Del detenuto rimane solo il corpo di Luigi Manconi La Repubblica, 3 agosto 2023 Sciopero della fame: Lo Stato e le istituzioni rinunciano a salvare chi si trova nella custodia dell’autorità pubblica. Lasciare che rimanga in balia di se stesso e della decadenza del corpo corrisponde a determinarne la morte. La questione della risposta istituzionale agli scioperi della fame messi in atto dai detenuti mi sembra molto importante: e non perché mi senta afflitto da estremismo garantista. È che il detenuto che digiuna per protesta è davvero ridotto a se stesso e alla sua forma corporea estrema e ultima. In altre parole, è rimasto solo il suo corpo. Come pensare dunque che lo Stato, qualunque sia il reato commesso, non faccia tutto il possibile per salvarlo? Come credere che si possa abbandonare quel corpo al suo destino? Non è vero che viene chiamata in causa tutta intera la responsabilità dello Stato? È quanto mi viene in mente leggendo le notizie relative a Domenico Porcelli. Questi ha 49 anni ed è nato a Bitonto, in provincia di Bari. Si trova detenuto dal 2018 e, da quattro anni, in regime di 41-bis nel carcere di Bancali, nei pressi di Sassari. Lo stesso istituto penitenziario dove Alfredo Cospito, militante anarchico sottoposto al 41-bis, mesi fa ha intrapreso un lungo sciopero della fame durato 182 giorni, poi interrotto in seguito alla decisione della Consulta di considerare costituzionalmente illegittimo il mancato riconoscimento delle attenuanti. Anche Porcelli sta portando avanti uno sciopero della fame: dal 28 aprile scorso il detenuto ha smesso di alimentarsi in segno di protesta, perché la misura del regime di 41-bis a lui applicata è stata prorogata. Il Tribunale di Matera ha condannato l’uomo a 26 anni e mezzo di carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma si tratta ancora di una sentenza non definitiva. Dunque, un detenuto ancora in attesa di giudizio definitivo, sta scontando una pena in condizioni di isolamento, ore d’aria e colloqui limitatissimi, sospensione e controllo delle comunicazioni dall’esterno, privazione di oggetti e somme di denaro, mentre continua il suo sciopero della fame. E nessuno sembra interessarsene. Questo silenzio ricorda lo stesso atteggiamento che ha nascosto due vicende tremendamente simili a quelle di Porcelli e di Cospito e che hanno avuto un tragico esito. Lo scorso maggio, nel carcere di Augusta, in provincia di Siracusa, due detenuti sono morti a seguito di un digiuno, in un caso durato 60 giorni e nell’altro 41. La notizia di queste morti è arrivata solo dopo il secondo decesso. Per un tempo lungo alcune settimane, la sofferenza e la protesta di due detenuti in sciopero della fame sono rimaste inascoltate, inosservate, ignorate. Il rischio è che l’azione di Domenico Porcelli prosegua nella stessa condizione di isolamento. L’unico aggiornamento sul suo stato di salute è quello diffuso da Rete Evasioni, che il 21 luglio scorso, sulla propria pagina Facebook, ha scritto: “Domenico è sceso sotto i 59 kg. L’avvocata l’ha trovato pelle e ossa, con dolori in tutto il corpo e incredulo del fatto che nessuno vada ad ascoltarlo e a dargli risposte”. L’udienza a Roma che discuterà il reclamo contro il 41-bis presentato dalle avvocate Maria Teresa Pintus e Livia Lauria si terrà il 20 ottobre, quando ormai saranno trascorsi 8 mesi dall’inizio dello sciopero della fame. Inoltre, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha dichiarato inammissibile la richiesta di differimento pena per gravi motivi di salute che era stata attivata d’ufficio. Per Porcelli siamo ancora in tempo. Questo tempo però è così incerto e imprevedibile che può durare una manciata di giorni o di ore. Nel frattempo il suo corpo si deteriora, si indebolisce, si infiacchisce; e il suo stato di salute subisce danni irreversibili sul piano fisico e mentale. Si torna, dunque, al cuore della questione: come tutelare Domenico Porcelli? Lo Stato e le istituzioni rinunciano a salvare chi si trova nella custodia dell’autorità pubblica. Lasciare che rimanga in balia di se stesso e della decadenza del corpo corrisponde a determinarne la morte. È una responsabilità terribile. Mauro Palma, sette anni a difendere la dignità in carcere di Donatella Coccoli Left, 3 agosto 2023 I guasti del populismo penale, il reato di tortura sotto attacco, la vita intollerabile nei Cpr. Il Garante nazionale delle persone private di libertà, al termine del suo mandato, racconta un’umanità fuori dai radar Detenuti nelle carceri, autori di reato con patologie psichiatriche nelle Rems, stranieri nei centri per il rimpatrio. Sono coloro che dal 2016 ha incontrato Mauro Palma, presidente del Garante nazionale delle persone private di libertà arrivato adesso allo scadere del suo mandato (le altre componenti del Collegio sono Daniela De Robert ed Emilia Rossi). L’ultima Relazione al Parlamento, corredata da un corposo dossier, non solo rappresenta una fotografia reale delle condizioni di vita di migliaia di cittadini fuori dai radar, ma è anche uno strumento di riflessione sui diritti umani negati. Come scrive Palma, tra i maggiori esperti a livello internazionale in tema di lotta alla tortura e ai trattamenti inumani, l’attività del Garante è un contributo di soft law che, basandosi “sull’esperienza dell’aver visto e del vedere”, fornisce “elementi di analisi e interpretazione all’impianto dell’hard law”. Il Garante infatti formula precise Raccomandazioni alle autorità responsabili, anche se talvolta non vengono accolte, come per esempio quella, subito dopo le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che indicava la necessità di introdurre elementi identificativi sulle divise degli agenti della polizia penitenziaria. Il ministro Nordio, mentre scriviamo, sta decidendo la composizione del nuovo Garante. Qualsiasi