Gli operatori penitenziari esclusi dal decreto “caldo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 agosto 2023 Dopo l’ondata di calore estremo che ha colpito l’Italia, il Senato ha approvato il decreto “caldo”, proposto dal governo per tutelare i lavoratori dalle temperature estreme e da future emergenze. Purtroppo, tra i lavoratori, gli operatori penitenziari non vengono contemplati. Per tale ragione, il Partito Radicale ha inoltrato ai parlamentari una proposta emendativa, chiedendo l’inserimento di una modifica a tutela della polizia penitenziaria e, di conseguenza, dei detenuti. Tuttavia, il testo del decreto “caldo” è stato approvato senza tenere conto di questo emendamento e giungerà alla Camera inalterato. Rimane ancora la possibilità che i capigruppo possano convertire tale emendamento in un ordine del giorno, come raccomandazione. Pertanto, persiste un piccolo margine di intervento. Di fatto, il decreto, così approvato dal Senato, ha escluso coloro che lavorano nelle carceri. In mezzo a un’estate infuocata, il benessere dei lavoratori penitenziari e dei detenuti nelle carceri italiane passa in secondo piano. Mentre il cambiamento climatico crea problematiche soprattutto per i lavoratori, Maurizio Turco e Irene Testa, rispettivamente segretario e tesoriere del Partito Radicale, hanno presentato una proposta emendativa indirizzata ai capigruppo della Camera, con l’obiettivo di inserire nel decreto misure adeguate per affrontare le sfide climatiche all’interno delle strutture carcerarie. Questa iniziativa non rappresenta soltanto un atto di responsabilità sociale, ma sottolinea anche l’importanza di preservare la dignità e il rispetto dei diritti umani, indipendentemente dal contesto. La questione è chiara: con l’aumento delle temperature, le carceri non diventano soltanto luoghi di reclusione, ma anche ambienti in cui la sopravvivenza quotidiana diventa un’ardua sfida. Gli agenti di polizia penitenziaria, già impegnati in un lavoro difficile e stressante, si trovano ora ad affrontare condizioni lavorative ancor più complesse, mettendo in pericolo la loro salute e il loro benessere. Allo stesso modo, i detenuti, sebbene scontino una pena, non devono essere privati della dignità e della sicurezza basilari che spettano a ogni individuo. L’emendamento proposto dal Partito Radicale mira a estendere le misure di tutela previste dal decreto- legge n. 98/ 2023 anche alle istituzioni penitenziarie, in modo da garantire condizioni accettabili durante i periodi di emergenza climatica. Questo include non solo temperature adeguate all’interno delle strutture, ma anche l’accesso all’acqua potabile, una ventilazione adeguata e l’utilizzo di soluzioni tecnologiche atte a mitigare gli effetti del caldo eccessivo. L’emendamento proposto si articola in diverse misure essenziali, che vanno dalla sorveglianza sanitaria all’informazione e alla formazione adeguata dei lavoratori. È particolarmente importante sottolineare che l’accesso all’acqua potabile è considerato un diritto fondamentale e i lavoratori devono avere la possibilità di idratarsi regolarmente. L’abbigliamento adeguato, spesso trascurato, rappresenta un altro aspetto cruciale: indossare abiti leggeri, traspiranti e di colore chiaro può fare la differenza in termini di comfort termico. Il piano di modifica dell’orario di lavoro, al fine di evitare le ore più calde della giornata, unito alla fornitura di spazi refrigerati per le pause degli agenti di polizia penitenziaria, dimostra un impegno tangibile verso il benessere dei lavoratori. Altrettanto rilevante è la promozione di un ‘sistema del compagno’, che favorisce il monitoraggio reciproco tra colleghi per individuare segni di affaticamento termico e fornire soccorso tempestivo in caso di necessità. La pianificazione e la risposta alle emergenze costituiscono un altro pilastro cruciale dell’emendamento. La collaborazione tra il medico competente e il responsabile della sicurezza per sviluppare un piano di monitoraggio dei sintomi legati alle patologie da calore è fondamentale per garantire una diagnosi precoce e un trattamento tempestivo. Questo piano deve essere ampiamente divulgato tra i lavoratori, affinché siano in grado di riconoscere i segni di stress termico e agire di conseguenza. In caso di segni di patologie da calore, è essenziale che i lavoratori interrompano immediatamente le attività, cercando refrigerio e assistenza. Questo approccio proattivo può prevenire conseguenze gravi e proteggere la salute dei lavoratori. Il nostro sistema penitenziario è già oggetto di dibattito per diverse questioni relative ai diritti umani e al sovraffollamento. L’emendamento proposto rappresenta un passo significativo verso una visione più umana del sistema, che riflette il rispetto per la dignità fondamentale di ogni individuo, sia che si tratti di un lavoratore penitenziario o di una persona detenuta. I capigruppo della Camera, se lo desiderassero, potrebbero ancora considerare l’appello lanciato da Maurizio Turco e Irene Testa. Escludere i lavoratori penitenziari non rappresenta soltanto una mancanza di giustizia sociale, ma ignora anche il percorso verso un sistema penitenziario più in linea con i principi sanciti dalla Costituzione italiana. Lavoro per chi è in carcere, “Un raggio di sole” di Veronica Rossi vita.it, 5 agosto 2023 L’associazione Seconda chance mette in contatto le aziende con le persone detenute nei penitenziari d’Italia, creando per queste ultime opportunità di trovare un impiego. Da ora c’è anche una collaborazione con la realtà di recruiting Hunters group, grazie alla quale è già stato organizzato un career day a Bollate Seconda chance è un ente del Terzo settore nato da appena un anno. Eppure ha già aiutato 190 detenuti a trovare un lavoro. L’attività dell’associazione consiste nel creare un ponte tra gli istituti penitenziari e le aziende del territorio in cui sono inseriti, fornendo opportunità di impiego per le persone in articolo 21. Ammesse, cioè, al lavoro, grazie alla legge Smuraglia, che consente anche delle agevolazioni per chi assume detenuti. Anima del progetto è la presidente, la giornalista Flavia Filippi, che ha dato avvio al suo impegno in questo settore ben prima che nascesse il sodalizio. “Mi occupo di cronaca giudiziaria e ho sempre pensato che in carcere ci sia tanta gente che non è criminale”, racconta. “Ci sono tante persone superficiali, ignoranti, nel senso che non hanno avuto la possibilità di erudirsi, disperata, con delle storie tragiche alle spalle, travolti dalle circostanze. Facendo il mio lavoro, ho conosciuto tanta di questa gente, che è finita in questa situazione per mille motivi, che non sono quelli della delinquenza”. Ed è così che Filippi, prima da sola, poi assieme ad alcuni volontari - oggi sono quattro a Roma e altri sette, circa, sparsi in altre regione - ha iniziato a tessere rapporti con gli imprenditori del territorio, in modo da portarli nelle carceri a cercare parte della manodopera di cui hanno bisogno. Si tratta di un lavoro impegnativo, che implica una minuziosa organizzazione e un rapporto costante con il personale degli istituti penitenziari. Per molto tempo, l’attività di Seconda chance è stata svolta con fondi propri; ora, tuttavia, il sodalizio si sta facendo conoscere, grazie ai suoi risultati, in tutta Italia. “Nel carcere di Civitavecchia stiamo facendo un bel lavoro”, racconta la presidente, “coi fondi che ci sono arrivati, per cui dobbiamo ringraziare Roberto Serafini di 3Epc (Operating Company del Gruppo Officina Verdi per la realizzazione di interventi di riqualificazione energetica nella Grande Distribuzione Organizzata, ndr), Ivano Iacomelli di Conad Nord-ovest e la Cassa di risparmio di Civitavecchia”. L’organizzazione, ora, ha anche un protocollo d’intesa con il ministero della Giustizia. Da poco l’ente ha avviato una collaborazione con l’azienda di recruiting di personale qualificato Hunters group, il cui primo esito è stato un career day nel carcere di Bollate. “La giornata è stata aperta da un’ora di formazione ai detenuti rispetto alla possibilità di esporre in pochi minuti il loro profilo professionale”, spiega Joelle Gallesi, managing director di Hunters group. “Tra le dieci persone coinvolte ce n’erano con diverse competenze sviluppate fuori ma anche dentro al penitenziario, con esperienza dai cinque ai 20 anni; gli abbiamo consigliato di parlare anche del loro percorso formativo: uno, per esempio, aveva una laurea in filosofia, un altro ne stava conseguendo una in economia”. In seguito, c’è stato l’incontro dei dieci detenuti coinvolti con le aziende; una era il gruppo Selini, colosso della movimentazione logistica industriale, l’altra era una grande impresa che preferisce rimanere anonima. In più, Hunters group ha essa stessa selezionato dei candidati, come portavoce delle altre realtà che a lei si rivolgono per trovare personale qualificato. “C’è stato un momento in cui ogni azienda ha avuto dieci minuti per presentarsi”, continua Gallesi, “poi ciascuna persona detenuta ha parlato di sé in tre minuti, più il tempo per le domande”. Alla fine della mattinata, sei profili su dieci sono risultati interessanti per una o più aziende. Per chi è privato della libertà, avere queste occasioni è importantissimo: non solo riempie le giornate, ma restituisce la dignità di poter provvedere alla propria famiglia, fuori dal carcere. “I detenuti ci scrivono da tutta Italia, ci dicono che gli portiamo speranza”, conclude Filippi. “Ci dicono che siamo un raggio di sole, in situazioni in cui non hanno avuto altre possibilità”. Prima delle riforme la giustizia va finanziata e ben amministrata di Gian Luigi Gatta* Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2023 La giustizia è sempre più al centro del dibattito pubblico e dell’agenda di governo. Tra le tante riflessioni sulla centralità della giustizia ve ne sono almeno due a mio avviso meritevoli di essere messe a fuoco. Prima riflessione. Ad essere centrale è solo o per lo più la giustizia penale. Della giustizia civile, amministrativa e tributaria, se ci facciamo caso, si parla assai meno. Perché? Non perché la giustizia penale sia più importante o bisognosa di maggiori attenzioni, ma perché meglio si presta a mettere da parte i tecnicismi e ad appartenere alla nostra quotidianità, come testimonia l’ampio risalto mediatico della cronaca nera e di quella giudiziaria. In questo senso un grande giurista tedesco, Wilfried Hassemer, apriva anni fa un bellissimo saggio (Perché punire è necessario, Il Mulino, 2009) scrivendo che il diritto penale è un po’ come il calcio: d appassiona e pensiamo di esserne esperti. Questo appartenere del penale alla quotidianità, questo suo prestarsi a valutazioni istintive su ciò che giusto o è ingiusto, fa sì che la politica ne sia particolarmente attratta, eleggendolo sempre più a terreno di acquisizione di consenso elettorale e di scontro tra visioni diverse, come quelle presenti nelle forze politiche, nella magistratura e nell’avvocatura. rischio però è che il penale possa diventare un fattore di distrazione di massa, distogliendo l’attenzione dell’opinione pubblica e dei governanti da temi non meno rilevanti: l’economia, l’impresa, il mercato del lavoro, il fisco, la scuola, l’università, la ricerca scientifica, l’ambiente, le infrastrutture, il calo demografico, il costo della vita, la sanità, e così via. Seconda riflessione. Ad essere centrale, quando si parla di giustizia, è sempre il tema delle riforme, che ogni governo ritiene necessarie e che, in effetti, sono sempre più continue. I tempi in cui il diritto era un corpo normativo relativamente stabile sono lontani Eppure, come ogni servizio pubblico la giustizia, prima ancora che di riforme, ha bisogno di essere amministrata e finanziata per far fronte ad esigenze ordinarie e straordinarie, come quelle imposte dagli obiettivi del Pnrr, che richiedono di ridurre entro il 2o26 del 25 per cento i tempi medi del processo penale e del 40 per cento quelli del processo civile. Perché si parla sempre di riforme e poco di amministrazione e finanziamento della giustizia? Perché le riforme sono politicamente identitarie: pensiamo alla legge spazzacorrotti e alla legge sulla legittima difesa domiciliare, nel governo giallo-verde di Conte, o al disegno di legge del Ministro Nordio, del quale tanto si parla in questi giorni. Gestire e finanziare la giustizia, invece, è compito routinario che i ministri si passano di mano come un fardello e che è difficile perché mancano le risorse. Le riforme invece sono per lo più a costo zero e, quando prevedono impegni di spesa - come nel caso del gip collegiale per la custodia in carcere, nel progetto Nordio, o della giustizia riparativa proposta dal Ministro Orlando e realizzata dalla Ministra Cartabia poi - incontrano mille difficoltà. Sia chiaro, è del tutto naturale che i governi e i ministri politici perseguano disegni riformatori. Dovrebbe però essere altrettanto naturale dare pari importanza, nel dibattito pubblico e nella comunicazione del Ministro, ai temi del finanziamento della giustizia e agli interventi strutturali indispensabili per migliorarla come servizio pubblico. I grandi assenti nel dibattito pubblico sono proprio i temi delle risorse e delle infrastrutture, che poi sono i più avvertiti da magistrati, funzionari amministrativi e avvocati. Penso ai vuoti di organico dei magistrati - quelli reclutati quest’anno, circa 200, coprono a malapena il numero di quelli che andranno in pensione; penso alla drammatica carenza del personale amministrativo, dai cancellieri ai funzionari degli uffici dell’esecuzione penale esterna, agli educatori, ai medici e agli psicologi in carcere, teatro di continui suicidi. Penso alle infrastrutture tecnologiche necessarie per ammodernare il processo: banche dati, sistemi informatici di gestione dei fascicoli, sistemi per la registrazione audio e video da installare nelle aule di giustizia peri collegamenti da remoto. Tutte cose che servono a fare funzionare meglio la giustizia come servizio peri cittadini. Tutte cose che costano e che devono essere finanziate da parte del Governo, anche attraverso i fondi - vitali - del Pnrr, che nel dopo Cartabia è quasi scomparso dal dibattito pubblico sulla giustizia. Se si stemperassero i toni del confronto politico e ci si concentrasse di più sulle esigenze dell’amministrazione quotidiana, da un lato, e su un sereno e meditato confronto su possibili riforme aperto ai mondi della magistratura, dell’avvocatura e dell’accademia, come accadde quando fu scritto il codice penale de11930, ne guadagnerebbe la giustizia. E forse l’Italia finirebbe di essere il Paese che, nel Consiglio d’Europa, ha ancora l’imbarazzante primato per la lentezza dei processi. *Professore ordinario di Diritto penale Università degli studi di Milano Il Pnrr sulla Giustizia? Irrealizzabile. Ma Draghi lo firmò comunque di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 5 agosto 2023 Chi ben conosce il dossier sul taglio dell’arretrato civile spiega: già Conte e Bonafede, poi l’ex governatore Bce e Cartabia, sapevano che la riduzione del 90% era una chimera. Anche i più ottimisti, gli irriducibili del pensiero positivo, hanno ormai compreso che gli obiettivi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza per la rigenerazione del sistema giustizia non saranno realizzati, a meno di correttivi radicali. Allo stato, infatti, la riduzione in cinque anni del 25 per cento del tempo di definizione dei processi penali e del 40 per cento di quello dei processi civili, nonché la riduzione del 90 per cento dell’arretrato civile rispetto al 31 dicembre 2019, salvo improbabili miracoli, difficilmente potrà essere raggiunta. Chi ben conosce l’organizzazione giudiziaria, e appunto il dossier sulla parte del Pnrr relativa alla giustizia, fa notare in questi giorni come gli impegni assunti con l’Ue tra settembre 2020 e aprile 2021 fossero “evidentemente impossibili da rispettare”. Era irrealistico, “chiaramente irrealistico”, viene fatto notare, soprattutto l’obiettivo di ridurre l’arretrato del 90 per cento entro il 2026. Un obiettivo, quest’ultimo, che avrebbe dovuto risultare chiaramente irraggiungibile già agli occhi di chi per primo iniziò la trattativa con Bruxelles e di coloro che poi la perfezionarono. La discussione su Recovery fund, Next generation Ue e Pnrr avvenne in piena pandemia covid, con il Paese stremato dai lockdown e dalle restrizioni sanitarie. Avviata durante il governo Conte due, sostenuto da Pd, M5S, Leu e Italia Viva, l’interlocuzione con la Commissione europea proseguì e venne definita negli attuali termini con il successivo governo Draghi, sostenuto da tutti i partiti tranne Fratelli d’Italia. Pur con le più rosee aspettative, si sottolinea ora da più parti -e in particolare da chi ben conosce il dossier sul cosiddetto Pnrr Giustizia - gli uffici di via Arenula non potevano non avere fonti di conoscenza tali da riuscire a compiere una valutazione molto semplice: ridurre l’arretrato civile del 90 per cento nel giro di pochi anni sarebbe stato in ogni caso impossibile, anche con l’Ufficio del processo a pieno organico. E qui subentra un’altra valutazione troppo ottimistica compiuta dai governi precedenti all’attuale riguardo agli impegni sulla giustizia da assumere con l’Ue: pensare che gli addetti all’Ufficio per il processo non solo sarebbero stati assunti nella misura prevista di oltre 16mila unità (obiettivo fallito per carenza di candidati, soprattutto al Nord) ma che sarebbero riusciti immediatamente a supportare i giudici nella preparazione delle sentenze sulle tantissime cause civili arretrate. Previsione, pure questa, del tutto irrealistica, fa notare, ancora, chi oggi osserva perplesso il naufragio dei target sull’efficienza dei tribunali. Era ovvio che i neoassunti (a tempo determinato) dell’Ufficio per il processo avrebbero dovuto seguire un percorso formativo per un periodo di almeno 6 mesi, se non di più, in quanto completamente digiuni del funzionamento della macchina giudiziaria, a cominciare dagli applicativi informatici. Una gravissima sottovalutazione da parte di chi, evidentemente, pensava che il giorno stesso dell’immissione in servizio questi giovani giuristi neolaureati potessero subito dare l’auspicato contributo al giudice nello smaltimento dell’arretrato. E ciò a prescindere da ostacoli sopraggiunti, come il recente sovraccarico di ricorsi in materia di protezione internazionale connesso all’aumento esponenziale degli sbarchi negli ultimi mesi, e citato la scorsa settimana dal ministero della Giustizia, nelle schede trasmesse al ministro per Affari europei e il Pnrr Raffaele Fitto, quasi nel tentativo (altruistico) di ridimensionare le responsabilità dei predecessori. Questo oggi fa notare chi ha adeguata cognizione del Pnrr Giustizia. Non era immaginabile, inoltre, raggiungere determinati risultati su scala nazionale soprattutto perché non tutti gli uffici hanno mai risposto allo stesso modo. Il dato statistico è sempre stato chiaro: uffici giudiziari collocati in aree geografiche vicine, con il medesimo bacino d’utenza e con le identiche scoperture di personale, hanno spesso un arretrato diverso. Cosa significa? Che il tema centrale è l’organizzazione del lavoro e, quindi, la responsabilità dei capi degli uffici nel far funzionare in maniera efficace il Tribunale o la Corte d’appello. È dunque inutile mandare risorse se non si è in grado di far funzionare in maniera adeguata quelle che già oggi si ha a disposizione. A via Arenula, poi, non è al momento possibile individuare con chiarezza la documentazione, i carteggi, che prima con Alfonso Bonafede e poi con Marta Cartabia definirono le soglie di abbattimento dell’arretrato da proporre all’Europa. Di quel gruppo che gestì la partita non c’è più nessuno. Carlo Nordio, appena nominato ministro, ha dato il via ad un profondo turnover sostituendo tutti i direttori generali. Sempre chi conosce bene l’attuale stato del dossier, ricorda che all’epoca la pressione era tremenda da parte sia dell’Ue sia dei vertici dei precedenti governi, in particolare Mario Draghi che sulla stipula del Pnrr aveva investito tutto il proprio peso. I negoziati andavano chiusi in fretta e nessuno, a cominciare dall’ex premier, era disposto a fare una “brutta figura”. È insomma anche difficile capire se quegli obiettivi irragionevoli su arretrato e tempi dei processi siano stati “imposti’ da Bruxelles o se l’Italia abbia voluto scommettere nella riuscita del Piano confidando nello “stellone” che l’accompagna dal 1948. Toccherà a Nordio, a Fitto e ai loro rispettivi uffici trovare una mediazione con l’Europa. E visto che è impossibile prorogare la data ultima per l’erogazione dei fondi, fissata appunto al 2026, si lavorerà agli obiettivi che potranno essere realisticamente raggiunti. E il 90 percento dell’abbattimento dell’arretrato non è certamente uno di questi. Nordio lavora a un “mini abuso d’ufficio” per aggirare gli altolà dell’Europa e di Matterella di Liana Milella La Repubblica, 5 agosto 2023 Passo indietro del sindaco o dell’assessore solo in caso di conflitto di interessi. Del reato chiesto dalla Ue non resterebbe nulla. Cambiare le carte in tavola sfruttando i media, ecco la tattica che via Arenula sta utilizzando adesso sull’abuso d’ufficio, la iattura che il ministro della Giustizia ha inserito nel suo unico disegno di legge sulla giustizia finora in Parlamento. “Questa vince… questa perde…” cantilena l’abile giocatore che mescola le tre carte. E Nordio, e i suoi sottosegretari Sisto, Ostellari e Delmastro, rimescolano il mazzo lanciando ipotesi che possano aggirare l’imbarazzo del Quirinale per una norma che chiaramente va contro il dettato europeo. Bruxelles vuole lottare contro la corruzione, scrive una direttiva, la sottopone agli stati membri. Tra gli articoli c’è anche l’abuso d’ufficio. E l’Italia con Nordio cosa fa? Lo butta via, lo cancella dal codice. E la Camera, a maggioranza, boccia pure la direttiva Ue. A frittata fatta, perché il ddl è già al Senato sul tavolo di Giulia Bongiorno nella veste di presidente della commissione Giustizia, e nel timore che Mattarella alla fine non firmi neppure il ddl, ecco la strategia dei sondaggi mediatici. Della serie “ma che ne dite se facciamo così? Bocciate lo stesso o ce lo fate passare?”. L’ultima proposta, uscita sulle pagine del Dubbio, il quotidiano del Consiglio nazionale forense, sarebbe quella di lasciare in vita un abuso d’ufficio “piccolo piccolo”, tutto da ridere, in cui il sindaco o l’assessore finirebbero sotto processo solo se non si sono astenuti dal firmare l’affidamento di un appalto o un altro atto simile che poteva nascondere un eventuale conflitto di interessi. Ma basta rileggere la direttiva europea per capire che non ci siamo proprio, visto che per abuso d’ufficio la Ue intende questo: “L’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni, al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo”. Non basta. Se la “sindrome” di cui soffrono i sindaci è quella della cosiddetta “paura della firma” una norma che si fermi sulla soglia del “mi astengo sì o no?!” li farebbe impazzire tutti quanti. Quest’abuso d’ufficio “piccolo piccolo”, alla fine, farebbe arrabbiare pure Mattarella. Senza abuso d’ufficio saremo indifesi dagli abusi del potere di Francesco Saverio Esposito* Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2023 Ad ascoltare le proposte del Guardasigilli, Carlo Nordio, vien da credere che finora abbia vissuto altrove, magari su Marte. Prendiamo l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. Lo scopo dichiarato dal governo è noto: evitare che questo reato, incutendo la “paura della firma” a sindaci e amministratori, paralizzi la Pa. Ma la Costituzione richiede a chi ricopre funzioni pubbliche “disciplina e onore” (art. 54) e ai pubblici uffici “trasparenza, buon andamento e imparzialità” (art. 97). Malauguratamente in Italia non è affatto raro imbattersi in amministratori o pubblici funzionari che del precetto costituzionale non sanno cosa farsene e anzi, con dolo, per procurare vantaggio a se stessi o a chi è a loro vicino, trascurano di osservare leggi e regolamenti. Oggi questi soggetti, almeno alcuni di loro, potrebbero esimersi dal violare leggi e regole preoccupati di essere scoperti e incorrere nei rigori della legge. Domani, con la “riforma” Nordio, non più. E non è vero che ogni atto amministrativo irregolare o illegittimo comporti automaticamente l’imputazione per abuso d’ufficio: occorre che il provvedimento sia stato preso con la precisa e inequivoca volontà di perseguire il tornaconto proprio o di persone vicine. L’abuso d’ufficio tutela soprattutto i comuni cittadini che, se vittime di abusi da politici o funzionari pubblici, possono presentarsi in una stazione dei Carabinieri o in un commissariato di Polizia e denunziare fatti e condotte che ritengono illegali e illecite. Se passerà la riforma Nordio, un cittadino economicamente male in arnese perderà la possibilità di rivolgersi alla giustizia ordinaria e e dovrà, se ve ne sono le condizioni, adire il magistrato amministrativo con costi notoriamente tutt’altro che lievi. Si pensi ancora a chi svolge funzioni di consigliere di opposizione in un Comune o in un altro Ente territoriale: pur avendo elementi sufficienti per dimostrare che maggioranza e funzionari abbiano con dolo emesso atti in violazione di legge, non avrà alcuna possibilità di perseguire le condotte illecite e far disapplicare tali atti dal giudice penale, dovendosi limitare al più ad abbaiare alla luna il proprio motivato dissenso. Fino al 2001 gli atti degli Enti locali erano sottoposti al controllo del Coreco che ne verificava correttezza e legittimità. Ma anche quel controllo fu eliminato dal governo Berlusconi. Risultati: la crescita a dismisura della spesa pubblica e l’adozione indiscriminata di atti spesso illegittimi. Però restava la possibilità che quegli atti illegittimi, se anche illeciti, potessero essere segnalati ai procuratori della Repubblica. Se verrà abrogato l’abuso d’ufficio anche questa residua possibilità verrà meno. Un ulteriore passo verso la sostanziale impunità per i soggetti che vanno a ricoprire cariche o funzioni pubbliche con l’intenzione di perseguire non già l’interesse pubblico, m il proprio o quello degli amici degli amici. Si immagini un funzionario che rilascia volutamente un permesso a costruire a un familiare violando norme urbanistiche e paesaggistiche, o favorisce un parente assegnandogli un appalto che invece spetta ad altri: costui non dovrà più aver timori di alcun genere, perché non sarà più penalmente perseguito e in futuro potrà riprovarci. Incalcolabili saranno i danni economici per lo Stato e, sostanzialmente, per i cittadini che pagano le tasse. Nessuna remora, nemmeno quella minima di incappare in qualche pm volenteroso e capace, potrà risparmiarci provvedimenti sciagurati, il più delle volte contrari all’interesse dell’Ente, ma di sicuro utili a favorire amministratori e funzionari corrotti e ad aumentare i costi della Pa. A questo punto una sola invocazione: San Sergio aiutaci tu! *Avvocato Mafia, il governo estende e blinda le intercettazioni di Ivan Cimmarusti e Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2023 Per reati gravi utilizzati gli strumenti investigativi per la criminalità organizzata. Nella bozza un archivio centrale per intercettazioni e la stretta sugli incendi boschivi dolosi. Un intervento per blindare ed estendere l’uso delle intercettazioni. La bozza di Dl che lunedì prossimo approda nell’ultimo Consiglio dei ministri, prima della pausa estiva, punta al contrasto dei reati di particolare gravità come quelli aggravati dal metodo mafioso, il terrorismo, i sequestri per estorsione e il traffico illecito dei rifiuti. Alla fine l’Esecutivo avrebbe deciso di non intervenire fornendo un’interpretazione autentica della nozione di criminalità organizzata, come annunciato dalla premier Giorgia Meloni nel Consiglio dei ministri del r71uglio scorso. Un intervento che sarebbe stato giustificato dal rischio di evitare che finissero in fumo numerosi processi a causa della sentenza della Cassazione 34895/2022. Decisione che, in realtà, si basa su un principio decisamente risalente. Dal 2016, infatti, le Sezioni unite, con la sentenza S curato, hanno ristretto la nozione di criminalità organizzata ai soli reati associativi, anche non di mafia, con l’esclusione del concorso di persone nel reato anche se aggravato. Ora il Governo sembrerebbe aver aggirato il rischio - affermato partendo da un presupposto da verificare - varando una norma che estende ad alcune ipotesi di criminalità grave l’uso di strumenti di investigazione disciplinati dalla legislazione sulla criminalità organizzata. La bozza di Dl interviene su un aspetto particolarmente delicato: il deposito delle intercettazioni. Negli ultimi anni le procure italiane hanno registrato svariate criticità nella custodia di intercettazioni e dati, soprattutto per la scarsa qualità degli strumenti tecnologici. In questo senso il ministero della Giustizia prevede l’istituzione di “infrastrutture digitali interdistrettuali”: dei server in grado di custodire la massa di intercettazioni compiute dai singoli pubblici ministeri. I procuratori della Repubblica i cui uffici ricadono nell’area “interdistrettuale” restano i dominus. A loro è affidata direzione, organizzazione e sorveglianza sulle attività di intercettazioni e sui relativi dati, nonché sugli accessi e sulle operazioni compiute sui dati. Tuttavia, si legge nella bozza, “fermi il segreto investigativo e le garanzie di riservatezza e sicurezza dei dati, il ministero della Giustizia assicura l’allestimento e la manutenzione delle infrastrutture nel rispetto delle predette funzioni e, in ogni caso, con esclusione dell’accesso ai dati in chiaro”. Nelle intenzioni, questo nuovo archivio centralizzato dovrà assicurare capacità tecnologica, livelli di sicurezza e interoperabilità dei sistemi. Ma si dovranno definire i criteri per la gestione dei dati, cui dovrà essere assicurata autenticità, integrità e riservatezza. La prossima “migrazione” dei dati dalle singole procure sarà effettuata dalla Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati della Giustizia, d’intesa con i singoli procuratori della Repubblica. Tuttavia, prima dell’attuazione sarà necessario il parere del C sm, del garante della privacy e del Comitato interministeriale per la cybersicurezza. Contro gli incendi boschivi dolosi, invece, è previsto un inasprimento delle pene, da quattro a sei anni, ma soprattutto c’è l’ulteriore aumento da un terzo alla metà quando il fatto è “commesso al fine di trarne profitto per sé o per altri o con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti all’esecuzione di incarichi o allo svolgimento di servizi nell’ambito della prevenzione e della lotta attiva contro gli incendi boschivi”. Per quanto riguarda le intercettazioni ad ampio raggio un monito a fare attenzione quando si deroga al regime ordinario arriva Vittorio Manes, avvocato penalista e ordinario diffida° penale all’Università di Bologna “Serve una particolare cautela nell’uso di strumenti eccezionali giustificati solo dalla dimensione associativa e organizzativa della criminalità. Mezzi - sottolinea Manes - che non vanno estesi a condotte criminali comuni per quanto gravi. Un rischio che è stato in passato attentamente considerato e contrastato