Mauro Palma, sette anni a difendere la dignità in carcere di Donatella Coccoli Left, 4 agosto 2023 I guasti del populismo penale, il reato di tortura sotto attacco, la vita intollerabile nei Cpr. Il Garante nazionale delle persone private di libertà, al termine del suo mandato, racconta un’umanità fuori dai radar. Detenuti nelle carceri, autori di reato con patologie psichiatriche nelle Rems, stranieri nei centri per il rimpatrio. Sono coloro che dal 2016 ha incontrato Mauro Palma, presidente del Garante nazionale delle persone private di libertà arrivato adesso allo scadere del suo mandato (le altre componenti del Collegio sono Daniela De Robert ed Emilia Rossi). L’ultima Relazione al Parlamento, corredata da un corposo dossier, non solo rappresenta una fotografia reale delle condizioni di vita di migliaia di cittadini fuori dai radar, ma è anche uno strumento di riflessione sui diritti umani negati. Come scrive Palma, tra i maggiori esperti a livello internazionale in tema di lotta alla tortura e ai trattamenti inumani, l’attività del Garante è un contributo di soft law che, basandosi “sull’esperienza dell’aver visto e del vedere”, fornisce “elementi di analisi e interpretazione all’impianto dell’hard law”. Il Garante infatti formula precise Raccomandazioni alle autorità responsabili, anche se talvolta non vengono accolte, come per esempio quella, subito dopo le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che indicava la necessità di introdurre elementi identificativi sulle divise degli agenti della polizia penitenziaria. Il ministro Nordio, mentre scriviamo, sta decidendo la composizione del nuovo Garante. Qualsiasi sia la decisione, dice Palma, “darò tutto l’appoggio mio e dell’ufficio professionalmente costruito in questi sette anni e mezzo”. Mauro Palma, partiamo dalla visione culturale che traspare dalla sua Relazione. Il Garante, oltre alla funzione di prevenzione e garanzia dei diritti, può contribuire alla consapevolezza collettiva su questi temi? Sostanzialmente deve dare la consapevolezza. Per carità, la tutela giuridica dei diritti è molto importante, ma questo tipo di controllo non può esistere se non c’è un controllo sulla cultura complessiva, sulla cultura che riconosce il molteplice, cioè riconosce l’essere in tanti modi, le diversità. Riconosce che c’è anche chi ha sbagliato, chi ha una particolare difficoltà di espressione - mi riferisco ad altri luoghi rispetto al carcere - ma lo riconosce come sé, non come un altro che io vado a proteggere. E allora le parole escludenti come “Chiudiamoli e buttiamo la chiave”, il linguaggio che fissa una differenza, sono qualcosa che fanno perdere questa consapevolezza. Dopo sette anni qual è il bilancio? C’è una sensibilità maggiore nella società? Devo dire che ci si scontra spesso con varie corazzate, come i media, il linguaggio giornalistico, quello dei social soprattutto, più secco, diretto. In questi sette anni c’è stato un cambiamento negativo e positivo. Negativo a livello generale: la società prova sempre più fastidio per le differenze. Però contemporaneamente, e in questo mi prendo come istituzione anche un pezzettino di merito, penso che ci sia una consapevolezza più diffusa. Sette anni fa il Garante nazionale significava ben poco, adesso il fatto che ci sia, ed è bene che ci sia uno sguardo al di fuori dei giochi, secondo me è stato acquisito. Tanti giovani, per esempio, vogliono fare le loro tesi su questi temi e si rivolgono a noi. Ci sono poi molte più denunce per maltrattamenti; questo non significa che ora si sta peggio, significa che c’è un senso, una ragionevolezza anche nel denunciare. E il rapporto con la politica in questi sette anni? C’è una frase nella relazione: “La politica aiuta, coopera ma non detta le regole”... Esatto, perché se la politica lo facesse, svuoterebbe le regole e questo fa male anche alla politica stessa. Come la politica non deve perdere la propria funzione pedagogica con la collettività, di alzare i livelli di consapevolezza dei cittadini, così ha bisogno che qualcun altro sia il suo sguardo. Il Garante, essendo punto di vista indipendente ed esterno alle politiche messe in campo, è di aiuto alla politica per riflettere su sé stessa. La politica in questi sette anni non si è mai mostrata “recalcitrante”? Superata la fase iniziale del doversi misurare con un soggetto nuovo, io non ho mai ricevuto pressioni. È sempre stata riconosciuta una certa autorevolezza all’autorità del Garante e c’è sempre stata una cooperazione - e di governi in sette anni ne son passati sei, non sono pochi, e con una connotazione e fisionomia diversa. Da parte di alcune forze politiche c’è stata una tendenza iniziale a non considerarci che però poi è rientrata subito e devo dire che ci si è misurati da istituzione a istituzione. Quello che trovo invece piuttosto incredibile - e questo non solo in Italia - è il fatto che la politica è sempre più vittima del sondaggio preventivo, cioè della ricerca del consenso, soprattutto in una situazione come la nostra, con scadenze elettorali ravvicinate. Non c’è mai la possibilità di fare scelte di lungo respiro perché si ci misura subito su cosa può portare un vantaggio immediato. Per cui se succede un fatto qualsiasi eclatante, subito si fa un decreto. È una politica di corto respiro perché è troppo subalterna al principio consensuale e poco al principio costituzionale inteso come cultura, orientamento. Mi viene da pensare alla tendenza degli ultimi anni, il populismo penale... Certo, le pare normale che noi abbiamo in carcere un numero cospicuo di persone con condanne sotto i tre anni che arriva quasi a 8mila persone e 1.500 sotto un anno (come sentenza non come pena residua)? Per reati minori, magari molto fastidiosi per l’opinione pubblica, ma che non interrogano soltanto la penalità e il carcere, interrogano anche il territorio. Sembra quasi che l’unico strumento che abbiamo come soluzione per ogni contraddizione, a cominciare dalla povertà che a volte porta a delle vite randagie, è quella del penale. Non può essere così. Il penale è uno strumento sussidiario, deve intervenire là dove altri strumenti di regolazione sociale hanno fallito. A proposito delle migliaia di detenuti che hanno pene minime, lei propone la detenzione sociale. In cosa consiste? La detenzione in altri luoghi, in strutture che siano di controllo, perché il controllo è necessario come messaggio alla collettività, ma soprattutto di supporto, molto più dialoganti con il territorio, con il volontariato ecc. Non può essere che uno stia in carcere perché non ha il domicilio - e giustamente il magistrato non gli può dare la detenzione domiciliare - e magari ha una pena così piccola che il carcere non fa neanche a tempo a elaborare nulla per lui. Uno condannato a sette mesi che percorso rieducativo potrà fare? Passato il tempo, verrà rimesso fuori e magari tornerà in carcere. Il numero delle persone ristrette, in misura alternativa e messa alla prova è aumentato: 135.073 oggi rispetto ai 98.854 del 2016, eppure i reati gravi sono diminuiti. Perché? Questo è il populismo penale. Cioè il fatto che il penale, il “metterli dentro” crea consenso. Questo mi lascia molto perplesso. Il penale finisce per essere il sostituto di quelle reti sociali che negli ultimi decenni sono state smantellate, per cui hai meno reati ma maggiore controllo. Tra l’altro maggiore controllo anche con poche risorse perché quelle per l’extra carcere sono spesso molto limitate. Cosa pensa delle proposte della destra di modifica del reato di tortura? Mi colpiscono due aspetti. Uno di ordine culturale. Se di fronte a episodi di violenza - i video sui fatti nella Questura di Verona per esempio erano usciti poco prima della mia relazione - invece di dire, “attendiamo l’accertamento definitivo della magistratura”, “certo, questi episodi sono gravi e ingiustificabili”, si comincia invece col dire “rivediamo il reato di tortura”, è come se si avesse sottovalutato la gravità di quei fatti. Ma questo è quanto di più diseducativo si possa fare. È un messaggio di impunità. Quanto alla questione di fondo, ci abbiamo messo moltissimo tempo per introdurre il reato di tortura, dopo un accordo faticoso. Posso anche concedere il fatto che la sua formulazione lessicale sia malposta, non è ben scritto, eppure come allora diedi un parere positivo in Commissione giustizia, così lo ribadisco adesso. Vediamo come funziona. Insomma, non si cambiano le figure di reato con rapidità, tanto più quando sono una conquista e il cambiamento verrebbe vissuto come garanzia di impunità. Si aspetta dopo un certo numero di anni per capire come si è sedimentato nella giurisprudenza. Cosa può dire dei Centri per il rimpatrio? Lì le persone sono ristrette in detenzione amministrativa, ma hanno meno diritti che in carcere... Esatto, non ci scordiamo che si tratta di detenzione amministrativa. Nei Cpr ci sono due tipi di persone. Quelli che hanno semplicemente una irregolarità amministrativa - gli è scaduto il permesso di soggiorno o non l’hanno mai avuto - e quelli che al termine di una pena sono in attesa di una espulsione, prevista dalla sentenza. La loro è sempre una detenzione di tipo vuoto, vuoto di significato, vuoto di tempo, in ambienti vuoti di supervisione perché, mentre in carcere c’è la magistratura di sorveglianza, qui questa figura non c’è per niente. Questa funzione ce l’ha soltanto il Garante, e a livello locale i garanti regionali, anche se con un po’ meno poteri perché non sono organismi riconosciuti dalle Nazioni Unite - ma io come Garante nazionale li posso delegare, cosa che ho fatto più volte. I Cpr sono ambienti degradati che lo diventano sempre di più, dove c’è una tensione a distruggere, anche perché le persone sentono di aver fallito il proprio progetto di vita: volevano venire in Italia, stare qui e invece vengono espulse. E poi, se andiamo a vedere i dati, solo il 50% viene rimpatriato. Le persone vengono rimesse fuori con un foglio di via per andarsene dal Paese entro dieci giorni, ovviamente non andranno via e quindi possono essere riprese e portate di nuovo in un altro centro. Nei Cpr - e non è solo un problema italiano ma è proprio della struttura europea - il disvalore delle vite è intollerabile. Vengono considerate come qualcos’altro, qualcosa di diverso da contenere, magari pagando qualcuno, qualche altra autorità di qualche altro Stato, perché non li faccia passare. Parliamo dei rimpatri forzati degli stranieri. Il Garante li accompagna in aereo e dopo, una volta atterrati nel proprio Paese, che gli succede? Ora do una buona notizia. L’altro ieri ero a Tirana perché abbiamo firmato il secondo accordo dopo quello con la Georgia. Siccome l’Albania ha un organismo analogo al nostro, l’accordo consiste nel fatto che noi comunichiamo quando c’è un rimpatrio, in modo tale che possiamo tutelare la persona finché l’aereo atterra e loro la possono prendere in carico poi e controllare dopo. Un accordo simile lo stiamo per fare con il Marocco. Faticosamente, perché siamo pochi, stiamo costruendo una rete tra organismi analoghi riconosciuti dall’Onu, una specie di staffetta. È una collaborazione effettiva tra strutture istituzionali e questo è un punto importante. L’ultima domanda riguarda la salute psichica dei detenuti in carcere - nel 2022 ci sono stati 85 suicidi - e la situazione in cui si trovano le Rems. Cosa bisogna fare? Le Rems sono ancora delle strutture per molti aspetti acerbe ma su cui io sono abbastanza ottimista. Bisogna stare attenti a non assecondare gli attacchi che ricevono e che tendono a volerle far diventare delle specie di manicomietti. In realtà dovrebbero esse- re un momento della presa in carico di un soggetto che ha un disturbo psichico che ha cagionato il reato - e non gli è venuto dopo - e quindi, essendo incapace di intendere e volere, non è detenuto ma è internato e gli va organizzato un percorso di vita possibile. Dobbiamo ragionare sulle vite possibili, perché tutte le vite devono essere dignitose. Non possiamo pensare che queste persone siano come quelle che una volta erano re- legate nel manicomio giudiziario, perché così non disturbavano le altre vite. Diverso è il discorso per quelli che, detenuti e quindi giudicati capaci di intendere e volere, nel loro periodo detentivo carcerario hanno dei comportamenti, delle modalità d’essere e anche di disagio psichico effettivo che li porta a essere ingestibili all’interno del carcere. Allora bisogna investire sulle Articolazioni della tutela della salute mentale perché le persone, pur continuando ad essere in un circuito detentivo, devono essere sotto la totale responsabilità sanitaria. A questo si collega anche la capacità di saper “leggere” le persone, fermo restando che soggettivamente ogni suicidio può essere imperscrutabile. Non regge spiegare il suicidio per le brutte condizioni carcerarie. Questi fatti interrogano più attori, però è sicuro che l’attenzione al suicidio non può essere solo responsabilità del personale di amministrazione penitenziaria o della polizia penitenziaria ma c’è bisogno che le Asl investano molto di più nell’attenzione al carcere. In Sardegna l’isolamento del detenuto vale triplo di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti Il Manifesto, 4 agosto 2023 Nel carcere di Tempio Pausania, per la prima delle tre puntate del viaggio negli istituti di pena sardi. Gli occhi di alcuni poliziotti sono disarmati. Lasciati soli nell’affrontare casi complicatissimi. Era il 1998 quando - per volontà di Sandro Margara, indimenticato giudice di sorveglianza e capo dell’amministrazione penitenziaria - il carcere dell’Asinara chiuse in via definitiva. Poco meno di vent’anni prima, il 2 ottobre 1979, c’era stata la rivolta nella sezione speciale Fornelli. Altri tempi, quando le carceri erano i luoghi della repressione della lotta armata. Oggi l’isola dell’Asinara è visitata da turisti e il carcere di massima sicurezza è per fortuna solo parte del racconto delle guide locali. Strano posto la Sardegna per chi ha a che fare con il sistema delle prigioni. Forse l’unica tra le regioni italiane che non presenta rischi di sovraffollamento: i detenuti, rinchiusi in dieci istituti penitenziari, sono 2.070, un numero inferiore ai 2.617 posti calcolati per definirne la capienza regolamentare. E, se non fosse per la pratica di spostare dal continente un numero significativo di detenuti stranieri con pochi legami sul territorio, sarebbero ancora di meno. La Sardegna sconta il suo essere isola. Ce ne siamo accorti in questi giorni in cui siamo in giro a visitare le carceri della regione. Non ci vogliono andare i direttori - oggi sono solo in tre, a dover gestire circa tre carceri a testa -, sono pochi i sottufficiali di Polizia Penitenziaria, scarseggiano gli educatori. Si vede però una luce in fondo al tunnel: a fine ottobre verranno immessi in servizio 57 nuovi giovani direttori. Alcuni andranno a riempire i vuoti gestionali della Sardegna. L’isolamento è una delle parole chiave nella vita carceraria sarda. Era il 2014 quando furono inaugurate alcune