sia la decisione, dice Palma, “darò tutto l’appoggio mio e dell’ufficio professionalmente costruito in questi sette anni e mezzo”. Mauro Palma, partiamo dalla visione culturale che traspare dalla sua Relazione. Il Garante, oltre alla funzione di prevenzione e garanzia dei diritti, può contribuire alla consapevolezza collettiva su questi temi? Sostanzialmente deve dare la consapevolezza. Per carità, la tutela giuridica dei diritti è molto importante, ma questo tipo di controllo non può esistere se non c’è un controllo sulla cultura complessiva, sulla cultura che riconosce il molteplice, cioè riconosce l’essere in tanti modi, le diversità. Riconosce che c’è anche chi ha sbagliato, chi ha una particolare difficoltà di espressione - mi riferisco ad altri luoghi rispetto al carcere - ma lo riconosce come sé, non come un altro che io vado a proteggere. E allora le parole escludenti come “Chiudiamoli e buttiamo la chiave”, il linguaggio che fissa una differenza, sono qualcosa che fanno perdere questa consapevolezza. Anci e Gnpl, firmate Linee guida su nomina e metodi di lavoro dei Garanti comunali agensir.it, 3 agosto 2023 L’Associazione nazionale Comuni italiani (Anci) e Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl) hanno adottato oggi le “Linee guida” volte a favorire l’omogeneità nella nomina dei garanti e delle garanti comunali delle persone private della libertà, l’effettivo supporto da parte delle Amministrazioni comunali nonché metodi di lavoro condivisi. Redatte attraverso un Gruppo di lavoro composto da alcuni garanti comunali e coordinato congiuntamente, sono state oggi firmate a Bari da Antonio Decaro e da Mauro Palma, rispettivi presidenti dell’Anci e del Garante nazionale. Le Linee guida vogliono essere uno strumento di orientamento per i Consigli comunali deputati alla nomina dei rispettivi garanti e per le Amministrazioni incaricate di sostenerne le attività, individuando una serie di criteri necessari ad assicurare il giusto equilibrio tra la dimensione istituzionale e l’autonomia di azione dei singoli Garanti. Un aspetto fondamentale è l’inserimento dell’Autorità di garanzia nello Statuto dell’Ente designante, come figura effettivamente indipendente e autonomia. Per l’efficacia della loro azione, è sottolineata l’importanza dell’estensione della competenza in tutti i luoghi ove una persona possa trovarsi privata della libertà: oltre agli Istituti detentivi, le strutture di responsabilità delle Forze di polizia, i luoghi di trattenimento dei migranti irregolari, i servizi psichiatrici ospedalieri, le comunità chiuse, anche di tipo socio-sanitario o assistenziale. Le “Linee guida” indicano anche requisiti, incompatibilità e procedure per la revoca o la scadenza anticipata del mandato. Dichiara Mauro Palma, presidente del Collegio del Garante nazionale: “La firma odierna di queste ‘Linee guida’ rappresenta un riconoscimento dell’azione del lavoro dei garanti che operano a livello comunale e offre uno strumento di coordinamento per la loro azione al fine di rendere omogenea l’effettività della tutela dei diritti delle persone private della libertà. Ringrazio l’Anci, il suo presidente Antonio Decaro e il Gruppo di lavoro che ha positivamente operato per la stesura delle Linee guida”. Il presidente dell’Anci, Antonio Decaro, afferma: “Il garante comunale delle persone private della libertà è una figura che assicura la presenza delle istituzioni e il rispetto dei diritti e delle tutele, lì dove ci sono persone private della propria libertà. Per questo è importante che questa figura abbia requisiti e competenze di altissimo profilo così da offrire ai cittadini che ne hanno bisogno la massima garanzia di tutele. Con Anci e il Garante nazionale abbiamo portato avanti questo ampio lavoro così che tutti i comuni abbiano chiari i criteri uniformi e definiti per le nomine così da assicurare le funzioni di questa figura chiamata ad operare spesso in contesti di fragilità e marginalità”. Garante dei detenuti, è caos sulla nomina: interrogazione parlamentare della sinistra di Angela Stella L’Unità, 3 agosto 2023 Tra il Cdm di domani e quello di lunedì il Guardasigilli potrebbe portare sul tavolo la terna che avrebbe scelto. “La nomina del Garante dei detenuti rispetti i criteri di legge e garantisca la rappresentanza di genere”: è questo l’appello lanciato a Nordio da Devis Dori, capogruppo Avs in commissione Giustizia e Luana Zanella, presidente di Avs alla Camera. Sul tema i parlamentari hanno presentato anche una interrogazione. Chissà se ci sarà il tempo di rispondere, considerato che tra il Cdm di domani e quello di lunedì il Guardasigilli potrebbe portare sul tavolo la terna che avrebbe scelto: Felice Maurizio D’Ettore, in qualità di presidente del Collegio e attualmente professore ordinario di diritto privato a Firenze, affiancato da Mario Serio, professore ordinario di Diritto Privato Comparato nell’Università di Palermo e da Carmine Antonio Esposito, ex presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli ora a riposo. “Le indiscrezioni - scrivono i due parlamentari - ci sorprendono, tanto più che la legge istitutiva dell’Ufficio del Garante sancisce che la scelta debba ricadere su “persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti alla tutela dei diritti umani”. L’assenza di un rapporto in atto di pubblico impiego (riferito a D’Ettore, ndr) è un requisito preliminare alla selezione, dovendo essere il collegio indipendente sul piano giuridico. Chiediamo conto al Ministro Nordio di tutto ciò e, soprattutto, di come intenda garantire un’adeguata rappresentanza di genere”. Ad usare gli stessi argomenti era stata qualche giorno fa la responsabile Giustizia del Partito democratico, Debora Serracchiani. Effettivamente con l’escamotage della quota rosa, il Ministro della Giustizia potrebbe modificare la terna che Repubblica ha reso nota e farvi entrare Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, che meriterebbe quel posto a prescindere dal genere. In realtà era già stata scelta - tramite una email ricevuta dopo un colloquio col capo di Gabinetto Rizzo - ma poi un’altra email aveva annullato la precedente. La radicale aveva ricevuto giorni fa anche l’endorsement di Davide Faraone, deputato di Azione-Italia Viva: “è una vera militante dei diritti umani. Non ha mai cercato un posto al sole, ha visitato tutti gli istituti di pena italiani, ha incontrato i detenuti a Ferragosto, Natale, Capodanno, Pasqua, senza sosta, con dedizione e grande forza di volontà. Per questo Rita Bernardini è la candidata naturale a ricoprire il ruolo di Garante dei detenuti”. Non soddisfatta della possibile scelta del Ministro sarebbe una parte della polizia penitenziaria: “la nomina del Garante nazionale dei detenuti va sottratta ad ogni tentativo di operazione di parte ed ideologica. Per questa ragione auspichiamo e proponiamo la nomina dell’ex magistrato Santi Consolo, attuale garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti in Sicilia e per il loro reinserimento sociale”, ha detto il segretario generale del Sindacato Polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, ricordando che Consolo “magistrato in pensione, tra gli altri incarichi, ha ricoperto quello di capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria presso il ministero della Giustizia e nel 2014 ha svolto funzioni di procuratore generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta e quella di Catanzaro. È anche stato componente togato del Csm”. Ddl Nordio, al via l’iter. E Sisto rilancia la separazione delle carriere di Simona Musco Il Dubbio, 3 agosto 2023 Prime audizioni previste a settembre. Ma intanto la maggioranza preme l’accelerazione sulla riforma costituzionale. Il viceministro: “È nel programma, si farà”. Il ddl Nordio si è ufficialmente incardinato in Commissione Giustizia. E a fare da relatore è la presidente Giulia Bongiorno, responsabile giustizia della Lega e anche tra le più dubbiose in tema di abrogazione dell’abuso d’ufficio, la riforma voluta da Nordio che, però, rischia di non vedere mai la luce. A confermare tale possibilità al Dubbio, nei giorni scorsi, erano stati alcuni senatori di Fratelli d’Italia, convinti che tale riforma possa non piacere all’elettore tipo del partito della premier. Nel corso della seduta di ieri Bongiorno ha illustrato la riforma, per la quale le audizioni inizieranno a settembre. E la pausa estiva consentirà ai partiti di ragionare sul da farsi, dopo i dubbi espressi dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e i plurimi allarmi lanciati dalla magistratura, pronta a contrastare l’esecutivo in ogni modo. Quel che è certo è che Giorgia Meloni non ha intenzione di inimicarsi le toghe, tanto da reagire alle critiche con un decreto per circoscrivere i reati di criminalità organizzata, annunciato simbolicamente a Palermo nel giorno dell’anniversario della strage di via d’Amelio. Ma c’è un altro fronte aperto con la magistratura, sul quale il governo sembra procedere con meno timore, nonostante il tema appaia tra i più delicati per i magistrati: la separazione delle carriere, riforma rilanciata, recentemente, dal sottosegretario Andrea Delmastro, che pubblicamente ne ha rivendicato l’utilità nell’ottica di una piena attuazione della Costituzione e del giusto processo. Una riforma complicata, che prevede un iter lunghissimo, essendo necessaria una revisione costituzionale e la creazione di due Consigli superiori della magistratura, ma che non sembra spaventare il partito della premier, forse proprio perché richiede tempi tanto lunghi da metterne in dubbio la realizzazione. Tant’è che FdI non ha depositato alcuna proposta in merito, lasciando l’iniziativa parlamentare alle altre forze di maggioranza, nonché al Terzo Polo, pronto ad appoggiare il governo sui temi della giustizia. Un “rinforzo” concretizzatosi anche con il trasferimento di Matteo Renzi in Commissione Giustizia al Senato. A ribadire le intenzioni del governo, ieri, è stato anche il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, che a il Sussidiario.net ha confermato l’intenzione di portare a casa la riforma che divide i giudici dai pubblici ministeri. “Si farà - ha dichiarato -. È nel programma di governo, noi siamo stati eletti dai cittadini sulla base della condivisione di quel programma e abbiamo conseguentemente l’obbligo di portarlo a termine. Occorre rimettere il giudice al vertice del triangolo previsto in Costituzione, un triangolo alla cui base ci sono accusa e difesa “in condizioni di parità”. L’imparzialità - ha aggiunto - appartiene alla storia individuale, alla dimensione soggettiva di ciascuno, ma la terzietà è un fatto di equidistanza ordinamentale”. La riforma era stata rilanciata a febbraio nel corso di una conferenza stampa alla Camera, dove il responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa, aveva messo sul piatto la proposta dell’Unione delle Camere penali italiane, affiancato da Italia Viva e, soprattutto, dagli esponenti di Lega e Forza Italia. Il progetto prevede due Csm separati, effettiva terzietà del giudice rispetto ad accusa e difesa ed obbligo di azione penale solo nei casi previsti dalla legge, riforma da realizzare, secondo il cronoprogramma dei presenti, entro il 2025. Ma a quella conferenza stampa spiccò l’assenza del principale partito di governo, che pure nel suo programma aveva inserito la separazione delle carriere tra le priorità della giustizia. A confermare gli intenti di Fratelli d’Italia, poche ore dopo, era stato Ciro Maschio, presidente della Commissione Giustizia alla Camera. “Ci confronteremo e sosterremo le proposte integrandole con le nostre - aveva chiarito al Dubbio. Va bene ogni iniziativa che va verso la separazione delle carriere, tema che è nel nostro programma di Governo. Fdi non ha ancora presentato una proposta “copia e incolla” identica alle altre su separazione carriere perché stiamo lavorando anche ad una pdl che possa modificare le parti della procedura penale che dovranno adeguarsi alla riforma costituzionale. Ovvio che le due proposte potrebbero avere iter paralleli, ma necessariamente andrebbero coordinate, anche perché la prima per essere applicata concretamente necessita della seconda”. La proposta era naufragata nel corso della precedente legislatura, quando per evitare un emendamento soppressivo il ddl tornò in Commissione e si spense con la fine anticipata del governo Draghi. Ma ora i numeri starebbero dalla parte di chi sostiene la riforma. I ddl sono già stati calendarizzati in Commissione Affari costituzionali, dove il presidente Pagano si è autonominato relatore e ha confermato, nei giorni scorsi, di voler portare avanti l’iter. Una velocizzazione dovuta alla presenza di quattro proposte della stessa portata da quattro gruppi differenti (solo Forza Italia ha evitato di inserire nella proposta il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale per evitare di appesantire l’iter), sintomo di una “evidente convergenza” su un tema “popolare” che la politica non può ignorare. Proprio per tale motivo ha scelto di seguire personalmente il fascicolo. Abuso d’ufficio, da Nordio l’alternativa all’abrogazione di Errico Novi Il Dubbio, 3 agosto 2023 Maggioranza in tilt sull’addio all’articolo 323 del codice penale, Meloni teme di essere bersagliata dai giustizialisti, ma il guardasigilli ha già preparato una modifica che manterrebbe in vita il reato per chi viola gli obblighi di astensione. Il paradosso è che se c’è una norma ultragarantista cara a Giorgia Meloni, è l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Ne ha parlato in più occasioni, la premier. E sa che con le già enormi complicazioni emerse sul Pnrr, eliminare il reato responsabile di provocare la “paura della firma” sarebbe un sollievo. Il dossier è in teoria tra quelli che vedono la presidente del Consiglio e il guardasigilli Carlo Nordio in pieno accordo. Ma nello stesso tempo, ai vertici di Palazzo Chigi, e nelle prime linee di Fratelli d’Italia, avanza un rinnovato scetticismo: si teme, innanzitutto, che le perplessità del Quirinale sulla cancellazione dell’articolo 323, relative all’incostituzionalità di possibili contrasti coi trattati internazionali, si traducano in un naufragio politico per la maggioranza. In una mancata promulgazione, con contestuale rinvio alle Camere, del ddl Nordio, nel quale l’addio all’abuso d’ufficio è inserito. In un simile catastrofico scenario, si dovrebbe fare i conti, nell’ordine, con un grave spreco di attività parlamentare, con un pesantissimo danno all’immagine di esecutivo e maggioranza e con il fallimento sull’obiettivo di “liberare” subito l’azione di Comuni e altre amministrazioni pubbliche, tutti decisivi nell’attuazione del Piano nazionale. Eppure di giorno in giorno crescono i timori riferiti tre giorni fa su queste pagine, timori che spingono il partito di maggioranza relativa ad auspicare un’exit strategy: sostituire l’abrogazione dell’articolo 323 del codice penale con una semplice modifica, magari più stringente della riforma realizzata nel 2020 dall’allora premier Giuseppe Conte. E in vista della bagarre che, sul ddl Nordio, si scatenerà da settembre in Senato, i tormenti sull’abuso d’ufficio contagiano l’opposizione, giacché sul rebus del reato più temuto dai sindaci è diviso pure il fronte giallo-rossoverde, cioè M5S, Pd e Alleanza Verdi-Sinistra. Due giorni fa alla Camera i pentastellati sono stati i soli a votare la loro risoluzione, agganciata alle comunicazioni di Raffaele Fitto sul Pnrr, che invitava il governo a recedere dall’abrogazione dell’abuso e dalla riforma del traffico d’influenze. Sull’astensione di dem ed ecologisti ha pesato il riferimento alla spazzacorrotti contenuto nel testo dei contiani, ma anche l’impossibilità, per il partito guidato da Elly Schlein, di voltare totalmente le spalle ai propri sindaci, schieratissimi, col loro coordinatore Matteo Ricci, per la cancellazione totale dell’articolo 323. Si tratta insomma di un dossier che manda in tilt la maggioranza come l’opposizione. Che tiene in ansia Nordio ma anche Meloni. E che rischia di depotenziare la già claudicante rincorsa agli obiettivi del Pnrr. Nordio come ne esce? Già esiste, in realtà, una carta di riserva. Messa a punto per tempo. Si tratta di una riformulazione dell’abuso d’ufficio che renderebbe punibile solo la “mancata astensione” in quei casi in cui il sindaco, l’assessore o chiunque eserciti un pubblico potere avrebbe dovuto appunto non firmare l’assegnazione di un appalto, o qualunque altro atto, in virtù di un possibile conflitto d’interessi. A via Arenula si erano portati avanti col lavoro, e avevano individuato questa soluzione alternativa, che tra l’altro riflette almeno in parte quella proposta nella scorsa legislatura dall’allora presidente della commissione Giustizia del Senato Andrea Ostellari, oggi sottosegretario leghista a via Arenula. Ai tecnici di Nordio è sembrato fin dal primo momento un ripiego, non disprezzabile ma certo assai meno efficace dell’abrogazione secca. Nelle riunioni tenute al ministero nella scorsa primavera, tutti, non solo il guardasigilli, ma anche i sottosegretari Ostellari e Delmastro, si erano convinti che una pur chirurgica delimitazione del reato avrebbe comunque prestato il fianco al solito giochino degli esposti in Procura contro sindaci e amministratori, che costringono i pm ad avviare le indagini e che innescano la paura della firma. Perciò persino chi, come il meloniano Delmastro, sembrava inizialmente più orientato a una semplice modifica del 323, si è poi convinto che le esigenze del Pnrr imponevano una scelta più radicale. D’altra parte, si sa: la scelta non piace ai magistrati. E, va detto, anche ad alcune delle toghe arruolate nel pool di Nordio. Così, l’idea che a settembre si finisca per accontentarsi di limitare l’abuso d’ufficio ai casi di conflitto d’interesse è tutta in piedi. Spingono i magistrati, spinge il procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo e tutti i suoi colleghi che, spesso con minor garbo, additano l’addio all’abuso d’ufficio come un indebolimento della lotta alla mafia. Tesi criticabilissima, perché di fatto teorizza un uso dell’articolo 323 come reato da “pesca a strascico” per intercettare eventuali più gravi delitti. Ma il link con la lotta alla mafia è fatale. Rischia di essere decisivo nelle scelte che, alla fine, sarà Giorgia Meloni a compiere, di qui a settembre. Si è già visto con il caso delle frasi “accademiche” di Nordio sul concorso esterno che, quando si tocca il tasto della lotta al crimine organizzato, la premier diventa politicamente più indifesa. La bilancia delle previsioni, in questo momento, pende decisamente verso un dietrofront, una revisione del ddl Nordio, da cui verrebbe espunta l’abrogazione secca dell’abuso d’ufficio, con l’inserimento della norma che ne circoscrive la punibilità. Ma Nordio sa bene, e non è l’unico in maggioranza a esserne cosciente, che con un simile ripiego si rischierebbe di pagare un prezzo altissimo in termini di minor fluidità dell’azione amministrativa, e quindi di attuazione del Pnrr. Meloni è tra due fuochi, sospesa fra necessità di cogliere gli obiettivi di sistema e timore di essere bersagliata dal fronte giustizialista. Se non altro, qualora il secondo fattore dovesse prevalere, Nordio ha già pronta l’alternativa tecnico-giuridica. Consapevole del fatto che, se poi gli obiettivi del Pnrr dovessero saltare, non sarà certo lui a poterne rispondere. Giustizia, sulla mafia Meloni detta la linea e scavalca Nordio di Liana Milella La Repubblica, 3 agosto 2023 Dopo 48 giorni dal Consiglio dei ministri il ddl sull’abuso d’ufficio arriva in commissione al Senato e sarà gestito dalla presidente leghista Bongiorno che deciderà la linea anche sulle intercettazioni. A colpi di decreto legge - un interventismo che sicuramente farà discutere i giuristi che già storcono la bocca - palazzo Chigi detta la linea sulla mafia e “scavalca” il suo stesso Guardasigilli Carlo Nordio. Ministro sempre loquacissimo in materia di diritto che però, da quando è entrato in via Arenula, di tutto ha parlato, anche quando non doveva come sul concorso esterno, tranne che della sentenza della Cassazione su intercettazioni e mafia che adesso è divenuta la priorità per Giorgia Meloni e il suo sottosegretario preferito Alfredo Mantovano. Tant’è che, dopo aver annunciato il decreto a metà luglio, ecco far trapelare da Chigi che sarà approvato lunedì prossimo. Tutto questo avviene - vedremo come - mentre il disegno di legge del Guardasigilli che cancella l’abuso d’ufficio e mette il bavaglio ai giornalisti sulle intercettazioni arriva finalmente al Senato esattamente 48 giorni dopo la sua approvazione. E se ne intesta la responsabilità come relatrice la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno che - com’è noto - non voleva cancellare l’abuso, finito adesso tra le preoccupazioni del presidente Sergio Mattarella, né ha mai avuto in mente un intervento drastico sugli ascolti con l’obiettivo di limitare del tutto la libertà di stampa. Il decreto sulla mafia - Addebitandone la responsabilità alle lamentele delle toghe antimafia - di cui però non v’è traccia mediatica nel corso di ben dieci mesi - il governo vende se stesso in chiave di lotta aperta contro le cosche. Tant’è che il primo annuncio del decreto cade proprio in coincidenza con l’anniversario della strage Borsellino. Con un esplicito intervento di Meloni in consiglio che ministri che lo annuncia parlando di un decreto per bloccare “gli effetti dirompenti” di una sentenza della Cassazione che risale però a settembre del 2022. Nella lettura che ne dà la premier, supportata dall’interpretazione di Mantovano, si tratta di una sentenza che “rischia di abbattersi su decine di processi sulla criminalità organizzata, legando le mani a chi combatte le cosche e mettendo in forse procedimenti per reati gravissimi”. Anche di questi annunciati disastri non v’è traccia da quando la sentenza è stata decisa. Per la complessità della materia l’annuncio di Meloni e Mantovano non diventa un boom mediatico e non attenua, come avrebbe voluto palazzo Chigi, l’effetto delle parole di Nordio sul concorso esterno da cambiare, tant’è che lo stesso Guardasigilli è costretto pubblicamente, in un question time alla Camera, a fare marcia indietro sulle sue stesse dichiarazioni. Non ha mai detto - sostiene pubblicamente - di voler cambiare le regole attuali, anche se basta leggere le sue parole per rendersi conto che invece lo ha fatto. Non solo, come ha scoperto il giurista Gian Luigi Gatta, è stato proprio Nordio a teorizzare il concorso esterno: “Sarebbe interessante chiedere al ministro - dice Gatta in un’intervista all’Huffingtonpost - come mai nell’articolo 47 del progetto di riforma del codice penale, realizzato dalla commissione che lui stesso ha presieduto quasi vent’anni fa, le disposizioni sul concorso di persone nel reato venivano estese ai reati associativi. Basta leggere la sentenza Mannino delle Sezioni unite per trovare questo riferimento al progetto Nordio. Se davvero il concorso esterno fosse un “ossimoro”, come dice lui, perché la commissione che presiedeva voleva addirittura codicarlo?”. Ma tant’è. Adesso siamo a un nuovo annuncio, con una voluta anticipazione alla stampa, a pochi giorni dall’ultimo consiglio dei ministri prima delle ferie, per ribadire che il governo fa sul serio contro la criminalità. E mentre la presidente della commissione Antimafia, la meloniana Chiara Colosimo, non manca occasione per dire la sua proprio sulla mafia. Il testo del decreto sarebbe ancora in lavorazione. E data la complessità della materia potrà essere valutato solo a cose fatte. Ma i giuristi già avanzando dei dubbi. Primo tra tutti quello di un governo che, per decreto, stabilisce quale debba essere l’interpretazione autentica di una norma. Come ricordava Donatella Stasio sulla Stampa del 19 luglio “nel marzo del 1991 il governo Andreotti varò un decreto legge di interpretazione autentica delle norme sul calcolo della custodia cautelare per riportare subito in carcere 24 boss mafiosi scarcerati in base a una sentenza sbagliata della Cassazione”. E come nel 2007, cioè ben 16 anni dopo, lo stesso Andreotti dichiarò: “Ormai posso dirlo: quel decreto era una specie di golpe, un vero sopruso”. A stupirsi della decisione è ancora Gatta che già solleva possibili dubbi di costituzionalità: “Il rischio è che si parli ora di un’interpretazione autentica di una legge che esiste da 20 o 30 anni per far retroagire, nei processi in corso, una regola in realtà nuova che renda utilizzabili intercettazioni ab origine illegittimamente disposte. Questo non sarebbe ammissibile ed è il profilo più problematico su cui è bene che, nel predisporre la norma, il governo rifletta”. E ancora: “Il punto è quello dell’opportunità, ancor più in un momento di rinnovata attenzione dei rapporti tra politica e magistratura: l’interpretazione fa parte della fisiologia del diritto e la formazione di orientamenti giurisprudenziali procede per passi, avanti e indietro, trovando un momento fondamentale nelle pronunce delle Sezioni unite della Cassazione, che intervengono quando sorge un contrasto o per prevenirlo. Esiste, insomma, nel sistema giudiziario una via ordinaria per risolvere le questioni interpretative, senza l’intervento di una legge di interpretazione autentica, che è un evento assai raro, specie nel penale”. Bongiorno e l’abuso d’ufficio - Un Nordio doppiamente scavalcato. Perché il suo disegno di legge sull’abuso d’ufficio - su cui sono evidenti i dubbi del Quirinale che si augura una modifica parlamentare prima che il testo approdi di nuovo sul suo tavolo - al Senato giunge nelle mani di Giulia Bongiorno. Che non ha mai fatto mistero dei suoi dubbi sulla cancellazione tout court del reato, nonché sulla linea dura del Guardasigilli sulle intercettazioni. Sia sulla loro diffusione mediatica, che sull’utilizzo. Una stretta, quella di Nordio, peraltro in contrasto con lo stesso decreto in arrivo sulla mafia, in cui invece l’interpretazione autentica di Chigi consentirebbe di applicare le regole light sulle intercettazioni anche ai delitti commessi da chi non è “iscritto” formalmente al gruppo mafioso, ma con i suoi crimini comunque ne favorisce gli interessi. Giulia Bongiorno è la relatrice del ddl Nordio. Il suo lavoro è partito già oggi con la relazione introduttiva sui contenuti del ddl. Un resoconto “asettico” del suo contenuto. Il vero lavoro partirà a settembre e s’intreccerà con la sua relazione sulle intercettazioni dopo che la commissione ha ascoltato dozzine di magistrati ed esperti. Sicuramente sfileranno anche le toghe per raccontare i possibili danni se si elimina l’abuso d’ufficio. E in queste ore i componenti della commissione stanno già indicando alla Bongiorno chi ascoltare. Si apre una stagione di protagonismo del Senato e della Bongiorno sulla giustizia. L’equilibrio sempre precario fra giustizia e libertà di stampa di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 3 agosto 2023 Già con il codice in vigore dall’89 erano state introdotte tutele per chi è citato negli atti d’indagine, quasi sempre disattese. Il diritto di informazione dev’essere collocato senza traumi e forzature nel processo penale. Di questo è fermamente convinto Nicola Triggiani, ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Bari “Aldo Moro” e curatore del libro “Informazione e giustizia penale. Dalla cronaca giudiziaria al processo mediatico” (Cacucci Editore). “Quella tra stampa e processo penale - dice al Dubbio il professor Triggiani - è una convivenza assolutamente necessaria, posto che magistratura e libertà di stampa sono due pilastri dello Stato di diritto, ma è al contempo una convivenza molto difficile, che determina uno scontro quotidiano. Il legislatore aveva dato una puntuale e articolata regolamentazione negli articoli 114, 115 e 329 del Codice di procedura penale, entrato in vigore nell’ottobre del 1989, in tema di segreto investigativo e di limiti alla pubblicazione degli atti a tutela dei vari interessi coinvolti. Tale regolamentazione è stata, però, immediatamente travolta da prassi devianti, fino ad arrivare a un vero e proprio dissesto della legalità, sul quale non hanno sostanzialmente inciso i successivi interventi del legislatore e della Corte costituzionale”. La situazione descritta dall’accademico barese ha portato a “un profondo divario tra dato normativo e prassi”, dato che, a fronte di un articolato complesso di regole, si registra spesso l’inosservanza dei divieti di pubblicazione di atti posti a tutela del segreto investigativo o della riservatezza”. I fatti che vengono descritti nelle pagine di cronaca nera di giornali e telegiornali molto spesso danno vita a veri e propri processi mediatici. L’individuazione istantanea - e a tutti costi - del colpevole provoca non pochi danni. “Da circa vent’anni - osserva Triggiani - diciamo, soprattutto, dal “caso Cogne” in poi, siamo passati da una doverosa “informazione sul processo” a qualcosa di molto diverso, ovvero al “processo celebrato sui mezzi di informazione”, il cosiddetto “processo mediatico”. Gli effetti distorsivi nella rappresentazione mediatica della giustizia penale derivano non solo dalla narrazione mediante la cronaca giudiziaria, che registra abusi, carenze ed eccessi, ma anche dal fenomeno dei “processi paralleli” in tv, in grado di condizionare pesantemente l’opinione pubblica e di incidere potenzialmente anche sullo stesso svolgimento e sugli esiti del processo. Il decreto legislativo 188 del 2021 sul rafforzamento della presunzione di innocenza, approvato in attuazione della direttiva 2016/ 343/ UE, ha rappresentato senza dubbio un ampliamento delle garanzie per l’imputato, ma ha avuto deboli riflessi sull’informazione giudiziaria: nei fatti non è cambiato molto, se non indirettamente, poiché le disposizioni del decreto non sono rivolte ai giornalisti ma ai magistrati e in generale alle autorità pubbliche, ad esempio le forze di polizia, inibendo loro di presentare già come colpevole la persona sottoposta alle indagini o l’imputato e prevedendo, tra l’altro, una disciplina delle conferenze stampa. D’altronde, è forse illusorio ritenere che una innovazione normativa possa modificare in modo significativo l’assetto consolidato dei rapporti tra giustizia penale e informazione. Non si può dire che il nostro apparato normativo sia carente dal punto di vista delle tutele, tutt’altro, anche se già sono all’orizzonte nuove proposte di modifica. Certamente le nuove disposizioni hanno reso più difficile per i giornalisti acquisire le informazioni. Non so fino a che punto questo sia un bene”. Come si bilancia, dunque, il diritto all’informazione con la salvaguardia di chi è sottoposto ad indagini? Si tratta, secondo Triggiani, di un’operazione tutt’altro che semplice, dato che presenta un obiettivo al quale non si deve rinunciare. “Occorre - aggiunge il processualpenalista dell’Università di Bari - contemperare interessi ontologicamente confliggenti, parimenti tutelati dalla Costituzione, rispettivamente all’articolo 21, in merito alla libertà di manifestazione del pensiero, e dunque al diritto di informare e di essere informati, e all’articolo 27, comma 2, sulla presunzione di non colpevolezza. Senza dimenticare che anche altri diritti costituzionali vanno bilanciati con il diritto di cronaca: l’interesse alla regolare amministrazione della giustizia, che comporta la tutela del segreto investigativo, della genuinità probatoria e della corretta formazione del convincimento del giudice, e il diritto alla riservatezza sia dell’indagato- imputato che di tutte le altre persone coinvolte in un procedimento penale, come vittime o testimoni. Emerge, poi, soprattutto la necessità di tutelare i terzi estranei, soggetti per l’appunto estranei alle indagini, ai quali non viene mosso alcun addebito, e che, laddove rivestano un ruolo pubblico o siano comunque persone note, per le più svariate ragioni vedono fortemente compromessa la loro reputazione, magari semplicemente a causa di una telefonata con l’indagato intercettata dalla polizia giudiziaria e poi divulgata”. Ecco che emerge l’esigenza di un bilanciamento tra esigenze diverse. “Occorre scongiurare - conclude il professor Triggiani - il rischio che un’eventuale riforma normativa, tesa a rimuovere le patologie oggi presenti in un settore così vitale e sensibile per la democrazia, possa rappresentare un rimedio peggiore del male. È invece necessario sforzarsi di raggiungere un punto di equilibrio tra libertà di stampa, regole processuali e diritti fondamentali della persona. Resta centrale il richiamo alla deontologia e al senso di responsabilità degli operatori della giustizia e dell’informazione. Soprattutto è auspicabile un’autentica rivoluzione culturale che coinvolga media, magistratura e società”. Così i giudici amministrativi hanno trovato il modo di garantirsi ricchi incarichi extra di Sergio Rizzo L’Espresso, 3 agosto 2023 Gli arbitrati erano stati aboliti. Dal 2020 sono tornati con un altro nome, ma sempre molto remunerativi per i magistrati di Tar e Consiglio di Stato. Gli unici per cui l’incompatibilità tra funzione pubblica e privata non vale. E in caso di conflitto d’interessi, decidono le parti. Dopo settimane di travaglio, riunioni infinite, bozze ed emendamenti, ecco trovata la soluzione. Saranno le parti in lite a decretare l’eventuale incompatibilità del giudice. E ora a Palazzo Spada tutti (o quasi) potranno tornare a sognare il mondo dorato che sembrava perduto. Per mesi il dubbio aveva tormentato il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, che sarebbe poi il Csm dei magistrati dei Tar e del Consiglio di Stato. Il dubbio, ora fugato, era quello di non poter garantire a tutte le toghe pari opportunità per ottenere gli incarichi profumati previsti dalla legge sugli appalti. Così profumati da superare talvolta di slancio lo stesso stipendio di magistrato amministrativo. Il problema? Sempre quello che aleggia da anni su consiglieri di Stato e giudici dei Tar: l’incompatibilità fra funzione pubblica e incarichi privati. Perché ai magistrati amministrativi, come a quelli contabili, per ragioni difficilmente comprensibili è consentito ciò che a tutti i loro colleghi ordinari è severamente precluso. Dall’insegnamento agli incarichi nella giustizia sportiva, fino agli arbitrati. E questo è il punto. Una volta si chiamavano proprio così: arbitrati. Era un sistema per aggirare, sulla carta, le lungaggini della giustizia ordinaria in materia di appalti. Quando l’impresa e il committente pubblico litigavano, non si andava in tribunale ma davanti a un collegio arbitrale presieduto di solito, per designazione comune delle due parti, da un consigliere di Stato o da un giudice del Tar. Il lavoro, ovviamente, non era gratis, ma gli arbitri incassavano laute prebende. Quasi sempre dai contribuenti, perché pur essendo un funzionario pubblico l’arbitro supremo, lo Stato soccombeva nel 95 per cento delle cause di questo tipo. Nelle tasche dei magistrati finivano milioni e la cosa aveva preso una piega tanto scandalosa che nella seconda metà degli anni Duemila la pratica venne mandata in pensione grazie a un sussulto di etica collettiva. Ma troppi interessi erano stati mortificati. È bastato così aspettare che quel sussulto si affievolisse e gli arbitrati sono risorti dalle ceneri sotto diversa forma. Adesso si chiamano Collegi Consultivi Tecnici. In sigla, Cct: come i buoni del Tesoro di un tempo. E in effetti un poco gli assomigliano. Li inventa il secondo governo di Giuseppe Conte durante la pandemia, con la scusa che bisogna velocizzare gli appalti pubblici frenati anche dalle troppe liti fra imprese e stazioni appaltanti. Il Collegio Consultivo Tecnico agisce preventivamente: ha il compito di mettere tutti d’accordo prima che la lite scoppi. Una specie di arbitrato, però con qualche differenza non trascurabile. Intanto il Collegio non è facoltativo, ma obbligatorio per ogni appalto sopra la soglia europea dei 5 milioni. Poi non si occupa come un collegio arbitrale di una specifica controversia, ma dura quanto l’appalto. Anni. E ogni anno si paga. I tariffari sono complicatissimi, ma c’è chi si è preso la briga di fare qualche stima. Per un lavoro da 50 milioni si può arrivare anche a 750 mila euro, mentre un appalto di importo dieci volte maggiore garantirebbe al Cct un introito prossimo ai 2 milioni e mezzo. E siccome il presidente ha diritto a un compenso maggiorato del 10 per cento e il presidente è per regola il magistrato amministrativo, a lui spetterebbe una somma non lontana da un milioncino di euro. Oltre allo stipendio, naturalmente. Scusate se è poco. Qui passano in secondo piano alcuni ovvi principi, come quello che il funzionario pubblico non dovrebbe avere compensi da imprese private. Tanto più se fa il giudice. Ma non basta. Perché seguendo il percorso di questa curiosa invenzione che farà spendere un sacco di soldi alle imprese e ai contribuenti arricchendo privatamente giudici già pagati dal pubblico per giudicare, è impossibile non individuare un oggettivo conflitto d’interessi. A capo dell’ufficio legislativo di Conte che nel 2020 partorisce la norma che consegnerà ai magistrati amministrativi la guida dei Cct c’è un magistrato amministrativo: Ermanno de Francisco, consigliere di Stato. La legge dice che i Cct sono per una fase d’emergenza e quindi dovrebbero durare solo fino all’anno seguente. Ma piacciono così tanto che vengono prorogati. E intanto la stesura del regolamento viene affidata sempre al Consiglio di Stato, nelle capaci mani di Carlo Deodato: attuale segretario generale della presidenza del Consiglio. Il gradimento dei Cct, tuttavia, sale ancora. E sale al punto che il nuovo codice degli appalti felicemente vidimato dal ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini li eleva a obbligo perenne per tutti gli appalti sopra la soglia Ue. Articolo 215. Autore della norma ancora il Consiglio di Stato, sotto la guida del magistrato Luigi Carbone. Se la cantano e se la suonano. E ben presto cominciano a fioccare gli incarichi. Con la particolarità che chi li assegna è il Consiglio di Presidenza, composto da giudici che a loro volta se li vedranno assegnare. Prima del suo prematuro decesso il presidente del Consiglio di Stato Franco Frattini se ne becca tre. Subito dopo la sua morte uno di questi, l’appalto per il nuovo tunnel del Colle di Tenda affidato dall’Anas a Edilmaco, viene trasferito come fosse un lascito ereditario al successore Luigi Maruotti. Il quale ha già giudicato “troppo penalizzanti”, pensate un po’, i paletti che nel frattempo erano stati piantati. La resurrezione degli arbitrati non è andata giù a tutti, nel piccolo Csm di Palazzo Spada. Qualche membro laico ha storto il naso, e ci sono anche magistrati apertamente contrari, come Silvana Bini e l’ex segretario generale Oberdan Forlenza. Ma sono voci isolate. C’è però, sull’altro versante, un problema ben più grosso. Per tacitare polemiche peggiori, si è deciso infatti di escludere dai Cct chi ha giudicato controversie riguardanti almeno una delle parti in causa. Molto al di sotto del minimo sindacale, anche se in questo modo sarebbero tagliati fuori molti dei magistrati delle sezioni competenti per gli appalti. E si poteva “penalizzarli”, il termine è di Maruotti, per quel semplice fatto? Sarebbe un’ingiustizia. Si incarica quindi una commissione interna di trovare la via d’uscita. E il 5 luglio la cosa è fatta. Ogni volta che sorgerà un dubbio d’incompatibilità la segreteria del Consiglio di Stato manderà una lettera all’impresa e alla stazione appaltante con l’elenco delle cause che il magistrato ha giudicato nei due anni precedenti e i relativi esiti. Se entro un mese nessuno solleverà obiezioni l’incarico di presidente del Cct si intenderà approvato. L’uovo di Colombo, per lorsignori; una mostruosità giuridica, per la logica, il diritto e il conflitto d’interessi. Immaginate uno dei due a ricusare un magistrato che magari loro stessi hanno scelto? Ps: il ministro della Giustizia Carlo Nordio, ex magistrato che viene considerato tutto d’un pezzo, non ha proprio niente da dire su tutto ciò? Strage di Bologna, le condanne per i terroristi neri e le dispute politiche sulle tessere mancanti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 agosto 2023 Da entrambi i fronti la richiesta di desecretare gli atti. Tre condanne definitive (e interamente scontate; oggi gli ergastolani dichiarati colpevoli sono liberi) e due ancora in attesa del giudizio d’appello, hanno certificato la matrice neofascista della strage di Bologna. