tutti i detenuti politici dell’URSS. Marcenko morirà in carcere stremato dalla sua protesta a dicembre, ma appena sei giorni dopo Sakharov vedrà entrare due operai nella casa dell’esilio a Gor’kij per montare in tutta fretta un collegamento telefonico: a quell’apparecchio appena installato arriverà una sola telefonata, direttamente dal Cremlino. È Mikhail Sergheevic Gorbaciov che cerca Andrej Sakharov per scioglierlo dalla pena del confino e annunciargli che lui e la moglie Elena Bonner possono ritornare a Mosca quando vogliono. Navalny lo sa: in Russia la follia estrema per la libertà non è mai folle.