La lunga estate nelle carceri italiane. Il lavoro? Resta ancora un miraggio di Fulvio Fulvi Avvenire, 6 agosto 2023 Soltanto il 35% dei detenuti è inserito in un percorso lavorativo nei penitenziari, stritolati tra sovraffollamento e carenza di organici. “Così la rieducazione è impossibile”. Continuano, dietro le sbarre, i suicidi, le aggressioni agli agenti, le rivolte, gli scioperi della fame. Le carceri sovraffollate, insalubri e quindi “insicure” per chi ci abita, sono un’emergenza nel nostro Paese. E lo diventano ancora di più nel mese di agosto, quando nelle celle si scoppia dal caldo, il personale di sorveglianza si riduce a causa delle ferie estive e vengono sospese le attività ludiche e formative che nel resto dell’anno aiutano i reclusi ad allontanarsi dall’inedia e dalla solitudine, potenziali malattie mortali. Sovraffollamento e organici insufficienti: due questioni che si trascinano da anni ma che rimangono inevase nonostante gli allarmi e le continue denunce di chi è impegnato nella tutela dei diritti delle persone private della libertà e dei lavoratori del settore. Perché il carcere, in Italia, è un “pianeta dimenticato”. Eppure i numeri parlano chiaro: alla data del 31 luglio, nei 189 istituti di pena per adulti presenti sul territorio nazionale, i detenuti erano 57.749 (2.510 donne e 18.044 stranieri), cioè oltre 10mila in più rispetto alla capienza regolamentare, con un tasso medio di sovraffollamento pari al 119%. E fa riflettere anche che tra quelli costretti a vivere “dentro”, solo 42.918 devono scontare una pena definitiva mentre il resto è in attesa di un primo giudizio (7.946), di una sentenza di appello o dell’esito di un ricorso (5.897). Risulta largamente insufficiente, poi, l’applicazione delle misure alternative alla detenzione (affidamento in prova ai servizi sociali, arresti domiciliari, semilibertà) che invece consentirebbero uno sfoltimento delle presenze all’interno delle strutture. Vite inafferrabili, quelle dei detenuti, per i quali il tempo diventa, nella maggior parte dei casi, non un’occasione di redenzione umana e di reinserimento sociale come dovrebbe essere in base all’art. 27 della Costituzione, ma un pesante macigno che ne schiaccia l’anima e qualche volta anche il corpo: i suicidi, che nel 2022 sono stati 85 - un tragico primato - e 42 dal 1° gennaio di quest’anno a oggi, sono la conseguenza di una condizione esistenziale divenuta impossibile. Se le morti per mano propria aumentano (e si verificano soprattutto nei primi sei mesi di detenzione e durante l’estate) è anche perché chi è rinchiuso in una cella trascorre le giornate solo in attesa dell’ora d’aria e dei pasti, guarda la tv o fuma una sigaretta e non è impegnato in altre attività. Solo il 31,6% dei carcerati, infatti, è iscritto a un corso scolastico mentre il 35,2% lavora, dentro oppure in regime di semilibertà, per l’Amministrazione penitenziaria o alle dipendenze di un’impresa esterna. È invece quasi del tutto assente la formazione professionale, che riguarda il 4 %. “Il tempo sprecato dietro le sbarre distrugge, perde di significato, perché sono altri a decidere per te, quando devi mangiare, fare la doccia, uscire in cortile, telefonare ai parenti” spiega Carla Lunghi, docente di Sociologia dei processi culturali all’università Cattolica di Milano la quale, oltre a studiare il “fenomeno carcere” insegna italiano come volontaria nella Casa circondariale di San Vittore. “Il rischio è che queste persone, quando escono, siano peggiori di prima, larve umane, incattivite e incapaci di decidere anche le minime cose quotidiane, come comprare il biglietto del tram o pagare le tasse. Figuriamoci trovare un lavoro” commenta Lunghi. “È necessario invece che il carcere come istituzione si assuma la responsabilità di educare - conclude - e di creare nuovi cittadini anche attraverso esperienze di lavoro che abbiano spazi di operatività e una retribuzione soddisfacente per favorire l’autostima o un’idea positiva di sé”. “D’estate, i ritardi e le emergenze, presenti in un carcere anche quando tutto funziona, rischiano di diventare esplosivi perché fanno crescere l’insofferenza di chi vi è rinchiuso, le ristrettezze quotidiane diventano più pesanti - avverte Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale - e aumenta l’incapacità di gestire il tempo vuoto, con effetti psicologici spesso devastanti”. “Inoltre, a dominare quasi sempre nelle decisioni di chi gestisce le strutture - spiega Palma - è l’applicazione pedissequa della “norma neutra” rispetto, per esempio, all’esigenza di una vicinanza accogliente, di un incontro in più in parlatorio o di una telefonata”. Nascono anche da qui gli atti di autolesionismo e i suicidi. E non va dimenticata, poi, “l’altra parte della “barricata”, anche se così non dovrebbe essere: gli agenti di polizia penitenziaria. Quelli in servizio a tutt’oggi nelle carceri italiane sono 32.260. Quasi un agente ogni due detenuti. E con un’età media alta. “Ne servirebbero almeno 4.364 in più per far fronte alle esigenze di sicurezza interna e all’organizzazione delle attività quotidiane dei reclusi previste dal regolamento” sostiene Massimo Vespia, segretario generale della Fns-Cisl. E molto spesso i sorveglianti vengono aggrediti e minacciati, anche con violenza da detenuti scalmanati o con gravi problemi psichici. “Ci sono colleghi che ogni giorno entrano da soli in sezioni con cento detenuti, spesso con tutte le celle aperte” spiega Giovan Battista De Blasis, segretario generale aggiunto del Sappe, il sindacato autonomo della categoria. Cosa fare, allora? “Ministero della Giustizia e Dap devono provvedere senza più rinvii alla carenza degli organici - chiede Vespia - a rinnovare e ammodernare gli istituti penitenziari vecchi e inadeguati (alcuni risalgono all’epoca borbonica), a creare spazi per il personale e ausili tecnologici per migliorarne il servizio”. Oltre la riforma. Mancano 1.652 magistrati: ecco dove si registrano le maggiori carenze di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2023 Rispetto ai 10.633 posti previsti nell’organico, la scopertura nazionale è pari al 15,54%. Mentre incombono gli obiettivi del Pnrr in materia di giustizia con il taglio della durata del 40% dei processi civili e del 25% di quelli penali entro il 2026, gli uffici giudiziari devono fare i conti con una coperta ancora troppo corta in termini di risorse umane. Secondo gli ultimi dati diffusi dal Csm e aggiornati al 28 luglio scorso, in tutta Italia mancano 1.652 magistrati. Rispetto ai 10.633 posti previsti nell’organico, la scopertura nazionale è pari al 15,54%. Più penalizzati gli uffici del Nord - A soffrire di più sono le Procure, con il 16% dei posti vacanti: su 2.649 pm previsti sulla carta, ne mancano 426. Ma anche tribunali e Corti d’appello non se la passano bene: mancano 1.226 giudici dei 7.984 fissati nell’organico, con una scopertura pari al 15,36%. I dati sui singoli distretti giudiziari smentiscono un luogo comune. Più penalizzati dalla carenza di magistrati non sono gli uffici giudiziari del Sud ma quelli del Nord. Bolzano maglia nera - La maglia nera spetta a Bolzano dove la scopertura tra uffici giudicanti e requirenti è del 22,54%, ma sfiora il 30% se si guarda solo ai dati della Procura. Segue Reggio Calabria (19,26%) che è quasi appaiata a Venezia (19%). Nella Procura del capoluogo veneto, dove il ministro Nordio ha lavorato per tanti anni, e nella Procura generale della stessa città, la percentuale di scopertura è pari al 19,38%: su 129 pm previsti gli effettivi sono 104, ne mancano dunque 25. Un problema che per il Guardasigilli nasce dalla difficoltà di risiedere a Venezia, “città dove non è facile vivere e che non è economica”, come ha detto tempo fa parlando delle scoperture che derivano dalle poche domande per questa destinazione che fanno i vincitori del concorso in magistratura. L’isola felice è Campobasso - Oltre il 18% di scopertura si collocano Trento e e Trieste, appena sotto quella soglia Cagliari è Torino. Mentre Napoli è sotto la media nazionale con il 12,24%. L’isola felice è Campobasso dove su 70 magistrati previsti tra uffici giudicanti e requirenti ne mancano solo 4 e la Procura è a organico pieno. Sta bene anche il distretto di Perugia, dove la scopertura media è dell’8,45%, ma scende al 5,41% nella procura guidata da Raffaele Cantone e in quella generale, dove su 37 magistrati previsti ne mancano solo due. Dl intercettazioni: estesi i reati, stretta sugli incendi e aumento di pene. Ecco tutte le novità di Francesco Grignetti La Stampa, 6 agosto 2023 In arrivo un disegno di legge che sarà in discussione lunedì. Estensione dell’utilizzo delle intercettazioni, un archivio centralizzato per “conservarle” in modo sicuro e inasprimento delle pene per chi appicca gli incendi. Sono alcuni degli interventi contenuti in un disegno di legge in tema di giustizia che sarà presentato lunedì nell’ultimo Consiglio dei Ministri prima della pausa estiva. I primi due articoli, così come emerge dalla bozza, affrontano la questione intercettazioni. L’esecutivo interverrà in primo luogo per estenderne l’utilizzo ad una serie di fattispecie. Una scelta dettata anche da una sentenza della Cassazione, la 34895/2022, che ha definito la nozione di “criminalità organizzata”. Per la Suprema corte in questo ambito possono rientrare solo “fattispecie criminose associative, comuni e non”, mentre non possono essere compresi in quella nozione i “delitti non associativi” - ad esempio un omicidio, un’estorsione o una rapina - anche se commessi al fine di agevolare un’organizzazione mafiosa. Una pronuncia rispetto alla quale la premier Meloni aveva annunciato un’interpretazione autentica dell’esecutivo al fine di evitare “effetti dirompenti su processi in corso per reati gravissimi”. Nella bozza di decreto viene esteso ad alcune ipotesi di criminalità grave l’utilizzo di strumenti investigativi, tra cui anche le intercettazioni, così come già disciplinati dalle norme di contrasto ai clan. In particolare si potranno applicare nei procedimenti per reati legati al traffico illecito di rifiuti, alle fattispecie aggravate dal metodo mafioso, ai sequestri di persona con finalità estorsive e al terrorismo. La bozza di decreto, inoltre, introduce anche una sorta di archivio centralizzato: si tratta di “infrastrutture digitali interdistrettuali” dove verranno custodite le attività disposte dai singoli pubblici ministeri. La decisione del ministero è legata anche alle criticità, messe in luce da molti uffici giudiziari, nella gestione dei dati dovuta alla scarsità degli strumenti tecnologici. L’organizzazione e sorveglianza sull’attività di ascolto resterà nelle mani dei procuratori capo ma, come si afferma nella bozza, “fermi il segreto investigativo e le garanzie di riservatezza e sicurezza dei dati, il Ministero della giustizia assicura l’allestimento e la manutenzione delle infrastrutture e, in ogni caso, con esclusione dell’accesso ai dati in chiaro”. Nel decreto si spiega inoltre che dalla data di entrata in vigore del provvedimento “è autorizzata la migrazione dei dati dalle singole procure della Repubblica e il conferimento dei nuovi dati. I tempi, le modalità e i requisiti di sicurezza della migrazione sono definiti con decreto del ministro della Giustizia. Le operazioni sono effettuate dalla direzione generale per i sistemi informativi automatizzati, di intesa con i singoli procuratori”. Tra i provvedimenti che finiranno all’attenzione del Consiglio dei Ministri anche quello relativo ad un inasprimento delle pene in tema di roghi e incendi. In particolare il decreto apporta modifiche a quanto previsto dall’articolo 423-bis del codice penale. Aumentata da quattro a sei anni il minimo edittale per chi causa un incendio in “boschi, selve o foreste ovvero su vivai forestali destinati al rimboschimento, propri o altrui”. Se l’incendio è di natura colposa la pena minima passa da uno a due anni di reclusione. La bozza prevede che la pena prevista “è aumentata da un terzo alla metà quando il fatto è commesso al fine di trarne profitto per sé o per altri o con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti all’esecuzione di incarichi o allo svolgimento di servizi nell’ambito della prevenzione e della lotta attiva contro gli incendi boschivi”. Nel pacchetto di iniziative anche l’8 per mille per il “recupero delle tossicodipendenze e delle altre dipendenze patologiche”. La norma prevede che dalle dichiarazioni del prossimo anno (sui redditi 2023) si potrà indicare la voce specifica mentre per quest’anno la quota destinata allo Stato senza scelta di una delle 5 attuali tipologie di intervento vada “prioritariamente” a finanziare “interventi straordinari” contro le tossicodipendenze. Più intercettazioni. La soluzione di Nordio smentisce gli annunci di Mario Di Vito Il Manifesto, 6 agosto 2023 Possibilità estesa e reati meno gravi dell’associazione criminale, basterà la contestazione del metodo mafioso. Garantisti spiazzati. Era la metà di giugno quando il ministro della Giustizia Carlo Nordio giurava e spergiurava, l’ultima volta, che il governo avrebbe messo mano alle intercettazioni per limitarne l’uso, definendole addirittura “una barbarie che costa 200 milioni all’anno per raggiungere risultati minimi”. Domani l’ultimo consiglio dei ministri prima delle vacanze estive approverà però una norma che consentirà alle procure di intercettare molto più di quanto si possa fare già adesso. È questa la sostanza dell’annunciato intervento “salva processi di mafia” emerso come problema capitale lo scorso 17 luglio, quando Giorgia Meloni in persona se la prese con una sentenza di Cassazione che restringeva il concetto di criminalità organizzata ai soli reati associativi, negando l’uso delle intercettazioni negli altri casi. E allora, dopo un lungo ragionare (il decreto doveva arrivare in Consiglio dei ministri già giovedì scorso), si è deciso di non avventurarsi nel terreno scivoloso della dottrina ma di estendere gli strumenti investigativi come le intercettazioni a un ventaglio più ampio di situazioni: il terrorismo, il sequestro di persona a scopo di estorsione, il traffico illecito di rifiuti e le aggravanti mafiose, queste ultime oggetto proprio della sentenza adocchiata da Meloni e ritenuta potenzialmente responsabile di indicibili disastri processuali. Sarà modificato l’articolo 13 della legge 152 del 1991, aumentando le possibilità di ricorrere al regime