nuove carceri, tra cui Cagliari e Tempio Pausania. Fu deciso di ubicarle lontano dai centri storici e dagli abitati. Per chi ama la natura è affascinante ammirare i fenicotteri che circondano il carcere cagliaritano di Uta o perdere lo sguardo tra le colline di Nuchis vicino Tempio. Ma la lontananza dalle città produce desertificazione sociale. Rende complesso costruire ponti tra dentro e fuori, immergere il carcere in un tessuto relazionale che possa dare qualche significato al periodo detentivo. Si sconta così un doppio isolamento: quello isolano e quello della pianificazione urbana. Ce n’è poi un terzo, quello classico usato da sempre nelle galere. Un isolamento tragico. Le scene di Steve McQueen che in Papillon cerca strategie per non impazzire ci danno un’immagine cinematografica di quanto le ricerche mediche hanno confermato negli anni: l’isolamento fa male, l’isolamento porta al disadattamento, allo squilibrio, alla follia. Ma viaggiando per le carceri italiane si incontrano tanti detenuti isolati. Accade per le più varie ragioni: motivi sanitari, perché non si interferisca con i processi, per motivi disciplinari, su presunta scelta volontaria. Oppure perché condannati alla pena dell’isolamento diurno. Nel carcere di Tempio Pausania ce n’era uno in questa situazione. L’articolo 72 del codice penale prevede che ai pluriergastolani si aggiunge la pena dell’isolamento diurno che può arrivare fino a tre anni. Un’eternità capace di devastare la psiche di chiunque. Una pena nella pena, che dovremmo considerare una condizione di vero e proprio maltrattamento. Le cosiddette “Mandela Rules” delle Nazioni Unite ci dicono che la durata massima dell’isolamento non deve superare i 15 giorni. La modalità di esecuzione è poi molto, troppo diversa da carcere a carcere: si interpreta l’isolamento diurno come agganciato all’alba e al tramonto, o alle ore lavorative, o ancora come sconfinante nella notte in un isolamento totale. Una pena produttiva solo di sofferenza, sganciata da ogni istanza di reintegrazione sociale, evidentemente diseguale, in relazione alla quale si attende che un giorno qualche giudice sollevi la questione di costituzionalità. In qualcosa le carceri sarde sono ben simili a tutte le altre: nell’essere diventate contenitori degli esclusi dal welfare, di quelle persone di cui nessuno (società, famiglia, servizi) vuole farsi carico. La sofferenza psichica si tocca con mano. Gli operatori raccontano storie di abbandono, solitudine, malattia, dipendenze che paiono senza speranza. È a queste persone che spesso tocca l’isolamento. A differenza dei detenuti più strutturati dal punto di vista criminale, loro non sanno farsi la galera. Entrano in conflitto con il personale, sono abbandonati nelle sole mani di chi li deve custodire. Gli occhi di alcuni poliziotti sono occhi disarmati. Sono lasciati soli nell’affrontare casi complicatissimi. Ma l’isolamento non può mai essere la giusta risposta. Proprio su questa consapevolezza, Antigone sta lavorando, insieme a Physiciens for Human Rights Israel, a linee guida su scala mondiale su alternative dall’isolamento carcerario. Tra gli ergastolani a Tempio Pausania c’è Marcello Dell’Anna, in carcere da 32 anni, una storia di emancipazione sociale prodotta dall’impegno universitario. Ha conseguito ben tre lauree, scrive importanti articoli sul carcere e la pena, ha portato avanti un percorso che dovrebbe sfociare in qualche possibilità alternativa al carcere al fine di guardare a un pieno riavvicinamento alla società. Dell’Anna è un buon esempio di ricostruzione di una biografia nel segno della trasformazione culturale. A Tempio, carcere interamente dedicato all’alta sicurezza, sono una trentina i detenuti iscritti all’Università di Sassari. Girando per le celle, ben tenute, si vedono i pc che i detenuti possono utilizzare nello studio (anche se non collegati in rete). L’Italia ha una sua buona prassi: l’impegno di molte Università per offrire un’occasione di studio qualificato. Esiste una Conferenza dei delegati dei rettori per i poli universitari in carcere. L’educazione e la cultura sono straordinari fattori di emancipazione sociale. Nel carcere di Tempio è presente anche una sezione del liceo artistico “Fabrizio De Andrè”. “Per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”, cantava Faber. Siamo tutti coinvolti. Nessuno escluso. *Antigone Al 41 bis e in sciopero della fame da 5 mesi, adesso chiede l’eutanasia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 agosto 2023 L’udienza per discutere il reclamo contro il rinnovo del carcere duro fissata per ottobre. È in attesa di giudizio giunto al quinto mese di sciopero della fame. L’avvocata Pintus: “Rischia di morire nella completa indifferenza”. Respinto il differimento pena per motivi di salute. “Sta ancora proseguendo lo sciopero della fame fino a quando non morirà. Nessuno lo sta considerando, nemmeno una mezza visita da parte di qualche autorità politica, come è stato fatto almeno con Cospito. Manderemo una lettera al Presidente Mattarella per capire il motivo per cui nessuno è andato a trovarlo”, così l’avvocata Maria Teresa Pintus spiega la situazione del suo assistito Domenico Porcelli, detenuto in custodia cautelare al 41 bis nel carcere sardo di Bancali. Una situazione al limite, dato che è arrivato al quinto mese dello sciopero della fame. Non solo. Domenico Porcelli vorrebbe richiedere il suicidio assistito, ovviamente non possibile poiché in Italia è un reato. Questo ricorda molto quando nel 2007 un gruppo di ergastolani ostativi, tra cui Carmelo Musumeci in prima fila, chiese al Presidente della Repubblica di convertire l’ergastolo in pena di morte. Tuttavia, il caso di Porcelli è ancora più difficile poiché è un detenuto al 41 bis per associazione di tipo mafioso. Anche se - e questo è un dettaglio non da poco - non è stato ancora condannato definitivamente. Motivo per cui, tramite i suoi legali Pintus e Livia Lauria, hanno presentato un reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Roma per chiedere l’annullamento del decreto di 41 bis prorogato dal ministro della Giustizia. Secondo gli avvocati, la giurisprudenza ha sottolineato che ogni provvedimento di proroga deve contenere una motivazione specifica e autonoma sulla persistenza del pericolo per l’ordine e la sicurezza, senza utilizzare formule stereotipate che giustifichino automatismi inammissibili o si basino su giudizi presuntivi. Secondo il reclamo, il decreto impugnato non ha indicato alcun elemento recente che possa dimostrare l’attualità dei collegamenti del detenuto con l’organizzazione criminale, né la sua capacità di mantenere legami associativi all’interno dell’ambiente carcerario. Il motivo per cui sta conducendo lo sciopero della fame è questo. Il tribunale di Sorveglianza di Roma ha fissato per ottobre l’udienza per discutere il reclamo al 41 bis. La situazione di salute fisica e inevitabilmente anche psichica di Domenico Porcelli è disastrosa. Ormai pesa sui 58 kg, ha la pressione bassissima e battiti cardiaci lentissimi. Sta male, ma nessuno sta prestando attenzione. C’è un silenzio totale da parte delle autorità. Tranne, ovviamente, il Garante Nazionale delle persone private della libertà che a giugno - a seguito della segnalazione dell’avvocata Pintus - ha avuto delle interlocuzioni. Ma, di fatto, è isolato. E rischia di morire, come è accaduto recentemente con altri detenuti in sciopero della fame. Lui, inoltre, è detenuto al 41 bis per reati di mafia e quindi potrebbe benissimo morire nell’indifferenza più totale. Esattamente un mese fa, il magistrato di sorveglianza di Sassari ha respinto la richiesta - presentata d’ufficio - di differimento della pena per motivi di incompatibilità con il regime carcerario a causa della sua situazione di salute aggravata dallo sciopero della fame. L’ordinanza di rigetto solleva questioni di profonda rilevanza etica. Una delle principali criticità riguarda la valutazione delle condizioni di salute di Domenico Porcelli. Nonostante l’Asl di Sassari abbia fornito dettagli specifici riguardanti le sue condizioni, incluse le difficoltà fisiche e mentali che sta affrontando a causa dello sciopero della fame, il magistrato di sorveglianza sembra non attribuire il giusto peso a tale situazione. Il fatto che il detenuto si stia sottoponendo a uno sciopero della fame da diversi mesi dovrebbe essere motivo sufficiente per una valutazione più compassionevole delle sue condizioni. Inoltre la decisione di non considerare il rifiuto del detenuto di ricevere consulenza psichiatrica o supporto psicologico è problematica. Le difficoltà mentali di una persona in stato di detenzione possono essere altrettanto rilevanti quanto le condizioni fisiche. Il rifiuto di un detenuto di accettare assistenza psicologica non dovrebbe automaticamente escludere la necessità di valutare il suo stato mentale e le implicazioni a lungo termine delle sue azioni. La decisione di non concedere il differimento dell’esecuzione della pena sembra riflettere un approccio formale e rigido alla legge, anziché una valutazione più umanitaria e basata sulla considerazione delle circostanze individuali. La giurisprudenza ha affermato ripetutamente che la valutazione delle condizioni di salute di un detenuto deve considerare la sua situazione specifica e l’adeguatezza delle cure disponibili. In questo caso, sembra che il magistrato di sorveglianza si sia invece focalizzato sul suo sciopero della fame come scelta personale. Rimane il dato oggettivo che Domenico Porcelli non ha alcuna intenzione di smettere. Basterebbe, però, un intervento della politica, magari attraverso un dialogo. E ci si augura anche una presa di coraggio da parte della magistratura competente. Ha senso questa rigidità del 41 bis, tra l’altro nata in un contesto emergenziale quando Totò Riina decise di dichiarare guerra allo Stato? I corleonesi persero, lo Stato vinse, la guerra è finita, ma alcune leggi emergenziali rimangono. Anche nei confronti di chi è ancora in attesa di un giudizio definitivo e non esistono elementi concreti tali da giustificare il rinnovo del regime speciale. Ma ora c’è anche il discorso del diritto alla salute. Anche nei confronti di chi ha scelto una forma di protesta estrema. Tortura: abbinate al Senato le due proposte di modifica e abolizione del reato di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 4 agosto 2023 A Buon Diritto, Antigone e Amnesty International Italia: “si contrasti la tortura, non la legge”. Dopo l’avvio della discussione del disegno di legge del Movimento 5 Stelle per la modifica del reato di tortura, nella giornata di ieri, in Commissione Giustizia del Senato, è arrivata la congiunzione con il testo di Fratelli d’Italia per l’abolizione del reato. Introdotto nel codice penale italiano solo nel 2017 - in ottemperanza all’obbligo inderogabile che il nostro Paese aveva assunto quasi trent’anni prima con la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura - l’esistenza del reato e la punibilità di questo crimine contro l’umanità sono già messe in discussione, nonostante la necessità della norma per colpire violazioni gravi sia ben visibile nell’uso che ne è stato fatto fin dalla sua entrata in vigore. La proposta a firma Fratelli d’Italia, infatti, intende abolire il reato e derubricarlo ad aggravante comune, ponendo a rischio la punibilità di chi usa la tortura come strumento di sopraffazione. Tuttavia, un esito analogo, allo stato attuale, potrebbe avere anche una semplice modifica “migliorativa” dell’attuale testo di legge, in quanto rischierebbe - così come denunciato anche dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale - di rallentare o far saltare i processi e i procedimenti già in corso, con l’esito di far andare in prescrizione i reati. “Da quando è stato introdotto il reato - dichiara Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone - sono numerosi i procedimenti che abbiamo visto nascere per le torture (o presunte tali) avvenute nelle carceri italiane. Da Santa Maria Capua Vetere a San Gimignano. Da Torino a Ivrea. Sono aumentate anche le denunce, perché sia tra le persone detenute che anche all’interno della stessa amministrazione penitenziaria, si è diffusa l’idea che non debbano esistere spazi di impunità. Per questo, abolire la legge, rischia invece di mandare un messaggio opposto e di far ripiombare il carcere nel sistema opaco che lo caratterizzava fino a pochi anni fa”. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, “ci sono voluti quasi 30 anni per inserire nel codice penale la parola tortura, e potrebbero volerci anche solo 30 giorni per cancellarla. Un passo indietro così grave sarebbe in totale contrasto con la Convenzione Onu contro la tortura e, oltre ai danni che produrrebbe rispetto ai procedimenti già in fase di svolgimento, rappresenterebbe una macchia sulla reputazione internazionale dell’Italia” Infine, Luigi Manconi, Presidente di A Buon Diritto sottolinea nuovamente come “Nonostante i suoi limiti, il reato di tortura, approvato nel 2017 con un ritardo di trent’anni dalla ratifica italiana della Convenzione delle Nazioni Unite, sta svolgendo una funzione efficace: di sanzione nei confronti di trattamenti inumani e degradanti e di dissuasione rispetto alla tentazione di comportamenti violenti tanto diffusi, in particolare all’interno delle istituzioni totali. L’attuale fattispecie non va modificata, perché sarebbe inevitabile una soluzione peggiore e una misura di sostanziale impunità verso i possibili e i presunti torturatori”. A Buon Diritto, Antigone e Amnesty International Italia, in prima linea nel chiedere l’introduzione del reato e nel difendere il testo che fu poi approvato, chiedono dunque che questa legge non venga né modificata, né tantomeno abrogata, e che l’Italia continui a impegnarsi nel perseguire chi si rende colpevole del reato di tortura, così come era stato più volte richiesto al nostro Paese dalla Corte europea dei diritti umani e da altri organismi internazionali, negli anni in cui non si era ancora dotato di una legge in tal senso. Per queste ragioni, le tre organizzazioni si appellano a tutte le forze politiche, affinché la legge sulla tortura non subisca alcuna modifica, in nome del rispetto dei diritti umani. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Giustizia riparativa, nominati i sei esperti che faranno parte della Conferenza nazionale di Valentina Stella Il Dubbio, 4 agosto 2023 Il 27 luglio il ministero della Giustizia, di concerto con quello dell’Università e della Ricerca, ha nominato i sei esperti della Conferenza nazionale per la giustizia riparativa: Alessio Lanzi, professore emerito di diritto penale presso l’Università di Milano Bicocca; Giovanni Lodigiani, professore a contratto di giustizia riparativa e mediazione penale presso l’Università dell’Insubria; Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale presso l’Università di Bologna; Nicola Mazzacuva, professore ordinario di diritto penale presso l’Università di Bologna; Claudia Mazzuccato, professore associato di diritto penale presso l’Università Cattolica di Milano; Anna Sanchez, psicologa. L’iniziativa nasce in seno alla riforma del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, firmata Marta Cartabia. La Conferenza è presieduta dal ministro della Giustizia o da un suo delegato. Ad essa partecipano anche un rappresentante per ogni Regione o Provincia autonoma, un sindaco o un suo delegato per ciascuna Regione o Provincia autonoma, designato dall’Anci, un rappresentante della Cassa delle ammende. La Conferenza redige annualmente una relazione sullo stato della giustizia riparativa in Italia, che viene presentata al Parlamento dal ministro della Giustizia. Non è mancato qualche malumore tra gli esperti nel vedere l’elenco dei prescelti: ad esempio qualcuno si è chiesto perché non sia stato nominato Adolfo Ceretti, professore presso l’Università degli Studi di Milano- Bicocca, che aveva presieduto proprio il Gruppo di lavoro per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo recanti la disciplina organica della giustizia riparativa. Di quella Commissione nessuno è stato nominato da Nordio, tranne Mazzuccato. E qualcun altro si lamenta che qualche nomina sia più politica che tecnica. Ma si sa, ogni volta che si fanno commissioni c’è qualcuno che resta fuori e si possono muovere tali tipi di critiche. Ma a che punto è la giustizia riparativa? Adottati i decreti attuativi, si è messa in moto la macchina amministrativa e organizzativa di Via Arenula che sembra stia andando avanti in maniera spedita. Presunzione d’innocenza, Costa incalza via Arenula: “Il ministero sta vigilando?” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 agosto 2023 Il deputato di Azione interpella Nordio sull’applicazione della norma. Colui che più di tutti ha voluto e lavorato affinché la direttiva europea sulla presunzione di innocenza fosse recepita dal nostro Paese, il responsabile giustizia di Azione, Enrico Costa, ora interpella il ministro della Giustizia Nordio per sapere se Via Arenula sta vigilando sulla corretta applicazione della norma, approvata durante il Dicastero di Marta Cartabia. L’atto di sindacato ispettivo prende le mosse da “innumerevoli violazioni”. Come esempio il parlamentare sostiene: “Benché la legge vieti di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza, da un comunicato stampa autorizzato dalla procura della Repubblica di Milano il 6 luglio scorso apprendiamo di un’inchiesta denominata “Beagle Boys”, ovvero “Banda Bassotti”; il comunicato, lungi dal rispettare il perimetro assegnato dalla legge alla comunicazione giudiziaria, arriva addirittura a informare dell’individuazione di un “sodalizio criminale”, salvo poi, in coda, precisare che vige la presunzione d’innocenza”. Costa poi ricorda che “il governo si è impegnato, prima con l’accoglimento dell’ordine del giorno 9/00547-A/009 e poi con la mozione 1-00094, a prevedere che l’Ispettorato generale del ministero della Giustizia effettui un monitoraggio degli atti motivati dei procuratori della Repubblica in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico che giustifica l’autorizzazione a conferenze stampa e comunicati degli organi inquirenti”, come previsto dalla norma in vigore dal 14 dicembre 2021. Pertanto il deputato chiede a Nordio “se il governo ha proceduto ad effettuare un monitoraggio degli atti motivati dei procuratori della Repubblica in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico che giustifica l’autorizzazione a conferenze stampa e comunicati degli organi inquirenti, e quali siano gli esiti; nello specifico, quante siano state, a partire dall’entrata in vigore delle nuove norme, le conferenze stampa degli organi inquirenti disposte con atto motivato, e quali le specifiche ragioni di pubblico interesse che le abbiano giustificate in ciascun caso; in quanti casi, a partire dall’entrata in vigore delle nuove norme, siano state autorizzate conferenze stampa o comunicati stampa delle forze di polizia ai sensi dell’articolo 3 della legge 188/2021, e quali motivazioni siano state addotte per giustificarle; se si sia monitorata anche la deprecabile prassi di assegnare denominazioni alle inchieste e se tali denominazioni fossero compatibili con il principio di presunzione d’innocenza; se a seguito dell’entrata in vigore della legge 17 giugno 2022, n. 71 siano state avviate azioni disciplinari ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera v) del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109; se intenda avvalersi della facoltà di adottare, entro il 14 dicembre 2023, un decreto legislativo recante correttivi e integrazioni al d. lgs. in materia di presunzione di innocenza a partire da quanto emerso dalla sua concreta applicazione, con particolare riferimento alla violazione del principio di presunzione di innocenza attraverso la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare e alla necessità di modificare l’art. 114 del codice di procedura penale impedendone la pubblicazione integrale e testuale fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Il ministero è chiamato dunque a rispondere in modo molto dettagliato rispetto ad un fenomeno che sfugge al controllo perché non tutte le procure e le forze di polizia giudiziaria si sono dotate di eguali metodi di diffusione dei comunicati. In pratica manca una banca dati nazionale. Dall’altro lato molta stampa invece continua a parlare di legge bavaglio e vorrebbero modificarla nel senso opposto proposto da Costa. L’Ordine dei giornalisti si è rivolto addirittura tempo fa al Consiglio superiore della magistratura e al procuratore generale di Cassazione: occorre “evitare il rischio che possa calare il silenzio sulle inchieste, magari proprio quelle a carico di personaggi importanti”. L’Associazione della stampa emiliano romagnola è arrivata a dire: “Magistrati e avvocati pensino a fare bene il loro lavoro, all’informazione ci pensano i giornalisti che hanno carte deontologiche e organi deputati a vigilare sull’esercizio corretto della professione e a punire chi sbaglia. Non abbiamo bisogno di lezioni o consigli da parte di altre categorie che spesso hanno un unico obiettivo: limitare il diritto dei cittadini ad essere informati”. Informati però solo delle indagini e non sul processo. Quest’ultimo fattore fa venir fuori tutta l’ipocrisia che caratterizza l’attuale dibattito sulla norma di recepimento della direttiva europea. Se veramente la preoccupazione che strugge la categoria dei giornalisti è quella di non poter più informare i cittadini, allora bisognerebbe chiedersi come mai ci si impegna tanto ad informare sulla fase delle indagini ma si disertano poi le udienze del processo. È evidente che i processi non vengono attenzionati come al contrario accade per le conferenze stampa delle procure. Eppure Cesare Beccaria nei “Dei delitti e delle pene” ci ricorda: “Pubblici siano i giudizi, e pubbliche le prove del reato”. “Le intercettazioni restano essenziali”. Ma tanti chiedono di limitare gli abusi di Ilvo Diamanti La Repubblica, 4 agosto 2023 Il sondaggio Demos per Repubblica: il ministro Nordio le ritiene “una barbarie” e vuole riformarle. Un terzo degli italiani continua ad auspicare “ampia libertà” per i magistrati, ma prevale una posizione più cauta. È diffusa, da tempo, la domanda di cambiare il nostro sistema giudiziario. Rendendolo più rapido ed efficiente. A questo fine, il Pnrr ha stanziato una somma significativa. Tuttavia, la riforma del ministro Nordio, che cancella l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze, ponendo limiti alla pubblicazione delle intercettazioni nelle indagini giudiziarie, suscita preoccupazione. In Italia e in Europa. Perché si tratta di scelte che riguardano materie “critiche”. I rapporti fra giustizia e politica, infatti, hanno conosciuto e conoscono contrasti e conflitti. Divenuti evidenti nei primi anni Novanta, al tempo degli scandali riassunti con la sigla di Tangentopoli. All’origine della caduta della Prima Repubblica. Silvio Berlusconi, negli anni seguenti, ha riproposto questa frattura. Marcando la distanza dai giudici. E dai magistrati. Le “toghe rosse”, come le ha definite il Cavaliere. Affiancato e guidato, nella sua “sfida”, da due consiglieri fedeli. Marcello Dell’Utri e Cesare Previti. Ma le questioni relative alla giustizia si sono riprodotte nel tempo. Non solo per la classe politica e dirigente. Ma per l’opinione pubblica. Fino ad oggi. Come dimostra l’attenzione sollevata dal progetto di riforma della giustizia, presentato dal ministro Carlo Nordio. In particolar modo riguardo alla stretta sull’uso e la diffusione delle intercettazioni telefoniche, definite dal ministro “una barbarie”. Questa materia interessa i cittadini perché entra nella sfera della nostra vita quotidiana. “Minaccia” la nostra privacy. E, quindi, sconfina dal campo dei “politici” di professione e invade lo spazio del “senso comune”. Della “gente comune”. Per questa ragione l’opinione dei cittadini, rilevata da un recente sondaggio di Demos, appare “controversa”. Ma, nel complesso, “avversa” alle intercettazioni telefoniche. E, tuttavia, cauta. Meno di un terzo degli intervistati (30%) ritiene, infatti, che i magistrati debbano avere “ampia libertà nel loro utilizzo”. Una quota ampia, ma “minoritaria”. Mentre la maggioranza del campione (54%) esprime una posizione più “prudente”. Le ritiene importanti, ma pensa che vadano “meglio regolamentate”. Infine, una componente più ridotta, ma significativa, pari al 14%, mostra, al proposito, un atteggiamento maggiormente “esclusivo”. E sostiene che le intercettazioni possano venire utilizzate solamente in casi specifici. Per fare fronte a reati e a minacce più gravi. Come mafia e terrorismo. Prevale, dunque, un orientamento “mediano”, che apre alla “mediazione”. Perché si tratta di una problematica, storicamente, di “frontiera”. Ma, al tempo stesso, “complessa”. Difficile da affrontare “complessivamente”. Alla base dei diversi atteggiamenti in merito alle intercettazioni c’è, anzitutto, la posizione politica dei cittadini intervistati. Che ripropone la divisione fra maggioranza e opposizione. Infatti, fra coloro che “simpatizzano” per il governo l’incidenza di chi mette in discussione l’uso delle intercettazioni è superiore alla media. Questa “relazione” è confermata dalle preferenze di partito ed evoca il ruolo “storico” della giustizia, nel corso della Seconda Repubblica. A Centro-Sinistra, in particolare, c’è dissenso aperto verso il “controllo delle intercettazioni”. Ritenute “fondamentali”, per le indagini dei magistrati, da oltre metà degli elettori del M5S. Un soggetto “politico” sorto in funzione anti-politica, alla fine del primo decennio degli anni 2000. Su iniziativa di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Un anti-partito che ha sfidato i partiti. In quanto subalterni a interessi economici e di potere. Nel corso degli anni, però, il M5S è divenuto, prima, un’alternativa al non-voto. Per trasformarsi, successivamente in un “non-partito” di successo. Vincitore alle elezioni politiche del 2018, sfiorando il 33% alla Camera. È divenuto, così, a sua volta un “partito” e, insieme alla Lega di Salvini, ha formato il “governo giallo-verde”, guidato da Giuseppe Conte. Tuttavia, nonostante negli ultimi anni il M5S si sia ridimensionato, le sue radici affondano ancora nel terreno “alternativo alla casta”. Dal quale è sorto. Un distacco analogo, seppure inferiore, dal progetto del governo è espresso da un’ampia quota di elettori del PD. Il 38% dei quali si dice apertamente favorevole all’uso delle intercettazioni, come strumento di indagine. Il consenso scende, invece, al 30% tra chi vota per la Lega, al 29% fra gli elettori di FI. E scivola al 19%, nella base dei FdI. La riforma della giustizia, dunque, “coinvolge” gli italiani. Senza “sconvolgerli”. Evoca la memoria di Tangentopoli. Ma, anche per questa ragione, suscita una domanda di ri-composizione. Per andare oltre la frattura fra magistratura e partiti. Fra giustizia e politica. Che, nello sguardo dei cittadini, non sembra ancora risolta. Come mai “i cani da guardia del potere” non abbaiano mai al potere giudiziario? di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 4 agosto 2023 Le riflessioni che il dott. Bruti Liberati ha svolto qualche giorno fa sulle pagine de Il Dubbio, relative all’annoso tema del rapporto tra responsabilità penale, responsabilità politica e stampa, non mi convincono. Intendiamoci: lo schema dell’argomentazione è all’apparenza ineccepibile. La responsabilità politica deve restare distinta dalla responsabilità penale; un uomo pubblico può doversi dimettere dalle proprie cariche anche per condotte penalmente irrilevanti, ma eticamente significative; e per converso, fatti penalmente rilevanti potrebbero essere tali da non risultare incompatibili con l’esercizio della funzione pubblica. Segue elenco di vicende accadute in altri Paesi (ministri dimessisi per la tesi copiata, il mutuo agevolato etc.), a conferma dell’assunto. In questo quadro, ecco implacabile il solito richiamo al ruolo della stampa quale “cane da guardia della democrazia”. Tutto bene, tutto bello. Senonché questo quadro ideale di come debba funzionare un sistema democratico, manca di due tasselli fondamentali: mancano, a fianco della responsabilità della politica, quella del potere giudiziario e quella della stampa. Eccola qui la vera, clamorosa anomalia del nostro sistema Paese: chi svolge una indagine giudiziaria che, dopo aver fortemente impattato sull’ordinato svolgersi della vita democratica e delle istituzioni politiche, si rivelerà del tutto infondata sin dalle sue scaturigini, non ne risponderà in alcun modo. Né in termini risarcitori (ed è il male minore), né in termini di carriera professionale (e questo è semplicemente intollerabile). Al tempo stesso, quei giornalisti o quelle testate giornalistiche che lanciano - per finalità politiche o di semplice mercato- campagne di stampa violentissime poi dimostratesi infondate, cioè basate su circostanze non adeguatamente verificate o del tutto contrarie al vero, ne risponderanno, se mai ne risponderanno, con sanzioni patrimoniali risibili (qui - chiedo- non valgono le comparazioni con gli altri Paesi?) e con nessuna conseguenza professionale. La prova del nove di quanto sia veritiera la ricostruzione di questa anomalia risiede nel fatto che, non a caso, da oltre trent’anni questi due poteri irresponsabili (formidabili ed irresponsabili) si sono quasi naturalmente coalizzati in un tacito patto di reciproca protezione. I processi civili e penali per diffamazione sono gestiti da Procure e Tribunali con una indulgenza prossima alla garanzia di impunità per i giornalisti (salvo mirate eccezioni per alcune privilegiate categorie di persone offese, magistrati in primis); e i famosi “cani da guardia del potere” abbaiano contro ogni potere che non sia quello giudiziario, salve alcune benemerite e minoritarie eccezioni. Qualcuno mi faccia la cortesia di citare, in questi ultimi decenni, una qualche inchiesta giornalistica, di quelle ficcanti, spietate, con titoli cubitali e protagonisti implacabilmente inseguiti dal microfono del giornalista d’assalto, su qualsivoglia vicenda giudiziaria, o di gestione di un ufficio giudiziario, o di gestione di un processo. Un esempio, solo il più recente, per tutti. Gli avvocati penalisti calabresi lanciano un forte grido di allarme sulla amministrazione della giustizia in quelle terre. Hanno ragione o torto? Sono dei calunniatori o, peggio, portatori di minacce per conto terzi, oppure hanno qualche ragione e raccontano verità? Non lo sapremo mai, perché ANM e CSM insorgono a tutela, la stampa - senza eccezioni- fa da indignato megafono a quella reazione, ma a nessuno viene neppure in mente di verificare quali verità possano eventualmente - per carità, dico solo: eventualmente- trovare riscontro in quella denuncia pubblica. E d’altronde, come stupirsi? ancora oggi, a quarant’anni di distanza, nessuno ha seriamente cercato di capire le ragioni dello scandaloso processo ad Enzo Tortora, i cui responsabili nella magistratura, beninteso, furono tutti promossi con encomio. Dunque, il dibattito su questo tema così complesso non uscirà dalle paludi della retorica se non si determinerà ad affrontare la questione della responsabilità delle funzioni pubbliche o di rilevanza pubblica, che funziona solo se varrà senza eccezioni, senza sacche di privilegio, senza ipocrisie, senza riserve di impunità. Un sistema democratico funziona se tutti coloro che esercitano funzioni pubbliche o socialmente rilevanti rispondono, con efficacia e durezza, dei propri errori. Che è esattamente ciò che manca nel nostro Paese. Le cose non dette sulla strage di Bologna di Luca Ricolfi Il Messaggero, 4 agosto 2023 Nel 43esimo anniversario della strage di Bologna, suscitano qualche sorpresa due fatti nuovi. Il primo è la dissonanza fra le dichiarazioni dei principali esponenti della maggioranza. Mentre il premier Meloni e il ministro Piantedosi hanno evitato accuratamente di usare l’espressione “matrice neo-fascista”, il presidente del Senato La Russa e il ministro Nordio vi hanno fatto ricorso, sia pure delimitandone la portata in quanto “accertata in sede giudiziaria”. In realtà, a leggere le dichiarazioni integrali, le differenze non sono poi così clamorose. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno auspicato un pieno accertamento della verità, che si auspica possa emergere grazie alla completa desecretazione degli atti coperti dal segreto di Stato, e (utopisticamente?) grazie al lavoro di una ennesima istituenda commissione di inchiesta parlamentare. È come dire: ok, la verità giudiziaria è quella che è, ma è tutta la verità? In realtà anche la verità giudiziaria, quale emerge dall’ultima sentenza dell’ennesimo processo (concluso l’aprile scorso), è più sfumata di quel che è apparsa a molti: gli esecutori sarebbero neo-fascisti assoldati per compiere la strage, ma i mandanti sarebbero apparati dello Stato deviati e la massoneria (Licio Gelli e la loggia P2). Dunque, a essere precisi, la matrice della strage è quantomeno composita e, se si deve usare una espressione sintetica. e più aderente alla sentenza, forse sarebbe più esatto parlare di “strage di Stato”. Ma c’è anche un altro fatto nuovo nelle discussioni di questi giorni: il quasi completo venir meno, nei principali media, di ogni dubbio sulla effettiva colpevolezza dei due principali imputati per l’esecuzione materiale dell’attentato, ovvero Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. È la prima volta che succede. Eppure in passato i dubbi si sono sprecati, fin dai tempi dello storico appello E se fossero innocenti? firmato nel 1994 da decine di personalità illustri, per lo più collocate a sinistra: ad esempio Luigi Manconi, Sandro Curzi, Oliviero Toscani, Liliana Cavani, Franca Chiaromonte. Per non parlare delle perplessità di Marco Pannella e di tanti esponenti radicali. Oggi, di quella galassia di persone assalite dal dubbio ho trovato traccia soltanto in Piero Sansonetti (direttore dell’Unità, a quanto pare in conflitto con la sua redazione) e in Mattia Feltri, autore di un (piuttosto) criptico intervento in cui rimpiange la stagione in cui destra e sinistra si parlavano, e prende le distanze dall’invito di Elly Schlein a evitare ogni “tentativo di riscrivere la storia”. A quel che ne so, nessuno di coloro che in passato avevano sollevato dubbi ha ritenuto di intervenire, o di spiegare che aveva cambiato idea e perché. Perché questa unanimità? Perché questo silenzio? Perché questo muro inespugnabile che viene opposto a chiunque inviti ad andare fino in fondo nella ricerca della verità? Perché la richiesta di togliere il segreto di Stato da tanti documenti non suscita il più largo consenso? L’unica risposta che riesco a darmi è che il governo è cambiato, e la priorità è diventata mettere in difficoltà l’esecutivo, considerato espressione della medesima cultura politica neo-fascista che sarebbe all’origine della strage di Bologna. Come ai tempi dello stalinismo e della “doppia verità”, la verità che si cerca di affermare non è quella storica, ancora in parte sconosciuta, ma quella utile alla causa, conosciutissima e perfettamente chiara: affinché i conti politici tornino, la strage deve essere di matrice neo-fascista. Ogni dubbio va rimosso. Ogni voce che, anche timidamente, provi a fare qualche domanda va zittita. Capisco perfettamente che, per i parenti delle vittime, dopo decenni di dolore e di attesa, dopo un calvario di processi e sentenze contraddittorie, una qualche verità sia meglio di una verità forse più vera, ma spostata in un futuro incerto. Ma per tutti gli altri? Per gli studiosi, i giornalisti, i cittadini che vogliono sapere? Possibile che l’etichetta “matrice neo-fascista” plachi ogni desiderio di verità? Dossieraggio su politici e vip, dati sottratti alla Direzione antimafia di Adriana Pollice Il Manifesto, 4 agosto 2023 Il caso alla Procura di Perugia. L’inchiesta è partita dalla denuncia del ministro Crosetto, indagato un maresciallo della Guardia di finanza: il reato ipotizzato è accesso abusivo a sistemi informatici. Un presunto dossieraggio non autorizzato su politici e personaggi noti: è l’inchiesta che coinvolge la Direzione nazionale antimafia di Roma, approdata ad aprile per competenza a Perugia cioè alla procura a cui spetta subentrare quando gli atti coinvolgono magistrati capitolini. Il reato ipotizzato è accesso abusivo a sistemi informatici, iscritto nel registro degli indagati è un maresciallo della Guardia di finanza (spostato ad altro incarico) che è stato a lungo in servizio alla Dna. L’attività finita sotto la lente della giustizia comincia nel 2020, con la pubblicazione su diversi quotidiani dei dati contenuti nelle Sos - Segnalazioni di operazioni sospette cioè le transazioni anomale che le banche e gli operatori finanziari hanno il dovere di comunicare all’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia: si tratta di scambi che potrebbero rivelare situazioni sospette (come i bonifici ripetuti). Gli approfondimenti vengono poi effettuati dalla Dna se le persone coinvolte sono presenti nei suoi database oppure dal Nucleo valutario della Guardia di finanza. Ad avviare le indagini è stato il ministro della Difesa, Guido Crosetto: lo scorso ottobre il Domani pubblicò i compensi percepiti da Leonardo e da altre partecipate pubbliche da parte dell’esponente di FdI tra il 2018 e il 2021 ipotizzando un caso di conflitto di interesse. Crosetto presentò un esposto alla Procura di Roma chiedendo di indagare su come quelle informazioni sensibili (non pubbliche) fossero finite sulla stampa. Così, attraverso gli accessi, gli inquirenti sono arrivati al maresciallo in servizio alla Dna. Il militare, interrogato dai pm, ha negato ogni addebito spiegando che quelle ricerche venivano effettuate “di impulso” cioè in coordinamento con il magistrato responsabile della sezione presso la Dna, Antonio Laudati. Lo scorso anno le Sos sono state circa 145mila, almeno cento visure patrimoniali sembrano essere stata scaricate dal sistema senza autorizzazione dal finanziare sotto indagine. Tra i nomi che potrebbero essere finiti nel dossieraggio Matteo Renzi, Giuseppe Conte, Rocco Casalino e persino Francesco Totti, oggetto a gennaio di inchieste giornalistiche per una serie di bonifici a società di scommesse. Potrebbe occuparsi del caso anche il Copasir. Crosetto ieri ha commentato: “Considero gravissimo che pezzi dello Stato possano aver lavorato deliberatamente per indebolire le istituzioni e perseguire interessi evidentemente opachi. Attendo fiducioso gli accertamenti su questa torbida vicenda”. Il procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, ha diramato ieri una nota: “Da aprile l’ufficio sta proseguendo, in assoluta riservatezza, le indagini preliminari che si sono ovviamente estese rispetto all’ipotesi originaria di violazioni di notizie riservate in danno del ministro Crosetto e sono state già sentite numerose persone ed esaminata una rilevante quantità di documenti. Le indagini sono state delegate al Nucleo di polizia valutaria della Guardia di finanza di Roma, che oltre ad avere la piena fiducia dell’Ufficio, ha le necessarie competenze”. Gli accertamenti vanno avanti “con la collaborazione e in sintonia” con il Procuratore nazionale Antimafia che ha dovuto “riorganizzare radicalmente il servizio Sos”. È stato proprio il procuratore capo della Dna, Giovanni Melillo, a consegnare alla procura di Roma gli accessi anomali fatti dal finanziere in servizio presso il suo ufficio. La procedura, fino ad allora, non prevedeva una richiesta scritta per accedere alle segnalazioni né un’informativa finale. L’ufficio adesso fa capo al procuratore nazionale ed è gestito con quattro sostituti, le procedure sono tracciate e le richieste motivate per iscritto. Sicilia. Garante dei detenuti nei Comuni, l’appello: “I Sindaci facciano le nomine” focusicilia.it, 4 agosto 2023 L’assessore ha avviato una ricognizione per sensibilizzare le amministrazioni ad attivarsi. Il Garante comunale dei detenuti può essere nominato dai sindaci nel cui territorio si trova un istituto penitenziario o un centro di detenzione amministrativa operativo. Sul Garante dei detenuti nei Comuni siciliani, arriva l’appello dell’assessore regionale alle Autonomie locali, Andrea Messina, ai sindaci, perché facciano le nomine come prevede la legge. L’assessore ha avviato una ricognizione per sensibilizzare le amministrazioni ad attivarsi. Secondo le norme nazionali del 2009 e regionali del 2019, infatti, il Garante comunale dei detenuti può essere nominato dai sindaci nel cui territorio si trova un istituto penitenziario o un centro di detenzione amministrativa operativo. Il Garante opera a titolo gratuito. “Non si può non riconoscere - sottolinea Messina - la rilevanza costituzionale dei diritti tutelati da questa figura che incontrano la sensibilità di questo assessorato e richiamano l’esigenza di agevolare l’attivazione degli strumenti previsti dalla legge per tutelare le persone detenute e le loro famiglie. I miei uffici stanno già collaborando con il Garante regionale per la redazione di un regolamento-tipo indirizzato alle amministrazioni locali che non si sono ancora dotate del garante, così da coadiuvarli nel procedimento amministrativo”. L’iniziativa dell’assessorato regionale prende atto delle criticità registrate all’interno degli istituti di pena, quali suicidi, sovraffollamento, insufficienza di psichiatri e psicologi, ripetute aggressioni nei confronti del personale. Vuole offrire agli enti locali un supporto concreto nella conoscenza di un prezioso strumento di garanzia dei diritti civili. La figura del Garante diventa un punto di riferimento per il territorio ed è una “conquista recente nell’ambito del riconoscimento dei diritti delle persone detenute, è il risultato di un lungo processo di emersione del carcere dall’invisibilità, nella prospettiva della riabilitazione e del reinserimento socio-lavorativo delle persone sottoposte a misure limitative della libertà personale”, ha sottolineato Messina. L’intervento dell’assessorato delle Autonomie locali nasce dalla consapevolezza che si tratti di un atto dovuto in virtù delle convenzioni internazionali e dei principi costituzionali, ma anche della situazione critica in cui versano le realtà detentive. Nell’attività di propulsione l’assessorato opererà in collegamento con il Garante regionale dei detenuti, Santi Consolo, e con l’assessore regionale della Famiglia, Nuccia Albano. Milano. Nel carcere di San Vittore due detenuti morti in cinque giorni La Repubblica, 4 agosto 2023 L’allarme di Antigone: “Situazioni limite ormai sono la norma”. Un 38enne appena entrato si è suicidato, un altro è morto dopo aver inalato gas. E da inizio anno da qui sono passate 28 donne incinte. “Negli ultimi 5 giorni sono morte due persone nel carcere di San Vittore a Milano”. A renderlo noto è Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia. Una delle due si è suicidata: si tratta di un cittadino moldavo di 38 anni che si è tolto la vita sabato, a pochi giorni dall’ingresso nella casa circondariale. Era stato visto da psicologi ed educatori, non era in cella da solo. L’altro detenuto, un trentenne, ha perso la vita per un malore dopo l’inalazione del gas di una bomboletta ieri, nel reparto tossicodipendenti. Due eventi che si aggiungono ai tre suicidi degli ultimi 12 mesi e raccontano di una sofferenza individuale,” ma la vicinanza desta preoccupazione per le criticità strutturali dell’istituto e dei riverberi sulla regione”, sottolinea Antigone, evidenziando le criticità e il sovraffollamento (oltre il 126%) che affliggono la più grande casa circondariale lombarda, con 940 detenuti di cui 600 stranieri. A San Vittore un detenuto di 90 anni: “Non si trova una Rsa dove collocarlo ai domiciliari” - “Al momento - sottolinea Verdolini - tra i detenuti presenti c’è anche una persona 90enne in attesa di ricollocamento in Rsa e una sessantaseienne apatica, con frattura del bacino che ha bisogno di assistenza igienica e di alimentazione, in condizioni di totale indigenza. Inoltre, solo da inizio anno sono passate in istituto almeno 28 donne in gravidanza”. Il 90enne è a San Vittore da alcune settimane perché non si trova una residenza sanitaria che lo accolga ai domiciliari, in considerazione della sua età. L’anziano era stato arrestato l’11 luglio scorso per il tentato omicidio della sua compagna di 86 anni nella Rsa di Cinisello Balsamo dove entrambi erano ospiti. L’aveva colpita col bastone da passeggio dopo una lite. La magistratura ha dato parere favorevole al suo ricollocamento in Rsa ma nessuna struttura è in condizione o vuole ospitarlo. Carceri in Lombardia, le più affollate d’Italia con 8.379 presenze - La sofferenza di San Vittore, ricorda Antigone, ha riverberi in tutta la regione Lombardia, la più sovraffollata d’Italia, con 8.370 presenze (sovraffollamento al 136%) e con picchi a Brescia, Como, Cremona, Busto Arsizio, Monza e Lodi, anche effetto degli sfollamenti della metropoli. “La regione presenta un deficit di cura e il carcere ne diventa collettore, non riuscendo, nonostante i molteplici sforzi, a colmare i bisogni e alleviare i disagi. È necessaria una risposta sistemica e sinergica di area sanitaria, sociale e pubblica amministrazione, a livello locale e regionale, per far fronte ad una situazione che ormai non è più eccezione ma norma” conclude Verdolini. Milano. A 90 anni in carcere a San Vittore, non si trova una Rsa che lo accolga di Andrea Siravo La Stampa, 4 agosto 2023 Procura e giudice favorevoli agli arresti domiciliari. L’uomo è accusato di aver cercato di uccidere la compagna insieme alla quale era ospite in una struttura per anziani di Cinisiello Balsamo. La donna, di 4 anni più giovane, era sopravvissuta all’aggressione avvenuta dopo una lite. Lui l’aveva colpita col bastone da passeggio e con un paio di forbici. È entrato poco prima di metà luglio nel carcere di San Vittore e non è ancora uscito. Per un novantenne, arrestato l’11 luglio scorso per il tentato omicidio della sua compagna di 86 anni in una Rsa di Cinisello Balsamo dove entrambi erano ospiti, non si trova al momento una struttura che lo accolga. Un posto più idoneo dove stare in regime di arresti domiciliari in considerazione dell’età. La scelta di farlo andare in carcere era stata presa dalla Procura di Monza e convalidata da un gip. Una misura “conservativa” iniziale per prevenire il rischio di suicidio come accaduto già in precedenti casi analoghi. Scongiurato il pericolo, pm e gip si sono trovati d’accordo che dal carcere il novantenne poteva essere trasferito in una casa di cura, isolato da altri pazienti. Facile a dirsi, ma difficile a farsi. Perché finora non è stata individuata nessuna struttura che soddisfi i requisiti. “Le sue condizioni di salute sono buone”, è stato riferito. Con la compagna di quattro anni più giovane il novantenne era stato ricoverato quattro giorni prima dell’aggressione. A lui, incensurato e con un passato come appartenente alle forze dell’ordine, era rimasta solo la donna non avendo più parenti in vita. La notte tra l’8 e il 9 luglio i due, insieme da anni senza mai essersi sposati, hanno avuto un’accesa lite. L’uomo con il bastone da passeggio e una forbicina da unghie ha colpito la compagna. Inutile il tentativo di difendersi con un altro bastone. A scoprire per prima l’aggressione - come ricostruito dai Carabinieri - un’infermiera del turno di notte. Ha visto camminare nel corridoio il novantenne, mentre ha trovato a terra nella stanza la donna. Gravemente ferita è stata trasportata in codice rosso all’ospedale San Gerardo di Monza dove i medici dopo averla curata l’hanno dichiarata non in pericolo di vita. La notizia arriva in giorni molto difficili per l’istituto penitenziario milanese dove nel giro di poco sono morte due persone. Uno è un cittadino moldavo di 38 anni che si è tolto la vita sabato, pochi giorni dopo essere entrato nella casa circondariale, il secondo è un trentenne che ha perso la vita per un malore dopo avere inalato gas da una bomboletta nel reparto tossicodipendenti. “La vicinanza degli eventi - commenta l’associazione Antigone - desta preoccupazione per le criticità dell’istituto nel quale, solo da inizio anno, sono passate 28 donne in gravidanza”. Milano. La fabbrica delle fake news e le scommesse clandestine sulle violenze in cella di Anna Giorgi Il Giorno, 4 agosto 2023 L’allarme del Garante dei detenuti, Francesco Maisto: bufale create per fare soldi. “Minacce agli avvocati e tempeste social sulle sentenze, perso il senso della legalità e della pena”. Un mercato di ricche “scommesse clandestine” dietro casi molto mediatici, come quello di Alessandro Impagnatiello ad esempio, il barman di Senago che ha ucciso con 39 coltellate la fidanzata Giulia Tramontano di 29, incinta di suo figlio Thiago e la fake news sulla sua evirazione in cella che sarebbe avvenuta ad opera degli altri detenuti. Una notizia falsa divenuta virale. E ancora scommesse sulle botte in carcere ad Alessia Pifferi, la mamma che lasciò morire di fame e di sete la sua piccola Diana di 18 mesi o ancora sull’eventuale violento trattamento in carcere riservato a Davide Fontana, il bancario foodblogger divenuto killer della modella Carol Maltesi a cui sono stati inflitti ‘solo’ (per gli hater) 30 anni. Francesco Maisto, lei è il garante dei detenuti del Comune di Milano ci può spiegare di cosa si tratta, cosa è e come nasce questo fenomeno delle scommesse? “È un reato nel reato sul quale sta indagando la procura di Milano con l’aiuto della polizia postale. Non posso parlare del caso specifico, ad esempio di Impagnatiello o di altre indagini coperte da segreto istruttorio perché i fascicoli sono stati aperti ora, ma il meccanismo è il seguente: si diffondono notizie false legate a un vecchio retaggio sul “malcostume carcerario” e su questa base si aprono scommesse che viaggiano nel deep web. Per essere chiari: dalla diffusione studiata a tavolino di queste fake che fanno molto presa sui social c’è qualcuno che ci guadagna, è una complessa rete criminale, agli investigatori il compito di scoprire chi c’è dietro, da chi è composta e come si muove questa rete”. Ricordiamo il caso della mamma Alessia Pifferi in cui la sua difesa fu addirittura minacciata per aver accettato l’incarico. L’odio via web e le minacce ai legali sono un fenomeno in crescita per via dei social? “Più che altro sono un fenomeno nuovo che si è sviluppato con i social, non ricordo che avvocati nel passato abbiano mai subito attacchi di questo genere, non ricordo che siano mai arrivate minacce di morte. E specifico che gli avvocati che difendono gli assassini e altri reati gravissimi sono sempre esistiti. Tutti coloro che commettono reati hanno il diritto di essere difesi da un avvocato di fiducia o da un avvocato d’ufficio e da questo punto fermo non si scappa”. Come spiega, quindi, questa crescente ondata di odio? “Sono due gli aspetti che vanno considerati: il primo è la sempre più scarsa percezione e il sempre minor rispetto della legalità e il secondo aspetto è la sfiducia della maggior parte delle persone nei confronti della quantità e della qualità della pena inflitta, quindi del lavoro dei giudici. Quante volte si sente dire, ad esempio, che la quantità di pena inflitta ad un colpevole di omicidio o di un altro reato grave è troppo bassa? Questo, fra l’altro, senza conoscere i meccanismi di legge che portano alla determinazione del calcolo preciso degli anni di pena da infliggere”. Lei parla di vecchi retaggi sul malcostume di “punire i carcerati”. Esclude che ci possano essere oggi comportamenti di vendetta nei confronti dei rei? “I colpevoli di tali reati, gli assassini citati prima, ad esempio, proprio per le circostanze di pericolo vengono messi in un raggio carcerario protetto, isolati e sorvegliati. Un regime di detenzione sicuro, che attenzione, non significa che sono “coccolati o privilegiati. Escludo, quindi, che ci possano essere comportamenti di tale gravità messi in atto da persone che ne condividono, poi in un momento successivo, gli spazi di detenzione”. Firenze. Condannati per il pestaggio di due detenuti, “Ma non ci fu tortura” Corriere Fiorentino, 4 agosto 2023 Nei due pestaggi avvenuti nel 2020 al carcere di Sollicciano nei confronti di due detenuti non ci fu tortura, né volontà sadica di infliggere sofferenze, si trattò di aggressioni fini a se stesse: la sentenza del giudice Silvia Romeo risale a dicembre ed è stata depositata a giugno. Il magistrato condannò in rito abbreviato un’ispettrice capo e otto agenti penitenziari, a vario titolo, per lesioni. La pena più alta è stata di 3 anni e 6 mesi, alla stessa ispettrice. Un nono imputato è stato assolto. Le difese hanno deciso di ricorrere in appello. Le vittime sono un detenuto marocchino e uno italiano, i fatti si sono verificati anche all’interno nell’ufficio dell’ispettrice, in seguito a contrasti con gli agenti. Ma on ci fu tortura, viene spiegato, anche perché non furono inflitte “acute sofferenze fisiche” né “verificabili traumi psichici”. Napoli. Poggioreale, i garanti Samuele Ciambriello e Tonino Palmese in visita al carcere ildenaro.it, 4 agosto 2023 Nella mattinata di ieri, il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello ha fatto visita nel carcere di Poggioreale, insieme al neo Garante territoriale dei detenuti di Napoli, Don Tonino Palmese. Sono 2.020 i detenuti presenti all’interno dell’Istituto penitenziario a fronte dei 1.639 previsti dalla pianta organica. I Garanti hanno visitato insieme i padiglioni Venezia (sex offender), Roma (tossicodipendenti), Avellino (alta sicurezza), Milano, San Paolo (S.A.I.) e Firenze. All’uscita del carcere, il Garante territoriale Don Tonino Palmese ha dichiarato: “C’è bisogno di ascolto, non tanto per essere giustificati, ma accompagnati in un percorso di riscatto. Ho rivisto dopo tanti anni ciò che mi aspettavo di non vedere: c’è precarietà abitativa, manca l’essenziale per sostenere con dignità la permanenza in Istituto, anche a dispetto di tutti quelli che dicono che in carcere i detenuti stanno bene. Magari! Dovrebbero stare bene per poter espiare la pena e riavviare dignitosamente la loro esistenza”. Nell’Istituto di Poggioreale ci sono detenuti con sofferenza psichiatrica con solo 2 psichiatri presenti, a fronte dei 4 previsti. “In ogni reparto visitato e per ogni storia ascoltata, i punti centrali sono il diritto alla salute e alla vita. L’art. 32 della Costituzione è l’unico in cui il diritto alla salute viene dichiarato come fondamentale. Nel carcere mancano assistenti sociali, psicologici, tanto che gli agenti di Polizia Penitenziaria sono quelli che si trovano a sopperire le mancanze dei medici e di queste figure sociali: così il carcere scoppia!”, così il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello. I Garanti Ciambriello e Palmese, reclamano insieme più personale, soprattutto per i detenuti tossicodipendenti, perché ci sono solo 3 medici che operano oltre a Poggioreale anche al carcere di Secondigliano e all’I.P.M. di Nisida: “C’è bisogno di più figure professionali di sostegno al S.E.R.D. Il carcere non può essere un luogo di cura per queste categorie di persone fragili”. Alcamo (Tp). Sabato il convegno “La salute psicologica nelle carceri” siciliaunonews.com, 4 agosto 2023 Convegno ad Alcamo (TP) nell’ambito di Alcart Festival, promosso dal Gruppo S&D al Parlamento Europeo. Secondo l’OMS un terzo dei detenuti in Europa soffre di disturbi mentali. Sovraffollamento delle carceri, suicidi, difficoltà delle cure e rispetto dei diritti umani all’interno degli istituti penitenziari sono questioni sempre più pressanti a cui l’Unione Europea è chiamata a dare risposta. Eppure questi temi restano troppo spesso relegati ai margini del dibattito pubblico, quasi che le carceri fossero mondi a parte, dimenticati e da dimenticare mentre rappresentano luoghi che riguardano la società nel suo complesso. Sabato 5 agosto di tutto questo si parlerà in piazza Ciullo ad Alcamo (TP), in una conferenza dal titolo “La salute psicologica nelle carceri. Spunti di riflessione comparatistica tra i diversi sistemi carcerari europei” promossa dal Gruppo dei deputati Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo e in programma a partire dalle ore 18:30 nell’ambito di Alcart Festival. Al dibattito interverranno tra gli altri: Pietro Bartolo, europarlamentare PD-Gruppo S&D e vicepresidente della Commissione LIBE; Brando Benifei, europarlamentare PD-Gruppo S&D a capo della delegazione italiana; Simone Santorso, professore presso l’Università del Sussex, autore libro “Farsi la galera” e membro dell’associazione Antigone; Sabrina Salvo dirigente medico UOSD Medicina Penitenziaria ASP Trapani - CC Trapani; Vincenzo Filippi, psicologo psicoterapeuta UOSD Medicina Penitenziaria dell’ASP Trapani - CC Trapani; e la fotografa Bianca Burgo che metterà in mostra ad Alcamo il lavoro “Non guardateci così” realizzato con alcuni detenuti. Modera il giornalista Fulvio Catalanotto. In viaggio verso Atlantis di Enrico Fiore Corriere del Mezzogiorno, 4 agosto 2023 “Davanti a quella foce che viene chiamata, come dite, Colonne d’Eracle, c’era un’isola. Tale isola, poi, era più grande della Libia e dell’Asia messe insieme, e a coloro che procedevano da essa si offriva un passaggio alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente che stava dalla parte opposta, intorno a quello che è veramente mare”. Sono le parole con le quali, nel “Timeo”, Platone introduce il discorso su Atlantide. E ben a ragione possono essere assunte sotto specie di epigrafe rispetto a quanto contiene il nuovo progetto di Armando Punzo, intitolato per l’appunto “Atlantis” e il cui primo capitolo, “La permanenza”, è stato presentato nella Fortezza Medicea, la casa di reclusione di Volterra. Infatti, basta confrontarli anche sommariamente per rendersi conto di come i concetti espressi da Platone coincidano, in misura notevole, con quelli esposti da Punzo nelle sue note di regia. Platone, come s’è visto, parla innanzitutto della “foce”, parla, cioè, della parte finale di un fiume che si versa nel mare, in altri termini di qualcosa che tende irrinunciabilmente verso una dimensione della sua stessa natura acquorea ma di sé molto più vasta e in cui si annulla in quanto entità “autonoma”. E poi parla di un’isola grande che offre il passaggio ad isole più piccole che a loro volta offrono il passaggio a un intero continente grande al punto di circondare il mare. Il filosofo ateniese, insomma, insiste sullo scambio perenne, e perennemente fruttifero e salvifico, tra il limitato el’ illimitato, ovvero tra l’Io e il mondo, tra le pulsioni interiori dell’individuo e i connotati dell’esistere quotidiano di quell’individuo in seno alla collettività. Dal canto suo, Punzo apre le sue note scrivendo: “Permanere non è immobilità, è affermazione di stato, è conquista di un altro luogo, non è beata torre d’avorio, fuga dalla realtà, è consapevolezza di una scelta, è conoscenza, è sapere, è frutto faticoso di un lavoro che agisce interiormente nell’uomo ed esteriormente nel mondo, è riconoscimento e contenimento dell’Io ordinario, purificazione, eliminazione di una parte nota dell’essere umano a favore di un Io superiore, una parte in potenza meno nota, comunemente poco frequentata, sacrificata da quella che sembra essere la dura sostanza concreta della vita”. Evidente, “È come l’Itaca di Kavafis: non è importante la città, che forse non esiste nemmeno, ma il viaggio che si compie verso di essa e sé dunque, la somiglianza con il discorso metaforico sviluppato da Platone a proposito di Atlantide. Ma, prima di proseguire con l’analisi dello spettacolo che ho visto nel carcere di Volterra, credo sia indispensabile che mi fermi a riflettere su un altro, particolarissimo, significato del termine “permanenza”, che esula da quelli comuni elencati dai dizionari. Il sostantivo “permanenza” indica, certo, il persistere nel tempo, e quindi è l’opposto del sostantivo “provvisorietà”. Ma in matematica indica il principio delle proprietà formali per il quale, ogni volta che si amplia un insieme numerico (quando si passa, per esempio, dai numeri interi ai numeri razionali), si conservano le principali proprietà delle operazioni. Ed è proprio quel che accade nel fare teatro di Armando Punzo. Così, “La permanenza”, primo capitolo del nuovo progetto “Atlantis”, contiene non trascurabili elementi di “Naturae”, l’ultimo capitolo - presentato a giugno in apertura del cinquantunesimo Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale di Venezia e durante il quale è stato attribuito a Punzo il Leone d’Oro alla carriera - di un precedente progetto che ha implicato una ricerca durata ben otto anni e ha prodotto, dopo l’”ouverture” del 2019, i quattro quadri “La vita mancata” (2020), “La valle dell’innocenza” (2020), “La valle dell’annientamento” (2021) e, appunto, “La valle della permanenza” (2022). E, al di là dei loro pur alti valori contenutistici e formali, questi progetti (compreso, dunque, lo spettacolo di cui parliamo) s’impongono perché costituiscono uno specchio fedele della stessa vicenda biografica di Punzo. Come Orazio, Armando Punzo, nato nella minuscola Cercola, ha “spiegato ali maggiori del nido”. E quelle ali prima lo hanno portato in un nido ancora più angusto, il carcere di Volterra, e poi gli hanno consentito, partendo proprio dall’angustia del secondo nido, di spiccare il volo verso la fama, alla testa dei meravigliosi attori-detenuti dell’ormai celebre Compagnia della Fortezza. Torniamo, perciò, alla dialettica tra il “piccolo” e il “grande” a cui ho accennato in apertura come all’elemento fondante e del progetto “Atlantis” in generale e dello spettacolo “La permanenza” in particolare. Per riassumere, il teatro di Armando Punzo si pone come un viaggio che è, puramente e semplicemente, il viaggio della vita: un viaggio che non ha un inizio e una fine dati per sempre, ma è tale che, in qualsiasi momento, l’inizio può essere la fine e la fine Regista l’inizio. Ed è per questo che ne “La permanenza”, come Punzo ancora scrive nelle sue note di regia, “Il tema è il tema che non c’è. Non quello già dato, che già conosciamo, non i temi predefiniti dai bandi nazionali ed europei, non quelli socialmente e politicamente corretti, utili alla moda, ma quello nuovo e impensabile che possiamo scoprire nel nostro viaggio creativo. L’uomo ideale è sempre presente. La ricerca della possibile perfezione nella natura umana è la luce verso cui orientarci”. Insomma, l’”Atlantis” di Punzo è l’Itaca di Kavafis: non è importante Itaca, che forse non esiste nemmeno, ma il viaggio che si compie per raggiungerla, per raggiungere, cioè, la coscienza di sé e del proprio posto nel mondo. E bisogna che quel viaggio sia lungo, e che sappia accogliere tutte le esperienze e gli incontri possibili. Del resto, s’identifica con quello di Punzo il mio stesso viaggio nel suo universo in quanto spettatore di professione. Ho visto “Naturae” all’Arsenale di Venezia, nell’ora di Cardarelli: “quando di sera, simile ad un fiore / che marcisce, la grande luce / si va sfacendo e muore”. E ho visto “La permanenza” - già, la fine che diventa l’inizio, il “grande” che cede il passo al “piccolo” - dentro il carcere di Volterra, nell’ora pomeridiana di Borges che “sta per dire qualcosa” ma “non la dice mai o forse la dice un’infinità di volte e noi non la capiamo”. Voglio intendere che “La permanenza”, annunciato ufficialmente come spettacolo, nel suo farsi nega tutto ciò che di solito gli spettacoli di oggi dispensano a piene mani: il racconto, la recitazione imprigionata nella pura tecnica, l’intrattenimento soporifero. E, invece, propone allo spettatore una sfida inesausta e tremenda, appunto quella di capire quanto non viene detto o viene detto infinitamente proprio per rimarcare la nostra incapacità di capire. In altri termini, anche agli spettatori tocca un viaggio, esattamente fisico oltre che mentale. Partono tutti insieme dal cortile destinato all’ora d’aria dei detenuti. E poi si sparpagliano, confusi coi detenuti medesimi che gli porgono citazioni vertiginose, domande intrise di dubbio, grumi di pensieri migranti come uccelli di passo. Ognuno di loro si fa la sua personale “ora d’aria”. Entrano a caso in stanze che diventano, così, gli “empori fenici” in cui Punzo - esclamando a un certo punto: “I venti non soffiano mai in linea retta” - consiglia ai viaggiatori propri “belle mercanzie” come ai suoi il Greco d’Alessandria. A me è capitato di entrare in una stanza quasi completamente tappezzata di specchi e nella quale imperversava, un po’ dappertutto, la parola “hybris”. Ora, se, per concludere, debbo trovare per quest’evento un senso riassuntivo, posso trovarlo - ed ovviamente, dato il contesto in cui l’evento si è determinato - nei versi di quel Nazim Hikmet che visse poco più di sessant’anni dei quali molti trascorsi in carcere perché, comunista, ebbe complessivamente condanne per 56 anni. Scrisse: “La vita non è uno scherzo. / Prendila sul serio / come fa lo scoiattolo, ad esempio, / senza aspettarti nulla / dal di fuori o nell’al di là. / Non avrai altro da fare che vivere”. Rebibbia Rhapsody di Mattia Feltri La Stampa, 4 agosto 2023 La memoria è dissenterica: non trattiene più nulla. Ma io ho fra le mani un libriccino di cui non mi sono scordato: si chiama Rebibbia Rhapsody, è uscito nel 1996 per Stampa Alternativa, casa editrice di sinistra, scritto da Pablo Echaurren, pittore e scrittore che fu in Lotta continua, con Valerio Fioravanti, terrorista nero condannato per la strage di Bologna. Echaurren aveva conosciuto Fioravanti a Rebibbia quando Gianni Borgna, assessore della giunta di sinistra di Francesco Rutelli, gli propose di coinvolgere i detenuti in un progetto artistico. Dopo la condanna a Fioravanti, in un’intervista a Letizia Paolozzi sull’Unità, Echaurren raccontò che gli venne da piangere. Parole che ha pagato, in molti gli hanno tolto il saluto. Ma in seguito nacque un comitato - “E se fossero innocenti?”, e cioè Fioravanti e sua moglie Francesca Mambro - di cui facevano parte, fra gli altri, Liliana Cavani, Franca Chiaromonte, Ersilia Salvato, Luigi Manconi, Sandro Curzi. Non so se a Giorgia Meloni questi nomi dicano qualcosa, quando rifiuta l’antifascismo per un confusissimo senso di rivalsa, o a Elly Schlein, quando rifiuta ogni revisionismo (la storia è revisionista oppure non è). Non sto parlando della verità processuale di Bologna, sto parlando, e riprendo Manconi nella postfazione di quel libriccino, di un tempo in cui il discrimine fra destra e sinistra si era civilizzato. Invece di spararsi ci si parlava. O si scrivevano i libri insieme, si riscriveva la storia. Ci provarono tanti altri: Walter Veltroni, Luciano Violante, Pinuccio Tatarella. Anche oggi non ci si spara, ma solo perché la tragedia ha ceduto il passo alla commedia. La bugia spensierata di Michele Serra La Repubblica, 4 agosto 2023 Una ex concorrente del Grande Fratello, Guendalina, ha rilanciato la falsa notizia che il killer di Senago è stato evirato in carcere da altri detenuti. Sembra un titolo di Cuore, che si divertiva a shakerare i fatti di cronaca per rendere l’idea del guazzabuglio mediatico nel quale viviamo sprofondati. È invece una notizia vera (cioè: è vero che Guendalina ha diffuso quella falsa). Così come è vero che una ex concorrente del Grande Fratello, disponendo di seicentomila follower, arriva a un pubblico molto più numeroso dei quotidiani di carta più letti. La force de frappe delle varie Guendaline e Guendalini, che sono tanti, è tale che ha dovuto scomodarsi anche il Garante dei detenuti, assicurando che il barista Impagnatiello, divenuto celebre come “killer di Senago”, dispone ancora di tutti i suoi organi. Ammesso e concesso che, dei seicentomila follower in questione, solo la metà, o un terzo, o un quarto, abbia creduto all’evirazione in carcere, siamo comunque di fronte al consolidato trionfo della diceria e del sentito dire su ciò che, da giovani, chiamammo “informazione”, arrivando perfino a elaborare tre o quattro regole. Per esempio la verifica delle fonti. Che quelle regole siano poi state spesso disattese proprio da giornali e giornalisti è un fatto. Triste ma innegabile. La differenza, molto rilevante, è che il giornalista ballista sa di esserlo. Ovvero, è in grado di valutare la differenza, tecnica e forse anche etica, tra verità e menzogna. I nuovi opinion maker, a parte qualche manipolatore consapevole, invece quella differenza non la conoscono. Siamo nell’evo della bugia spensierata. La campagna anti-reddito di cittadinanza non poteva che finire malissimo di Antonio Lenzi Il Manifesto, 4 agosto 2023 Se anche partisse davvero a settembre la piattaforma prevista dal governo, ci sarebbe stato bisogno di un lavoro di formazione e di armonizzazione dei sistemi informatici. Con il decreto lavoro il governo Meloni si riprometteva, tra le altre cose, di rivedere in maniera piuttosto consistente il reddito di cittadinanza promettendo di “essere pronto” a costruire un sistema diverso che avrebbe supportato i percettori di reddito nel trovare un lavoro. Nel far questo la destra decideva di dividere la platea in due categorie: i “non occupabili”, cioè tutti coloro che avevano all’interno del proprio nucleo familiare un minore, un over 60 o un invalido, e gli “occupabili” cioè tutti quelli che non rientravano nella precedente casistica. Per i primi la fruizione del reddito di cittadinanza sarebbe continuata fino a dicembre 2023 per poi, successivamente, trasformarsi in Assegno di inclusione, mentre ai secondi si garantivano solo sette mesi di reddito di cittadinanza con la possibilità, a settembre, di poter richiedere il nuovo strumento ideato e cioè il Supporto per la formazione e il lavoro. Punto fondamentale di questa strategia era la creazione di una nuova piattaforma nazionale (SIISL) costruita dall’Inps che avrebbe dovuto gestire entrambe le platee e su cui avrebbero dovuto operare sia i Centri per l’impiego che gli assistenti sociali dei Comuni. DA MAGGIO sono passati diversi mesi e, nonostante le promesse, messe nero su bianco nel Decreto lavoro, poi trasformato in legge, nulla è stato fatto. Della piattaforma SIISL i contorni sono vaghi e di come e quando sarà realizzata si sa poco; i decreti attuativi, che dovevano essere prodotti entro sessanta giorni, latitano; il potenziamento dei Centri per l’impiego di competenza regionale e su cui sono stanziati i fondi fin dal governo Conte uno ha prodotto poco meno della metà delle assunzioni previste; la vertenza dei Navigator, a cui né il governo né le regioni hanno voluto rinnovare i contratti, nonostante i loro profili professionali sarebbero utilissimi in questo momento, appare ferma al palo; lo stesso progetto Gol (Garanzia occupabilità lavoratori) inserito all’interno del Pnrr mostra diverse debolezze a partire proprio dal mitologico coinvolgimento dei privati i quali faticano a gestire numeri e utenza assai complessi. Se anche la piattaforma SIISL partisse effettivamente, a settembre, senza intoppi, entro quella data ci sarebbe stato bisogno di un lungo lavoro di formazione per gli operatori per sfruttarla appieno. E di un coinvolgimento degli enti formatori per costruire e condividere corsi di formazione realmente professionalizzanti, oltre a un regime di interoperabilità con i venti sistemi informatici regionali attualmente completamente assente. Grossi dubbi, poi, riguardano la possibilità di accesso dei percettori d reddito di cittadinanza che, giova ricordarlo, per il 72% possiedono la terza media, hanno scarse competenze informatiche e sono lontani dal mondo del lavoro da più di tre anni. Di tutto questo il Governo avrebbe dovuto occuparsi e invece l’unico cenno di vita è stato un messaggio dell’Inps inviato a diverse migliaia di percettori reddito il 28 luglio il quale l’Istituto informava che dal 1 agosto non riceveranno più alcuna forma di sussidio con un inciso finale: “In attesa eventuale presa in carico da parte dei servizi sociali”. Una frase poco chiara che ha generato, comprensibilmente, grande confusione tra i percettori di reddito. Il significato della parte finale del messaggio è che, per taluni casi di particolare fragilità multidimensionale, è possibile far transitare il percettore “occupabile” dalle liste dei Centri per l’impiego ai servizi sociali comunali garantendo, così, la continuazione del sussidio fino a fine anno. Il vero problema è che una strategia di comunicazione doveva essere messa a punto prima, a maggio, e non a ridosso della scadenza dei termini. Il risultato di questo disastro annunciato e facilmente prevedibile è stato l’assalto agli uffici comunali e ai Centri per l’impiego. Il governo, così, scarica la responsabilità di scelte politiche discutibili sui lavoratori degli enti locali in un periodo dell’anno particolarmente critico. Da più parti si comincia a comprendere che un taglio netto e non graduale di una misura come il reddito di cittadinanza che, in particolare in alcune zone del Meridione, è risultata di fondamentale importanza è stata una scelta feroce. Purtroppo questo è semplicemente il risultato di una campagna martellante contro il reddito di cittadinanza che non è mai uscita dall’ideologia contrapposta. Incapace com’è stata di analizzare, con imparzialità, ciò che si poteva migliorare senza stravolgere uno strumento che, pur con i suoi difetti, andava incontro alla parte più debole della società. Una misura sociale che, di questi tempi, tutte le forze politiche dovrebbero mettere in cima ai loro programmi elettorali per non lasciare indietro nessuno. Reddito di cittadinanza, in 500 mila lo perderanno. Calderone: “Non ha funzionato” di Mario Sensini Corriere della Sera, 4 agosto 2023 Alla fine saranno quasi 500 mila i nuclei familiari che a dicembre 2022 percepivano il Reddito di cittadinanza e che, dal primo gennaio 2024, non potranno accedere ai benefici dell’Assegno di inserimento, che lo sostituirà. Le stime sono dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, indicano un risparmio per le casse dello Stato di 2,5 miliardi, e quadrano con i dati forniti ieri dalla commissaria dell’Inps, Micaela Gelera, che ha anche fatto ammenda sulle modalità con cui l’istituto, con un sms, ha comunicato a fine luglio la sospensione dell’assegno a 160 mila nuclei familiari (117 mila composti da una sola persona), che ha scatenato un mare di polemiche. “Il messaggio avrebbe dovuto essere più accurato nei contenuti e nella forma” ha detto la commissaria dell’Inps, che si appresta a comunicare la sospensione, entro la fine dell’anno,ad altri 80 mila assistiti. Tra gennaio e giugno, sono già usciti dai benefici del Reddito 186 mila nuclei familiari. Ai 450 mila nuclei che quest’anno chiuderanno con il Reddito, si sommano altre 100 mila famiglie che saranno escluse perché l’Assegno di inclusione ha limiti di reddito più bassi per l’accesso. In compenso, potranno beneficiare del nuovo meccanismo 50 mila nuclei familiari stranieri, ora esclusi, grazie alla riduzione da 10 a 5 anni del requisito della residenza. Il nuovo Assegno costerà 6,1 miliardi di euro l’anno, e sarà anche un po’ più generoso per gli ex percettori del reddito, in particolare per i nuclei dove ci sono disabili, cui andranno 200 milioni di euro in più. Dal momento della sua istituzione allo scorso mese di giugno il Reddito è costato 31,5 miliardi di euro, ma secondo la ministra del Lavoro Marina Calderone, “non ha funzionato e dopo oltre 3 anni di operatività, le critiche convergono sulla sua inefficacia come misura di politica attiva”. Senza contare che in quattro anni sono stati scoperti 35 mila cittadini che hanno ottenuto indebitamente il Reddito per un importo complessivo di 506 milioni di euro. “La risposta alla povertà è il lavoro” ha aggiunto la ministra ieri in Senato, anche se i risultati finora sono scarsi. Secondo l’Anpal, a fine giugno, solo il 28,4% di tutti i beneficiari del Reddito, titolari della Naspi e altri ex disoccupati, avevano trovato un lavoro. Dei 257 mila titolari del solo Reddito iscritti al programma Gol per la formazione al lavoro, solo 108 mila sono stati coinvolti in misure attive. E dei 145 mila che erano stati presi in carico dai centri per l’impiego entro fine 2022, a fine giugno, sei mesi dopo, ne lavoravano appena 20 mila, il 14%. Il meccanismo di passaggio dal Reddito all’Assegno, che presuppone il dirottamento di altre decine di migliaia di cittadini verso i centri per l’impiego o ai servizi sociali dei comuni, per giunta, non è ancora operativo, perché mancano i decreti per l’avvio della nuova piattaforma telematica, che secondo il ministro saranno pronti a giorni. Mentre il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, invita “a non soffiare sul fuoco”, l’opposizione continua a protestare. Il governo non fa niente per evitare una bomba sociale dice il leader del M5S Giuseppe Conte, che prevede “un autunno caldo” e chiama la minoranza a fare fronte comune. Quello della maggioranza, sul Reddito, è compattissimo. Un po’ meno sulle modifiche al Pnrr, dove le Regioni, comprese quelle del Nord, vogliono certezze sul finanziamento dei progetti usciti dal Piano. La prossima settimana a Roma ci sarà un nuovo incontro col governo. Migranti. Il racconto di Medici senza frontiere della sfida quotidiana alla frontiera franco-italiana Corriere della Sera, 4 agosto 2023 Il rapporto “Vietato passare” sulle condizioni di vita dei migranti respinti dalla polizia francese. Uomini, donne, bambini e persone vulnerabili bloccate alla frontiera franco-italiana. Sistematicamente respinte dalla polizia francese - talvolta con violenza, trattamenti inumani e temporanea privazione della libertà - le persone migranti in transito a Ventimiglia si ritrovano sul territorio italiano senza un riparo adeguato e con un accesso limitato all’assistenza sanitaria. Spesso mancano luoghi per trascorrere la notte, servizi igienici, cibo e acqua potabile. Medici Senza Frontiere, che da gennaio lavora a Ventimiglia con una clinica mobile per fornire assistenza sanitaria alle persone migranti, pubblica oggi il rapporto “Vietato Passare - La sfida quotidiana delle persone in transito respinte e bloccate alla frontiera franco-italiana”. Tra i 320 pazienti visitati da MSF tra febbraio e giugno 2023 e le 684 persone in transito che hanno partecipato ad attività di promozione della salute e orientamento ai servizi socio-sanitari, il 79,8% ha dichiarato di aver tentato più di una volta di raggiungere la Francia e di essere stato respinto. Persone che dopo aver lasciato il loro paese di origine per sfuggire a violenze, morte, soprusi e povertà e dopo aver affrontato viaggi estremamente pericolosi, si ritrovano nuovamente esposte a violenze, umiliazioni e abusi nel cuore dell’Unione Europea. Sul territorio di Ventimiglia, d’altro canto, le persone in transito hanno un accesso estremamente limitato ad alloggi adeguati, all’assistenza sanitaria, all’acqua potabile o ai servizi igienici, con conseguenze dirette sulle loro condizioni di salute. Circa i due terzi dei pazienti visitati da MSF, hanno riportato problemi dermatologici, infezioni respiratorie e gastrointestinali, ferite e dolori articolari - condizioni causate o aggravate dalla vita in strada - mentre 14 soffrivano di malattie croniche come diabete e malattie cardiovascolari. In base alle testimonianze e ai dati medici raccolti, Medici Senza Frontiere ha chiesto all’Italia, alla Francia e agli stati europei di attuare tutte le misure necessarie per garantire dignità e protezione alle persone vulnerabili in transito. Migranti. Sgomberare i richiedenti asilo, “così magari andranno altrove” di Marinella Salvi Il Manifesto, 4 agosto 2023 A Trieste il prefetto Signoriello scavalca a destra anche l’assessore leghista alla sicurezza. Trecento pakistani, siriani e afghani devono andarsene dall’ex Silos, ormai oltre la fatiscenza. Riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza sulla situazione delle centinaia di richiedenti asilo che dormono sotto le arcate dell’ex Silos, di fianco alla stazione ferroviaria. Dura da anni ma improvvisamente la situazione è diventata “urgente” e financo “intollerabile”. Macerie, cumuli di immondizia, insetti, topi e serpenti. Piccole tende, coperte e stuoie, stracci e cartoni: lì ogni notte, cercano rifugio più di 300 ragazzi pakistani, afghani, siriani, che hanno presentato regolare richiesta di protezione internazionale e aspettano i tempi imprevedibili di una risposta. No servizi igienici, no acqua, solo muri fatiscenti. Per l’assessore regionale alla sicurezza, il leghista Pierpaolo Roberti, al Silos si è creata una situazione vergognosa e sgomberare l’area servirà almeno a garantire “il decoro”. E dopo lo sgombero? “Non ci sono soluzioni alternative se non in tempi lunghi”. Il suo pensiero è noto, ed evidentemente fototrappole e respingimenti informali non sono sufficienti a fermare il flusso di “clandestini” che nasconde sicuramente anche “sfaccendati e delinquenti”. Al Silos “una presenza inaccettabile dal punto di vista della sicurezza e della salute pubblica” chiosa. A Trieste si è in “emergenza”, anche se da almeno quarant’anni questa è la porta di ingresso dalla rotta balcanica. Stavolta parla anche il prefetto, Pietro Signoriello: i posti di prima accoglienza a Trieste sono già sovraccarichi e non è possibile immaginarne altri, il sistema nazionale di accoglienza è saturo e dunque, non potendo tollerare il degrado in cui versa il Silos, resta sul tavolo solo l’opzione sgombero. “Evidentemente Trieste più di questo non riesce a fare in termini di centri di accoglienza. Quindi magari queste persone potrebbero immaginare di rivolgere l’attenzione ad altri territori”, dice. Di una “pericolosa situazione di sbando istituzionale” parla il Consorzio italiano di Solidarietà che rispedisce al mittente l’accusa fatta ai migranti di rappresentare una situazione di illegalità: “Il prefetto dimentica che i richiedenti asilo occupano l’area perché in stato di necessità e che la condotta illegittima è interamente da ricondurre alle inadempienze dell’Ente da lui presieduto”. Secondo il prefetto i richiedenti asilo abbandonati in strada dovrebbero disperdersi altrove… Il comunicato di Ics è perentorio: “Si tratta di affermazioni irricevibili da chi avrebbe proprio il compito di fare rispettare la legalità attraverso la tempestiva collocazione, anche temporanea, dei richiedenti asilo. Equivale ad affermare che la legge è, e continuerà ad essere pacificamente violata”. La corsa al riarmo non garantisce più posti di lavoro di Futura d’Aprile Il Domani, 4 agosto 2023 La guerra in Ucraina sta generando ingenti profitti per l’industria della difesa, con i governi disposti finalmente ad aumentare la percentuale di Pil dedicata al settore militare, ma le ricadute in termini occupazionali non sono altrettanto elevate. I paesi dell’est Europa rappresentano bene questa dinamica. Le aziende di Polonia e Repubblica Ceca hanno risposto rapidamente alle richieste dell’Ucraina, ma faticano a trovare forza lavoro necessaria per rafforzare e diversificare le loro linee produttive. Alla prova dei fatti, l’importanza del settore bellico in termini occupazionali e di Pil resta più un mito che una realtà concreta mentre i guadagni delle grandi aziende continuano ad aumentare. L’est Europa è stato a lungo il centro nevralgico della produzione bellica dell’Unione sovietica, prima che la fine della Guerra fredda riducesse la portata di questo settore. Con lo scoppio del conflitto in Ucraina, però, i paesi dell’Europa orientale sono tornati a investire nella produzione di armi e armamenti, aumentando anche la loro importanza a livello geopolitico. Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia si sono lanciate in una corsa al riarmo che prevede nuovi acquisti e l’ampliamento delle capacità produttive, grazie anche all’apertura di nuovi siti industriali e la diversificazione delle linee di produzione già esistenti, con importanti ricadute occupazionali. Questo quantomeno è il quadro tratteggiato negli ultimi mesi dai manager delle grandi industrie della Difesa est europee, ma la realtà non è esattamente così. Come riportato da Reuters, le aziende polacche e ceche stanno lanciando o espandendo programmi di assunzione e formazione per aumentare il loro organico e la produzione bellica locale, promuovendo anche il ritorno in patria di forza lavoro direttasi sempre più spesso verso l’estero. L’obiettivo è duplice: soddisfare le richieste dell’Ucraina e rafforzare le proprie capacità produttive, così da rispondere meglio alle esigenze nazionali e ampliare allo steso tempo la propria fetta di mercato estero. L’export resta infatti la maggiore fonte di profitto per il settore della difesa e la guerra ha dato il via a una corsa al riarmo che ha fatto aumentare esponenzialmente i ricavi, con prospettive future decisamente allettanti. La crescita dei guadagni per le aziende però non ha comportato vantaggi altrettanto elevanti in termini occupazionali. Le compagnie polacche e ceche hanno difficoltà nel trovare forza lavoro, in particolare tra le fasce di popolazione più giovane e maggiormente al passo con i continui avanzamenti tecnologici. In Repubblica ceca il governo ha persino pensato di impiegare i rifugiati ucraini per sopperire alla mancanza di lavoratori, mentre l’azienda statale polacca PGZ sta puntando su campagne promozionali tramite social media e sul rientro dall’estero - soprattutto dalla Scandinavia - della forza lavoro emigrata. I risultati però tardano ad arrivare. Peso geopolitico - La mancata espansione dell’industria della Difesa in tempi rapidi ha delle ricadute anche in termini geopolitici per i paesi dell’est, in particolare per la Polonia. Varsavia si è impegnata a investire il 4 per cento del Pil in spese militari e ha lanciato una vera e propria operazione di re-branding per presentarsi come una nuova potenza militare. Tra aumento del personale militare e nuovi programmi di acquisto, la Polonia è il paese europeo che più di tutti sembra aver preso sul serio la richiesta della Nato di aumentare le proprie capacità di difesa, acquistando maggiore importanza anche agli occhi di Washington. Il progetto polacco però ha delle falle. L’industria nazionale non è in grado di rispondere alle esigenze delle forze armate e la difficoltà nel trovare forza lavoro continuerà a limitarne le capacità produttive, oltre che le prospettive di adeguamento agli standard Nato. L’est Europa si è rivelato strategico nel riarmo dell’Ucraina perché disponeva di armi, armamenti e munizioni dell’era sovietica, ma in futuro dovrà ammodernare la propria produzione se vorrà continuare ad espandersi nel mercato estero. Non potendo fare affidamento sull’industria nazionale, il governo polacco si è dovuto rivolgere ai partner stranieri, comprando materiale militare da Usa, Corea del Sud e Turchia. Le capacità di acquisto di Varsavia però sono limitate a causa dell’inflazione e l’aver soddisfatto le proprie esigenze rivolgendosi al mercato estero avrà delle ripercussioni interne. Le imprese locali difficilmente potranno contare su contratti massicci da parte del governo e anche le prospettive a livello europeo sono meno positive di quanto sperato. L’Ue ha messo a disposizione diversi milioni per rendere più efficiente e moderno il settore industriale bellico, ma la mancanza di coordinamento, le difficoltà nel rispondere in tempi rapidi alle esigenze più impellenti e la scelta di diversi governi di acquistare all’estero stanno minando gli sforzi di Bruxelles. Alla prova dei fatti, l’Eldorado della difesa europea si dimostra ancora una volta più un mito che una realtà concreta. Soprattutto in termini occupazionali. Sicilia e Sardegna, più industrie belliche sulle isole. Ma la crescita resta un miraggio di Futura d’Aprile Il Domani, 4 agosto 2023 L’esecutivo vuole spostare in Sicilia la produzione dei Leopard 2. In Sardegna c’è la Rwm. Ma la narrazione secondo cui il comparto è una fonte di ricchezza non corrisponde alla realtà. Sicilia e Sardegna sono le regioni più militarizzate d’Italia tra basi e poligoni militari, ma per il governo non è abbastanza. Ultimamente si sta assistendo a un rafforzamento anche del settore industriale bellico, presentato ancora una volta come la soluzione migliore per il rilancio dell’economia. Una narrazione che non regge alla prova dei fatti, ma che il governo attuale - in linea con quelli precedenti - utilizza per giustificare l’aumento delle spese militari e la scelta di puntare sull’industria bellica a scapito di quella civile. Basi, poligoni e industrie - Quando si parla di basi militari in Sicilia il primo nome che viene in mente è quello di Sigonella, ma il loro numero sale se si considerano anche quelle messe a disposizione in base agli accordi dell’Alleanza atlantica e le infrastrutture concesse, sempre in uso, agli Stati Uniti. Un quadro non molto diverso da quello che troviamo in Sardegna, in cui quasi 38mila ettari di territorio sono militarizzati. Il 65 per cento del demanio militare italiano si trova infatti sull’isola, compresi i poligoni di Teulada e Salto di Quirra, i più grandi d’Europa. La militarizzazione di Sicilia e Sardegna comporta problemi ambientali enormi e l’interdizione di intere aree, con conseguenze negative sulle attività locali e sull’economia delle due isole. Eppure per il governo la soluzione migliore per aumentare i posti di lavoro sembra essere proprio quella militare, in continuità - almeno in parte - con gli esecutivi precedenti. A cominciare dai cantieri navali di Palermo. A gennaio, nello stabilimento di Fincantieri è stata varata la Al Fulk, un’unità anfibia realizzata per la Marina del Qatar nonché la prima nave completa uscita dai cantieri del capoluogo siciliano dal 2009 a oggi. Da metà maggio lo stabilimento ospita anche la portaerei italiana Cavour, arrivata da Taranto per dei lavori di manutenzione. Ma il filone militare dei cantieri palermitani non si ferma qui: a dicembre dovrebbe arrivare anche la Trieste, sempre per lavori di manutenzione. Il destino della cantieristica di Palermo però può essere ancora riscritto. Fincantieri ha una forte vocazione militare, ma la regione Sicilia punta anche sulla costruzione e l’ammodernamento dei traghetti, settore civile che garantirebbe ingenti ritorni economici per l’economia locale. L’isola però potrebbe anche ospitare a breve il sito industriale in cui verranno costruiti i carri armati tedeschi Leopard 2 che il governo ha intenzione di acquistare da Krauss-Maffei Wegmann e Rheinmetall. L’accordo, il cui valore oscillerebbe tra i 4 e i 6 miliardi di euro, fa parte del programma di riarmo avviato in risposta alla guerra in Ucraina e con cui l’esecutivo punta a rafforzare le forze corazzate italiane. Al momento la sede di realizzazione dei Leopard 2 non è stata ancora decisa, ma l’attenzione si è diretta verso l’area dell’ex Fiat di Termini Imerese e più in generale sulla Sicilia, che può contare sui sgravi fiscali e incentivi per i nuovi insediamenti garantiti dalla Zona economica speciale unica del sud. La Sardegna - L’idea di usare l’industria militare per risollevare le aree più povere del paese non è certo nuova. In Sardegna, nella zona del Sulcis, questo compito è stato affidato alla RWM, branca italiana della tedesca Rheinmetall. La fabbrica di bombe dà lavoro a circa 300 persone e solo di recente sta cercando di aumentare il numero di impiegati grazie alle nuove commesse garantitegli dalla guerra, al ripristino dell’export verso gli Emirati Arabi voluto da Giorgia Meloni e all’accordo siglato con l’israeliana UVision. L’azienda fabbrica munizioni per i cannoni semoventi e per i Leopard 2 usati da Kiev, ma si occupa adesso anche della realizzazione di alcune componenti dei droni kamikaze Hero 30, in dotazione anche alle forze armate italiane. Oltre all’Italia, altri due stati europei hanno scelto di acquistare i velivoli senza pilota israeliani e tra questi vi è l’Ungheria, unico paese dell’Ue a non aver preso una posizione netta contro la Russia ma che sta ugualmente usando la guerra in Ucraina come giustificazione per la corsa al riarmo. Una sola azienda però non è sufficiente per risollevare le sorti di un territorio particolarmente povero come quello del Sulcis-Iglesiente. La Rwm tra l’altro ha subìto un danno considerevole dallo stop all’export verso Emirati e Arabia Saudita imposto dal governo Conte II e al momento deve fare i conti con una sentenza del Consiglio di stato che ha sancito la non regolarità dell’ampliamento dello stabilimento. Un’occasione mancata - In generale, puntare sul settore della Difesa per il rilancio dell’economia è una scommessa persa. Il settore bellico-industriale, secondo i dati del Centro studi internazionali relativi al 2019, raggruppa lo 0,21 per cento (1 per cento nel caso dell’indotto) di tutta la forza lavoro italiana, numeri lontani dalla narrazione di comparto strategico costantemente promossa da governo e aziende. A confermarlo è anche il sindacalista Gianni Alioti, che analizzando per Archivio Disarmo gli ultimi 40 anni di sviluppo dell’industria aeronautica, sottolinea come il settore sia passato da 579mila a poco più di 537mila occupati, nonostante i profitti delle stesse imprese siano più che triplicati. Mentre i lavoratori del settore militare diminuivano, sono invece cresciuti quelli del comparto civile, passati da 197mila ai quasi 363mila nel 2022. A questo processo, però, l’Italia ha partecipato ben poco. Mentre in Francia, Germania e Spagna, la crescita del settore civile ha compensato il calo degli occupati in quello militare, in Italia si è perso il 50 per cento di posti di lavoro nel settore aeronautico militare a fronte di una crescita molto bassa nel campo dell’aeronautica civile. Anche questo governo però sembra puntare sul comparto militare per risolvere i problemi economici e occupazionali dell’Italia, nonostante i dati e una legge - la 185 del 1990 - che prevede una riconversione delle industrie belliche a oggi scarsamente attuata. Grecia. Sopravvissuti smentiscono le autorità: serve un’indagine sul naufragio di Pylos di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 agosto 2023 Tra il 4 e il 13 luglio una delegazione di Amnesty International e Human Rights Watch ha visitato la Grecia per svolgere ricerche sulle circostanze del naufragio del 14 giugno al largo di Pylos, costato la vita a oltre 600 persone e su quanto si stava facendo per accertare le responsabilità. Le prime osservazioni della delegazione hanno confermato le preoccupazioni espresse da varie altre fonti sulla dinamica del naufragio. In un incontro con la delegazione, alti funzionari della Guardia costiera greca hanno dichiarato che le persone a bordo del peschereccio si erano limitate a chiedere cibo e acqua e avevano espresso l’intenzione di proseguire la navigazione verso l’Italia. L’imbarcazione della Guardia costiera aveva accostato al peschereccio utilizzando una corda per capire se chi era a bordo volesse aiuto. Dopo i primi “negoziati”, la corda era stata lanciata indietro e il peschereccio aveva ripreso la navigazione. Invece, molti dei 104 sopravvissuti hanno concordemente dichiarato che un’imbarcazione della Guardia costiera giunta sul posto attaccò una corda al peschereccio “Adriana”, con 750 persone a bordo, e iniziò a trainarlo, facendolo prima oscillare e poi inabissare. Hanno aggiunto che le persone a bordo avevano chiesto di essere soccorse e che, ore prima del naufragio, avevano sollecitato aiuto con un telefono satellitare. Le profonde discrepanze tra le testimonianze dei sopravvissuti e la versione fornita dalle autorità greche rendono urgentemente necessaria, secondo Amnesty International e Human Rights Watch, un’indagine efficace, indipendente e imparziale. Le autorità greche sono note per il mancato accertamento delle responsabilità per i respingimenti, violenti e illegali, alle loro frontiere. Ciò solleva preoccupazioni rispetto alla loro capacità e volontà di svolgere indagini efficaci e indipendenti sul naufragio di Pylos. Anche in occasione del naufragio del 2014 presso l’isola di Farmakonisi, i sopravvissuti avevano accusato la Guardia costiera greca di aver fatto manovre azzardate per trainare la loro imbarcazione verso le acque della Turchia. Nel 2022 la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Grecia per avere mal gestito le operazioni di soccorso e per non aver indagato adeguatamente, in particolare riguardo alla gestione delle testimonianze dei sopravvissuti. Parallelamente all’indagine greca, l’Ombudsman dell’Unione europea ha annunciato l’intenzione di aprire un’indagine sul ruolo di Frontex nelle attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, compreso il naufragio del peschereccio “Adriana”. Sono in gioco importanti aspetti del ruolo, delle prassi e dei protocolli dell’agenzia e riguardo a cosa questa abbia fatto per rispettare i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale e delle leggi dell’Unione europea riguardo a questo e ad altri naufragi. Egitto. Da 52 giorni non si hanno notizie di un’attivista convocato da agenti della sicurezza di Alessandra Fabbretti La Repubblica, 4 agosto 2023 L’ultima pista conduce agli uffici dei servizi di intelligence, che la Procura di Roma ha accusato della morte di Giulio Regeni. Un suo amico: “È forse una delle tante vittime delle sparizioni forzate”. “Ahmed Suleiman, noto come “Gika”, è scomparso 52 giorni fa, dopo il suo ultimo colloquio presso il quartier generale della National security agency (Nsa). La famiglia tramite l’avvocato attende notizie: “Speriamo che non lo stiano torturando”, hanno fatto sapere i congiunti. All’Agenzia Dire l’attivista Sayed Elmansy racconta la storia del suo amico, scomparso al Cairo da quasi due mesi. L’ultima pista conduce agli uffici dei servizi di intelligence, che la Procura di Roma ha accusato della morte del ricercatore Giulio Regeni. “Ho conosciuto Gika in carcere qualche anno fa - continua Elmansy - abbiamo vissuto per 17 mesi nella stessa cella, tre dei quali in condizione di sparizione forzata”. Dissidenti scomparsi incarcerati arbitrariamente. Da tempo associazioni egiziane ed internazionali tra cui Human Rights Watch e Amnesty International denunciano la pratica delle autorità egiziane - soprattutto l’Nsa - di arrestare e incarcerare arbitrariamente dissidenti e attivisti, che restano dietro le sbarre anche per anni in attesa di giudizio. Le autorità non forniscono dati ufficiali ma secondo le organizzazioni i prigionieri politici e di coscienza sarebbero circa 60mila, alcune addirittura calcolano 100mila. Spesso, dopo l’arresto, le famiglie non vengono informate del destino dei loro cari. Nel migliore dei casi, vengono a conoscenza del luogo in cui sono detenuti dopo giorni o settimane, ma ci sono anche storie di persone di cui si è persa ogni traccia. Una pagina Facebook con decine di foto. A confermare questa denuncia c’è la campagna “Stop Forced Disappearance”, sulla cui pagina Facebook è possibile trovare decine di foto che riportano i nomi e le storie di chi in Egitto è stato vittima di sparizione forzata. Tra loro ci sono oppositori politici, attivisti, accademici, ma anche cittadini comuni che hanno “commesso l’errore” di criticare il regime o prendere parte a un corteo, come ha fatto Gika, quando un giorno del 2015 l’allora 18enne decide di prendere parte alle manifestazioni con cui al Cairo migliaia di cittadini cercavano di opporsi alla cessione delle isole egiziane di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita, da parte dell’esecutivo guidato dal generale Abdelfattah Al-Sisi. Gli arresti durante i cortei. Una decisione confermata poi nell’aprile del 2016, e letta da una parte dell’opinione pubblica come una mossa per suggellare l’alleanza con la potente monarchia del Golfo, in una fase di profonda crisi economica per l’Egitto. Elmansy prosegue: “Anch’io partecipai a quei cortei, tanta gente fu arrestata. Nei disordini mi ruppi una gamba”. Le cronache di quei giorni riferirono di cortei dispersi con violenza dalla polizia, che tentò di impedire l’accesso ai giornalisti. “Gika venne rilasciato dopo vari mesi- ricorda ancora Elmansy- ma insieme al rilascio fu comminata una multa di 100mila pound”, circa 3mila euro, in un paese in cui il salario medio si aggira intorno ai 9mila pound. “Non possedeva quella somma e così ha dovuto scontare altri tre mesi”. Ma la vicenda giudiziaria non si chiuse lì: nel corso degli anni gli agenti dell’Nsa arrestano e scarcerano il giovane varie volte. Infine, dopo l’ultima scarcerazione, il giudice impone l’obbligo di presentarsi presso gli uffici dell’Nsa una volta a settimana. Le condizioni orribili dietro le sbarre. “Ad ogni incontro - riferisce Elmansy - Gika veniva interrogato e poi minacciato di essere nuovamente arrestato. Lui ovviamente non voleva tornare dietro le sbarre, dove le condizioni di vita sono orribili”. Per questo secondo Elmansy “Gika aveva deciso da tempo di abbandonare ogni attività politica e si concentrava solo sugli studi e il tifo per la sua squadra di calcio, l’Ahly”. Ma questo non basta a convincere le autorità: “Le convocazioni sono proseguite”. Infine, il 13 giugno il 26enne si reca presso il quartier generale dell’Nsa per il colloquio settimanale, ma dopo quell’appuntamento “non è mai più tornato a casa. Da 52 giorni non abbiamo sue notizie”. Con la fedina penale sporca niente lavoro. L’amico riferisce che prima di uscire “Gika mi chiamò: era agitato. Trovava strano che lo avessero convocato di martedì, perché di solito gli incontri avvengono il venerdì”. Vedendo che non rincasava, la famiglia presentato denuncia ufficiale ma dall’Nsa “nessuna risposta”, dice Elmansy. L’attivista conclude: “Eravamo molto giovani quando abbiamo iniziato a protestare, unendoci ai cortei pacifici come molte altre persone. Non avevamo mai fatto attivismo e neanche le nostre famiglie. Abbiamo assistito a tanti arresti. Io sono finito dentro quattro volte. Ma anche se ti rilasciano, la tua fedina penale resta macchiata e trovare lavoro diventa quasi impossibile. Gika ha dovuto lasciare gli studi universitari e ultimamente non riusciva a farsi assumere da nessuna parte. Anche questa politica è illegale, perché condanna tantissimi giovani a una vita priva di opportunità” dice Elmansy, che conclude con un appello: “Raccontate la sua storia e aiutateci a riabbracciarlo. Il mondo deve sapere cosa succede in Egitto”. “Ci sono migliaia di storie come questa”. Ancora alla Dire una fonte interna alla Campagna Stop Forced Disappearance - che chiede di parlare in condizione di anonimato per ragioni di sicurezza - spiega: “Gika è finito in un meccanismo che conosciamo bene. Chiunque venga incarcerato una volta per aver contestato il governo sa che sarà arrestato di nuovo senza un’accusa reale. È una strategia per scoraggiare ogni voce contraria. Ci sono migliaia di storie come questa. Sappiamo anche di persone scomparse ormai da dieci anni”, ossia dal 2013, quando salì al potere il generale Al-Sisi. Stati Uniti. Giudici supremi, un potere senza fine di Carlo Baroni Corriere della Sera, 4 agosto 2023 I nove giudici della Corte Suprema conservano ancora un anacronistico mandato a vita. Sono re senza corona. Non hanno tutti i privilegi dei sovrani assoluti ma quasi lo stesso potere immenso. A cominciare dal mandato che dura una vita. Possono dimettersi, è vero (ma di solito restano al loro posto anche quando sono malati). Sono i nove giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti. Custodi dell’unica autorità a cui devono rendere conto: la Costituzione. Ma come gli arbitri che conoscono a menadito le regole del gioco possono sbagliare a fischiare un rigore o un fuorigioco. Senza nessuno a correggerli. Se non la propria coscienza. Che ci si augura sempre limpida. Non poterli mandare mai in pensione è stato motivo di forza per decenni, ora è fonte di debolezza per il Paese. L’aveva già capito Alexis de Tocqueville più di duecento anni fa quando scriveva profeticamente: “Il potere di questi giudici è illimitato, ma è un potere morale. Essi sono onnipotenti finché il popolo accetta di obbedire alla legge; non possono nulla quando la disprezza”. Negli ultimi quindici anni sono tre i giudici morti durante il loro mandato. Uno, William Renhquist, addirittura da presidente e già molto malato. Impensabile in qualunque altra parte del mondo. I Padri fondatori con Alexander Hamilton in testa rimossero il problema. L’età media tre secoli fa era molto più bassa di ora. I giudici supremi con le loro sentenze hanno disegnato l’America, spesso, anticipandone i cambiamenti. Senza alcuna sudditanza verso i presidenti che li hanno nominati. Perché l’inquilino della Casa Bianca un giorno o l’altro se ne dovrà andare, mentre loro restano. Ma qualcosa sta cambiando. In peggio. I giudici supremi sono diventati più vulnerabili ai desideri (ordini?) di chi li ha scelti. E tengono sempre meno conto di dove va l’America. La carica a vita rischia di trasformarsi in un boomerang pericoloso. E fa sempre più specie che nella nazione più avanzata sopravviva un retaggio così anacronistico.