da alcune decisioni della Cassazione orientate al principio di ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento penale. Casi simili sono stati esaminati dalla Consulta”. Come vanno tutelate le indagini e la privacy di Federica Resta* e Armando Spataro La Stampa, 5 agosto 2023 La vicenda dei presunti dossieraggi che potrebbero essere stati realizzati da personale di polizia giudiziaria già in servizio presso la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, solleva questioni particolarmente importanti, dal punto di vista delle garanzie democratiche. I contorni della vicenda saranno chiariti dalla magistratura (nella specie la Procura di Perugia), cui spetta in prima istanza la ricostruzione dei fatti e l’accertamento delle responsabilità. Ma ciò su cui, sin d’ora, questa notizia induce a riflettere è l’importanza, nella società attuale, del potere informativo: del possesso e dell’uso, cioè, di informazioni su fatti e soprattutto su persone, agevolati dalla digitalizzazione ormai pressoché totale di ogni segmento della vita privata e pubblica. L’informatizzazione documentale è, certamente, positiva soprattutto per le autorità inquirenti, che dispongono in tal modo di un patrimonio conoscitivo sensibilmente più esteso del passato e, per molti aspetti, più agevolmente accessibile e comunicabile. Ne deriva un generale miglioramento delle capacità di analisi e, anche, di cooperazione con altre autorità (persino straniere), resa possibile dalla facilità con cui i dati possono essere acquisiti e scambiati. Tuttavia, le straordinarie potenzialità dell’informatizzazione possono degenerare anche in mezzi potentissimi di controllo e, persino, di delegittimazione dell’altro, laddove si faccia un uso strumentale delle informazioni acquisite, persino a fini di interesse politico, personale, aziendale e meramente economico. Le conseguenze di un utilizzo improprio di informazioni personali, più o meno riservate, possono rivelarsi persino drammatiche, per i singoli e anche per le istituzioni laddove ne siano coinvolte. La correttezza nell’uso delle risorse informative è certamente espressione di quella disciplina e di quell’onore con cui la Costituzione impone sia svolta la funzione pubblica, da parte di chiunque vi sia chiamato. Ma, naturalmente, non si tratta soltanto di etica pubblica o di sensibilità del civil servant. Il corretto utilizzo delle risorse informative costituisce un preciso dovere sul cui rispetto bisogna vigilare e la cui violazione va prevenuta. La disciplina di protezione dei dati personali (che dal 2018 si applica con maggiore capillarità anche all’attività inquirente) si fonda proprio sulla consapevolezza dei rischi connessi a un uso scorretto dei dati e impone l’adozione di misure che li minimizzino. Tra queste, il tracciamento di ogni attività compiuta sulle banche dati (come ha disposto, con particolare rigore, per il settore investigativo di competenza, il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo Melillo), la previa autorizzazione delle operazioni dalle autorità a ciò preposte per legge, e a monte, la limitazione dei soggetti legittimati ad accedere alle risorse informative e dell’oggetto dell’accesso, secondo quel criterio del “need to know” particolarmente utile nella selezione, oggettiva e soggettiva, del perimetro delle consultazioni. Il rischio di abusi nell’accesso ai dati cresce, poi, inevitabilmente, ogniqualvolta le autorità pubbliche (soprattutto se inquirenti) esternalizzano parte della gestione del patrimonio informativo a soggetti esterni. È una circostanza resa oggi sempre più frequente e quasi necessitata dall’alto tasso di tecnicalità di molte delle attività demandate alle pubbliche amministrazioni, che spesso non dispongono delle competenze adeguate. E tuttavia, proprio l’affidamento a terzi, estranei al comparto pubblico, di segmenti, più o meno importanti, dell’attività amministrativa o, addirittura, inquirente, comporta criticità non trascurabili. L’alto numero e la diversa appartenenza dei soggetti legittimati, a vario titolo, ad accedere al patrimonio informativo ne accresce, inevitabilmente, il rischio di permeabilità. La frammentazione e parcellizzazione dei centri di responsabilità, derivanti dal coinvolgimento di molteplici soggetti nella “catena” delle attività investigative è, indubbiamente, un fattore di moltiplicazione esponenziale dei rischi. Non solo per i singoli interessati ma anche per la stessa efficacia e segretezza dell’azione investigativa. Lo dimostrano i problemi connessi all’uso dei trojan (rispetto ai quali la scelta delle ditte cui affidare le attività captative è cruciale nella garanzia di correttezza delle operazioni), ma anche i procedimenti che hanno coinvolto talune società incaricate della manutenzione dei server di alcune Procure, settore in cui da tempo la magistratura chiede interventi mirati ad una maggiore efficienza. Il rapporto tra privacy e potere investigativo, già di per sé delicatissimo, lo diviene ancor più per effetto delle potenzialità della tecnologia: straordinarie ma anche rischiose, se non adeguatamente governate. La sfida che abbiamo davanti, tanto più con l’avanzante intelligenza artificiale, è porre la tecnica al servizio della democrazia, non delle sue distorsioni. In fondo, la rigorosa disciplina interna introdotta dal procuratore nazionale Melillo e le indagini in corso a Perugia hanno il merito di ricordarcelo. *Intervento a titolo personale che non impegna in alcun modo l’Autorità di appartenenza La cronaca giudiziaria? Caccia alle scandalose assoluzioni (e mai condanne) senza leggere le sentenze di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 5 agosto 2023 Da alcune settimane due sentenze del Tribunale di Roma in materia di violenza sessuale (collegio di sole donne) sono diventate, nei media e sui social, motivo di scandalo. Secondo questa indistinta cagnara di parole in libertà, le giudici avrebbero assolto gli imputati in un caso perché il palpeggiamento sarebbe “durato solo dieci secondi”, ed in un secondo caso perché la vittima era “una complessata” in ragione del suo fisico non esattamente longilineo. Ho letto con attenzione le due sentenze e - ovviamente - non ho trovato traccia in esse né dell’uno, né dell’altro sproposito. Si tratta di due sentenze molto articolate, molto dettagliate nella ricostruzione della prova, tecnicamente molto ben scritte. Condivisibili o meno è altro discorso, ci penserà la Corte di Appello a stabilirlo. Nel caso dei “dieci secondi” la sentenza, nella ricostruzione minuziosa della prova dibattimentale, si limita a riportare tra virgolette null’altro che le testuali parole della denunziante. Il Tribunale riconosce senza esitazioni la piena credibilità del racconto della ragazza e la oggettiva sussistenza di una condotta materiale di violenza sessuale. Ciò che la sentenza non ritiene sufficientemente provata è la volontà del bidello di compiere non uno scherzo di pessimo gusto - come da lui sostenuto - ma un atto di “concupiscenza sessuale”, come si suole dire in giuridichese. E tanto afferma sulla base (oltre che di consolidata giurisprudenza della Suprema Corte) di numerosi elementi circostanziali ricostruiti dai testimoni (abituale comportamento del bidello, accadimento del fatto in luogo pubblico ed in presenza di decine di persone, modalità del “sollevamento da terra” della ragazza etc.). Tra queste articolate ragioni, ovviamente, rientra anche la natura “fugace” del toccamento, da sempre in giurisprudenza potenzialmente sintomatico di una assenza di volontà concupiscente. Nell’altra sentenza, invece, leggiamo una impietosa ricostruzione di testimonianze di colleghi e colleghe di lavoro che letteralmente demoliscono la versione fornita dalla parte offesa, indicata anzi come essa esplicitamente attratta sessualmente dall’imputato. Una debacle processuale della querelante, quasi a giustificare la quale il Collegio azzarda una qualche spiegazione (“probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico”); forse - azzardo - per salvarla da conseguenze più severe (trasmissione degli atti alla Procura per calunnia), non certo per motivare l’assoluzione! Morale della favola? Questo è il livello e la qualità della cronaca giudiziaria nel nostro Paese, alla famelica caccia di scandalose assoluzioni (mai di scandalose condanne), per aizzare indignazione, viralità sui social, kermesse forcaiole, numero di lettori e di like, senza sentire non dirò il dovere, ma almeno il decoroso bisogno di leggere un rigo delle sentenze sulle quali si vomita fango. Caro dottor Bruti Liberati ma non si è accorto che il giornalismo d’inchiesta non esiste più? di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 5 agosto 2023 Rinfacciare al Parlamento e al mondo della politica la propria incapacità a lavarsi e vestirsi ogni mattina senza l’aiuto di un magistrato, come ha fatto il dottor Edmondo Bruti Liberati, già capo della procura di Milano e anche del sindacato delle toghe, è una grande verità e anche una cocente umiliazione. È pur vero, come l’ex magistrato ha scritto sulla Stampa e sul Dubbio, che nel caso della presentazione da parte delle opposizioni della richiesta di dimissioni della ministra Daniela Santanché il Parlamento non ha dato grande prova di sé. Quasi i deputati fossero a un corso di procedura penale al primo anno della facoltà di giurisprudenza, ha commentato il dottor Bruti Liberati con tono irridente e un po’ sprezzante, eccoli lì a disquisire di informazioni di garanzia e di carichi pendenti. Il che sarebbe non più di un peccato veniale. La cosa più grave è che qualcuno (solo qualcuno, per fortuna) ha ipotizzato che si possa chiedere a un ministro in carica di andarsene qualora un giudice lo abbia rinviato a giudizio. E il principio costituzionale di non colpevolezza? Non scaricate su di noi magistrati, dice l’ex procuratore di Milano, questa responsabilità, che è solo di “etica politica”. In molti Paesi dell’occidente democratico importanti uomini di governo si sono dimessi quando un’inchiesta giornalistica ne ha disvelato una presunta “immoralità” di comportamento, a prescindere dall’inchiesta giudiziaria, al termine della quale molti sono risultati innocenti. Dovremmo compiacercene? Alcune riflessioni sono indispensabili, anche perché il dottor Bruti Liberati vuol farci credere di vivere su un altro pianeta e non in Italia dove, come ha ben spiegato il presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza, il problema della responsabilità viene sempre richiesto, giustamente, ai soggetti politici, ma mai alle toghe. E neanche a certi giornalisti di certe testate, che escono spesso vincenti da processi in cui giocano sempre in casa. Ma ci sono altri argomenti, che l’ex magistrato pare ignorare, nonostante i ruoli di vertice che ha ricoperto. Il primo è che in Italia non esiste più il giornalismo d’inchiesta, da quando molti cronisti hanno scoperto essere moto più comodo e redditizio fare gli scoop con le veline del pubblico ministero. E da quando gli stessi pm hanno capitalizzato in pubblicità personale e carriera professionale il traffico di notizie coperte da segreto investigativo. Poiché stiamo raccontando una realtà che è sotto gli occhi di tutti, ci sembra strano che un magistrato prestigioso come Bruti Liberati non si sia reso conto di quel che sta succedendo da almeno trent’anni a questa parte. Né potrebbe mai descrivere una realtà diversa - visto che anche lui c’era a quei tempi- a chi ha svolto per vent’anni il ruolo di cronista giudiziaria a Milano. C’è però un argomento che andrebbe ricordato invece alla politica, e soprattutto a coloro che, dopo aver letto qualche articolo sul Fatto o su Domani, chiedono a un ministro di dimettersi, sulla base, apparentemente, del famoso giornalismo d’inchiesta. Ma la verità è che queste notizie partono sempre da un’inchiesta giudiziaria. Il fascicolo del pm c’è sempre. Ed è inutile che ci si affanni a dire che si vogliono cacciare ministri non per l’inchiesta giudiziaria ma “per motivi di opportunità politica”. È così solo in apparenza, perché è il cane che si morde la coda. Poiché il cronista non è autonomo e le carte gliele dà il magistrato, è chiaro che le dimissioni vengono chieste solo in quanto c’è un’inchiesta giudiziaria. Questa è l’Italia da almeno trent’anni, caro Edmondo Bruti Liberati. E lasciamo perdere un altro argomento, anche se non è secondario, ed è quello dell’” onorabilità”, che profuma tanto di spirito rousseauviano e di Stato etico. Qualcuno si è inventato persino un partito sull’ “onestà”, che spero non piaccia a un fiero militante di sinistra come lei. Ma due nuovi fatti sono accaduti intanto in questi giorni, la fuga di notizie su una denuncia presentata dal ministro Guido Crosetto ben nove mesi fa, e una dignitosa rivendicazione del deputato del Pd Piero Fassino sul significato di politica e della sua nobiltà, proprio in contrapposizione all’andazzo moralistico-demagogico di cui pare essere prigioniero quasi l’intero Parlamento. Tanto che, a quanto pare, solo un deputato di Forza Italia, Roberto Bagnasco, gli ha dato solidarietà e sostegno in aula. Sulla vicenda del ministro della difesa non si può che prendere atto del fatto che siamo in presenza di ben due violazioni del segreto investigativo, una sulla rivelazione di una privata e legalissima retribuzione che l’ex dirigente d’azienda ha ricevuto da Leonardo, e la successiva sull’esistenza di un’inchiesta penale in seguito alla sua denuncia. Ma si tratta di giornalismo d’inchiesta, ovviamente, nessuno ha passato le carte. Perché “è la stampa bellezza!”, direbbe l’ex procuratore Bruti Liberati citando Humphrey Bogart. Sul discorso tenuto da Piero Fassino alla Camera due giorni fa, il punto centrale non è sull’entità dell’indennità parlamentare, da lui esibita a dimostrazione del fatto che non si tratta di “stipendio d’oro”, su cui si sono scatenati i miseri moralismi di destra e di sinistra. Ma il coraggio di dire a voce alta, dopo trent’anni di umiliazioni e autoflagellazioni della politica, che mettersi al servizio della comunità è un fatto alto e nobile. A testa alta, con le “mani pulite” delle persone per bene, che non hanno bisogno del bollino blu di qualche toga per decidere se un ministro possa continuare a fare il proprio lavoro. Brescia. Carcere e lavoro, il futuro esiste: “Fare sistema e creare fiducia” di Mara Rodella Corriere della Sera, 5 agosto 2023 La formazione dentro, le possibilità fuori: una decina di detenuti ha un’occupazione in azienda o in cooperativa, gli altri frequentano i tirocini. Prima ha ascoltato, con molta attenzione. Poi ha alzato la mano: “Parlo quattro lingue, ho sempre lavorato. E ho sbagliato, più volte. Ma vorrei solo una possibilità” ha detto al direttivo dei Giovani imprenditori di Confindustria Brescia in “trasferta” a Canton Mombello. Era il settembre scorso. Lui, detenuto italiano sulla quarantina ancora in esecuzione pena, adesso sta lavorando, anche “fuori”, in azienda: fa l’operaio. E non sgarra nemmeno per sbaglio. La posta in palio è troppo alta. “Quell’incontro è stato un’esperienza incredibile: gli imprenditori hanno potuto vedere la responsabilità e in alcuni casi la competenza” di chi si trova in carcere. “Noi ci siamo” hanno risposto. E la parola è stata mantenuta, ricorda Luisa Ravagnani, garante dei diritti dei detenuti. I quali, di contro, “non hanno più alibi: sanno che un’opportunità se la possono giocare davvero, anche se non è facile, è che è inutile piangersi addosso ripetendo che nessuno li vorrà mai”. Dentro, fuori. In mezzo, le sbarre. Ma anche una serie di possibilità, se lo si vuole davvero, per provare a costruirsi un futuro migliore. Studio, formazione, lavoro, appunto. Grazie per esempio a Confindustria - che ha recentemente rinnovato l’accordo biennale con carcere e Tribunale di sorveglianza, puntando anche sui corsi di informatica - e alle cooperative attive all’interno degli istituti penitenziari. Nonostante “non tutti i detenuti abbiano un profilo tale per essere inseriti nelle aziende profit, ma piuttosto in forma protetta, sia durante la detenzione che in seguito”. La coop sociale Nitor da anni collabora con Verziano, “sia con l’inserimento inframurario sia, nel caso, con la continuità esterna”. Che non è per tutti. Per lei sì. Ormai ex detenuta, straniera, 35 anni, oggi libera dopo aver scontato la sua condanna, per esempio, ha iniziato nella casa di reclusione, “a seguire la strada verso un reinserimento positivo dopo il carcere”, il suo cambio vita: “Ha frequentato e superato il corso per l’abilitazione di mulettista (e come lei un’altra detenuta e un’altra decina di detenuti maschi), e cominciato a fare le pulizie”. Lo fa tutt’ora, per Nitor, dopo chilometri in bicicletta per andare al lavoro ogni giorno: “Ha dimostrato e sta confermando la sua serietà e affidabilità, la voglia di crescere. Le stiamo cercando un’occupazione compatibile con la sua formazione, in modo che possa diventare indipendente, lontano dal mondo carcerario”. Le attività sono varie. A Verziano i detenuti (una quindicina) hanno inscatolato cialde di caffè - oltre venti milioni prodotte in un anno - confezionato succhi di frutta, assemblato valvole idrauliche, anche una volta liberi, e farcito dolci - oltre cento chili di cannoncini poi finiti sul mercato. A Canton Mombello è un po’ più complicato, per gli spazi ridotti. Ma “con la cooperativa Fontana ha aperto un laboratorio di piccole lavorazioni e assemblaggi da tavolo. Siamo pronti per partire, almeno con due detenuti che potrebbero salire a dieci” previa selezione: interna sotto il profilo comportamentale, cui seguono i colloqui con la coop di riferimento. Ad oggi, una decina di detenuti - di entrambi gli istituti bresciani - lavora fuori dal carcere, in fabbrica o cooperativa. “Dentro”, continuano i tirocini formativi a rotazione. I numeri “lievitano” di diverse decine “se si considerano quelli in misura alternativa: registriamo revoche, sì, ma riguardano quasi sempre tossico o alcoldipendenti, cioè gli affidamenti in prova non ordinari e sotto il Sert. In questi casi si torna in carcere ma prevalendo l’aspetto sanitario è possibile chiedere nuovamente la messa alla prova, per tutti gli altri, basta la minima violazione alle disposizioni del magistrato di Sorveglianza e si torna in cella per tre anni”. Il punto (di svolta) “è che la formazione derivava da iniziative spot legate a realtà di volontariato o del terzo settore in base alla disponibilità, ora per esempio con Confindustria intravediamo la continuità. Perché è importantissimo - spiega Ravagnani - fare sistema per instaurare una fiducia reciproca duratura, in modo che gli interlocutori si uniscano in un progetto di più ampio respiro: si parlino, insomma, per dare circolarità a tutto ciò che si riesce a fare, senza perderne nemmeno un pezzettino”. Brescia. Risparmiateci le inutili visite estive: Canton Mombello deve essere chiuso di Carlo Alberto Romano Corriere della Sera, 5 agosto 2023 Siamo stufi di questo turismo della critica carceraria. Servono soluzioni, quelle stesse che, quotidianamente, con innegabile difficoltà, chi opera in carcere cerca di perseguire. A ferragosto verrà qualche parlamentare, entrerà in carcere, a Canton Mombello, tanto per essere sicuri di non sbagliare, convocherà i giornalisti, dirà che fa schifo e poi scomparirà, protetto dalla rassicurata coscienza che la gita estiva ha alimentato, rifornimento bastevole per gli altri 364 giorni dell’anno. Basta. Siamo stufi di questo turismo della critica carceraria. E non perché non corrisponda al vero la critica. Tutt’altro. Canton Mombello andrebbe chiuso domani per non allargare sempre più la distanza fra la pena irrogata e un modo umano di intenderla. Ma proprio perché la critica è plausibile, ciò che diventa intollerabile è la sterilità delle grida. Non solo politiche e non solo estive, per il vero, ma è in questo periodo che si rilevano gli esempi più evidenti. Lo sappiamo che così com’è, non va bene; ma lo sappiamo tutto l’anno e soprattutto sappiamo che non basta dirlo. Servono soluzioni, quelle stesse che, quotidianamente, con innegabile difficoltà, chi opera in carcere cerca di perseguire. Non è per caso che fra operatori penitenziari, in divisa e no, volontari e addetti del terzo settore, tendenzialmente (ma a Brescia, certamente) non vi siano contrapposizioni. Perché in tutti alberga la consapevolezza che solo insieme, e con impegni concreti, si possono trovare soluzioni. E forse, è solo la naturale ritrosia di chi lavora nel sociale che impedisce di divulgare gli sforzi profusi, perlomeno con la stessa veemenza con cui si evidenziano le criticità. Ma è giusto far sapere che qualcosa si fa, anche a Canton Mombello, sul versante trattamentale. E andrebbe spiegato anche ai professionisti delle visite mordi e fuggi. Penso agli instancabili colloqui di sostegno dei volontari; penso ai percorsi di studio; ai progetti per la gestione della genitorialità e per la gestione dell’aggressività, specialmente legata al genere; penso al lavoro della Garante, del Cappellano e dell’Imam del centro culturale islamico e della rivista Z508; penso ai percorsi di mediazione, ai laboratori teatrali e musicali, alla presenza del centro diurno, alle cooperative che si fanno carico degli inserimenti lavorativi e alla recente convenzione siglata con Confindustria. Penso ai percorsi in esecuzione esterna e alle possibilità di alloggio offerte dal terzo settore bresciano che, pure se cronicamente insufficiente, costituiscono un riferimento esemplare a livello nazionale. E tutto questo, comunque non si farebbe senza l’aiuto dell’area educativa e della polizia penitenziaria, il cui apporto va riconosciuto, nonostante le oggettive difficoltà che la situazione attuale evidenzia. Gocce d’acqua, in un contesto di sete cronica? Può darsi, ma sempre meglio del cartello acqua non potabile. Tanto più che, se adeguatamente supportate e implementate, queste proposte potrebbero rendere meno complicata la convivenza carceraria, magari anche grazie a qualche minimo, ma sostanziale, intervento normativo. Quindi, lo dico prima: se ad agosto venite solo per dire che il carcere non va bene, state a casa. Reggio Emilia. Pestaggio su un detenuto, interrogazione al ministro Nordio Il Resto del Carlino, 5 agosto 2023 La vicenda del presunto pestaggio al detenuto nel carcere di Reggio per mano di 14 agenti della polizia penitenziaria (tutti indagati, di cui dieci sospesi) arriva sul tavolo del Ministro della Giustizia Carlo Nordio. La parlamentare del M5s Stefania Ascari ha presentato un’interrogazione parlamentare. “Un fatto gravissimo - chiosa nel documento la pentastellata - è necessario che le autorità competenti facciano rapidamente luce sull’accaduto; la certezza sulle reali condizioni e sul rispetto dei diritti all’interno degli istituti penitenziari è una priorità che non riguarda solo i detenuti ma tutti i cittadini. Chiedo se il ministro sia a conoscenza dei fatti e se e quali misure nell’ambito della propria competenza, anche di carattere ispettivo e disciplinare, abbia già intrapreso o intenda intraprendere nei confronti del personale interessato all’interno del carcere di Reggio”. Sulle condizioni delle carceri e dei detenuti, in particolare quelli psichiatrici, interviene anche il consigliere regionale Federico Amico (Emilia-Romagna Coraggiosa: “Occorre evitare trasferimenti da altre regioni nei percorsi di salute mentale per detenuti. Con una risoluzione viene posta l’attenzione sulla struttura di Reggio dove, su 40 pazienti, più della metà proviene da fuori regione. La giunta regionale si faccia carico di comunicare questa esigenza al Dipartimento amministrazione penitenziaria. Dimezzando i posti letto si consentirebbe al personale sanitario e non sanitario di occuparsi di pazienti per cui ci siano maggiori possibilità di creare progetti terapeutico-riabilitativi individualizzati, attuabili e concreti anche per vicinanza geografica. L’Atsm di Reggio è stata creata nel 2015 in due sezioni e dispone tuttora di 50 posti letto. All’11 luglio scorso, i pazienti presenti nella Atsm di Reggio erano 40 e di questi solo 19 provengono dall’Emilia-Romagna”. Treviso. “Il carcere minorile non è sicuro”, il sindacato va in procura Corriere del Veneto, 5 agosto 2023 Non sono passati nemmeno quindici giorni dalla riapertura che il carcere minorile di Treviso è già ripiombato in una bagarre giudiziaria. La Funzione Pubblica della Cgil ha presentato infatti un esposto in procura denunciando una situazione di scarsa sicurezza nell’Istituto penale per i minorenni del capoluogo. La decisione è stata presa dopo una serie di sollecitazioni, segnalazioni e richieste alle quali, dicono i sindacati, non è mai giunta risposta. Nel frattempo, il carcere minorile ha ripreso a funzionare a regime e ospita già diversi minorenni. “Abbiamo denunciato più volte, scrivendo anche alle sedi competenti in Veneto e a Roma, le condizioni di pericolosità in cui versa l’Istituto per i minorenni, sia per quanto concerne la sicurezza dei detenuti che quella di chi ci lavora - spiega Marta Casarin, segretaria generale della Fp Cgil di Treviso - abbiamo di recente effettuato una visita ispettiva sindacale che ha confermato i nostri timori: c’è un solo accesso alla sezione detentiva che funge anche da via di uscita in caso di emergenza e che comunque non rispetta i termini di sicurezza, in quanto renderebbe difficile l’ingresso dei vigili del fuoco o del 118”. I sindacati sottolineano anche che non sarebbe stato possibile sapere se l’impianto antincendio e quello elettrico siano a norma. “L’impressione è che i lavori di ripristino dell’anno scorso siano stati una toppa che non ha risolto i problemi” conclude Casarin, aggiungendo che “visto che nessuna sede competente sta prendendo sul serio la situazione, abbiamo deciso di non essere conniventi di questa grande mancanza in termini di salute e sicurezza”. Dalle critiche all’esposto in procura insomma il passo è breve, a stabilire quali siano le condizioni di sicurezza del carcere ora sarà la magistratura. La struttura penitenziaria per minori era stata chiusa dopo alcune rivolte scatenate da detenuti nell’aprile del 2022, che l’avevano resa in gran parte inservibile a causa di un incendio appiccato dai più facinorosi. Con una capienza di 12 posti, di cui 10 subito utilizzabili è destinata a diventare l’unico centro di detenzione per minori in Veneto in attesa che entro la fine del 2024 apra la struttura sostituiva a Rovigo. Fossombrone. Giornata mondiale della gioventù, l’altra Via Crucis è in carcere di Vincenzo Varagona Avvenire, 5 agosto 2023 Attorno a una croce realizzata con gli scarti del laboratorio di falegnameria, i detenuti di Fossombrone hanno vissuto le stazioni. In sintonia con papa Francesco a Lisbona. Uno striscione, un’immagine di Cristo, uno scrigno vuoto, da riempire con emozioni e speranze: sono tre doni che arrivano a Lisbona dai 90 detenuti del carcere di massima sicurezza di Fossombrone, nelle Marche. Gli ambasciatori, una delegazione della diocesi di Fano, Fossombrone, Cagli e Pergola, guidata da don Francesco Pierpaoli, vicario diocesano e don Desiré Gahungue, cappellano della struttura, che in un messaggio ricorda come i giovani partiti per Lisbona hanno preparato il viaggio con un incontro, proprio in carcere, il 20 maggio scorso. Video e foto della consegna dei doni arrivano nella casa di reclusione pochi minuti prima che cominci un momento forte, molto intenso: la Via Crucis voluta dagli stessi detenuti in sintonia con papa Francesco, a Lisbona, dove gli ospiti hanno messo nelle mani del Signore tutto il carico di sofferenze, il desiderio di riscatto, maturati in questi anni. Una preghiera davvero particolare, nel teatro del carcere, dove in platea hanno preso posto gli ospiti che hanno accettato questa proposta. Sul palco un grande crocifisso in legno, realizzato con gli scarti di lavorazione del laboratorio di falegnameria. Sotto la croce, seduti, nove detenuti. Le norme di sicurezza non rendevano possibile un itinerario in movimento, né la durata tradizionale con 14 stazioni. Allora la cappellania, con la regia di suor Catherine Southwood, che ne fa parte, ha ridotto le stazioni a nove, con la croce che - di stazione in stazione - è passata nelle mani di altrettanti detenuti. “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”, si legge nel Vangelo di Giovanni: “Così, spiega suor Catherine, è affiorata l’idea di questa croce realizzata da un detenuto, Nicola, con le eccedenze dai precedenti lavori, destinati allo scarto, invece ritagliati ed elaborati, verso la nuova creazione”. Una croce da un metro e 86 centimetri, che appare spigolosa, “espressione delle sofferenze quotidiane di ogni detenuto e delle famiglie, senza escludere quelle delle vittime e dei loro familiari colpite dai reati”. Al posto dei chiodi delle mani si trovano due cuori, circondati da spine e attraversati da una spada: “Sono i cuori di Gesù e di Maria, ma possono essere i cuori delle madri: capaci di stare accanto a loro figli con un amore incondizionato, abbracciando la sofferenza e le umiliazioni che non mancano anche dopo anni…” Il dorso della croce, invece, è stato ritagliato da un tavolo di legno usato per i letti delle celle fra il materasso e la rete e “rivela”, spiega suor Catherine, particolari a cui non si pensa mai. Ci hanno dormito uomini arrestati, condannati, forse anche innocenti; uomini che hanno pianto, pregato, provato il rimorso e il pentimento, uomini che hanno passato notti in bianco e alcuni di loro sono morti. Ecco, alla croce è stato dato nome “Voci dal silenzio” e esprime una convinzione: come per Gesù, questa sofferenza non va perduta, ma trasformata, trasfigurata e redenta”. I detenuti ascoltano suor Catherine, ascoltano fra Fabio, che guida la celebrazione e padre Erik, che introduce ogni stazione. E parlano, proponendo meditazioni, in parte originali, in parte mutuate da analoghe celebrazioni, commentandole: “Le sentiamo assolutamente nostre”. C’è un condannato all’ergastolo: “La mia crocifissione, confessa, è cominciata da bambino, emarginato e bullizzato”. E poi, i genitori cui hanno ucciso una figlia: “Non troviamo pace, ma quando la disperazione prende il sopravvento, il Signore, in modi diversi, ci viene incontro e ci prende per mano”. Un altro detenuto racconta come vedeva il carcere da fuori, “un cimitero di morti viventi” e come, improvvisamente, è stato costretto a viverlo da dentro “da paese straniero è diventato la mia casa, in cui ho costretto a entrare anche i miei genitori…” C’è poi la mamma di un detenuto: “Da quel giorno l’intera famiglia è entrata in prigione con lui”. E una figlia: “A chi mi chiede cosa provo per le vittime di mio padre rispondo che la prima vittima sono stata io”. Un ospite di Fossombrone in chiusura prende la parola: “Una delle sofferenze peggiori è la cesura nei rapporti con i figli, un percorso doloroso che ultimamente siamo riusciti a recuperare. Mia figlia dice che è successo grazie all’amore di Dio”. Alla fine detenuti, volontari, si riuniscono per un’ultima preghiera attorno alla croce costruita da Nicola. Al direttore, Orazio Sorrentino, il ringraziamento comune per avere consentito e anche incoraggiato questo momento ad altissima intensità, animato liturgicamente da un gruppo del Rinnovamento nello Spirito. In questa struttura ormai secolare, costruita a forma di croce greca, risuona un altro passaggio del messaggio di don Desirè: “Non sono solo i detenuti a lavorare su se stessi, perché anche chi ha la libertà fisica è opportuno trovi il modo e il momento di valutare se non sia schiavo, detenuto di altre prigioni, come quelle interiori, morali, ideologiche”. Teatro. Parole verso la libertà dal carcere della fortezza di Volterra di Gianfranco Capitta Il Manifesto, 5 agosto 2023 In scena il nuovo spettacolo di Armando Punzo “Atlantis cap. 1 la permanenza”. Armando Punzo presenta un suo nuovo lavoro con la Compagnia della Fortezza, nata coi detenuti che da trent’anni circa condividono con lui questa passione artistica tra le maestose e inquietanti mura rinascimentali della prigione costruita dai Medici. Poche settimane fa a Punzo i direttori Ricci e Forte hanno consegnato il Leone d’oro alla carriera della Biennale veneziana, e grande successo ha ottenuto la versione “lagunare” dello spettacolo realizzato l’anno scorso nelle Saline volterrane. In questi giorni nasce invece un nuovo percorso: Atlantis, Cap. I La Permanenza, andato in scena ora nel cortile e in un corridoio di celle del carcere volterrano. Tra visioni folgoranti quanto inquietanti degli interpreti (una ventina e forse più, cui si aggiungono altre figuranti femminili) che attraversano lo spazio, ogni momento ridisegnandolo e animandolo sotto un sole come sempre implacabile, Punzo stesso si fa protagonista (unico in voce, grazie anche a un microfono ad alta fedeltà) e conduttore di quel misterico viaggio, una danza senza posa che pare addolcire e a tratti neutralizzare quell’ininterrotto movimento. Il tessuto, visivo oltre che sonoro, è costituito dalle parole che Punzo legge, governa, a tratti grida e più spesso sussurra, e che lui stesso ha scritto. E gli attori intorno gli disegnano una sorta di fisico coro, prendendo iniziative o lanciandosi in esibizioni di grande abilità fisioginnica. Quello però che fa segnare il passo allo spettatore (e alla sua fedeltà e concentrazione) è forse l’estrema astrazione delle parole di Punzo, la loro complessità che a tratti rischia di suonare fine a se stessa. C’è una cesura netta insomma con gli spettacoli dei primi anni (sono circa trenta quelli che l’esperienza sta per compiere), in cui la “voglia”, quasi disperata, di misurarsi con le scritture e le parole di “fuori”, e con il loro senso, avevano un effetto davvero deflagrante, sia che fossero testi scopertamente teatrali dei primissimi inizi, o quelli letterari più evoluti e vicini alla sensibilità di interpreti e spettatori (ovviamente per ciascuno a suo modo). Ora prevale nella ricerca di Punzo una sorta di intento filosofico, molto personale e certamente rispettabile, ma non necessariamente condivisibile (e a tratti comprensibile) dallo spettatore. È un “problema” (ma magari del singolo spettatore) che restringe a tratti i detenuti attori quasi a semplici figuranti, per quanto maestosi. E mette a rischio la difficoltà di seguire quelle parole, il loro sviluppo, la loro meta. Come, vien da pensare, alla comprensione di chi al loro ritmo si muove. Ci sono momenti di reale difficoltà alla partecipazione, anche se vi si riconosce un empito profondo e niente affatto casuale. Viene quasi nostalgia di tanti spettacoli alla Fortezza in cui gli attori si immedesimavano nei “personaggi”, e il risultato era di un creativo stridore che alla scrittura (letteraria o teatrale) conferiva merito e forza. Ora prevale l’aspetto visuale (per i detenuti/attori in fiammanti frac neri o candidi è una sorta di intima epifania), così come potenti risultano gesti, suoni, visioni. Ma resta l’impressione che a quegli attori non dispiacerebbe esprimersi anche a parole. Punzo cita, nel testo di accompagnamento, un unico scrittore e intellettuale contemporaneo, Walter Siti. Ma chiunque abbia letto (o conosciuto personalmente) lo scrittore, sa bene che lui amava sì attraversare gli inferi dell’anima (e dei corpi), ma era assolutamente e altrettanto pronto a sorriderne e a farne grande letteratura. E perfino di riscriverne, di tutto quel “fuoco” , per una terribile trasmissione televisiva specializzata in tragedie di cuore e di sesso. Abbastanza trash, eppure sublime, e di grande, impunita audience. Ernesto Olivero: “Piansi con Madre Teresa. Il bandito Cavallero mi disse: Qui ho capito che Dio esiste” di Roberta Scorranese Corriere della Sera, 5 agosto 2023 Il fondatore del Sermig e dell’Arsenale della Pace a Torino: “Andai da Paolo VI e gli dissi che in tanti vedevano la chiesa come ricca e distante. Mi abbracciò e mi diede ragione”. Ottantatré anni, salernitano trapiantato a Torino, nel 1964 ha fondato il Sermig (Servizio Missionario Giovani) e quarant’anni fa l’Arsenale della Pace, che ha dato e dà alloggio e ristoro a persone che hanno bisogno. Un ricordo della sua infanzia? “Ultimo di undici figli, la mia era una famiglia povera ma dignitosa: papà lavorava all’ufficio del registro e il suo era l’unico stipendio di casa. Una infanzia felice, nonostante i miei clamorosi insuccessi scolastici. Sono stato rimandato e bocciato diverse volte. Un giorno i miei fratelli sono andati in delegazione da mamma a lamentarsi che io ero l’asino di casa, mia lei rispose: “State tranquilli, Ernesto farà altro nella vita!”. Mamma e papà sono mancati a distanza di neanche un anno, io avevo 20 anni”. Come è arrivato a Torino? “Con la mia famiglia siamo emigrati al nord nel 1949. Quando siamo scesi dal treno faceva freddo, non eravamo abituati al clima di qui. A Chieri ho avuto un impatto molto duro: se a Salerno mi chiamavano “il piemontese” perché papà era di Boves, in Piemonte mi chiamavano “il terrone”. Ho fatto a pugni diverse volte, ne ho prese ma ne ho date tante. È nata in quegli anni l’amicizia con Carlo Maria Martini, allora giovane prete. Per un periodo ho lavorato nel Mulino Chierese che era stato acquistato dal partito comunista di Bologna. Parlavo a tutti di Dio, poi un giorno venne il direttore e mi dissero: “Olivero, ci converta pure tutti ma la prego lasci stare il direttore, altrimenti che figura ci facciamo?”. Poi è arrivata la proposta della Banca San Paolo”. Com’era Torino negli Anni 60? “Era la Torino della Fiat, di Gianni Agnelli, delle prime tensioni sociali. Era un’epoca violenta di contestazioni e rivendicazioni che poi portarono al terrorismo. Gli anni ‘70 furono terribili. Ricordo l’omicidio di Carlo Casalegno, di tanti innocenti. Ogni giorno, morti, persone gambizzate. Se non ti schieravi era come se non contassi nulla. Non ha idea di quante volte mi chiesero di prendere posizione contro la Chiesa, di aderire a qualche ideologia. Ti volevano conservatore o progressista. Io non capivo. Le etichette erano troppo strette per contenere grandi ideali. Io volevo essere semplicemente cristiano, aperto al dialogo. È in quegli anni che è nato il Sermig”. Lei lasciò il posto in banca e si dedicò a questa “creatura”, che si allontana dall’idea tradizionale di missione cristiana per dedicarsi ai poveri, ai drogati delle città. Come andò? “Nel 1991, ricevetti una telefonata da parte di un uomo di Dio con cui ogni tanto mi confrontavo. “Se ritiene, può licenziarsi”, mi disse. Ne parlai con mia moglie Maria e lei mi appoggiò. Decisi di fare così, senza rimpianti, vivendo poi della mia pensione. Da quel momento, il mio impegno è diventato da 24 ore su 24”. Come ha scelto proprio quell’arsenale? “L’Arsenale non lo abbiamo scelto, lo abbiamo sognato. Negli anni ‘70 decisi che avrei portato a papa Paolo VI il disagio di tante persone che conoscevamo che sentivano la Chiesa ricca, distante dai problemi. Riuscii ad incontrarlo a tu per tu. Lui mi abbracciò e mi diede ragione. “Faccia lei quello che chiede a me”. Anni dopo scoprimmo che l’arsenale era proprio lì (zona Porta Palazzo, ndr.). Ma era davvero un rudere, servivano molti miliardi per rimetterlo a posto e noi non avevamo una lira. Il patto era chiaro: il comune ce lo avrebbe affidato a condizione che fossimo noi a rimetterlo a posto”. Si mossero migliaia di volontari. “La notizia di un gruppo di giovani che volevano trasformare un arsenale di guerra diventò contagiosa. In breve tempo siamo stati travolti di richieste: giovani e adulti, gruppi di ogni tipo. Poi sono arrivati i professionisti. Ricordo Giulio Pizzetti, un docente di fama del Politecnico di Torino che per mesi venne in incognito”. Tre persone che le sono state vicine in quell’avventura... “Penso all’amicizia con giganti come Madre Teresa di Calcutta, papa Giovanni Paolo II, dom Luciano Mendes de Almeida, presidente dei vescovi brasiliani, il mio migliore amico. Ricordo quando andai a piangere da Madre Teresa per alcune calunnie ricevute e lei con un sorriso mi consolò ricordandomi che ognuno ragiona in base al marciume che ha dentro. Una figura decisiva è stata il cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino in quegli anni”. Chissà quante storie... “Anni 80, in piena emergenza droga. Mi chiama una amica, giudice di sorveglianza: “Ernesto, abbiamo un caso disperato. Potete accoglierlo? Vi costerà 15 giorni e una cassa da morto”. Nicola arrivò in Arsenale che era l’ombra di sé stesso. Lo guardai negli occhi: “Non hai molto tempo davanti. Perché non provi a cambiare almeno adesso? La droga fa schifo. Noi faremo di tutto per aiutarti”. Nicola si fidò. Lo avvolgemmo di cure, di delicatezza, di ascolto. Visse semplicemente con noi”. Avete accolto anche Pietro Cavallero... “Uno dei banditi più feroci del secolo scorso, un assassino. Dopo molti anni di carcere, chiese di venire all’Arsenale in regime di semilibertà. Arrivò spavaldo, ma dopo sei mesi, me lo ritrovai in stanza. “Ernesto, voi accogliete tutti e l’ho visto. Dio esiste”. Poi aggiunse: “Ma io ho ucciso, devo espiare, devo chiedere perdono”. Rimasi senza parole, ma ricordo che quella notte fu come luce. Posso testimoniare che Pietro visse i suoi ultimi anni da convertito, quasi nascosto. Chiese perdono alle famiglie delle vittime, al cardinale Martini come rappresentante di Milano, la città dove aveva fatto del male”. E come è cambiato il Sermig nel tempo? “Iniziammo sostenendo i progetti dei missionari in ogni continente. Poi, abbiamo cominciato a inviare aiuti umanitari. Ho ancora negli occhi le oltre 1600 tonnellate di cibo e farmaci raccolti in poche settimane e inviati in Ucraina l’anno scorso. Quando siamo entrati all’Arsenale non avrei mai immaginato di trovare alla porta ex terroristi che chiedevano di cambiare vita, ragazzi che non avevano dove dormire, donne che volevano lasciare la vita di strada, giovani che cercavano il senso della vita. Noi non ci siamo mai sottratti. La chiave è sempre stata quella dell’imprevisto accolto. Oggi negli arsenali di Torino, San Paolo in Brasile e Madaba in Giordania accogliamo quasi 2mila persone”. L’hanno accusata di megalomania... “A volte, il mio modo di fare è stato equivocato. Prenda l’Arsenale. All’inizio molti dicevano che sarebbe stata la mia tomba e quella del Sermig. Tanti amici non mi vennero dietro in quel progetto pensando alla sproporzione che avevamo davanti. Ricordo un confronto molto franco con il mio arcivescovo, il cardinale Saldarini che negli anni ‘90 mi convocò per avere dei chiarimenti. Stava molto sulle sue. “Mi dicono che non hai debiti perché sei amico dei politici. Cosa rispondi?”. Erano gli anni di Tangentopoli e delle inchieste su politica e mafia. Gridai: “Lo vuole capire che quello che facciamo, lo facciamo per i poveri e per avvicinare l’uomo a Dio? Le porto i bilanci”. Dopo un po’, ricevetti una busta: c’era un assegno e un suo biglietto con scritto “Il tuo cardinale è con te”. All’inaugurazione venne Pertini... “Erano passati pochi mesi dal nostro ingresso nell’arsenale e c’erano ancora macerie ovunque. Il presidente lo venne a sapere e quando gli parlai mi disse che sarebbe venuto lui a inaugurarlo. “Presidente, non c’è nulla da inaugurare, sono solo macerie”. “Ho detto che vengo io!”, mi rispose. Così avvenne. Da allora ogni presidente della Repubblica è passato dall’Arsenale, compreso Sergio Mattarella con cui è nata un’amicizia profondissima”. Come si regge una struttura simile? “Dall’inizio rendicontiamo tutto: viviamo e operiamo di provvidenza. In quasi 60 anni di storia del Sermig, abbiamo realizzato quasi 4mila progetti di sviluppo in ogni continente, 77 missioni di pace, offrendo 18 milioni di notti di ospitalità, 600mila visite gratuite. La chiave di tutto è la restituzione. Il 93% del nostro bilancio è coperto dagli aiuti della gente, piccole donazioni, quasi 30 milioni di ore di volontariato offerte da persone, credenti e non credenti. Io dico sempre che se la gente smettesse di aiutarci, gli Arsenali chiuderebbero in tre giorni”. Sermig è anche in altri Paesi e il suo nome è stato fatto spesso per il Nobel della Pace. Come siete visti all’estero? “Come Sermig, abbiamo aperto l’Arsenale della Speranza a San Paolo del Brasile impegnato nell’accoglienza degli uomini di strada e l’Arsenale dell’Incontro a Madaba, in Giordania, una casa che accoglie bambini e ragazzi disabili sia cristiani che musulmani. Siamo sempre andati in altri Paesi in punta di piedi”. Ricordi dal mondo in fiamme? “Sono tanti. Ricordo la paura della Polonia del 1982 durante la repressione di Solidarnosc, i palazzi sventrati a Baghdad o a Beirut, la devastazione di Mogadiscio. C’è però un’immagine che non potrò mai cancellare. Ero in Rwanda, poco dopo il genocidio del 1994. Ho ancora davanti agli occhi il corpo di un bambino con la testa mozzata da un machete. Vicino a lui c’era ancora il suo biberon di legno. Quel biberon oggi è custodito all’Arsenale. È prezioso”. Come ha conosciuto sua moglie Maria? “Avevo 22 anni. L’ho vista in bicicletta dalla finestra del Mulino, in cui lavoravo. Pensai che sarebbe diventata mia moglie. La sua era una famiglia “bene”, la mia povera, ma mi accolsero. Mi presentò suo padre. Ci sposammo, il 24 aprile del 1965. La nostra famiglia poi si allargò ai nostri tre figli: Lidia, Sandro e Andrea”. Maria non c’è più. Come affronta Ernesto Olivero il dolore? “Maria per certi aspetti c’è ancora più di prima. Continuo a sentirla presente in me. E non è retorica. Il dolore c’è, è umano, fa parte di noi, a volte toglie il respiro. Lo guardo in faccia e come mi hanno insegnato tante persone, provo a viverlo con le braccia aperte. Per me è così, ma rispetto sempre chi si sente schiacciato”. Ricordare don Peppe Diana assassinato dai camorristi, ma in un Paese di gente per bene di Roberto Saviano Corriere della Sera, 5 agosto 2023 Voglio dedicare queste mie righe a Valerio Taglione, perché il suo impegno, che portò alla fondazione del Comitato Don Diana, è stato lo scrigno che ha permesso di tutelare la storia di Don Peppe, sottraendola al fango dei quotidiani locali megafono dei clan. Valerio Taglione, prematuramente scomparso tre anni fa, è stato insignito della Medaglia d’Oro al Valor civile alla memoria. La fotografia che ho scelto di mostrarvi questa settimana ritrae Don Peppe Diana, sacerdote ucciso a Casal di Principe il 19 marzo 1994, nella sua chiesa, nel giorno del suo onomastico. Il killer è entrato in chiesa e ha urlato il suo nome. Don Peppe si è fatto riconoscere ed è stato freddato. Don Peppe è stato ucciso per il suo impegno antimafia, ma nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, certa stampa locale, evidentemente imbeccata da soggetti legati al clan dei Casalesi, ha iniziato a insinuare un suo coinvolgimento negli affari dei clan. “Don Diana nascondeva armi del clan rivale per questo è stato ucciso”, “Don Diana aveva amanti, approfittando del suo impegno negli scout”, “Don Diana è stato ucciso per essersi rifiutato di celebrare in chiesa una funzione per il familiare di un affiliato”. Oggi leggete queste parole e inorridite, provate schifo e pensate che sia normale. Ma vi assicuro che non è sempre stato così. Ci sono momenti in cui le menzogne fanno presa. Per questo vengono diffuse, perché, mischiandosi all’indignazione, confondendosi tra le notizie affidabili generano confusione. Guardate, le fake news hanno sempre un unico scopo: quello di insinuare l’idea che non esista una sola verità, che quando si parla di organizzazioni criminali in determinati territori, nessuno può dirsi davvero pulito. Tutte queste menzogne hanno sortito come risultato quello di bloccare su Don Peppe Diana ogni approfondimento nazionale e ogni racconto che non si fermasse all’indignazione di chi lo conosceva e frequentava la sua chiesa. Quando dalla tua terra arrivano informazioni contrastanti, allora la stampa nazionale si ferma, temendo di raccontare come antimafia un percorso che antimafia non è. Questo è accaduto a Don Peppe, a Giancarlo Siani, a Pippo Fava e alla stragrande maggioranza di chi viene ucciso dalle organizzazioni criminali senza esserne parte. Se poi sei vittima di scambio di persona, l’onta della vicinanza ai clan la cancelli con enorme difficoltà. Quello che è accaduto a Casal di Principe nel 1994 siamo riusciti a riportarlo all’attenzione dei media nazionali dopo anni. Se l’assassinio di Don Peppe Diana è ormai universalmente considerato un omicidio di camorra con un preciso movente - impedire a Don Peppe di parlare - è anche grazie all’impegno di persone per bene come Valerio Taglione. Ho scelto la fotografia di Don Peppe con un microfono perché la morte è silenzio. Sempre. Le organizzazioni criminali lo sanno bene e sanno anche che il danno che viene da un omicidio può essere minore e più gestibile, delle parole di un prete che dice alla comunità che lo ascolta - e che di lui si fida - che i clan stanno distruggendo la terra di tutti, inquinando, devastando. Ho incontrato e intervistato l’unico testimone dell’omicidio di Don Diana, colui il quale ebbe la forza e l’enorme coraggio di denunciare il killer. Ho incontrato molte volte in questi anni Renato Natale, sindaco di Casal di Principe e so che quel territorio ha in sé gli anticorpi, ha un esercito di persone per bene pronte a difenderlo a costo di perdere tutto, la serenità, il sonno e anche molto di più. Mi sento un privilegiato, perché in questi anni ho sempre mantenuto con quel territorio e con quelle persone preziose una interlocuzione costante. Questo è il Sud, preda di appetiti criminali e politici, appetiti enormi, smisurati, potenti. Questo è il Sud, dove piccoli e grandi eroi, disarmati ma pronti a tutto, resistono e fanno da scudo. Sono fiero di essere parte di questa storia e lusingato di poterla raccontare. Gli anziani nelle Rsa e quell’insopprimibile desiderio di libertà di Antonio Mattone Il Mattino, 5 agosto 2023 Era fuggito da quell’ospizio che considerava la sua prigione. La sistemazione che gli avevano trovato dopo essere stato sradicato dalla sua casa non gli andava proprio giù. Una vera e propria evasione degna del più scaltro galeotto. Sapeva che la sua condanna era “fine pena mai”, pur non avendo avuto nessuna sentenza. Ma riteneva questa “detenzione” una grande ingiustizia. Così un novantaduenne della provincia di Trento ha pensato bene di darsi alla fuga con un piano studiato nei minimi particolari. Dopo aver attirato l’attenzione del “sorvegliante” a cui aveva detto di soffrire di insonnia, si è messo davanti al televisore. Ma poi, invece di tornarsene a letto, ha simulato con dei cuscini sotto le lenzuola la sua sagoma e si è allontanato silenziosamente. Le telecamere di sorveglianza della struttura hanno registrato i diversi tentativi di scavalcare il muro di cinta, tutti andati a vuoto perché troppo alto per il novello Vidocq. Ma l’anziano non si è perso d’animo, e alla fine è riuscito a sgusciare sotto la recinzione senza dare nell’occhio. Ad attenderlo per strada non c’era nessun complice, ma era solo armato dalla determinazione di voler tornare a casa propria. Nonostante la debolezza dovuta all’età, è riuscito a raggiungere la sua abitazione che distava ben dieci chilometri dalla casa di riposo. Aveva manifestato più volte nostalgia per le mura domestiche dove, come accade per tanti anziani, avrebbe voluto vivere fino alla fine dei suoi giorni. Questo indizio ha portato sulle tracce del “ricercato”, e in poche ore è finita la sua latitanza. Ha resistito, si è barricato in casa e all’arrivo delle forze dell’ordine ha minacciato di farla finita. Non accettava di dover ritornare in quell’ospizio spersonalizzante dove consumava giornate tristi e sempre uguali. Le trattative per una resa onorevole, imbastite dai Carabinieri, non hanno avuto effetto, finché un’irruzione fulminea dei vigili del fuoco ha posto fine alla libertà del vecchietto. Non è la prima volta che un anziano cerca di evadere dalla struttura dove è stato relegato. Già un mese fa, nello stesso istituto un’altra fuga si era conclusa in modo tragico: l’ospite che si era allontanato venne ritrovato annegato nel lago di Garda. Inoltre, l’anno scorso, un altro ultra novantenne della provincia di Rovigo si era calato dalla finestra della sua stanza annodando le lenzuola, allo stesso modo di come era fuggito nell’agosto del 2019 un detenuto dal carcere di Poggioreale. L’anziano scivolò e la caduta gli fu fatale. Il desiderio di libertà accomuna uomini e donne. Una ex direttrice di un ufficio postale fuggita dalla casa di riposo dove alloggiava, è stata rintracciata nella riviera romagnola, luogo dei trascorsi della sua infanzia. Queste storie ci raccontano della disperazione che prende chi viene allontanato dalla propria casa e dagli oggetti di una vita. Sono sempre più numerosi i vecchi, vivono più a lungo, ma tanto spesso vengono messi da parte. Soprattutto quando avanza l’età o sopraggiunge una malattia invalidante. L’ecatombe nelle Rsa durante la pandemia non ha insegnato nulla. Oggi non si sente tanto parlare di loro, nessun dibattito, poche riflessioni. Sono come fantasmi che si palesano sporadicamente in questa calda estate. Solo l’anziano papa Francesco alza continuamente la sua voce, come ha fatto qualche giorno fa rivolgendosi ai giovani in partenza per le Gmg di Lisbona, quando ha detto: “voi giovani, prima di mettervi in viaggio andate a trovare i vostri nonni, fate una visita a un anziano solo”. La vicenda del novantenne di Trento, contrariamente a quanto è stato riportato da alcuni media, non ha avuto un lieto fine. Il vecchietto, contrariamente alla sua volontà, è stato riaccompagnato nell’ospizio. Si può immaginare che, sebbene indebolito dagli anni, è un uomo capace di intendere e volere, e sicuramente un aiuto da parte dei servizi sociali gli avrebbe consentito di realizzare il suo sogno. Non ha chiesto molto, solo di poter restare a casa sua e di poter dormire nel suo letto. Un finale amaro che lo ha condannato senza appello. Droghe. Tossicità periferiche di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 agosto 2023 Nella desolata periferia romana, la storica comunità terapeutica per tossicodipendenti “La Tenda” rischia lo sfratto. In quei locali, la Asl vuole un Serd. Ma il quartiere è contrario. Il pugno duro della Regione Lazio di Rocca, a contrattazione aperta per la sede. A un paio di chilometri da quella “fettuccia di paradiso stretta tra la Tiburtina e la Nomentana, terra di Mammuth, tute acetate, corpi reclusi e cuori grandi”, come Zerocalcare ha definito nel suo iconico murales il quartiere di Rebibbia - quadrante est di Roma - c’è un’altra “fettuccia” simile, in cui “manca tutto, non ci serve niente”. A ridosso del Gra, tra palazzoni di periferia, svincoli stradali ad alto tasso di prostituzione e spazi abbandonati, nel nulla quasi assoluto interrotto soltanto dal recente progetto del primo Polo 0-6 della Capitale, resiste ormai da 26 anni una comunità terapeutica semiresidenziale per tossicodipendenti convenzionata con il Sistema sanitario regionale che rischia di scomparire. “La Tenda” è stata piazzata lì nel 1997 ma nasce negli anni Ottanta, in stretta “risonanza con le fragilità di un territorio che avanzava sempre più richieste di sostegno”, come spiegano gli stessi responsabili della Onlus. Erano anni in cui l’eroina era diventata emergenza sociale e nascevano i primi centri di recupero. “Alla base di queste nuove realtà vi era la tendenza ad emarginare, a separare il fenomeno dal tessuto sociale, si iniziavano così a contrapporre le prime battaglie per l’integrazione, per cercare di tenere dentro i confini della città i consumatori, e inserire nel percorso di recupero anche le loro famiglie e il contesto di appartenenza”. E le mamme del vicino Tiburtino III non avevano altro mezzo che riunirsi in strada per coordinarsi e chiedere aiuto alle istituzioni. “Per quelle madri e attiviste venne messa a disposizione una tenda, come punto di incontro e di riferimento delle loro attività. E da quella esperienza nasce nel 1983 l’Associazione La Tenda”, racconta lo psicoterapeuta Marco Bruci, responsabile della Comunità che nel 2021 venne anche invitata dall’allora ministra pentastellata con delega alle droghe, Fabiana Dadone, alla VI Conferenza nazionale sulle dipendenze di Genova, come esempio di buone pratiche. In via del Frantoio 58/62, nel IV Municipio, la Comunità semiresidenziale, inizialmente con 20 posti per adulti di cui un terzo riservato a detenuti sottoposti a misure alternative o ai domiciliari, è arrivata nel 1997 su richiesta esplicita della Asl Rm 2 (allora Rm B) che chiese uno scambio con la loro prima sede di via Mozart - locali dello Iacp regolarmente affittati e pagati da “La Tenda” dal 1983 - offrendo alla Onlus l’attuale sede (di cui la Regione, dal 2020, ha acquisito il “diritto di proprietà”). Da allora però, per una serie di ritardi burocratici, errori di comunicazione e contrattuali da parte della Asl, e forse anche per problemi economici della Comunità, i “contributi spese” richiesti all’Associazione per via del Frantoio non sono stati regolarmente pagati e, dopo un primo richiamo nel 2013 (con tentativo di accordo e di rateizzazione del debito), il 28 giugno scorso la stessa Asl che riconosce “La Tenda” come struttura accreditata ha intimato alla Onlus di pagare entro 90 giorni tutto e per intero il debito pregresso (62 mila euro), e di lasciare i locali. Ciò che ha sorpreso tutti è stata soprattutto l’improvvisa accelerazione e i toni perentori assunti dalla Asl, che si giustificano solo con il cambio di colore politico della Regione Lazio, passata nell’ultima tornata elettorale a Francesco Rocca (candidato prescelto da Giorgia Meloni), che ha tenuto per sé la delega alla Salute e ha nominato un nuovo direttore amministrativo dell’Azienda Rm2. In quello stabile l’Asl vorrebbe trasferire un Serd, ma l’iniziativa non trova il supporto né delMunicipio né del quartiere. Dove invece la Comunità terapeutica gode di stima e apprezzamento, guadagnato con anni di lavoro anche dell’unità di strada per la riduzione del danno. L’ultimo progetto per il quale la Onlus ha ottenuto un finanziamento prevede l’uso della Climbing therapy (psicoterapia biodinamica che si avvale della parete di arrampicata) come strumento riabilitativo per gli utenti della comunità e preventivo per gli adolescenti. “L’associazione ha sempre avuto un buon rapporto con il territorio, si era trovato un equilibrio nei servizi - spiega al manifesto il minisindaco dem Massimiliano Umberti - Inoltre non crediamo sia il caso di trasferire il Serd proprio nelle vicinanze del primo Polo per l’infanzia 0-6 di Roma, sul quale il IV Municipio sta mettendo 4 milioni di euro. In quell’area dovrà poi nascere anche l’ospedale di comunità”. Sempre che non sia tra quelli tagliati dal governo Meloni con la rimodulazione del Recovery Plan, ma questa è un’altra storia. A sostegno della Comunità romana si è mobilitato anche il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia: “Uno dei principali problemi che il sistema penitenziario ha, a Roma e in Italia, è la capacità di accoglienza sul territorio di persone con particolari fragilità sociali, a partire da chi ha bisogno di assistenza e sostegno sociosanitario - sottolinea il portavoce dei Garanti territoriali - Non è possibile, quindi, che sia messa a rischio un’esperienza importante come quella della Tenda che da decenni accoglie, in alternativa alla detenzione, persone con problemi di dipendenze che vengono dal carcere”. Una realtà da salvaguardare - al punto da chiamarla in audizione in Campidoglio a fine agosto - anche per la vicepresidente della Commissione politiche sociali, Tiziana Biolghini, a cui si deve l’ingresso di Roma Capitale nella “rete nazionale degli Enti locali per una politica innovativa sulle droghe, Elide”, insieme ai comuni di Bologna, Torino, Milano, Napoli, Bari. “Mi auguro che il Presidente Rocca voglia tutelare questa importantissima esperienza terapeutica - conferma Biolghini - che è riuscita negli anni a dare risposte di qualità e di inclusione sociale accompagnando chi fa uso di droghe ad uscire dal tunnel. Non possiamo permetterci di perdere un patrimonio di tale rilevanza sociosanitaria”. Valorizzare una piccola comunità di periferia sembra poca cosa, ma è un Mammuth da contrapporre con orgoglio alla tossicità delle periferie. Migranti. Ventimiglia, vietato passare: crudeltà lungo il confine di Adriana Pollice Il Manifesto, 5 agosto 2023 Il report di Medici senza frontiere racconta i diritti calpestati di chi cerca di andare in Francia: 13.395 i migranti che nel 2023 sono stati respinti, più 30% rispetto al 2022. “I miei genitori sono morti. Mia zia ha detto che era arrivato il momento di sposarmi. Avevo 15 anni. Non conoscevo l’uomo che avrei sposato. L’uomo che è diventato mio marito ha iniziato a picchiarmi, ogni giorno. Sono finita in ospedale molte volte. Non avevo nessuno che mi proteggesse. Sono passati quattro anni e ne porto ancora le cicatrici. Ho deciso di andarmene”: è il racconto di una donna dalla Guinea raccolto dal team di Medici senza frontiere a Ventimiglia. Dallo scorso ottobre a giugno, attraverso la clinica mobile sul confine con la Francia, hanno fornito cure mediche o orientamento ai servizi a 320 pazienti, attività di promozione della salute e sessioni socio-sanitarie a 684 persone. Il gruppo più numeroso tra i 16 e i 20 anni, molti i minori non accompagnati. Costa d’Avorio e Guinea i paesi più rappresentati. Soffrono soprattutto di malattie dermatologiche e poi patologie respiratorie, disturbi gastrointestinali, problemi muscoloscheletrici o lesioni. Dodici persone hanno subito violenza intenzionale, tra cui anche violenza sessuale o di genere, ma sono solo i casi emersi: “Non è facile affrontare questi aspetti per la breve durata della permanenza nell’area dove operiamo e la difficoltà di stabilire relazioni di fiducia con pazienti transitanti” si legge nel report di Msf Vietato pasare. La sfida delle persone in transito respinte e bloccate alla frontiera franco-italiana. Quasi la metà dei pazienti ha impiegato più di un anno per raggiungere l’Italia, alcuni anche più di cinque. “Sono partita a 16 anni, da sola. I trafficanti mi hanno tenuto per due settimane in un edificio semi abbandonato nel deserto tra il Mali e l’Algeria. Volevano che pagassi altri soldi, ma non avevo nessuno da chiamare. Mi hanno minacciata, picchiata, non mi hanno dato da mangiare”, la testimonianza di una donna della Guinea. Secondo la prefettura di Nizza, dal primo gennaio al 15 giugno 2023, 13.395 persone sono state soggette a respingimenti o trattenimenti al confine con un aumento del 30% rispetto al 2022, una media di circa 80 persone al giorno. “Ventimiglia - si legge nel report - si è trasformata in un luogo dove le persone in transito restano bloccate per giorni, settimane e mesi. E questo vale anche per le donne in gravidanza o che stanno allattando, per gli anziani o chi è gravemente malato e per i minori non accompagnati”. Durante i respingimenti sistematici sono stati raccontati atti di violenza, abusi, trattamenti degradanti: “Molti pazienti hanno riferito di violazioni procedurali durante la notifica del refus d’entrée: casi di trascrizioni imprecise di dati personali, informazioni insufficienti sui documenti da firmare, assenza di mediatori culturali, casi in cui le autorità hanno firmato documenti per conto di persone a cui è stato negato l’ingresso in Francia o hanno impedito alle persone di esercitare il loro diritto di chiedere asilo. Le autorità italiane, d’altra parte, spesso non segnalano le irregolarità oltre a essere a loro volta sprovvisti di mediatori”. Persino chi è stato fermato oltre i 10 chilometri è stato mandato indietro, in violazione delle norme. Almeno quattro i casi di separazione familiare avvenuti durante i respingimenti e ancora detenzioni arbitrarie e maltrattamenti, a volte con chiare connotazioni razziali, da parte delle autorità francesi. “Siamo stati fermati a Nizza dalla polizia. Mia moglie è incinta. È stata portata in ospedale perché è svenuta mentre la ammanettavano. Io e mio figlio di due anni siamo stati condotti alla stazione di polizia di Mentone. Abbiamo passato la notte al freddo e quindi portati in Italia, non abbiamo notizie di mia moglie. Mio figlio piange, vuole la mamma e io non posso contattarla perché non ha il telefono” ha raccontato una famiglia dalla Costa d’Avorio. NEL 2017 le autorità francesi hanno allestito una serie di container vicino alla Polizia di frontiera nella zona di Ponte San Luigi. “Le persone intercettate vengono trattenute nei container fino al mattino successivo, quando riprendono le procedure di respingimento. Il trattenimento può durare fino a 15 ore, le porte sono bloccate, nessuna valutazione delle vulnerabilità, nessuna separazione tra uomini, donne e bambini. Servizi igienici inadeguati e casi di rifiuto di cure mediche. Le persone nei container sono costrette a dormire sul pavimento di metallo”. Racconta un uomo del Mali: “Sono stato fermato sul treno a Mentone. Ero con un altro ragazzo, ci hanno fatto scendere, mi hanno ammanettato senza motivo. Quando ho chiesto spiegazioni il poliziotto mi ha spinto e mi sono fatto male alla caviglia. Quando ho insistito mi ha colpito in faccia. Ho passato la notte in un container con altre persone, tra cui donne e bambini, senza cibo né acqua fino al giorno successivo. Il poliziotto ha firmato al mio posto il refus d’entrée”. Migranti. “I trattamenti disumani non fermano persone determinate a passare la frontiera” di Adriana Pollice Il Manifesto, 5 agosto 2023 Intervista a Marina Castellano, responsabile di Medici senza Frontiere a Ventimiglia: “Un uomo era con la figlia, piangeva disperato. Quando si è calmato ci ha detto “io devo arrivare in Francia”, ha preso la bambina per mano ed è ridisceso verso la frontiera”. Quasi tutti i migranti intercettati dalla clinica mobile di Medici senza frontiere a Ventimiglia arrivano da Lampedusa. Quello che trovano è l’insediamento informale sulle rive del fiume Roja. “Condividono i loro rifugi improvvisati con animali selvatici e ratti, esposti al meteo e ai rischi della vita di strada” racconta Marina Castellano, responsabile medico di Msf a Ventimiglia. Quali sono le condizioni dell’insediamento? Siamo arrivati a ottobre, eravamo sul piazzale dove le organizzazioni si danno il cambio ogni sera per la distribuzione del cibo: attenti ai cinghiali, ci hanno avvisato i volontari. E infatti, quando è iniziata la distribuzione dei pasti, le persone hanno iniziato a radunarsi e, dalla parte del ponte sul Roja, sono arrivati in fila anche i cinghiali. Le condizioni igieniche sono veramente disastrose. I problemi sanitari raccontano le ingiustizie che patiscono... Pensiamo alla scabbia: i migranti ovunque arrivino, in Calabria, a Lampedusa o Ventimiglia, chiedono subito di potersi lavare. Invece sono costretti a sopportare condizioni igieniche pessime che favoriscono quel tipo di parassita, che vive benissimo nella sporcizia. Sono anche costretti a vivere scambiandosi le cose, soprattutto coperte e vestiti, tutto questo li espone alle malattie della pelle. Alla Caritas possono fare la doccia, quando il centro è chiuso ci sono solo i bagni pubblici e quando gli esercizi sono chiusi non c’è più nulla. Un problema che diventa più grave per le donne. Le infezioni a livello genitale sono altissime, anche nelle ragazze e nelle bambine. Molti sono disidratati e malnutriti. I respingimenti hanno effetti su persone che già sopportano un carico di sofferenze? Il nostro team la mattina presto è già sulla frontiera. I primi a essere rimandati indietro sono le donne e i bambini, spesso le famiglie vengono separate. Li accogliamo con il tè perché ci dicono di essere stati trattenuti in Francia per ore senza mangiare e bere. Molti si siedono lì e incominciano a piangere, altri ci dicono di essere determinati a riprovare perché dall’altro lato hanno la famiglia. I bambini sono stanchi, hanno passato una notte dentro un container prima di essere rimandati indietro: hanno fame, sete e sonno, vorrebbero dormire tranquilli e invece sono lì seduti in mezzo a una strada che aspettano un bus che li riporti a Ventimiglia. Tutto questo è terribile. È possibile aiutarli dal punto di vista psicologico? Una vera presa in carico non è possibile perché sono persone che andranno via, bisogna fare una sorta di primo supporto. Le donne spesso ci parlano delle violenze, ci dicono delle cose ma non si aprono completamente e noi non insistiamo perché se si comincia a raccontare tutto poi, durante il viaggio, cosa succederà? Si deve riuscire ad arrivare alla meta e lì trovare qualcuno che aiuti. I trattamenti disumani a cui sono sottoposti servono a scoraggiarli? Quindici giorni fa c’era un uomo con la figlia di circa tre anni e mezzo, doveva raggiungere i familiari in Francia: la bambina aveva una brutta infezione all’orecchio, ho chiesto al mediatore di informarsi, di indirizzarli da noi per curare l’infezione. Il mediatore ha spiegato tutto e l’uomo è scoppiato a piangere. Si è voltato verso il muro, ha nascosto la testa dietro il braccio per non farsi vedere dalla bambina. Piangeva e piangeva, era disperato. Quando si è calmato ci ha detto “Io devo arrivare in Francia”, ha preso la bambina per mano ed è ridisceso verso la frontiera. Nel pomeriggio li abbiamo rivisti, erano stati respinti ancora. Ci ha portato la bambina e l’abbiamo curata. Ci sono persone che tentano molte volte, anche nello stesso giorno. È l’obiettivo che li ha spinti a partire. Alla frontiera nessuno riesce a far valere i propri diritti... Un giorno è arrivata una ragazza per farsi visitare. L’accompagnava un’altra ragazzina eritrea: aveva dei noduli sul collo che non mi piacevano. L’abbiamo visitata, facevano pensare purtroppo a un tumore. Ci ha detto: “Lo so che ho qualcosa, voglio andare da mia sorella a farmi curare, da dove arrivo mi hanno soltanto detto che avevo delle cose, delle malformazioni della pelle”. Quella ragazza, che a 16 anni ha fatto un viaggio terribile per curare una malattia grave, è già stata respinta più volte. Vendere più armi. Nuova legge, vecchia storia di Francesco Vignarca Il Manifesto, 5 agosto 2023 Export militare. Il parlamento discuterà il disegno di legge del governo che riforma la storica legge 185 del 1990 sulle modalità dell’export militare italiano. E noi, organizzazioni della società civile, lo contrasteremo. L’obiettivo è chiaro: un ulteriore sostegno all’industria militare. Quello che il governo propone sono la creazione di un Comitato interministeriale (che valuti il rilascio di licenze di esportazione al posto dell’attuale Uama, l’Unità per l’autorizzazione in materia di armamento) e la riduzione delle tempistiche di rilascio delle licenze. Interventi che l’industria militare chiede da due o tre anni. Non è una questione legata al solo governo Meloni o alla presenza di un ministro come Crosetto: se oggi l’industria militare vive una congiuntura favorevole, è da qualche anno - e da qualche governo - che si prepara il terreno, con gran parte delle forze politiche favorevoli al cosiddetto government to government, ovvero alla firma di contratti di vendita tra governi che poi si traducono direttamente in commesse militari per le aziende. È una lunga marcia, che oggi arriva al cuore della questione: quello dell’export. Perché qui non si tratta solo di spese militari, di quanto cioè l’Italia spende per le armi; qui si tratta della destinazione delle nostre armi. Dalle analisi compiute come Rete Pace e Disarmo, sappiamo che negli ultimi anni le autorizzazioni alla vendita hanno riguardato sempre più spesso i paesi del Mediterraneo, dell’Africa e del Medio Oriente. La legge 185 del 1990 era riuscita a “spostare” l’invio delle armi italiane, dietro a svariati scandali negli anni 70 e 80, da destinatari problematici a paesi alleati, Nato e Ue. Ora avviene il contrario ed avviene perché la 185 è stata già erosa. Ma non erosa del tutto, da cui la necessità governativa di una riforma per facilitare ulteriormente l’export di armi. Una necessità che nasce proprio dalle vittorie della società civile, riuscita negli ultimi anni a far votare al parlamento prima la sospensione e poi il blocco dell’invio di bombe e missili ad Arabia saudita ed Emirati arabi. I meccanismi previsti dalla legge 185 erano stati semplicemente applicati. E questo ha creato la fibrillazione: l’invio delle armi poteva essere davvero bloccato. La motivazione della riforma data dal governo è la necessità di riportare sotto una decisione politica quello che adesso dipenderebbe da una decisione burocratica. In realtà la decisione politica c’è già: è la linea di indirizzo con cui il governo può intervenire, oltre alla relazione continuativa con l’Uama attraverso riunioni periodiche interministeriali e le indicazioni della difesa, degli esteri, dello sviluppo economico e della stessa presidenza del consiglio. Tanto che proprio in questi anni si è registrato un aumento dell’export militare in termini di quantità e di qualità: è cresciuto il numero dei paesi acquirenti e sono cresciute le autorizzazioni perché i governi hanno fatto una scelta politica. Attenzione però: la legge 185 è avanzata e innovativa nella sua capacità di controllo, ma liberarsene non basterà. Negli ultimi trent’anni l’Italia ha aderito alla Posizione comune europea del 2008 e al Trattato sul commercio delle Armi (Att) del 2013, nato dalle pressioni della società civile e con norme ancora più stringenti. Il Comitato interministeriale immaginato dal nuovo disegno di legge può dare indirizzi politici ma non può essere quello che nella pratica verificherà che le richieste di licenze siano congrue ai criteri previsti. Violazioni della legge nazionale e internazionale - che vieta la vendita di armi a paesi in conflitto o paesi che violano i diritti umani - non possono essere superate schermandosi dietro “l’indirizzo politico”. Questo governo tenta a livello nazionale di superare la legge 185, ma non può andare oltre i criteri cui l’Italia ha scelto liberamente di aderire a livello internazionale. Per questo il tentativo di riforma puntella la sua strategia: non solo valutazioni politiche, ma anche economiche e di posizionamento della nostra industria. Ovvero favorire gli affari armati permetterebbe lo sviluppo e garantirebbe posti di lavoro, lo stesso discorso che una certa politica fece quando riuscimmo a bloccare l’invio di armi che sauditi ed emirati sganciavano poi sullo Yemen. Affari e vantaggio economico, ancora una volta, verrebbero prima dei diritti umani e della legge internazionale. Africa. Armi e muri, aiutiamoci a casa loro di Marco Boccitto Il Manifesto, 5 agosto 2023 Oltre a insistere sugli aiuti economici condizionati, si è deciso di tagliare la cooperazione sana e di puntare su quella militare, al solo scopo di arginare i flussi migratori diretti in Europa. Sulle disgrazie dell’Africa post-coloniale al tempo della Guerra fredda, la vox populi del continente amaramente concludeva che non c’era molto da fare, “quando due elefanti combattono, l’erba sottostante soffre”. Ora che il numero degli elefanti si è moltiplicato a dismisura e la lotta per accaparrarsi più territori d’influenza si è fatta se possibile più spasmodica, la condizione di chi sta sotto - la stragrande maggioranza delle giovani popolazioni africane - non è cambiata, se non in termini di “connessione” con il resto del mondo. E questa sensazione di calpestìo che si rinnova, la percezione del perdurante maleficio costituito dalle enormi ricchezze minerarie di cui l’Africa dispone e di cui pochissimi beneficiano, ad alimentare il consenso locale per ciò che meccanicamente definiamo colpi di stato. Come se lo strumento elettorale imposto dai canoni della democrazia occidentale fosse di per sé portatore di civiltà politica a ogni latitudine, anziché un modo “pulito” e presentabile di consumare golpe istituzionali che con la volontà popolare hanno poco a che vedere. Ma tant’è. In Niger il presidente Mohamed Bazoum che oggi in molti pretendono di rivedere al suo posto di comando insieme all’ordine costituzionale, non è estraneo a questi meccanismi subdoli di conquista del potere. Ma la sua immunità deriva dal fatto di essere amico affidabile e garante degli interessi delle potenze occidentali, in un Paese sempre più strategico per i traffici e le inquietudini che lo attraversano da sud a nord. E, d’altro canto, i vertici militari che hanno di fatto destituito Bazoum hanno ricevuto la loro “educazione sentimentale” in Francia e negli Stati uniti, salvo poi beneficiare a domicilio dei servizi di addestramento portati dall’Italia, da ultimo con la missione bilaterale “Misin”. Può e deve far sorridere oggi il titolo “Italia, Niger, Europa, Africa. Due Continenti. Un Unico Destino” scelto per il convegno organizzato quest’anno alla Luiss dalla fondazione Med-Or, sorta di braccio culturale e imprenditoriale di Leonardo, a guida Marco Minniti che dell’esternalizzazione delle frontiere e dei sistemi di sicurezza è stato un profeta fin troppo ascoltato a destra. Oltre a insistere sugli aiuti economici condizionati, come quelli che si cerca di apparecchiare oggi per la Tunisia sull’orlo della bancarotta, si è deciso così di tagliare la cooperazione sana e di puntare su quella militare, al solo scopo - rilanciato senza infingimenti dal cosiddetto Processo di Roma - di arginare i flussi migratori diretti in Europa e poi, se rimane tempo, mettere in riga gli eserciti jihadisti che infestano la regione. Ma nel Sahel si è deciso che enough is enough, che è giunta l’ora di voltare pagina. Con buona pace dei risibili propositi “non predatori” del governo italiano in astinenza da gas russo, che propaganda il suo “Piano Mattei” come panacea mentre ai tabù sulla parola fascismo aggiunge clamorose amnesie sui trascorsi coloniali dell’Italia. E anche le promesse di rapporti paritari con gli stati africani formulate dalla Francia di Macron, si direbbe che non hanno fatto minimamente breccia. Ora, anche il più umile abitante del più sperduto villaggio dell’Africa sa che non è consigliabile consegnare le tue armi a chi un giorno potrebbe puntartele contro. Si tratti di utilizzare i mercenari di Prigozhin per conquistare Bakhmut o di combattere il jihadismo e i flussi migratori nel Sahel migliorando le capacità degli eserciti locali, i rischi sono evidenti ed evidentemente sottovalutati dal committente. Anche il plauso convinto di Europa e Usa alla Comunità economica degli stati dell’Africa Occidentale (Cedeao), che stavolta oltre ad abbaiare - come nei precedenti colpi di mano in Mali, Burkina Faso e Guinea - vuole dimostrare di saper mordere, rispondono alla stessa logica. Non bastava il Ruanda, pronto a ricevere a pagamento i migranti che il Regno unito e Israele non vogliono e a fare il poliziotto internazionale nelle crisi africane, come nel nord del Mozambico, a protezione degli interessi estrattivisti dell’Occidente. L’elefante sovietico nel frattempo si è tramutato in orso neo-zarista e Vladimir Putin, forte di una verginità coloniale russa in Africa, può atteggiarsi a moderno castigatore del neo-imperialismo occidentale. Peraltro ora regala anche bastimenti di grano, com’è buono lui. Ma le recenti stragi di civili nel nord del Mali ad opera dell’esercito di Bamako e dei wagneriani che hanno preso il posto delle truppe francesi, o il clima di terrore instaurato dai mercenari russi nella Repubblica centrafricana, testimoniano quanto illusoria e pericolosa possa rivelarsi anche questa prospettiva. Un destino diverso per l’Africa e il Sahel passa necessariamente per un autocontrollo delle risorse e una ridistribuzione vera della ricchezza, oltre a investimenti che mettano a reddito la potenza demografica del continente e un sostegno fattivo a società civili che sono maturate in fretta e altrettanto sbrigativamente sono state abbandonate - si veda quando sta succedendo in Sudan - agli umori funesti di élite politiche e militari da sempre funzionali alle politiche dell’aiutarci a casa loro. Stati Uniti. Il caso dei detenuti nel braccio della morte: in 56 chiedono clemenza in Louisiana di Massimo Basile La Repubblica, 5 agosto 2023 Il destinatario è il governatore democratico della Lousiana, che si è espresso contro la pena di morte. Ma la commissione che si occupa della grazia ha inizialmente respinto la richiesta. Cinquantasei condannati a morte su cinquantasette in Louisiana hanno firmato una petizione senza precedenti con cui chiedono al governatore di commutare la loro pena in ergastolo. Il destinatario della petizione è il Democratico John Bel Edwards, il cui mandato scadrà a gennaio, e che a marzo si era espresso contro la pena capitale. I condannati, tra cui c’è solo una donna, gli hanno chiesto di dimostrarlo con i fatti. Già 51 richieste di clemenza sono state presentate fino a due giorni fa alla commissione che decide sulla grazia e la rimessa in libertà. Ma in questo caso la richiesta è per un alleggerimento della sentenza, in quella differenza tra morire su una sedia elettrica o per iniezione letale o in carcere. I detenuti hanno chiesto di finire i loro giorni dietro le sbarre, ma anche questa volta la commissione ha respinto la richiesta perché la domanda di clemenza deve essere presentata entro un anno dalla sentenza di un giudice in appello, come riportato da The Advocate. Ma in Louisiana non sono previste esecuzioni e l’ultima iniezione letale è avvenuta più di dieci anni fa. La decisione si basa su un parere presentato la settimana scorsa dal procuratore generale, Jeff Landry, repubblicano e candidato alla carica di governatore. Landry è un ardente sostenitore della pena di morte e aveva già detto di essere contrario a qualsiasi atto di clemenza. L’ergastolo, e senza possibilità di libertà condizionata, è considerato dal sistema della Lousiana come l’unica alternativa alla condanna a morte. “Guardando a questi casi collettivamente, il sistema carcerario è marcio”, ha commentato a The Advocate Cecelia Kappel, di Capital Appeals Project, che riunisce avvocati contrari alla pena capitale. “Queste domande - ha aggiunto - mostrano gli stessi problemi di disparità razziale, disabilità intellettuale, gravi malattie mentali, traumi, e anche innocenti ingiustamente condannati, che riguardano il caso Louisiana”. L’iniziativa, che secondo le organizzazioni noprofit, non ha precedenti negli Stati Uniti, potrebbe davvero portare lo Stato del sud a una svolta: l’abolizione della pena di morte. Tecnicamente l’esecuzione capitale sta diventando sempre più difficile. La carenza di farmaci usati per l’iniezione letale ha finito per bloccare le condanne a morte. L’ultima risale al 2010, con Gerald Bordelon, un uomo che aveva ucciso la figlia acquisita di 12 anni. Prima di lui, era stato giustiziato un altro detenuto ma nel 2002. Due in ventuno anni. Altri Stati continuano, invece, a portare avanti le esecuzioni, nonostante si trovino ad affrontare gli stessi problemi legati alla difficoltà nel reperire i farmaci: Texas, Missouri, Florida e Oklahoma quest’anno hanno già avviato la macchina della morte almeno una volta. Stanotte James Barnes, condannato per aver ucciso sua moglie e un’altra donna, è stato giustiziato con un’iniezione letale in Florida. L’uomo, 61 anni, stava scontando l’ergastolo per l’omicidio del 1997 di sua moglie, Linda, quando ha confessato lo stupro e l’omicidio nel 1988 di Patricia Miller, un’infermiera di 41 anni. È stato condannato a morte nel 2007 per l’omicidio di quest’ultima. Intervistato dal regista tedesco Werner Herzog per una serie televisiva del 2012 intitolata “On Death Row” ha confessato altri due omicidi per i quali non è mai stato accusato. È il quinto detenuto giustiziato in Florida nel 2023. In altri Stati, Mississippi, Utah e South Carolina, per tagliare i costi hanno reintrodotto vecchi sistemi da farwest, tipo il plotone d’esecuzione. Russia. Navalny, condanna ad altri 19 anni di carcere per l’oppositore di Putin di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 5 agosto 2023 Ue: “Sentenza inaccettabile”. Un tribunale russo ha condannato in un processo per “estremismo” l’oppositore del Cremlino Alexey Navalny. La pena dovrà essere scontata in una colonia penale di massima sicurezza dove sono rinchiusi unicamente ergastolani e individui recidivi “di particolare pericolosità”. È la condanna finale, quella che toglie di mezzo dalla scena politica russa il principale oppositore di Putin, l’unico che, se fosse libero, potrebbe forse ostacolare la sua permanenza al potere. Dopo un processo tenuto a porte chiuse, Alexey Navalny è stato condannato a 19 anni di carcere che, sembra, dovrebbero assorbire i nove che sta già scontando per accuse che la Corte europea dei diritti umani ha riconosciuto come motivate politicamente. Lo stesso Navalny si aspettava “una condanna stalinista”. “L’ultimo verdetto dell’ennesimo processo farsa contro Navalny è inaccettabile. Questa condanna arbitraria è la risposta al suo coraggio di parlare criticamente contro il regime del Cremlino. Ribadisco l’appello dell’Ue per il rilascio immediato e incondizionato di Navalny”, commenta con un tweet il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel. E l’Onu chiede il rilascio immediato dell’oppositore russo. La pena dovrà essere scontata in una delle poche colonie penali di massima sicurezza, quella dove sono rinchiusi unicamente ergastolani e individui recidivi “di particolare pericolosità”. Se non dovessero piovergli addosso altri procedimenti (ma è già stata annunciata una indagine per terrorismo) Navalny potrebbe sperare di uscire nel 2041, a 65 anni, quando Putin ne avrà compiuti 89 e, si pensa, avrà finalmente individuato un successore al Cremlino. Ma, visto l’accanimento delle istituzioni contro di lui, non si sa quello che potrà accadere. Già nella prigione dove si trova, Navalny ha subito numerose punizioni esemplari per mancanze normalmente giudicate minime. Una volta per non aver salutato come si deve un secondino e un’altra per non aver allacciato l’ultimo bottone della giubba. Così il prigioniero ha passato mesi in una minuscola cella d’isolamento. La nuova condanna è giunta alla fine di un processo assai breve che riguardava presunte attività di “estremismo” svolte mentre si trovava in carcere. Il tutto legato alla sua Fondazione contro la corruzione, nata anni fa. Già in precedenza Navalny era stato messo alla sbarra con accuse apparse di volta in volta sempre più labili. Prima per una presunta appropriazione indebita nei confronti di una ditta di legname di Kirov. Poi per una truffa ai danni della filiale russa di una ditta francese di cosmetici (assieme al fratello). La Fondazione ha certamente dato molto fastidio alle autorità, viste le approfondite inchieste che hanno preso di mira i personaggi più influenti della cerchia di Putin. Come Dmitrij Medvedev, che sostituì Putin alla presidenza per un mandato, accusato di varie attività illecite. In questi anni Navalny è riuscito una sola volta a farsi ammettere a una competizione elettorale, dato che in tutti gli altri casi è stato sempre escluso per un motivo o per l’altro. Nel 2013 gli è stato permesso di candidarsi alla poltrona di sindaco di Mosca, una mossa probabilmente volta a legittimare l’elezione del fedelissimo di Putin Sergej Sobyanin. L’oppositore riuscì a portare a casa il 27 per cento dei voti, risultato clamoroso visto il contesto. Ma probabilmente quella votazione ha convinto qualcuno che Navalny era troppo pericoloso per poter essere lasciato agire liberamente. Così sono arrivate le varie condanne e le delibere delle corti che gli hanno impedito di partecipare alle elezioni presidenziali. Poi, nel 2020, il maldestro tentativo di avvelenamento a Tomsk, in Siberia, con un agente nervino messo nella sua biancheria intima mentre lui non si trovava in albergo. Navalny è stato salvato a Berlino, in un ospedale specializzato e poi ha deciso di tornare in Russia. Ma appena arrivato, è finito in carcere per aver violato le norme della libertà condizionale (era in un letto in Germania e non poteva certo presentarsi a Mosca per i controlli di rito). Ancora due anni e ulteriore condanna a nove anni perché si sarebbe appropriato dei fondi della sua Fondazione. Infine, il processo di oggi, con la nuova sentenza. Iran. Ahmadreza Djalali, l’altro Zaki di cui nessuno ne parla di Gabriella Colarusso La Repubblica, 5 agosto 2023 Anche lui impegnato nella ricerca, anche lui in un ateneo. Ma a Novara. l’Iran lo ha condannato a morte. Eppure molti ignorano la sua storia. chi è Ahmadreza Djalali? Si è mossa l’università del Piemonte orientale di Novara, dove ha lavorato per oltre tre anni. Si è mobilitata Amnesty, che da tempo porta avanti una campagna per la sua liberazione. Sono scesi in piazza l’Associazione italiana di Epidemiologia, la Federazione nazionale della Stampa, la Conferenza dei rettori e molti atenei italiani. Il suo viso smunto da sette anni di isolamento in carcere è diventato anche un disegno di Gianluca Costantini, l’autore del ritratto di Patrick Zaki diventato il simbolo della campagna per riportarlo a casa: è stato creato anche un hashtag, #SaveAhmadreza. Sulla carta dunque gli ingredienti c’erano tutti: eppure, al contrario di quella dello studente egiziano, la storia del ricercatore iraniano-svedese Ahmadreza Djalali, 51 anni, padre di due figli, arrestato in Iran nel 2016, condannato a morte per spionaggio, è rimasta nel circolo ristretto dei difensori dei diritti umani e dell’università, senza raggiungere il grande pubblico. Non c’è stato l’effetto Bologna, l’eco che la mobilitazione di una intera città è riuscita a dare al caso Zaki. Niente manifesti pop né catene umane e digitali. Djalali non ha i ricci ribelli e la parlantina spigliata del trentenne egiziano. La sua storia non è arrivata sul palco del Festival di Sanremo. Eppure ben più a lungo di Zaki, Djalali è stato ricercatore in Italia. Quando nel 2016 fu arrestato a Teheran con l’accusa di spionaggio, lavorava al Centro di ricerca sulla medicina dei disastri di Novara e i primi a scendere in piazza per lui furono proprio i colleghi. La campagna è andata avanti, ma la società civile di Novara è rimasta sempre un po’ laterale. Il risultato è che l’Italia quasi non si è accorta di Ahmadreza Djalali. Perché? Una ragione vera neanche chi ha seguito la campagna riesce a trovarla: “Non siamo stati in grado finora di ottenere l’attenzione necessaria per liberarlo”, dice Tina Marinari, responsabile delle campagne per Amnesty International Italia. “Probabilmente anche a causa delle accuse che gli sono state mosse”. Anche il contesto politico è diverso. Il precedente dell’omicidio di Giulio Regeni per mano degli apparati di sicurezza del Cairo aveva suscitato clamore in Italia, squarciando il velo sulle violazioni dei diritti umani in Egitto. Quando il governo ha trattato con il presidente Abdel Fath al Sisi aveva gli occhi dell’opinione pubblica puntati addosso: molto meno per l’Iran, nonostante le proteste degli ultimi mesi siano state seguite anche qui. Specializzato in medicina d’urgenza, Djalali è un cittadino iraniano naturalizzato svedese, ha lavorato con la Free University (Vub) di Bruxelles e per tre anni con l’ateneo piemontese, sempre mantenendo rapporti accademici con l’Iran: ci tornava spesso per partecipare a convegni e conferenze. Proprio in uno di questi viaggi è stato arrestato: era l’aprile del 2016. L’accusa è tra le più gravi nel codice iraniano: spionaggio per conto di Israele. Dopo nove mesi di detenzione, settimane di isolamento, l’impossibilità di parlare con avvocati e famiglia, è arrivata la condanna a morte: al termine di un processo che le organizzazioni per i diritti umani definiscono politicamente motivato. Soprattutto, senza prove. “Era stato avvicinato dai servizi, volevano che diventasse un informatore: ha rifiutato. L’arresto è stata una rappresaglia”, insiste Marinari. Rinchiuso in una cella di due metri per due a Evin, il carcere dei prigionieri politici, il ricercatore ha perso più di 15 chili, ora ne pesa 50. “Ha una forma di leucemia autodiagnosticata perché non gli fanno analisi del sangue”, denuncia al Venerdì Vida Mehrannia, sua moglie, da Stoccolma, dove vive con i due figli. Prima gli consentivano di telefonarle una volta a settimana: “Ora non più. Chiama i suoi parenti in Iran, loro avvicinano i due telefoni e così sentiamo le nostre voci”. E ancora: “L’Europa ha dimenticato mio marito. Faccio appello all’Italia perché mi aiuti a liberarlo. Lui era molto legato al vostro Paese”. Qualche giorno fa, l’agenzia di stampa iraniana Mehr ha scritto che l’esecuzione sarebbe imminente. Gli appelli per salvarlo si sono rinnovati: la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola ha chiesto che venga annullata la condanna. Ma l’Europa ha bisogno di tenere aperto un canale con Teheran, sul nucleare e sulla cooperazione militare con Mosca: lo spazio per offensive sui temi umanitari è stretto. Probabilmente anche perché Djalali è finito al centro di una contesa che incrocia uno dei passaggi più oscuri della Storia iraniana. Il 9 novembre del 2019 a Stoccolma, la polizia svedese arresta Hamid Nouri, un ex funzionario della magistratura iraniana. L’accusa è di essere stato tra i responsabili del più grave massacro della storia post-rivoluzione khomeinista: migliaia di oppositori furono giustiziati senza processo per silenziare il dissenso. Tra i giudici che ordinarono le esecuzioni c’era anche Ebrahim Raisi, l’attuale presidente dell’Iran. Il processo è durato anni e si è concluso con una condanna all’ergastolo. Nouri sa troppe cose, l’Iran lo rivuole indietro: ma la Svezia non cede. Per questo uno scambio diretto è impossibile. “Nouri è un criminale, mio marito è un innocente”, dice la signora Mehrannia. Per lei l’occasione persa è stata a maggio, quando il Belgio ha chiuso un accordo con l’Iran per la liberazione del cooperante Olivier Vandecasteele, condannato per spionaggio, rilasciando Assadolah Assadi, un “diplomatico” condannato a 20 anni di carcere per aver architettato un attentato. La signora Mehrannia sperava che il marito venisse incluso nello scambio, ma non è avvenuto. E sul caso Djalali è tornato il silenzio.