di deroga stabilendo requisiti meno stringenti per autorizzare le attività di ascolto, a valere anche per i processi e le indagini già in corso. Si afferma così ciò che la Cassazione aveva escluso: chi è accusato di un reato comune aggravato dal metodo mafioso potrà essere trattato nello stesso modo di chi è accusato di un reato di mafia. La questione, in ogni caso, non è affrontata di petto, ma viene lavorata ai fianchi. Nessuna norma di definizione autentica della nozione di criminalità organizzata a partire da un presupposto tutto da verificare, ma l’estensione dei meccanismi propri della lotta al crimine organizzato ad altri reati. In pratica, aumentano di molto le possibilità inquisitorie degli investigatori, cosa che, peraltro, ha anche un non trascurabile peso costituzionale: la Consulta si è occupata in più occasioni di bilanciare l’avanzamento delle tecniche di intercettazione con le necessarie garanzie di libertà e segretezza delle comunicazioni. Un’altra novità sulle intercettazioni contenuta nel decreto che verrà licenziato domani riguarda la futura istituzione di un archivio centralizzato per custodire i dati raccolti dalle varie procure. Un provvedimento che avrebbe un impatto considerevole sul lavoro dei pubblici ministeri ma che ancora è tutto da costruire: prima serviranno i pareri del Csm, del garante della privacy e del comitato interministeriale per la cybersicurezza, poi bisognerà mettere a punto i server e infine gestire la migrazione dei dati già esistenti, operazione che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe avvenire sotto l’attenta supervisione della Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati della giustizia. L’eventuale arrivo di queste “infrastrutture digitali interdistrettuali” sarebbe un modo per provare a recuperare sulle arretratezze tecnologiche della giustizia italiana e per risolvere l’annoso problema della custodia delle intercettazioni e dei dati sensibili, argomento di gran moda in questi giorni con l’inchiesta della procura di Perugia sui presunti dossieraggi ai danni di politici e vip. Il tema, però, non è nuovo. Oltre alle innumerevoli polemiche che si trascinano in avanti da anni, appena due settimane fa, in commissione giustizia, la senatrice Erika Stefani della Lega chiedeva “una riflessione sui protocolli per la certificazione delle aziende che operano le intercettazioni su mandato delle procure”, materia al momento poco o nulla regolamentata. Per dare un’idea della dimensione del fenomeno, le aziende italiane che si occupano di questo sono 148, con un fatturato totale di 275 milioni di euro per circa 200mila interventi annui. Una quantità abnorme di informazioni personali che spesso non ha rilevanza ai fini delle indagini e che non si sa bene come venga custodita. Riforma giustizia, parla il viceministro Sisto: “Ora basta ai processi politici” di Pierpaolo La Rosa Il Tempo, 6 agosto 2023 Il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha rilasciato un’intervista a Il Tempo in merito alla riforma del Guardasigilli, Carlo Nordio, ha iniziato il suo percorso in commissione al Senato. Queste le sue parole: “È una riforma che Forza Italia ha da sempre caldeggiato e che parte con il piede giusto. Una riforma frutto di importanti riflessioni che hanno portato a scelte chiare, consapevoli, su cui ovviamente, dopo aver avuto l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri, intendiamo andare fino in fondo. La logica della riforma è molto semplice, illuminata dai principi costituzionali, cerca di dare una risposta ai problemi reali, quotidiani della giustizia, ai cittadini, ai sindaci ed ai dirigenti della Pubblica amministrazione, a chi fa buona politica. È una riforma che cerca di evitare che finiscano nel tritacarne mediatico soggetti estranei al processo, che prova a restituire finalmente all’informazione di garanzia il ruolo di tutela del diritto di difesa e non di marchio color “rosso mediatico” che ti porti appresso praticamente a vita. Una riforma per una giustizia giusta, senza minimamente toccare i poteri della pubblica accusa nell’attività di indagine: da questo punto di vista, ogni illazione va respinta al mittente, e duramente”. Cosa prevede, dunque, il cronoprogramma della riforma della giustizia? “Quello di cui abbiamo parlato finora è il primo step della riforma. Poi ce n’è un secondo, che riguarderà temi altrettanto rilevanti come la prescrizione. Potrebbe esserci qualche altro intervento specifico sulle intercettazioni, sui delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, sulla riforma della responsabilità medica, su cui c’è una instancabile commissione al lavoro”. Si procederà, poi, con la separazione delle carriere? “Si procederà con questa riforma costituzionale perché è nel nostro programma di governo, quello condiviso dai cittadini che ci hanno dato il consenso: saremo comunque attenti ai lavori in corso presso la commissione Affari costituzionali della Camera, dove si discutono ben quattro proposte di legge in merito. Nutriamo, come noto, massimo rispetto per le prerogative del Parlamento”. Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non si tocca, almeno per ora? “Non è tempo di intervenire, l’argomento non è nel nostro cronoprogramma. Il ministro Nordio ha dato ad una domanda estemporanea una risposta corretta. Quello del concorso esterno in associazione mafiosa è un reato che non ha una genesi normativa, ma giurisprudenziale, e questa è una indubbia anomalia: ma, ribadisco, non è nel programma del ministero della Giustizia e del governo. Bisognerà, però, pensarci a tempo debito: sarà necessario garantire una fonte normativa al reato, senza in alcun modo sminuirne la capacità dissuasiva e l’ambito applicativo. Parliamoci chiaro: a mafia e terrorismo questo esecutivo non fa sconti”. Sono possibili modifiche, in sede parlamentare, al reato di abuso d’ufficio? “I lavori in commissione sono iniziati nel modo giusto, saranno previste audizioni alla ripresa dei lavori parlamentari, dal 4 di settembre in poi. C’è volontà di approfondimento da parte dei gruppi parlamentari a cui, da parte nostra, corrisponde una mancanza assoluta di resistenza. La riforma, per noi, è quella giusta, ma se le Camere dovessero pensarla diversamente, “braccia aperte”, nessun problema. Le modifiche in sede parlamentare sono sintomo di una democrazia che funziona davvero”. L’Associazione nazionale magistrati, con ogni probabilità, tornerà di nuovo alla carica contro la riforma... “Il diritto di critica è legittimo, ci mancherebbe: occorre solo distinguere, nettamente, i ruoli. È evidente che in base al dettato costituzionale, articolo 101, siamo di fronte ad una magistratura soggetta solo alla legge, autonoma ed indipendente. Tale autonomia ed indipendenza meritano rispetto, esattamente come quella del Parlamento che scrive le leggi. Il contraddittorio è fondamentale, ma quando la palla passa all’Aula parlamentare, non sono ammissibili ingerenze. Quella che un po’ di anni fa era un tentativo di interferenza reciproca tra politica e magistratura, oggi, in una fase più matura non ha motivo di esistere”. Quando la riforma della giustizia sarà presumibilmente approvata in via definitiva? “C’è la sessione di bilancio da considerare, ma mi auguro si possa giungere al via libera definitivo entro il 2023. Ottimista? Sempre”. Spionaggio antimafia: perché chiunque può cadere nella rete di Iuri Maria Prado L’Unità, 6 agosto 2023 Politici spiati, quei dati provenienti dal sistema bancario che ha l’obbligo di segnalare le “operazioni sospette” aggravano le responsabilità di chi ha messo insieme quei dossier. Ci sarebbe nuovamente il sigillo antimafia, la patacca buona a giustificare ogni sorta di abuso, sulle operazioni di dossieraggio con cui alcuni pubblici ufficiali avrebbero raccolto dati relativi alle attività di politici e imprenditori, puntualmente finiti sui giornali. Ieri le prime cronache riferivano che gli episodi di divulgazione di quei dati sui mezzi di informazione erano “pochi”: come se dovesse tranquillizzare il fatto che la bava velenosa di un’attività di spionaggio in seno all’amministrazione pubblica, e prodotta da appartenenti alla stessa amministrazione pubblica (non da banditi intrufolati), ha contaminato dopotutto solo in qualche occasione (mica tutti i giorni!) il circuito dell’informazione italiana. Il fatto che questi dati provenissero dal sistema bancario - che ha l’obbligo di segnalare alle autorità competenti, tra cui quelle “antimafia”, la presenza di “operazioni sospette” - aggrava anziché attenuare la responsabilità di chi ha messo insieme quei dossier giunti inopinatamente (si fa per dire) nelle redazioni del glorioso giornalismo d’inchiesta: così come, appunto, peggio semmai ci si sente quando si apprende che la cosa avveniva a spizzichi e bocconi, secondo il tipico protocollo mafioso della delazione anonima a puntate. Ma diciamo immediatamente che le indagini della Procura perugina, che per ora sarebbero a carico di un unico funzionario (il quale respinge gli addebiti), non potranno rendere ragione di un sistema che se non è preordinato alla commissione di simili abusi certamente li rende possibili. Varrà la pena di ricordare che è eseguito in nome della trasparenza antimafia il rastrellamento giudiziario di trecentocinquanta persone che coinvolge il responsabile dell’estorsione di un cabarè di pasticcini. Sarà bene tenere a mente che è disposto in nome della trasparenza antimafia il sequestro dell’azienda perché il cugino del titolare è stato visto a un party col pregiudicato. Sarà il caso di non dimenticare che è ordinato in nome della trasparenza antimafia l’arresto del medico settantenne che ha prescritto un farmaco per la cura del cancro di un boss. E bisogna ficcarsi in testa che è tessuta in nome dell’antimafia la rete di leggi e adempimenti e filtri e dispositivi che un qualsiasi funzionario disinvolto è in grado di dispiegare quando vuole, come vuole, dove vuole per farci cadere dentro pressoché chiunque: perché c’è posto per la responsabilità di chiunque nel sistema antimafia che pretende di scovare il crimine nell’incarto delle pasterelle e nelle frequentazioni del prozio del pizzicagnolo dell’intercettato. Ma qui - per il soprammercato di una tigna liberale indiscutibilmente deplorevole, perché rivolta alla tutela dei potenti di cui notoriamente si fa ventriloquo il garantismo peloso - qui c’è da denunciare la piega particolarmente allarmante di quest’ultima ipotesi (chiamiamola ipotesi, per ora) di interferenza dello spionaggio antimafia: e cioè che la faccenda riguarda esponenti politici. Che saranno anche tutti mascalzoni, secondo il criterio cingolato dell’onestà giudiziaria, ma ancora costituiscono un residuo dell’organizzazione democratico-rappresentativa formalizzata in quest’altro residuato, la Costituzione della Repubblica, secondo cui la sovranità non appartiene né ai militari della Guardia di Finanza né e pubblici ministeri. E quelli, gli orrendi politici, rappresentano un presidio in ogni caso più affidabile (anche perché revocabile) rispetto al potere in divisa o in toga (è uguale) che assembla e distribuisce veline. Dossier e misteri, Crosetto: “A chi giova ora rendere nota l’indagine?” di Simona Musco e Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 6 agosto 2023 Nell’assurda storia della presunta “centrale di dossieraggio” scovata dai magistrati all’interno degli uffici della Direzione nazionale antimafia sono diverse le domande da porsi. La prima: possibile che un finanziere - di cui non faremo il nome, pure reso noto, in virtù della presunzione di innocenza - potesse, da solo, “collezionare” dati sensibili e informazioni finanziarie di centinaia di persone senza che qualcuno lo indirizzasse? E che fine hanno fatto le informazioni, ben più numerose di quelle finite sui giornali, che invece sono rimaste in un cassetto? Domande alle quali oggi si aggiunge quella fatta dallo stesso ministro Guido Crosetto, che con la sua denuncia, dopo la pubblicazione dei suoi rapporti economici con Leonardo, ha dato l’input alle indagini: a chi serviva far uscire la notizia di questa indagine, avviata ad aprile scorso, proprio adesso? “Si tratta di notizie relative ad un’inchiesta in corso - ha scritto in una lettera al Corriere - e trovo molto grave vederle pubblicate sui giornali”. Gravità doppia, in questo caso, perché quei presunti dossieraggi avrebbero potuto mettere in difficoltà la nascita del governo Meloni ed è questa, secondo il ministro, la ragione di quella raccolta dati smisurata. “Non è che qualcuno vuole alzare polveroni per nascondere la verità? Chi sta cercando di precostituirsi delle difese?”, si chiede Crosetto. Che lascia dunque sorgere il dubbio che il finanziere finito sulla graticola sia forse il capro espiatorio di un sistema ben più ampio, manovrato lontano da via Giulia. Stesso sospetto sorto quando finì su tutti i giornali la presunta talpa della procura di Perugia, vivisezionata per giorni come mente unica di una fuga di notizie studiata nel dettaglio. Crosetto ha dunque voluto fornire un nuovo input alle indagini, depositando una nuova denuncia, questa volta per violazione del segreto istruttorio, con lo scopo di “ottenere la verità su di una vicenda inquietante”, ma anche “a tutela dell’indagato stesso”, che finora non ha potuto difendersi dalle accuse sparate sui giornali. Gli stessi che, per anni, hanno goduto dell’aiuto di gole profonde nelle procure e tra le forze dell’ordine. Ieri La Verità ha ricostruito i contorni della vicenda, spulciando nell’interrogatorio del finanziere finito sotto indagine, un militare del Nucleo di polizia valutaria di Roma, distaccato al servizio Segnalazione operazioni sospetti: i controlli sul ministro sarebbero scaturiti da accertamenti anti-riciclaggio su due fratelli, considerati vicini a esponenti della ‘ndrangheta, con i quali Crosetto condivide le quote in tre diverse società che offrono servizi di bed and breakfast. Fino alla riorganizzazione voluta da Melillo, il finanziere aveva la possibilità di accedere alle banche dati senza procedure formali che certificassero le ragioni della ricerca. E fino a pochi mesi fa non era necessario richiedere nulla osta per pescare dati tra le segnalazioni di operazioni sospette, operazioni anomale che banche e operatori finanziari sono obbligati a comunicare all’Unità di informazione finanziaria (Uif) di Banca d’Italia e che vengono trasmesse per legge sia alla Dna sia al Nucleo valutario della Guardia di Finanza. Unica regola quella di cercare informazioni su temi relativi all’attività della Dna, dunque sulla criminalità organizzata e sul terrorismo. Da qui la strada che, attraverso i due fratelli sospettati di fare affari con i clan, ha portato a Crosetto. Un modus operandi che non era nuovo, stando alla sua difesa: anche nel periodo della pandemia, quando analizzava i dati sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nelle attività connesse, ha fatto migliaia di accessi per ricostruire una possibile rete illecita che faceva affari con i dispositivi anti covid. Un esempio tra tanti per smentire qualsiasi intento di dossieraggio, oggi reso più difficile dalla riorganizzazione voluta dal procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, che già prima dell’avvio delle indagini ha cambiato le regole dell’ufficio, gestito ora da un pool di tre magistrati. E tutte le procedure, adesso, devono essere tracciate, con una richiesta motivata (e scritta) a monte. La Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, non avrebbe un numero preciso né le categorie che sarebbero state oggetto del presunto dossieraggio, compiuto, secondo l’accusa, attraverso l’accesso non motivato a banche dati pubbliche. Da chiarire se i dati sensibili acquisiti, illegalmente secondo l’accusa, siano stati comunicati al di fuori dell’attività istituzionale e, eventualmente, con quale finalità. Il militare, sentito dai magistrati, avrebbe rivendicato la correttezza del suo operato, tirando in ballo l’ex procuratore di Bari, Antonio Laudati, all’epoca alla guida della sezione della Dna presso cui il finanziere prestava servizio. Secondo quanto dichiarato dal finanziere, infatti, a monte di quelle ricerche ci sarebbero state richieste mai formalizzate, ma ufficiali. Nonostante ciò, però, tali accessi non si sono mai tradotti in informative. Le Sos, va ricordato, sono poi atti riservati ma non segreti, a differenza ad esempio degli atti relativi a procedimenti penali nella fase delle indagini preliminari. Sarà anche difficile, dunque, un processo per una “non violazione” del segreto. L’allarme sui dossieraggi, intanto, ha tenuto banco anche nell’ultima giornata dei deputati alla Camera, dove il timore è quello che possa esplodere un conflitto tra le istituzioni e che ci sia una regia ad hoc per determinare la politica italiana e sovvertire in futuro gli equilibri in campo. “È un problema serio”, osserva all’Agi il capogruppo di Fdi Tommaso Foti. “Sicuramente questo caso è il segnale di una democrazia in disordine”, dice anche il vicepresidente di Montecitorio Fabio Rampelli. “La vicenda è una questione di sicurezza nazionale”, ha affermato dall’opposizione il capogruppo di Iv al Senato Enrico Borghi, membro del Copasir, che ora vuole vederci chiaro. Sulla stessa lunghezza d’onda Matteo Renzi: “Ci sono - ha rimarcato l’ex premier - strani intrecci tra mondi diversi: qualche redazione, qualche investigatore, qualche magistrato, qualche pezzo delle istituzioni pubbliche hanno lavorato insieme alla costruzione di dossier e soprattutto alla distruzione dell’immagine di qualche politico”. “Il potere di sciogliere le amministrazioni è diventato arbitrio” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 agosto 2023 Parla l’avvocato Pasquale Simari: “L’istituto non è più coerente con le coordinate dettate dalla Consulta”. La lettera dell’ex vicesindaca di Rende (provincia di Cosenza), pubblicata ieri sul nostro giornale, nella quale stigmatizzava il fatto che “In Italia c’è un potere assoluto dei prefetti che possono sciogliere Comuni senza alcuna possibilità di confronto”, ci offre la possibilità di interrogarci sul sistema di scioglimento di un ente per infiltrazioni o condizionamenti mafiosi da quando, nel 1991, questo strumento eccezionale di contrasto alla criminalità organizzata è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano. Lo faremo a puntate perché il tema è vasto e merita approfondimenti da diversi punti di vista. Chi si è occupato - diciamo scientificamente - di questo fenomeno è l’avvocato calabrese Pasquale Simari, che ha anche scritto un saggio all’interno del volume, curato da Nessuno Tocchi Caino, dal titolo “Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia”. Secondo l’esperto la questione si caratterizza per due aspetti: “Da un lato, l’ampio margine di discrezionalità di cui godono gli organi governativi nel valutare la sussistenza dei presupposti per lo scioglimento; dall’altro, la forte limitazione del diritto di difesa che subiscono le amministrazioni “sciolte”, stante la sostanziale impossibilità di effettuare accertamenti circa la fondatezza, nel merito, degli elementi indiziari che sorreggono il decreto dissolutorio”. Per Simari, “la vicenda di Rende non si differenzia da quella della maggior parte dei Comuni sciolti per mafia: la giurisprudenza amministrativa ha talmente dilatato il potere discrezionale degli organi deputati a decretare lo scioglimento da averlo trasformato quasi in arbitrio”. Ma da cosa è normato lo scioglimento di un Comune? Dall’articolo 143 Testo unico degli enti locali (Tuel), per cui il prefetto nomina una commissione d’indagine, questa ha massimo sei mesi per scrivere le conclusioni, dopo di che il prefetto sente il Procuratore della Repubblica e il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, invia tutto al Viminale che fa richiesta alla Presidenza della Repubblica che con decreto scioglie poi il Comune. Il problema, sottolinea Simari, è che questa operazione invece di conferire allo scioglimento una natura tipicamente sanzionatoria si è trasformata negli anni in misura di natura preventiva. Lo scioglimento prescinde dalla eventuale responsabilità penale degli amministratori. La prassi, ormai, è quella di fare un pot-pourri di circostanze e condire la relazione anche di elementi sconnessi tra loro per giustificare la richiesta di scioglimento. Basta, ad esempio, che nel contesto territoriale siano presenti organizzazioni criminali, che qualche amministratore abbia un cugino indagato per mafia o che una gara sia stata gestita male per richiedere la misura. “A questo punto - sostiene Simari - è fin troppo chiaro che le caratteristiche dell’istituto, per come venuto modellandosi nel “diritto vivente”, non sembrano più coerenti con le coordinate ermeneutiche dettate dalla Consulta con la sentenza n. 103/1993”. Secondo il giudice delle Leggi, infatti, “la corretta interpretazione della norma non consentiva che lo scioglimento potesse essere disposto sulla base di elementi “che presentano un grado di significatività inferiore a quello degli indizi e che, pertanto, mal si prestano ad un procedimento logico di tipo induttivo e ad un successivo controllo in sede giurisdizionale”, né poteva legittimare provvedimenti fondati su “convincimenti che, prescindendo dall’osservanza del canone di congruità argomentativa e conclusiva, potessero basarsi su considerazioni aprioristiche”. A supporto di tale interpretazione c’era anche una circolare del ministero dell’Interno del 1991 in cui si affermava che dagli elementi oggetto di valutazione avrebbe dovuto emergere “chiaramente il determinarsi di uno stato di fatto nel quale il procedimento di formazione della volontà degli amministratori subiva alterazioni per effetto dell’interferenza di fattori, esterni al quadro degli interessi locali, riconducibili alla criminalità organizzata”. Invece negli anni ci si è completamente distaccati da queste letture, aggiungendo al quadro l’impossibilità di un effettivo contraddittorio nella fase istruttoria e i limiti propri del sindacato dei giudici amministrativi quanto alla ricostruzione dei fatti e alle implicazioni desunte dagli stessi, che non può spingersi oltre il riscontro della correttezza logica e del non travisamento. Simari nel suo saggio ricorda un principio enucleato da una sentenza del Consiglio di Stato secondo cui, trattandosi di provvedimento disposto con “decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Interno, formulata con apposita relazione di cui forma parte integrante quella inizialmente elaborata dal prefetto, è lo stesso livello istituzionale degli organi competenti ad adottare il decreto di scioglimento a garantire l’apprezzamento del merito e la ponderazione degli interessi coinvolti”. Per l’avvocato si tratta “di una affermazione che non pare eccessivo definire di “matrice autoritaria”, non potendosi certamente considerare in linea con i dettami della nostra Costituzione la pretesa (si badi, enunciata in sede autorevolissima) di riservare all’Esecutivo il compito di stabilire in maniera insindacabile se, nel caso concreto, le esigenze di tutela dell’ordine pubblico debbano prevalere sia sull’interesse del sindaco e dei consiglieri comunali ad esercitare il mandato che è stato loro democraticamente conferito, sia su quello degli elettori a vedere rispettato l’esito del voto”. Verrebbe da chiedersi allora a cosa serve fare ricorso agli organi di giustizia amministrativa se si parte dal presupposto che il decreto è giusto data l’autorevolezza di coloro che lo hanno richiesto e firmato. Quando la mafia uccideva d’estate di Francesco La Licata La Stampa, 6 agosto 2023 Gli omicidi del commissario Beppe Montana e del vicequestore Ninni Cassarà. Nel 1985 il sacrificio di due uomini di legge che sono stati inghiottiti dalla “palude”. Il 28 luglio del 1985 era una domenica d’estate e il commissario Beppe Montana, in forza alla sezione investigativa (antimafia) della squadra mobile di Palermo, diretta dal vicequestore Ninni Cassarà, entrava nel suo primo giorno di ferie dopo una lunga e laboriosa guerra ingaggiata con la mafia di Ciaculli, quella più “titolata”, che aveva fatto registrare buoni successi come il ritrovamento dell’arsenale del mandamento governato da don Michele Greco detto “Il Papa” e una serie di catture di buoni latitanti come Nino Vernengo della omonima “famiglia” in quel tempo plenipotenziaria del traffico della droga. Per festeggiare l’inizio delle vacanze Beppe aveva organizzato “una carbonella” nella casa che, insieme con la fidanzata Assia, aveva preso in affitto a Mongerbino, sul litorale tra Bagheria e Termini Imerese che guarda a Capo Zafferano, il golfo magnificato da Goethe nel suo celebratissimo viaggio. Ovviamente aveva invitato il suo capo e amico, Ninni, e la moglie Laura. Ed aveva aggiunto un gruppetto di amici, quasi tutti cronisti, tra cui il sottoscritto. Nessun altro poliziotto, perché Beppe e Ninni non erano proprio a loro agio con molti colleghi e superiori della mobile di Palermo, tranne poche eccezioni (come l’ispettore Pippo Giordano e l’agente Natale Mondo, due macchine da guerra). Erano troppo “disinvolti” nelle indagini e si muovevano senza timori reverenziali e con poche cautele, insomma poco timorosi della “palude” che li circondava ed era riuscita ad impadronirsi del ventre molle di una città che preferiva non vedere e non sapere. Saggio atteggiamento attecchito anche in uffici (come il Palazzo di giustizia) che, invece, avrebbe dovuto “vedere” per obblighi istituzionali. Ma in quella calda domenica estiva, piena di luce come solo Palermo può dare, la comitiva per una volta non aveva cattivi pensieri. I “fuochisti” si dedicavano al barbecue, Assia organizzava la tavola e il gruppo si sceglieva ognuno cosa fare per rendere più lieve il lavoro dei padroni di casa. Arrivò la notizia che Ninni e Laura erano stati trattenuti a Palermo da improvvisi impegni familiari e così ebbe inizio la “scampagnata”, conclusa con l’immancabile chitarra che Beppe maneggiò tenendo Assia seduta sulle gambe. Così li fotografai e quello fu l’ultimo scatto che esiste di Beppe e Assia. Si fece l’ora del ritorno al lavoro e il gruppo di giornalisti dovette salutare perché la domenica eravamo tutti impegnati nelle pagine sportive, il valore aggiunto delle edizioni del lunedì. Al momento dei saluti Beppe mi invitò ad andare con lui in motoscafo fino al rimessaggio di Porticello dove avrebbe tirato a secco la barca. Gli risposi che mi sarebbe piaciuto davvero, ma non volevo mettere in crisi i colleghi che sarebbero rimasti a lavorare anche per me. Ci salutammo fraternamente con l’impegno di rivederci presto. Ebbi il tempo di sedermi alla scrivania del giornale, poi un quarto d’ora, mezz’ora dopo squillò il telefono: “Hanno ammazzato Beppe Montana”. Lo avevano atteso al rimessaggio: un gioco da ragazzi ucciderlo con le pallottole ad espansione, visto che Beppe era pure disarmato, come si conviene ad un poliziotto in ferie. Furono in tre a sparare: Pino Greco, Giuseppe Lucchese e Agostino Marino Mannoia. Qualche tempo prima, davanti allo scempio provocato dall’attentato dinamitardo della “strage Chinnici”, Beppe aveva dichiarato pubblicamente: “A Palermo siamo poco più di una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà”. E tre giorni prima di morire aveva arrestato un gruppo di fedelissimi di don Michele Greco, aggiungendo un motivo d’odio in più, odio che lo avrebbe portato, lui catanese, a morire a 34 anni nella città rivale che affermava di “non capire”. E davanti al cadavere dell’amico, Ninni Cassarà si rivolse a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, accorsi sull’eco dei colpi di calibro 38 sparati a Porticello, dicendo: “Convinciamoci che siamo dei morti che camminano”. Era così Beppe, cresciuto in una famiglia “sana”, conquistato dal vento del ‘68, laureato in Giurisprudenza, ma non divenuto avvocato per scelta. Per questo si era ritrovato in sintonia con Ninni Cassarà, di quattro anni più grande, ma animato dall’identica vocazione legalitaria e dal rispetto per la legge. L’assassinio di Beppe Montana fu un colpo duro per la sezione investigativa e per l’intera città che già di lutti ne aveva subìti parecchi. Anche perché cominciavano ad emergere particolari sulle condizioni in cui erano costretti a lavorare i pochi uomini delegati alla lotta alla mafia. Venne fuori che lo stesso Montana, con l’appoggio del solito Cassarà, era riuscito a metter su la prima “squadra catturandi”, cacciatori di latitanti, che, seppure senza risorse, qualche fastidio cominciava a dare. Poi aveva scelto di abitare in una villetta ad Aspra, poco lontano da Mongerbino, nel cuore del regno dei traffici mafiosi che lui “monitorava” con un binocolo notturno, senza sospettare che le altre case attorno alla sua erano abitate da “sentinelle” dei trafficanti di droga. Fu un dirigente superiore che gli impose di lasciare quell’abitazione, troppo scoperta, troppo pericolosa, per un’altra in un anonimo condominio della Palermo “asfaltata” dal “sacco di Ciancimino” dei tempi d’oro di droga e cemento. E anche la scelta della villa di Mongerbino di quella domenica funesta non sembra fosse dettata esclusivamente dalla bellezza naturale di Capo Zafferano. No, sembra che Beppe fosse riuscito ad “agganciare” una donna, l’amante del killer Pino Greco detto “Scarpuzzedda” (uno dei tre killer che lo avrebbero ucciso), e questa gli avesse rivelato uno dei luoghi dei suoi incontri amorosi col boss: una villa a Mongerbino, non lontana da quella presa in affitto dal poliziotto. Insomma Montana si agitava assai, troppo per la “palude”. Le indagini, quasi naturalmente, furono prese dalla sezione investigativa di Ninni. Furono giorni convulsi e, caso raro nella storia delle inchieste siciliane, nacque persino una proficua collaborazione fra polizia e carabinieri. Poi un piccolo colpo di fortuna. Qualcuno annotò i primi numeri di una moto che abbandonava di corsa il rimessaggio dove era appena caduto Beppe. Non fu difficile per la polizia risalire al proprietario: Salvatore Marino, titolare di una rivendita di cozze e ricci di mare, ma anche conosciuto e stimato calciatore semiprofessionista. Il giovane fu preso a casa e portato alla squadra mobile dove fornì una serie di notizie ai controlli risultate false. Una perquisizione aveva fatto scoprire 34 milioni in banconote avvolte in un giornale che recava la data dell’omicidio Montana. Chiamato a giustificare il possesso di quella cifra, disse che erano soldi datigli dalla società di calcio per cui era tesserato. Ma la notizia fu smentita dai dirigenti, così, man mano che si affastellavano nuovi indizi, si andava radicando negli uomini che lo interrogavano la certezza che il giovane calciatore fosse in qualche modo invischiato nell’omicidio. Poi diede pure un alibi falso. Disse che all’ora della morte di Montana lui si trovava a Palermo da certi amici di cui fornì nomi e cognomi. Peccato che, interrogati dalla polizia, i testi negarono di essere stati in compagnia di Marino. Così la tensione cresceva e, ogni volta che si apriva la porta dell’ufficio dove Marino veniva interrogato, usciva l’agente Natale Mondo per dire: “Ci siamo, tra un po’ crolla e confessa”. Il culmine delle aspettative arrivò quando a casa di Marino venne trovata una maglietta imbrattata di sangue senza che il giovane sapesse darne spiegazione. Lì si deve essere rotto un equilibrio per lasciare il posto ad una sorta di impazzimento generale. Cassarà non era in ufficio e forse questo contribuì a provocare l’irreparabile. Qualcuno provò a forzare la mano, decidendo di ricorrere all’interrogatorio con la “cassetta”. In pratica il waterboarding molto usato poi a Guantanamo. Si tratta di una tortura: l’indiziato reticente viene disteso supino su una cassetta che gli inarca la schiena e viene costretto a bere acqua e sale attraverso un imbuto tenuto fermo in gola. È un’operazione che di solito veniva fatta da marescialli d’esperienza perché si rischiava di uccidere l’indiziato. Cosa che avvenne con Marino, morto per lo sfondamento della trachea provocato dall’imbuto mal piazzato. Facile immaginare cosa possa essere accaduto, quella sera, alla mobile di Palermo. Cassarà tornò in ufficio precipitosamente per ritrovarsi con un indiziato ucciso e con la certezza di aver oltretutto perso il biglietto della lotteria rappresentato da Marino che forse avrebbe potuto portare a tutti gli assassini di Montana. Ma Cassarà era il capo di quel manipolo di uomini ora disperati e spettava a lui trovare soluzioni. Operazione non facile perché tutto giocava contro quella folle decisione di “forzare la mano con l’interrogatorio”. Senza contare che, da quando Marino era stato portato vivo alla mobile, i suoi familiari non si erano allontanati un attimo ed aspettavano che uscisse per riportarlo a casa, convinti che il ragazzo l’avrebbe sfangata. Ma il tempo passava e di Marino non si sapeva più nulla. Ma anche dentro quegli uffici non stavano bene. A un certo punto il capo della mobile abbandona l’ufficio giustificando la dipartita con la necessità di andare a cambiare la camicia. E poi i giornali, i cronisti. Avrò chiamato mille volte Ninni e mille volte non aprì bocca tradendo un imbarazzo che non scemava neppure davanti alle mie offerte d’aiuto: perché si capiva che qualcosa era accaduto, qualcosa di grave. Fino a quando gli uffici scelgono la via più ardua e pericolosa. E, mentre Cassarà tenta la carta disperata di chiedere aiuto a Giovanni Falcone, comincia a farsi strada l’idea che si rivelerà un boomerang. Falcone non può far nulla per aiutare Cassarà, consapevole che ogni tentativo di mettere una toppa si sarebbe rivelato un rimedio peggiore del male. E allora via verso il baratro. Nella più completa assenza dei vertici della questura, che si guarda bene dal farsi coinvolgere, tutto viene affidato alla mobile che viene fuori con la notizia del ritrovamento di un cadavere nel mare di Sant’Erasmo irriconoscibile per la permanenza eccessiva in acqua. Si precisa, anzi, che “potrebbe trattarsi di un uomo di colore”. E invece era Marino, finito inspiegabilmente annegato senza mai essere uscito dagli uffici della squadra mobile. In un velocissimo colloquio avuto con uno dei dirigenti dissi subito che quella bufala non avrebbe resistito un minuto, visto anche lo schieramento di avvocati già pronti all’assalto. Ma furono irremovibili: “Questo sappiamo e questo vi diciamo. Punto”. La morte atroce di Salvatore Marino si rivela, com’è ovvio, una bomba, una bomba enorme che ha il potere di far perdere credibilità ad una intera stagione di lotta alla mafia costata lacrime e sangue. L’icona di questa Waterloo è rappresentata dalla bara bianca con Marino portata in spalla dai picciotti della Kalsa, quartiere di origine del giovane calciatore, al ritmo dello slogan “Poliziotti assassini”. Un funerale ad alta tensione, politicizzato dalla presenza di Marco Pannella. Ma verrà dallo Stato l’inevitabile, drastica decisione giunta per mano dell’allora ministro Oscar Luigi Scalfaro: azzerare tutti i vertici della squadra mobile e rimuovere il capitano dei carabinieri che collaborava alle indagini. Siamo al 5 agosto. Di fronte all’ondata di critiche Ninni Cassarà aveva reagito, anche senza molta lucidità, ma è comprensibile se si tiene conto di quelle condizioni ambientali. La domenica precedente al 6 agosto, giorno in cui verrà ucciso con una plateale mobilitazione di tutte le “famiglie di Cosa nostra”, Ninni mi chiama a casa e mi invita nel suo ufficio. Voleva rilasciarmi una intervista che ad una semplice lettura si rivelava una sorta di testamento. Soprattutto laddove se la prendeva “coi soliti Soloni che se ne stanno coi piedi al calduccio, mentre quattro disperati disarmati e mal organizzati combattono una battaglia impari”. Gli sconsigliai di rilasciare dichiarazioni di quel tenore con ogni evidenza riferibili ai suoi superiori e al ministero. Lui mi accusò di pavidità e io replicai: “Non ho paura per me, ma per te. Questa intervista è la certificazione della tua solitudine. Chi legge intuisce subito la rottura al vostro interno e la mafia sa cogliere i segnali. Si convincerà che sei stato mollato da tutti e potrà colpirti perché sei diventato un bersaglio facile che non sta a cuore a nessuno”. Non ci fu verso, ci lasciammo così: “Io non la scrivo questa intervista”. “Va bene, ci penso io”. La diede all’Ansa e due giorni dopo scattò l’agguato in via Croce Rossa. Ninni tornava a casa dopo giorni di assenza “precauzionale”. Nessuno sapeva che sarebbe tornato, ma i killer lo seppero. Una talpa? Forse. Arrivò in auto col fidatissimo Roberto Antiochia, un giovanissimo agente che gli faceva da scorta sebbene fosse in ferie e il solito, inseparabile Natale Mondo. L’auto fu investita da 100 colpi di kalashnikov sparati da una finestra di fronte, mentre Laura poteva osservare tutto affacciata al balcone con Elvira, l’ultima figlia appena arrivata, in braccio. Antiochia viene colpito subito, Ninni ha il tempo di varcare il portone ma viene colpito alla nuca da un proiettile, uno solo, di rimbalzo e muore prima di giungere all’ascensore. Era il 6 agosto, trentotto anni fa come oggi. Natale Mondo la fa franca perché cerca protezione sotto l’auto blindata. La mafia regolerà i conti con lui qualche anno più avanti, dopo che si era dovuto difendere, con successo ma a prezzo di sangue, dall’infamante accusa di essere stato la talpa che aveva tradito Ninni. Morì così uno dei più brillanti e puliti investigatori di Palermo. Ha pagato il non voler seguire i “consigli” alla prudenza che gli venivano dalla “palude” e non è servito a salvarlo il suo eccezionale “stato di servizio”: le indagini sulla “Pizza connection”, la fertilissima collaborazione con Giovanni Falcone, il lavoro massacrante nella ricerca dei riscontri alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, l’aver convinto Totuccio Contorno a collaborare quando ancora non era ufficialmente un pentito, il rapporto dei “162” che diventerà la cellula primordiale del maxi-processo istruito dal pool antimafia guidato da Falcone e Borsellino. Ma quello che certamente il potere mafioso non gli ha mai perdonato è la testimonianza del marzo del 1984 al processo per la strage Chinnici. Andò davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta a confermare che il consigliere istruttore era stato ucciso alla vigilia dell’emissione di mandati di cattura contro i grandi esattori Nino e Ignazio Salvo. Particolare non indifferente che, però, investigatori e magistrati di prima grandezza avevano negato, balbettando il rituale: “Vostro onore non ricordo bene”. Ma il potere, soprattutto quello mafioso, ricorda, perché ha la memoria lunga. Senza gli aiuti ai poveri c’è il welfare dei clan di Gian Carlo Caselli La Stampa, 6 agosto 2023 Collocare Paolo Borsellino nel proprio Pantheon è cosa buona e giusta. Purché poi si sia coerenti. Non sono tali, invece, certe scelte che il governo e il suo entourage amano inanellare. Il catalogo è ormai nutrito: la surreale discussione su un reato “inesistente”, il concorso esterno in associazione mafiosa; il garbato invito ad allontanarsi dal patrio suolo rivolto (insieme a una batteria di insulti) a un mite campione dell’antimafia come Luigi Ciotti; il masochistico licenziamento dalla Tv di stato di Roberto Saviano e delle sue preziose “lezioni” di legalità e giustizia; lo storno dal Pnrr, malamente giustificato, di 300 milioni destinati alla gestione dei beni confiscati ai mafiosi. E oggi, ecco una nuova voce: la cancellazione tout court per alcuni del reddito di cittadinanza e la sua trasformazione, per altri, in un lungo percorso a ostacoli dall’esito imprevedibile; reddito grazie al quale un consistente numero di poveri a malapena riusciva a campare, mentre ora neppure questo. C’entra anche qui la coerenza rispetto a Paolo Borsellino? Sì, se solo si voglia riflettere sul cosiddetto “welfare mafioso” e sui suoi effetti. Partendo da quel che ha scritto Alfonso Sabella, pm a Palermo, raccontando (nel libro “Cacciatore di mafiosi”) il suo primo colloquio col boss Pietro Aglieri, appena arrestato (1997). A domanda se intenda collaborare Aglieri risponde: “Vede, dottore. Quando voi venite nelle nostre scuole [dice proprio “nostre”] a parlare di legalità, di giustizia, di rispetto delle regole, di civile convivenza, i nostri ragazzi vi ascoltano e vi seguono. E, magari, tornano a casa a riferire ai genitori quelle belle parole che hanno sentito. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni e cercano un lavoro, una casa, un’assistenza economica e sanitaria, a chi trovano? A voi o a noi? Dottore, trovano a noi. E solo a noi. Lei è siciliano e lo sa bene che è così. Cosa collaboro a fare, allora? Solo per farvi arrestare qualche altra decina di padri di famiglia o per farvi trovare qualche pistola arrugginita? Cosa potrebbe cambiare se vi dicessi quello che volete sapere da me?”. Aglieri è un mafioso doc (sia pure di una certa cultura) e parla da mafioso, ma le sue parole - oltre che brutalmente funzionali ai suoi interessi criminali - sono chiare: se i diritti fondamentali dei cittadini non sono soddisfatti, i mafiosi li intercettano e li trasformano in favori che elargiscono non “gratis” ma per rafforzare il loro potere. Così la mafia vince sempre. E la società civile, la gente, non fa certo quadrato con lo stato. Ora, era già successo al tempo del Covid e potrebbe ripetersi oggi. I mafiosi hanno, nel loro Dna di sciacalli/avvoltoi, la perversa abilità di saper approfittare delle difficoltà e sofferenze altrui. E se i poveri non riescono a sfamare le proprie famiglie, ecco che ai mafiosi si aprono nuove opportunità di reclutare manovalanza criminale; e soprattutto di consolidare ed espandere il loro potere e il controllo del territorio: mediante la creazione di un “welfare” che elargisca (ecco le parole di Aglieri …..) quel che le istituzioni pubbliche non sono in grado di dare o addirittura hanno tolto intervenendo sul reddito di cittadinanza, per di più con un sms che solo l’insensibilità ottusa della peggior burocrazia poteva inventarsi. In questo modo, in progresso di tempo potrà rafforzarsi la presenza delle cosche, già tendenzialmente egemonica, in alcune aree del nostro paese, allargando il profondo fossato (presidiato dai caimani mafiosi e dai loro complici) che separa le istituzioni dai cittadini di quelle aree, allontanandoli dalla prospettiva di farsi alleati dello stato invece che sudditi rassegnati della mafia: che così vede allontanarsi la sconfitta che proprio Paolo Borsellino riteneva possibile, purché la lotta alla mafia non fosse soltanto “una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolga tutti, che tutti aiuti a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà”. Infine, se poi a queste preoccupazioni di semplice buon senso si risponde - nonostante i severi e univoci moniti del Capo dello Stato - con l’arrogante minaccia di commissioni d’inchiesta (versione moderna dell’intolleranza di infausta memoria verso gli indocili oppositori?), vien da chiedersi se non sia il caso di rispolverare l’antico brocardo latino secondo cui “quem Iuppiter vult perdere prius dementat”. Così la Consulta tutela la memoria delle stragi naziste di Franco Corleone L’Espresso, 6 agosto 2023 La Corte conferma la legittimità dei ristori per le vittime dei crimini commessi in Italia dal Terzo Reich. La Corte costituzionale, il 4 luglio scorso, era chiamata a decidere sulla legittimità del Fondo - istituito dal governo Draghi - per il ristoro dei danni subiti dalle vittime dei crimini di guerra e contro l’umanità per la lesione di diritti inviolabili della persona compiuti sul territorio italiano o comunque in danno di cittadini italiani dalle forze del Terzo Reich nel periodo tra il 1° settembre 1939 e l’8 maggio 1945. Un fondo introdotto con l’articolo 43 del decreto legge n. 36/2022, convertito nella legge n. 79 del 29 giugno 2022. Le questioni in gioco erano tante e delicate: dalla conferma del principio di tutela assoluta dei diritti umani, affermato dalla sentenza 238/2014, alla controversia internazionale con la Germania fondata sulla norma consuetudinaria di diritto internazionale che prevede l’immunità di uno Stato dalla giurisdizione di un altro Stato e la non sottoponibilità dei suoi beni a procedure esecutive, quando questi siano adibiti a una funzione pubblica. Non ultimo, si trattava anche del rispetto della dignità delle vittime e del diritto leso. Il 12 maggio si era svolto presso l’Università degli Studi di Ferrara un seminario preventivo “Amicus curiae”, i cui atti, consegnati tempestivamente alla Corte, di sicuro sono stati utili per la decisione. Un’ipotesi assai accreditata tra i giuristi era la scelta dell’inammissibilità della questione, magari con qualche invito al Parlamento ad attivarsi per precisare alcuni punti controversi. Sarebbe stata una via d’uscita pilatesca, con il rinvio della soluzione del problema in attesa di nuovi ricorsi. Invece la Consulta, meritoriamente, ha preso il toro per le corna e ha dichiarato non fondate le questioni proposte, con motivazioni serie e approfondite. La sentenza rappresenta un punto di equilibrio intelligente tra aspetti apparentemente inconciliabili e contraddittori. La Corte sottolinea che il legislatore ha adottato una “disposizione speciale e radicale” in continuità con l’accordo tra Italia e Germania del 2 giugno 1961, che avrebbe dovuto chiudere in modo definitivo ogni controversia con la corresponsione di 40 milioni di marchi tedeschi da destinare a indennizzi a favore delle vittime italiane, con una norma “virtuosa anche se onerosa”. Viene confermata l’eccezione umanitaria in presenza di crimini di guerra e contro l’umanità e anche la giurisdizione nazionale, per cui nelle cause civili la Germania potrà essere condannata per i fatti accertati. I crediti risarcitori saranno assunti dal Fondo. Un altro punto rilevante della sentenza è rappresentato dalla prescrizione del soddisfacimento integrale del credito risarcitorio, che è rimedio congruo. Una decisione coerente con l’affermazione dell’Avvocatura dello Stato, che nella discussione parlò delle vittime come “carne viva, non di creditori”. Le molte cause in corso hanno subito rallentamenti proprio in attesa della sentenza della Corte costituzionale; ora è auspicabile un’accelerazione, a cui gioverebbe anche l’approvazione del disegno di legge n. 733 del senatore Dario Parrini per chiarire il ruolo dell’Avvocatura dello Stato nel processo. La sentenza 159, davvero storica, è stata pubblicata il 21 luglio, anniversario della strage nella Malga Pramosio avvenuta nel 1944 in Carnia. Una coincidenza felice che rafforza la memoria collettiva dei valori della Costituzione. Il reato di molestie o disturbo alla persona si commette anche con l’invio di messaggi di posta elettronica di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2023 L’intrusività del mezzo che arreca turbamento o molestia al destinatario è dirimente e rende superato il riferimento al telefono. È l’invasività nella sfera privata del destinatario delle plurime comunicazioni, effettuate a fini di disturbo o molestia, a far scattare il reato previsto dall’articolo 660 del Codice penale. E non rileva che esse non siano realizzate con lo strumento del telefono come esplicitamente indica la norma. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 34171/2023 - ha precisato che il reato può ben essere commesso anche con l’inoltro di messaggi di posta elettronica. E, precisano i giudici di legittimità, tale conclusione è frutto di una doverosa interpretazione estensiva della norma e non di analogia, che nel diritto penale è vietata all’interprete chiamato ad applicare una data fattispecie di reato. Infatti, la norma incriminatrice punisce chiunque, “in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono”, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo. L’espressa indicazione del mezzo telefono - al fine di assicurare concreta tutela alla vittima di molestia o disturbo - va allargata secondo i giudici a tutti mezzi di comunicazione attraverso i quali venga attinto il bene della tranquillità privata, che è componente essa stessa dell’ordine pubblico. Infatti, qualsiasi turbamento o fastidio arrecato con l’uso intrusivo di un mezzo di comunicazione nella sfera privata della vittima è presupposto della consumazione del reato di molestia o disturbo alla persona. Non ricomprendere la posta elettronica - tra l’altro ormai sempre accessibile dal telefono cellulare - equivarrebbe a lasciare prive di tutela situazioni di molestia o disturbo arrecati con un mezzo diverso dal telefono. La Cassazione ripercorre i dovuti ampliamenti - realizzati dalla giurisprudenza - della fattispecie di reato al fine di poter tener conto dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione e del conseguente necessario superamento del dato letterale contenuto nella disposizione penale riferito al telefono. Già si erano registrati orientamenti che tenevano conto anche della messaggistica che viaggia sul telefono cellulare e, in particolare, puntando l’attenzione sulla funzione che avvisa della ricezione il destinatario tramite l’emissione di un suono. Ma tale allargamento rientrava comunque nella nozione di “sincronia” della comunicazione - quale quella rappresentata da una “classica” telefonata - che mette in contatto immediato il soggetto attivo del reato e il soggetto passivo che subisce il contatto indesiderato agito per biasimevoli motivi. L’attuale decisione della Cassazione dà rilievo, invece, a un recentissimo precedente che ha ravvisato nell’“intrusività” delle comunicazioni ricevute la lesione del bene giuridico protetto dalla norma penale. Superando quindi ampiamente la necessità della sincronia tra azione lesiva e il turbamento o il fastidio arrecato. La sola necessità di accedere a un proprio strumento di comunicazione e di appurare la presenza di contatti da parte del molestatore o disturbatore è alla base del danno arrecato alla privata tranquillità di una persona. Nel caso concreto risolto dalla Cassazione viene data rilevanza anche alla circostanza che la casella di posta elettronica fosse quella istituzionale cioè di lavoro della vittima, da cui consegue il dovere di consultarla per il proprio adempimento verso il datore di lavoro. Infine, la Cassazione pone in un alveo di totale irrilevanza la possibilità che ha l’utente di un telefono cellulare o di una casella di posta elettronica di disattivare i segnali di ricezione di una data comunicazione o di tutte quelle ricevute. In quanto l’azione di disattivamento, se si fonda sul turbamento o sul fastidio provato dal destinatario, è già prova che il bene protetto è stato attinto e il reato è risulta consumato. La mamma dell’assassino (e lo sforzo sovrumano del perdono) di Maurizio Patriciello* Avvenire, 6 agosto 2023 Una telefonata da un numero sconosciuto. Chi mi cerca è una donna distrutta dal dolore. Uno dei suoi figli è in un carcere. Anni fa si macchiò di un orribile delitto. Ha bisogno di parlare, di sfogarsi, di piangere, di trovare un pizzico di conforto. La ringrazio. Ciò che mi ha donato non è paragonabile a ciò che da me ha potuto ricevere. Un mare di lacrime. Lacerata tra la sete di verità, di giustizia e il suo amore di mamma. Nemmeno per un attimo tenta di giustificare il figlio. Per i genitori e i fratelli della vittima ha solo parole di comprensione, di compassione, di affetto, di pietà. “Hanno ragione, hanno solo ragione. Io, Giuseppe, in carcere, posso ancora vederlo, loro mai più potranno riabbracciare il figlio. Hanno ragione a pretendere per il condannato pene più severe. Ho chiesto tante volte di poterli incontrare, per gettarmi ai loro piedi, invocare il loro perdono e piangere insieme. Non se la sentono, hanno ragione. Hanno solo e sempre ragione. Io però sto morendo. Sono mamma anch’io…”. Una storia triste oltre ogni dire. Gli anni di carcere per chi ha tolto la vita a un essere umano sono sempre pochi; la famiglia della vittima mai potrà essere adeguatamente risarcita. Indietro, purtroppo, non si torna. Puoi solo scontare la pena, pentirti, chiedere perdono, roderti dentro, tentare di rimediare in qualche modo, altro non puoi fare. “Non uccidere” è il comandamento antico. Non uccidere, ma ama, dona, servi è il comandamento nuovo. Per la famiglia della vittima, giustamente, scatta una solidarietà spontanea; poche volte ci soffermiamo a pensare che anche l’assassino ha una mamma, un papà, dei fratelli, dei figli. Persone innocenti, coinvolte, senza volerlo e senza responsabilità, nella stessa tragedia. Anna - nome di fantasia - la signora che mi ha telefonato, è sull’orlo della disperazione. Una donna di fede, ancora giovane. Prega. Si sente in colpa perfino per la segreta speranza - legittima, umana, materna - di vedere accorciati gli anni di detenzione del figlio. La avverte quasi come un peccato. “Non è giusto, lo so… ma io sono sua mamma… che deve fare una mamma?”. Già, che deve fare la mamma dell’assassino? “Devi fare la mamma. E continuare ad amarlo, accompagnarlo, sostenerlo. Devi continuare a pregare per lui, per la sua conversione. Devi fare tutto ciò che la giustizia umana e il tuo cuore ti consentono di fare” suggerisco. Non sempre ce ne rendiamo conto, eppure quante persone coinvolgiamo, nel bene e nel male, nelle nostre quotidiane azioni. Quanta prudenza, quanto discernimento, quindi, dovremmo esercitare prima di proferire una parola, prendere una decisone, lasciarci andare a un atto di impazienza, o, peggio, di violenza fisica, psicologica, verbale. La telefonata volge a termine. Una fraterna amicizia è nata. Mi accorgo di non aver riflettuto molto, prima di oggi, sul fatto che dietro un assassino, tenuto giustamente in prigione, ci sono tante altre persone, che vivono alla sua ombra, condannate a soffrire innocentemente. Familiari che ripudiano e si vergognano dell’azione obbrobriosa del loro caro, ma continuano ad amarlo. L’amore di Anna per il suo Giuseppe mi ricorda l’amore smisurato di Dio per ognuno di noi. Il Signore che odia il peccato, non ci rinnega, non ci disprezza, non ci allontana ma continua a tenderci la mano. I genitori e figli degli assassini: un briciolo di umana pietà anche per loro. Sperando e pregando che le famiglie delle vittime possano, facendo uno sforzo sovrumano, concedere il perdono a chi lo implora. Indietro, purtroppo, non si torna. Occorre guardare avanti. E davanti, oltre alla giustizia che deve fare il suo corso, potrebbe essere imboccata la liberante strada della riconciliazione e del perdono. Perdono che, dato e ricevuto, darebbe una forza immensa a tutti per continuare a vivere in compagnia di un dolore che non passa. Come sarebbe bello se queste due mamme dilaniate e stanche potessero incontrarsi. Il loro abbraccio sincero contribuirebbe a sciogliere il ghiaccio che “da quel giorno” tiene congelati i loro cuori. *Parroco del Parco Verde a Caivano (Na) Milano. San Vittore e la morte di due detenuti: “Situazione al limite” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 6 agosto 2023 Uno si è suicidato, l’altro ha inalato gas come una droga. La Presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanna Di Rosa: “Serve una rete che intercetti questi soggetti per prevenirne ì comportamenti”. Un detenuto si è suicidato e un altro è morto dopo aver inalato gas come fosse droga solo negli ultimi giorni: a San Vittore finiscono sempre più persone con gravi problemi psichiatrici, di dipendenza e di disagio perché fuori il sistema sociosanitario non riesce ad occuparsi di loro e non è in grado di farlo al meglio neppure dentro. “Una situazione drammatica che potrebbe avere gravi conseguenze”, dice l’avvocato Antonella Calcaterra che lancia l’allarme dopo che una delegazione dell’associazione Nessuno tocchi Caino, di cui fa parte, e della Camera penale di Milano ha visitato l’istituto. “Bisogna rafforzare i servizi territoriali per evitare che queste persone entrino in carcere per comportamenti legati alle loro patologie. Quando invece vi entrano e le patologie insorgono la risposta è carente, non perché l’amministrazione e gli operatori non facciano di tutto, ma perché sono le risorse ad essere carenti”, afferma Calcaterra. “Con appena 12 educatori e il dimezzamento negli ultimi sei anni delle ore di trattamenti psichiatrici, la coperta è sempre più corta”, avverte l’avvocato Valentina Alberta della Camera penale, mentre l’associazione Antigone evidenzia anche le “criticità” dovute al sovraffollamento che supera il 126%. Anche se i due ultimi decessi sono legati a condizione personali, secondo il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa “questi eventi drammatici pongono domande sulla tenuta di un sistema che non è in grado di evitarli”. Il problema, aggiunge, “è di strutturare un percorso che prenda in carico la persona. Come giudici di sorveglianza (competenti sui detenuti, ndr) facciamo il possibile, sollecitiamo le istituzioni per trovare posti nelle strutture sanitarie, nelle comunità, nelle Rems ma il sistema è insufficiente”. A San Vittore, precisa, “gli operatori sono bravissimi e l’amministrazione si è sempre prodigata per evitare che questi comportamenti portassero a conseguenze gravi”. La situazione delle dipendenze è così drammatica che ci sono detenuti che arrivano ad ingerire i gel disinfettanti perché contengono alcol o a grattare la vernice dai muri per inalarne i componenti. Durante la visita, gli agenti sono dovuti intervenire per bloccare un recluso che stava tentando di uccidersi stringendosi un lenzuolo al collo ed un altro che stava colpendo un tavolo con la testa. Il rischio sono le conseguenze sugli altri detenuti. Serve “una rete che intercetti questi soggetti per prevenirne ì comportamenti”, aggiunge Di Rosa che nei mesi scorsi, d’intesa con il presidente della Corte d’Appello Giuseppe Ondei, ha avviato un tavolo con Regione Lombardia e Comune di Milano. Palermo. In carcere a 86 anni e con l’ulcera perforata, la denuncia del Garante dei detenuti La Repubblica, 6 agosto 2023 Condannato a sei anni si muove su una sedia a rotelle assistito dai compagni di cella all’Ucciardone di Palermo. Il garante Pino Apprendi: “Chiediamo che ottenga i domiciliari”. Ha 86 anni, l’ulcera perforata e non può camminare, ma è in carcere da sei mesi all’Ucciardone di Palermo, dove è assistito dai compagni di cella. A raccontare la sua storia è il garante dei detenuti del Comune di Palermo, Pino Apprendi. “Ieri ho ricevuto una richiesta d’incontro da parte di due detenuti, tramite una segnalazione del Garante regionale e sono andato all’Ucciardone. Sono rimasto senza parole: è venuto verso di me un signore sulla sedia a rotelle, spinta dall’altro detenuto che aveva fatto la richiesta. L’uomo sulla sedia a rotelle ha 86 anni, e non si reggeva in piedi: ha l’ulcera perforata, oltre a uno stato confusionale evidente. E’ in carcere da Natale e deve scontare sei anni, incensurato prima di questa condanna. Per mia abitudine non chiedo mai il motivo per cui è stato condannato, io non giudico”. In carcere l’uomo è assistito dai compagni di cella nelle sue esigenze quotidiane: “Lo aiutano a farsi la doccia”, spiega Apprendi, che nei prossimi giorni, sentito il legale del detenuto, scriverà al magistrato di sorveglianza per chiedere la possibilità dei domiciliari: “Non può camminare - aggiunge Apprendi- e dunque dove potrebbe andare? Io mi chiedo solo se sia accettabile il carcere per una situazione del genere”. La moglie del detenuto ha 84 anni, vive da sola e non deambula, è costretta a letto. “Lui - conclude Apprendi - è di fatto condannato a morire in carcere, sebbene nel nostro Paese la pena di morte esista”. Treviso. Il nuovo direttore dell’Ipm: “Voglio ridare un futuro ai ragazzi” di Maria Elena Pattaro Il Gazzettino, 6 agosto 2023 “Vogliamo restituire il futuro ai ragazzi che entrano qui”. Girolamo Monaco, il nuovo direttore del carcere minorile di Treviso, sa di avere di fronte a sé una sfida. L’istituto penale per minorenni (Ipm) di Santa Bona ha riaperto a fine luglio, dopo un anno e mezzo di chiusura forzata per i danni provocati dall’incendio scoppiato durante la rivolta di aprile 2022. A fine luglio la struttura è tornata a regime e ad oggi ospita già tre adolescenti. Una ripartenza in salita, viste le polemiche del sindacato Fp Cgil, che nei giorni scorsi ha presentato un esposto in procura per fare luce sulla “poca sicurezza della struttura, soprattutto in caso di incendio”. Segno che la ferita della rivolta non si è ancora cicatrizzata del tutto. Ma Monaco sorride nel cortile interno dell’istituto, dove si affacciano le celle dei ragazzi. “Ho l’impressione che qualcuno stia remando contro. Noi però siamo qui per fare il nostro lavoro e per offrire un’opportunità di riscatto e di reinserimento a questi ragazzi” dice lasciandosi alle spalle la stanza dei colloqui e addentrandosi nella sala comune. Sogna un carcere “umanizzato, dove tutto può essere oggetto di confronto e di mediazione”. In trent’anni di carriera, come educatore e poi come direttore di carceri minorili si è convinto che “i veri mostri si creano quando manca il dialogo, quando le regole vengono applicate alla lettera senza spiegare i motivi che ne stanno alla base”. Regola e anima, dunque: sono questi i due princìpi che tenterà di conciliare durante il suo mandato, con il proposito di lasciare il segno, in una struttura che nessuno voleva dirigere, complice lo stigma che dopo la rivolta accompagnava l’Ipm. Girolamo Monaco, siciliano di 60 anni, ha raccolto la sfida dopo le esperienze maturate a Catania, Acireale e Caltanissetta. L’Ipm di Santa Bona, struttura di riferimento per tutto il Nord Est, può ospitare 12 ragazzi, anche se il ministero della Giustizia ha deciso di abbassare il tetto a 10 per avere più spazi a disposizione. L’organico conta 29 agenti di polizia penitenziaria, 5 educatori e un servizio sanitario condiviso con la vicina casa circondariale. Altre figure-chiave sono il mediatore culturale per i ragazzi stranieri e l’animatore sportivo. Ci sono poi gli insegnanti che durante l’anno vengono a fare lezione in carcere. L’offerta formativa copre tutte le scuole di ogni ordine e grado e i percorsi vengono progettati insieme ai ragazzi, in base alle esigenze e agli interessi di ciascuno. Traguardi raggiunti con pazienza, in decenni di lavoro e di cui ora si stanno riannodando i fili. “I ragazzi passano nove ore fuori dalla cella più il tempo dei pasti - spiega il direttore -. È importante che stiano in gruppo e impegnino il tempo in modo costruttivo. Abbiamo la responsabilità di restituirli al territorio. Non siamo un’isola, ma un tutt’uno con territorio. Per questo il carcere deve essere “aperto” all’incontro con ciò che sta fuori”. Come? Attraverso laboratori, attività e incontri con i coetanei. “In cantiere c’è anche un corso con dei vogatori - spiega Monaco -. Ecco, il mio desiderio per quest’anno è che anche un solo detenuto ottenga un permesso per disputare la gara fuori”. L’obiettivo è far capire che il carcere può essere un incidente di percorso, non uno stigma indelebile. Un punto di svolta verso un futuro più luminoso, non una spirale ripiegata sugli errori del passato. “I reduci alla Rambo fanno solo danni - osserva il direttore -. Il carcere è davvero efficace se permette al detenuto di capire che deve restituire alla società qualcosa che ha tolto e cioè la serenità di una vita tranquilla”. Una giustizia a “tre facce” dunque: punitiva, riabilitativa ma anche riflessiva. “Mi viene in mente il caso di un ragazzo finito dentro per la rapina a un bar. Anni dopo ha scritto una lettera al barista: “Tu forse non ti ricordi di me. Sono il ragazzo che ti ha rapinato. Ti chiedo solo di poter venire da te, a bere un caffè e di pagarlo, stavolta”. Ecco, questo è il carcere che sogno per i nostri ragazzi”. Lucca. Il carcere di San Giorgio ai raggi X: poco personale di Maurizio Guccione La Nazione, 6 agosto 2023 È un rapporto che deve far riflettere quello pubblicato dall’Associazione “Antigone” che, con sede a Roma, è impegnata da molti anni nella tutela dei diritti del sistema penitenziario e penale del nostro Paese. Il diciannovesimo rapporto, presentato qualche settimana fa su dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, analizza l’intero anno 2022 che l’associazione definisce senza mezzi termini come “un anno da dimenticare”. Nella nostra città è presente la Casa Circondariale di San Giorgio, posta in pieno centro storico, nella silenziosa via San Giorgio. Un’ubicazione oggi anacronistica, come più volte è stato sottolineato. Su questo, ripetutamente e nel tempo, alcuni esponenti politici hanno avanzato la proposta di prevederne il trasferimento al di fuori delle Mura, ipotizzando anche il recupero dell’attuale struttura. La Casa circondariale lucchese, al momento della visita ospitava 67 detenuti mentre la capienza regolamentare è di 62. Il numero delle persone detenute, ma in semilibertà, era di 12 unità. Durante l’ispezione, la totalità era costituita di soli maschi con una percentuale di stranieri del 52,2%. Nel rapporto di “Antigone”, vengono passate al setaccio le condizioni del carcere: una fotografia che riguarda l’ultima visita effettuata il 18 giugno dello scorso anno. Vediamo che cosa contiene il rapporto di “Antigone”. Nelle sezioni ordinarie, le “camere di pernottamento” sono da due persone, dotate di bagno in spazio separato. Le docce sono al di fuori, con accesso garantito nei momenti di apertura. Il rapporto dell’Associazione che si occupa di monitorare lo stato di salute delle carceri nell’ottica della garanzia del sistema penitenziario, prevede la verifica delle condizioni in cui si vive all’interno. A Lucca, per esempio, nelle celle visitate non sono garantiti 3 mq calpestabili per ogni persona, mentre tutte le celle visitate hanno il riscaldamento che risulta essere funzionante. Non è invece garantita l’acqua calda. I servizi sanitari sono collocati in ambienti separati, ma non è presente la doccia. Non risulta, peraltro, la separazione dei “giovani adulti” dagli adulti. Esiste uno spazio dedicato a scuola e formazione, ma non vi sono spazi per le lavorazioni. È presente un locale di culto ma, secondo il rapporto, “non per detenuti non cattolici”. I detenuti possono accedere, settimanalmente, alla palestra. Vi è una biblioteca frequentata, si legge nel rapporto, anche come spazio comune di sala lettura e aula studio. Passiamo adesso al personale. Secondo il rapporto, “la polizia penitenziaria prevista è di 93 unità, ma quella effettivamente presente ammonta a sole 77 unità”. La pianta organica prevede due educatori che nel momento della visita risultavano presenti. È riportata inoltre la presenza di “ministri di culto diversi dal cappellano cattolico”. I volontari sono 48 e, secondo Antigone, il magistrato di sorveglianza entra in Istituto almeno una volta al mese. I colloqui si svolgono tutti i giorni, eccetto la domenica, ed è possibile prenotare il colloquio via telefono e di persona. Attualmente la Casa circondariale di Lucca è diretta dalla dottoressa Santina Savoca. Infine, il Rapporto “Antigone” sottolinea che “a fronte della chiusura di due delle quattro sezioni previste, le sezioni detentive ordinarie rimangono due; a queste si aggiunge la sezione destinata alle persone con disabilità, all’interno della quale sono ospitati anche coloro in articolo 21 e in semilibertà”. Verona. Diritto allo studio per i detenuti, l’accordo tra Università e Comune giornaleadige.it, 6 agosto 2023 È stato approvato dalla Giunta l’accordo tra Università e Comune di Verona che permetterà pari opportunità di studio e formazione alle persone detenute, o in regime di limitazione della libertà individuale. Obiettivo dell’iniziativa, facilitare un migliore reinserimento nella società. Il progetto si focalizzerà sui detenuti della “Casa 2 circondariale” di Montorio, ovvero in regime di limitazione della libertà personale, in carico all’UEPE di Verona e Vicenza e al Centro per la giustizia minorile del Veneto che potranno usufruire del diritto alla formazione professionale superiore. Si tratta di un’iniziativa proposta dall’Università di Verona che da tempo organizza convegni e propone insegnamenti che vedono la sinergia tra le facoltà di Giurisprudenza e Scienze della Formazione. Diritto allo studio per rientrare in modo positivo nella società civile - “L’iniziativa - ha spiegato l’assessora Stefania Zivelonghi, intervenuta anche a nome dell’assessore alle Pari Opportunità Jacopo Buffolo, promotore del progetto - si sviluppa in ambito di pari opportunità, ma ha grande attinenza anche con la mia delega della Sicurezza. L’accordo, preso su input e su proposta dell’Università, rinsalda e ripropone un percorso di collaborazione tra il Comune e l’ateneo veronese, in favore del recupero di chi è soggetto a limitazione della propria libertà. Il nostro Comune ospita una casa circondariale dove sono presenti persone adulte, non minori, ma anche di giovane età, a cui può essere proposto un percorso di recupero che dia loro nuove prospettive attraverso una crescita formativa. Sappiamo che la detenzione è solo una parte residuale del percorso di repressione, quindi è fondamentale integrarla con interventi che possono aiutare i soggetti coinvolti a rientrare in modo positivo nella società civile”. Numerosi gli enti che hanno aderito al progetto, tra questi anche il Provveditorato Regionale Dell’amministrazione Penitenziaria Per Il Triveneto, il Centro per La Giustizia Minorile per il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e le Province Autonome di Trento e Bolzano, il Centro Provinciale per l’istruzione degli Adulti (Cpia), il Garante dei Diritti delle Persone private della Libertà Personale, il Tribunale Di Sorveglianza Di Venezia, l’ufficio di Sorveglianza di Verona e l’ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Verona. Locri (Rc). Nel carcere dove si riparano vite. Coi saponi di Antonio Maria Mira Avvenire, 6 agosto 2023 Il progetto voluto da Caritas, Tribunale e Casa circondariale. E chi vi partecipa, una volta uscito, trova occupazione. Dall’olio esausto lavorato dai detenuti è nata la linea di prodotti “Bergolio”, benedetta dal Papa. Gli scarti delle produzioni che vengono lavorati dagli scarti della società. Accade nel carcere di Locri, tra profumi di bergamotto e ulivo. Profumi di impegno e cambiamento. È il progetto “Profeti di speranza, mendicanti di riconciliazione” della Caritas della diocesi di Locri-Gerace in collaborazione col Tribunale e la Casa circondariale di Locri, l’Uepe e la cooperativa “Felici da matti” Un’iniziativa per dare lavoro a detenuti e ex detenuti, ma anche di più, come ci spiega la direttrice della Caritas diocesana, Carmen Bagalli. Un progetto fortemente voluto e sostenuto dal vescovo Francesco Oliva che più volte è stato in carcere per incontrare i detenuti. Un carcere strapieno. La capienza sarebbe per 60 persone, ma attualmente ne ospita 120, metà stranieri. Con questi numeri le attività lavorative diventano difficili anche se ancor più necessarie. Ecco il motivo del progetto della Caritas, finanziato coi fondi dell’8xmille, che per ora coinvolge 4 detenuti tra i 30 e i 40 anni, due italiani e due stranieri. Non hanno diritto al lavoro esterno, così il lavoro è entrato in carcere grazie alla Caritas. Lavoro che diventa poi fondamentale per chi esce dal carcere dopo aver scontato la pena. Così 3 ex detenuti, che avevano già cominciato a lavorare durante la pena, una volta usciti hanno trovato occupazione, uno per la Diocesi, due per il Santuario della Madonna di Polsi, occupandosi della manutenzione e dei terreni agricoli. “È giustizia riparativa” commenta con soddisfazione Carmen. Come tutto il progetto. E allora torniamo in carcere. Qui in un laboratorio i 4 detenuti confezionano i saponi prodotti dalla cooperativa “Felici da matti” utilizzando oli esausti da frittura e l’essenza del bergamotto, il profumatissimo agrume tipico calabrese e in particolare della Locride. I detenuti non possono produrre i saponi perché in carcere è vietato far entrare sostanze chimiche come la soda necessarie perla realizzazione. Così si limitano a confezionarli in belle scatolette che portano scritto “Naturali Terre di Calabria”. Inoltre nella falegnameria del carcere realizzano portasapone in legno di ulivo riciclato, materiale di scarto regalato da agricoltori e falegnami. Ancora una volta lo scarto che ha una nuova vita. Come la storia della cooperativa nata nel 2003 a Roccella Ionica, quando vescovo era padre Giancarlo Bregantini, come gesto concreto del Progetto Policoro della Cei per l’imprenditoria giovanile al Sud. “Nasce da un’esperienza di fede e volontariato, dall’associazione che gestiva la mensa e lo sportello per i poveri” ricorda la presidente Teresa Nesci. Poi si passa alla raccolta di abiti usati trasformati in stracci per le pulizie che vengono acquistati anche da Trenitalia e Medcenter. “Il nostro obiettivo è il recupero di quello che per altri è uno scarto, sia ambientale che sociale”. Così la cooperativa lavora coi disabili, soggetti fragili e detenuti. Produce saponi e anche una serie di detersivi e detergenti per la casa che portano sull’etichetta il nome “Bergolio” bergamotto e olio. “Abbiamo scritto a Papa Francesco per chiedergli se era dispiaciuto per l’uso di questo nome che ricorda il suo. Ci ha risposto che era molto contento e ci ha benedetto”. La loro è vera economia circolare, dalle 60 tonnellate di olio esausto raccolto ogni anno, all’utilizzo di materie prime naturali e legate al territorio come il latte di capra, il fico d’India, la menta, gli agrumi. Ora il progetto in carcere. I quattro detenuti sono regolarmente pagati grazie a tirocini formativi finanziati dalla Caritas della durata di sei mesi prorogabili, inoltre la cooperativa acquista i porta sapone. Per queste attività sono seguiti da due tutor anche questi pagati dalla Caritas. Un sostegno economico importante perché questi detenuti hanno famiglie che devono essere aiutate. E non ci si ferma qui. Il progetto vuole unire l’attività lavorativa al miglioramento delle condizioni personali dei detenuti. Così si sta realizzando un emporio solidale presso il quale potranno reperire vestiario e prodotti per la pulizia. Coinvolte le parrocchie del territorio chiedendo però abiti nuovi, “perché non è giusto dare i nostri scarti a chi è già scartato”. Il percorso di ricostruzione personale viene completato da uno di spiritualità grazie al cappellano don Crescenzo De Nizio e alla squadra educativa Caritas, e che prevede momenti indicati con le tre “P” di Presenza, Preghiera e Parola, ed è indirizzato a detenuti di tutte le religioni. Inoltre sarà attivato proprio presso la Cappellania un laboratorio artigianale per la realizzazione retribuita di braccialetti e Corone del Santo Rosario della Pace. Un vero lavoro di squadra, col sostegno determinante e convinto del presidente del tribunale di Locri, Fulvio Accurso, che ha portato addirittura alcuni detenuti a lavorare per la ristrutturazione del Palazzo di giustizia. Salario minimo: servono interventi energici, basta misure parziali di Valeria Cirillo* e Rinaldo Evangelista** Il Manifesto, 6 agosto 2023 Potere d’acquisto. Sono necessarie azioni immediate ed energiche per la difesa del potere di acquisto dei salari, a partire dal rinnovo dei contratti collettivi e dall’introduzione di un salario minimo indicizzato all’inflazione. A cominciare dai circa tre milioni di lavoratori che in Italia percepiscono una retribuzione oraria inferiore ai 9 euro. Dal 2022 la ripresa dell’inflazione ha aggravato la caduta dei salari reali in Europa. L’impennata dei prezzi ha eroso il potere d’acquisto dei redditi da lavoro e ha approfondito le disuguaglianze salariali in tutti i Paesi europei. In Italia gli effetti negativi dell’inflazione su redditi e salari sono stati particolarmente forti: l’inflazione è stata più alta che altrove e i salari reali sono diminuiti più della media europea. Il forte calo dei salari reali in Italia è dipeso dunque dall’aumento del costo della vita - come dimostra l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) che è cresciuto nell’ultimo anno e mezzo più rapidamente rispetto al resto d’Europa - ma soprattutto dalla lenta dinamica delle retribuzioni nominali per ora lavorata. Come ha sottolineato l’Istat pochi giorni fa, nonostante la dinamica tendenziale delle retribuzioni contrattuali abbia segnato un miglioramento nell’ultimo anno - a giugno 2023 la crescita su base annua è stata del +3,1% - e l’inflazione negli ultimi mesi abbia iniziato a rallentare, la distanza fra dinamica dei prezzi (IPCA) e quella delle retribuzioni supera ancora i sei punti percentuali nei primi due trimestri del 2023. Non vi è stato dunque un recupero del potere d’acquisto dei salari. Anche l’OCSE nel recente Economic Outlook prevede un incremento dei salari del 3,7% nel 2023 e del 3,5% nel 2024, a fronte però di una inflazione che è prevista rimanere ad un livello di circa il 6,4% nel 2023 e del 3% nel 2024. Dunque, a meno che non vengano messe in atto politiche specifiche o non si verifichino cambiamenti nel contesto delle relazioni industriali, nel 2023 i lavoratori italiani continueranno a sperimentare un’ulteriore caduta del potere d’acquisto dei loro salari. Inoltre, sempre secondo l’Istat, i contratti in attesa di rinnovo a fine giugno 2023 sono 31 e coinvolgono circa 6,7 milioni di dipendenti. Vale a dire il 53,9% dei lavoratori dipendenti è ancora in attesa di rinnovo e per loro la caduta dei salari reali sarà ancora più consistente. Come abbiamo sottolineato in un recente contributo - “L’inflazione in Italia. Cause, conseguenze, politiche” in uscita ad ottobre per Carocci - in Italia i salari reali negoziati hanno reagito molto lentamente, e solo in misura limitata, all’ondata inflazionistica. Sebbene in linea di principio la contrattazione collettiva dovrebbe contribuire a mitigare le perdite del potere d’acquisto dei salari, e a garantire una distribuzione più equilibrata del costo dell’inflazione tra imprese e lavoratori, nel corso del 2022 l’onere maggiore si è scaricato sul lavoro dipendente. I redditi da lavoro hanno contribuito solo marginalmente all’aumento dell’inflazione in Italia, in linea con quanto già sottolineato per l’Europa dalla Banca Centrale Europea. Nel corso del 2022 l’inflazione è stata “alimentata” principalmente dalla crescita dei profitti unitari. Ciò implica che, nel contesto attuale, il temuto rischio dell’attivazione di una “spirale prezzi-salari” sia di fatto molto limitato. Le cause principali della più recente fase inflazionistica vanno ricercate piuttosto nel modo in cui le imprese sono state in grado di trasferire la crescita dei prezzi dei prodotti energetici e di altri input intermedi sui prezzi di vendita. Le conseguenze dell’inflazione in Italia sono state più gravi che in altri Paesi anche a causa delle debolezze strutturali del suo mercato del lavoro, caratterizzato da un’ampia quota di posti di lavoro non standard, a breve termine e da livelli salariali reali medi che erano molto bassi (rispetto alla media europea) già prima della recente ondata inflazionistica e in significativa flessione da più di quindici anni. Negli ultimi tre anni i redditi da lavoro dipendente hanno subito comunque un ennesimo durissimo colpo: alla fine del 2022 i salari reali erano inferiori del 7,5% rispetto a prima della pandemia. Questa flessione dei salari reali ha ampliato in modo significativo il bacino dei “lavoratori poveri” e la quota di famiglie che si trova al di sotto della soglia di povertà assoluta e relativa. Come prevedibile, l’inflazione ha anche ampliato le disuguaglianze tra le classi sociali e all’interno della forza lavoro. Le misure pubbliche di mitigazione, per quanto consistenti, non sono riuscite a contenere la perdita di potere d’acquisto dei redditi medio-bassi e ad invertire il processo di polarizzazione sociale in atto da decenni. Si rendono quindi necessarie azioni immediate ed energiche per la difesa del potere di acquisto dei salari, a partire dal rinnovo dei contratti collettivi e l’introduzione di un salario minimo indicizzato all’inflazione. Quest’ultimo, pur essendo una misura parziale e non risolutiva, potrebbe comunque contribuire a recuperare almeno una parte del potere d’acquisto perso dalla componente più debole della forza lavoro, ovvero quei circa tre milioni di lavoratori che in Italia percepiscono una retribuzione oraria inferiore ai 9 euro. *Università di Bari **Università di Camerino Cosa è il reddito di dignità e chi ne ha diritto, la proposta del Lazio per combattere la povertà di Eleonora Mattia* L’Unità, 6 agosto 2023 L’abolizione del Reddito di Cittadinanza è stata definita dai difensori del sussidio ora come una insensata lotta ai poveri, ora come una battaglia ideologica da parte del Governo di destra intento ad annientare l’eredità di una misura di cui non poteva vantare la primogenitura. A pensarci bene, queste osservazioni sono solo una piccola parte della verità. La grande verità invece è che il Governo Meloni, più che fare la guerra ai poveri, in questo modo tutela lo sfruttamento di lavoratrici e lavoratori e la cultura dello sfruttamento. Ovvero: garantisce che sia perpetrato il profitto basato sulla precarietà del lavoro. Lo dimostra la narrazione di chi afferma che per “per colpa del Reddito di Cittadinanza” non si trovano persone disposte ad essere pagate meno dei 780 euro mensili garantite dal Reddito di Cittadinanza. È proprio questo il punto: il sussidio ha colpito al cuore quel sistema produttivo primitivo basato sul ricatto. Perché in quell’organismo malato che è il capitalismo dell’austerità è più facile colpire le fasce più deboli che avere il coraggio di fare delle riforme strutturali in grado, ad esempio, di agevolare le imprese abbassando il costo del lavoro, favorire il potere d’acquisto delle famiglie adeguando redditi e contratti al progressivo aumento del costo della vita, far pagare le tasse in maniera proporzionale ai redditi in modo da redistribuire la ricchezza in maniera equa. Per dire. Un approccio integrato che sarebbe il minimo sindacale in questo momento storico in cui siamo reduci da una drammatica pandemia, seguita dalla guerra in Ucraina, ancora in corso alle porte dell’Unione Europea, che ha innescato una crisi energetica e l’aumento del costo delle materie prime, e, in generale, del costo della vita. In un simile quadro dovremmo potenziare a livello nazionale le tutele sociali, non diminuirle. E se il Governo Meloni non è abbastanza illuminato da capirlo, come Enti locali dobbiamo attrezzarci per prevenire l’effetto a cascata dell’abolizione del sussidio che rischia di ripercuotersi sul welfare dei Comuni, oltre che sulle famiglie direttamente interessate che non lo avranno più. Le Regioni in tal senso possono giocare una fondamentale funzione cuscinetto, grazie a fondi Ue e del Pnrr, per arginare quella che si prospetta una vera e propria bomba sociale sui sindaci. Per questo ho depositato in Consiglio regionale una proposta di legge per introdurre un Reddito di Dignità da 500 euro mensili per un anno per chi risiede nella nostra regione e fornire così un sostegno alle fasce sociali più deboli. Il Lazio, dove peraltro l’attuale Governo regionale ha annunciato di non riuscire a rifinanziare il fondo ‘taglia-tasse’ attivo fino allo scorso anno, è la terza regione in Italia per percettori di reddito di cittadinanza e Roma è la seconda città in Italia. Nel Lazio sono circa 15mila, di cui 12mila nella sola città di Roma, le persone che per prime perderanno il sussidio. A regime, con la definitiva abolizione del Reddito di cittadinanza e il varo del nuovo Assegno di inclusione sociale, circa il 60% dei 120mila percettori presenti in tutto il Lazio perderanno il sussidio economico. Il Reddito di Dignità prevede lo stanziamento di 30 milioni annui per il triennio 2023-2025 e, già dal primo anno di applicazione, potrà raggiungere con le risorse regionali 5mila nuclei familiari e poi fino a 20mila nuclei con l’utilizzo delle risorse del Programma Garanzia Occupabilità Lavoratori (GOL), già avviato dalla precedente Giunta Zingaretti e finanziato dal PNRR. Tra i requisiti per accedere al Reddito di Dignità, oltre alla residenza nel Lazio, l’Isee inferiore 9360 euro e la sottoscrizione di un patto di inclusione sociale tra il beneficiario e il servizio sociale di riferimento. Una misura di buonsenso, trasversalmente condivisibile. Confido quindi nel buonsenso del Presidente Rocca - e di tutta la Giunta regionale - che, provenendo dalla Croce Rossa Italiana, che quotidianamente si confronta con la povertà e le fragilità sociali ed esistenziali, di sicuro avrà la sensibilità necessaria ad accogliere e sposare questa proposta per il bene delle famiglie più bisognose del Lazio. *Consigliere regionale del Pd Migranti. Ecco perché il decreto Cutro va abrogato: non esiste il pull factor di Piero Sansonetti L’Unità, 6 agosto 2023 Uno studio internazionale esclude che le Ong in mare attirino i migranti. E la Guardia Costiera l’altro giorno ha chiesto a una Ong di violare la legge. Ci sono due nuovi elementi che spingono alla cancellazione urgente delle norme del decreto Cutro, e cioè di quella misura paradossale varata dal governo dopo il disastro calabrese (con oltre cento morti) che stabiliva che per ridurre il numero delle vittime dei naufragi la cosa migliore da fare è rendere più difficili i soccorsi. Il decreto Cutro si fondava sull’ipotesi che la presenza di una buona rete di soccorsi nel Mediterraneo - pubblici o privati - produca una forza di attrazione per le persone in fuga dalla povertà e dalla guerra in Africa e in Asia (il gergo: pull factor). E dunque, riducendo i soccorsi si riducano le partenze. E per la legge dei grandi numeri, meno partenze, meno morti. Sulla base di questa idea (escogitata, credo, da Salvini in persona e sposata da Meloni) si sono stabilite una serie di norme per mettere fuorigioco le Ong. In particolare la norma che permette di assegnare loro porti di attracco molto lontani dal punto di soccorso (costringendo le navi delle Ong a perdere tempo e soldi, e i profughi a subire ulteriori sofferenze) e la norma che - in violazione palese della legalità internazionale - proibisce ai soccorritori di effettuare più di un soccorso alla volta. Per capirci, se hai soccorso un gruppo di naufraghi e li stai portando a terra e incontri un altro gruppo di naufraghi, la legge italiana ti impone di lasciar affogare il secondo gruppo. Bene, i due elementi nuovi che inducono a cancellare quel decereto (diventato nel frattempo legge) vengono uno dall’estero e uno dall’Italia. Il primo è uno studio serissimo, realizzato da docenti universitari in Germania (università di Potsdam) e negli Stati Uniti (Harvard) e pubblicato da “Nature” che è una delle quattro- cinque riviste più prestigiose al mondo. Questo studio stabilisce che il “pull factor” elaborato da Salvini non esiste. Lo studio è stato realizzato esaminando e incrociando tutti i dati forniti da “Frontex” (l’agenzia europea per la difesa dei confini) e dalle guardie costiere italiana, libica e tunisina. Il risultato della ricerca eseguita con metodi scientifici dice che la presenza più o meno robusta di soccorsi non cambia l’intensità delle partenze, che invece dipendono esclusivamente dalla condizione economica dei paesi di partenza, delle crisi alimentari o climatiche, dalle guerre, e aumentano se aumentano i respingimenti. Sì, proprio così: più i libici si accaniscono nei respingimenti e nelle violenze, più il numero dei profughi aumenta. Il secondo elemento che smonta il decreto viene dall’Italia. Nella sola giornata di giovedì la nave della Ong “Open Arms” ha compiuto dieci salvataggi in poche ore. Violando le norme del decreto Cutro e dunque compiendo nove atti illegali per i quali potrebbe essere chiamata a rispondere civilmente e penalmente. Però c’è un dettaglio. La nave di “Open Arms” si è mossa su richiesta della Guardia Costiera italiana. Cioè di una autorità militare. La quale ha commesso forse il reato di istigazione a delinquere. Perché una autorità militare ha realizzato questo strappo alla legge? Perché l’autorità è composta da esseri umani. E alcuni, o tutti, questi esseri umani, hanno la testa sulle spalle. Ragionano. E dunque consapevolmente sfidano una legge folle. A questo punto il governo ha due strade: la più logica, cancellare subito le norme del decreto Cutro, con un altro decreto, effettivamente urgentissimo, che prende atto delle novità. La strada illogica sarebbe quella di mantenere il decerto, per ragioni puramente ideologiche o di propaganda. Ma in questo caso il governo si assumerebbe la responsabilità diretta ed evidente di provocare molti morti. La Tunisia non è un “Paese sicuro”: sopraffazioni e torture del regime di Saied di Marco Grimaldi L’Unità, 6 agosto 2023 In tutto il mondo si sono viste le immagini dei profughi scacciati e lasciati morire nel deserto. Di sete e di caldo. E il nostro governo fa finta che la Tunisia sia il Bengodi. È di ieri un video impressionante, in cui la guardia di frontiera libica dà da bere a migranti sfiniti abbandonati per giorni nel deserto. Ma non sono le immagini più scioccanti questi giorni. Parlo di Fati e Marie Dosso. Madre e figlia, trent’anni e sei anni. La foto dei loro cadaveri abbracciati nel deserto ha fatto il giro del mondo. “Di solito quando dormono insieme a letto, è quella la loro posizione”, ha detto il papà di Marie, sopravvissuto, che ha chiesto di riavere i loro corpi. Sono morte di sete perché il governo tunisino di Saied, ha espulso e deportato ai confini con la Libia centinaia di migranti provenienti dall’Africa centrale e occidentale richiedenti asilo, fra cui bambini, neonati e donne incinte. Da quasi un mese denunciamo in aula a Montecitorio deportazioni di massa, a seguito di arresti arbitrari nella città di Sfax. Le persone sono abbandonate senza acqua né cibo in zone militari e inaccessibili, dopo essere state picchiate o avere subito violenze di ogni tipo da parte delle forze di sicurezza locali. Le ricostruzioni più recenti parlano di 1200 persone espulse verso la frontiera algerina e libica. Il governo di Saied nega, sostiene che le immagini siano false, montate ad arte. Il governo Saied è lo stesso con cui stringiamo accordi per l’approvvigionamento energetico e “il rafforzamento della cooperazione bilaterale sui temi della sicurezza”. Accordi di rimpatrio onorati attentamente, visto che i rimpatri forzati in Tunisia rappresentano il 73,5 per cento del totale dei rimpatri effettuati dall’Italia. Ecco in che cosa consiste il Piano Mattei del Governo Meloni. Peccato che il fondatore dell’Eni avesse lanciato una politica di cooperazione con i Paesi produttori, a cui riconosceva il 75 per cento del reddito estratto, in aperta contrapposizione ai colossi petroliferi. Il cosiddetto “piano Mattei” funziona invece con visite e accordi con regimi autoritari che calpestano diritti e dissenso -Tunisia, Algeria, Libia - per conto di Eni, per garantire all’Italia le forniture di gas, senza alcuna ricaduta per le popolazioni locali e anzi, spesso con effetti destabilizzanti. Il gasdotto Transmed che collega l’Algeria alla Sicilia; il Greenstream dalla Libia, che “atterra” vicino a Gela; il Tap che attraversa la Grecia settentrionale, l’Albania e il mare Adriatico per arrivare in Puglia. Si parla di un nuovo condotto Eastmed, che potrebbe portare gas Egitto e Israele. E poi ci sarà il gas naturale liquido dal Mozambico e dal Congo. In Mozambico la corsa agli idrocarburi da parte dei colossi internazionali è alle radici della guerra civile che sta insanguinando il nord del Paese, e regalerà ai mozambicani emissioni di gas serra pari a quelle che il Mozambico produrrebbe in 49 anni. È così che li aiutiamo a casa loro? È questo il nostro grande progetto di sviluppo per l’Africa? È questa la “dimensione esterna” di cui parla la Presidente Meloni e su cui ci dovremmo concentrare? Il “piano Descalzi-Meloni” serve a prendere due piccioni con una fava: arricchire il colosso energetico e consolidare l’esternalizzazione delle frontiere. A qualunque costo, come abbiamo visto. Alla nostra interrogazione urgente sulla gravità della situazione tunisina il Governo ci ha risposto qualche ora fa che “ritiene che nonostante gli sviluppi di queste settimane la cornice istituzionale del Paese resti sufficientemente robusta da giustificarne la qualificazione quale Paese sicuro”. Una vergogna, di cui il Ministro dovrebbe rispondere in Aula. Venire a dire davanti a tutti che garantisce per il governo Saied, con cui stringiamo accordi per l’approvvigionamento energetico e “il rafforzamento della cooperazione bilaterale sui temi della sicurezza”. Falliti i negoziati in Niger, l’Ecowas prepara i piani per l’intervento militare di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 6 agosto 2023 Il deposto Bazoum: rischio per tutti con l’intero Sahel sotto influenza russa. I golpisti cancellano gli accordi con Parigi. Fosche nubi si addensano sul cielo del Niger, da dieci giorni in ostaggio dei golpisti. Domani scade l’ultimatum dell’Ecowas, la comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, che domenica scorsa aveva minacciato di ricorrere alla forza, come ultima opzione, se non fosse stata ripristinata la legalità nel giro di una settimana. Ma le speranze che queste minacce e le pesanti sanzioni potessero bastare per far sedere al tavolo i militari ribelli e indurli a rientrare nei ranghi si sono affievolite. Ieri la delegazione di negoziatori dell’Ecowas guidata dall’ex presidente nigeriano Abubakar è tornata da Niamey a mani vuote: è stata snobbata dal leader golpista, il generale Tchiani, e non ha potuto incontrare nemmeno il presidente Mohamed Bazoum, sempre più isolato. Tenuto prigioniero nel suo palazzo dalla notte del colpo di mano, sarebbe stato silenziato dopo l’appello disperato lanciato dalle colonne del Washington Post. “Chiedo al governo degli Stati Uniti e all’intera comunità internazionale di aiutarci a ripristinare il nostro ordine costituzionale. Lottare per i nostri valori condivisi, tra cui il pluralismo democratico e il rispetto dello stato di diritto, è l’unico modo per compiere progressi sostenibili contro la povertà e il terrorismo” ha invocato. Il leader deposto ha messo in guardia sui “rischi devastanti ben oltre i nostri confini” che, dopo Mali e Burkina Faso, anche il Niger possa cadere nella sfera di influenza della Russia. Il presidente filosofo ha chiamato alla mobilitazione l’Occidente con toni da Zelensky d’Africa. Lui però sarebbe stato messo subito a tacere: il suo partito ha fatto sapere che Bazoum ora non riesce più a comunicare con l’esterno per mancanza di segnale. Del resto, fallita la missione negoziale, crescono le possibilità di un intervento militare regionale, tanto temuto in Occidente ma anche in Africa. E i due fronti rivali si stanno preparando al peggio. Da un lato la giunta golpista ha incontrato le autorità dei regimi che la sostengono — Mali, Burkina Faso e Guinea; ha cancellato gli accordi di cooperazione militare con la Francia, decisione respinta da Parigi secondo cui “solo le autorità legittime del Niger” sono titolate a rivedere le intese. Gli ufficiali ribelli hanno anche iniziato a silenziare le voci di “dissenso”: sono state sospese in Niger le emittenti France 24 e Radio France Internationale. E intimidazioni stanno cercando di soffocare anche voci scomode sul web. Ieri la blogger nigerina Samira Sabou ha annunciato che sospenderà i suoi post. “Sono stata contattata da un soldato. Mi ha chiesto perché stamattina, sulla mia pagina, ho condiviso il messaggio dell’ex presidente Bazoum Mohamed. Secondo lui non avrei dovuto farlo”, ha raccontato. Poco importa che ore dopo sia ritornata sui suo passi parlando di “malintesi”. Anche l’altro fronte si sta preparando al peggio. Ad Abuja, capitale della Nigeria, Paese guida dell’Ecowas, si è concluso ieri il vertice dei capi di stato maggiore dell’organizzazione regionale chiamati a definire il piano per un eventuale intervento militare. Al termine, il presidente Bola Tinubu ha informato il Senato dei preparativi militari in atto. Un intervento in Niger farebbe molto affidamento sul coinvolgimento di Abuja. La Nigeria rappresenta il 63% della produzione economica del blocco e ha il più grande esercito della regione, con 223.000 soldati e aerei da combattimento di fabbricazione Usa, cinese e tedesca. Due schieramenti africani contrapposti, con l’Occidente che osserva a distanza, preoccupato. L’ex potenza coloniale francese non si oppone a un intervento dell’Ecowas, ma diffida dell’azione diretta e non vuole nemmeno essere sospettata di essere coinvolta. Basti pensare che poche ore prima del golpe, l’intelligence francese aveva consigliato all’Eliseo di inviare le forze speciali nel palazzo di Niamey, ma seguì un rifiuto, per timore di sembrare colonialisti: “Non possiamo restare nella Françafrique”, dopo l’umiliante ritirata dal Mali Libano. La surreale detenzione di Hannibal Gheddafi di Marinella Correggia Il Manifesto, 6 agosto 2023 In cella senza accuse né processo dal 2016, in sciopero della fame. Rischia la vita. Hannibal Gheddafi, uno dei figli superstiti del leader libico ucciso nel 2011, è detenuto in Libano dal 2016 senza processo né accuse specifiche. La sua vita è pericolo per lo sciopero della fame che ha intrapreso in segno di protesta a partire dal mese di giugno e che è stato interrotto solo in occasione di vari ricoveri. Avrebbe perso 25 chilogrammi. Le ultime notizie, diffuse due giorni fa dalla televisione libanese Al Jadeed, sono preoccupanti: “È stato trasferito d’urgenza in ospedale. I medici gli hanno spiegato che deve mangiare perché le sue condizioni di salute hanno raggiunto uno stadio che non può tollerare il digiuno, ma ha rifiutato”. Il Libano ha ovviamente ratificato la Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu. Ma da ben otto anni non applica a Gheddafi l’articolo 9 (“Nessuna persona può essere arbitrariamente arrestata o detenuta”), né l’articolo 10 (“Ogni persona ha diritto a un equo processo da parte di un tribunale indipendente”). Un servizio della Abc ha ricostruito i fatti. Hannibal Gheddafi, dal 2011 in Siria come esule, l’11 dicembre 2015 viene prelevato e portato in Libano da miliziani del gruppo armato libanese Amal. Dopo alcune settimane, la polizia libanese annuncia di aver trovato il rapito a Baalbek ma invece di liberarlo lascia andare i rapitori e lo incarcera a Beirut. Di cosa viene accusato Hannibal Gheddafi? Quando aveva tre anni, nel 1978, scomparve in Libia l’imam sciita Moussa Sadr, fondatore del movimento Amal. La sua famiglia ritiene che Sadr sia ancora in carcere nel paese nordafricano; avrebbe 94 anni. Molti dei suoi seguaci sono poi convinti che Muammar Gheddafi abbia ordinato di uccidere l’imam. Invece, la Jamahiryia libica ha sempre sostenuto che Sadr e i suoi due compagni avevano lasciato Tripoli in un volo diretto a Roma e ha avanzato l’ipotesi di un regolamento di conti all’interno del mondo sciita. Secondo i politici libanesi, Hannibal Gheddafi sarebbe reo di nascondere informazioni sulla vicenda - malgrado fosse un bambino all’epoca. Oltretutto il codice penale libanese esonera da pena chi viene ritenuto reticente rispetto a fatti che coinvolgono congiunti stretti. Leader di Amal è Nabih Berri, potente presidente (dal 1992) del Parlamento libanese. La sua influenza, nel caos della politica di quel paese, spiega lo stallo. La vicenda è surreale. Lo dimostra il fatto che da anni chiedono invano la sua liberazione non solo un gruppo di cittadini libici residenti in diversi paesi mediorientali, ma anche varie istituzioni della Libia (non certo gheddafiana), sostenendo che il detenuto oltretutto non ha mai ricoperto ruoli politici né nell’ambito della sicurezza. Di recente Omar Kutti, sottosegretario agli esteri del governo di Tripoli, ha fatto sapere che il ministro della giustizia ha chiesto formalmente alle autorità libanesi di ricevere una delegazione per discutere del caso e anche un team medico per accertare le condizioni di salute del detenuto. Silenzio da Beirut. Porte chiuse di fronte alla richiesta di visto rivolta all’ambasciata libanese a Tripoli tre settimane fa dalla Commissione creata ad hoc dal primo ministro libico libico (e guidata dalla ministra della giustizia Halima Busaifi) per seguire la situazione di Gheddafi. Nemmeno la lettera formale da parte del procuratore generale libico al-Siddiq al-Sour alla magistratura libanese ha sortito alcun effetto. In questi anni non ci sono stati pronunciamenti da parte dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani (Ohchr) o del gruppo di lavoro dell’Onu sulle detenzioni arbitrarie, con base a Ginevra. E nessuna pressione sul Libano da parte di paesi influenti in grado di giocare un ruolo.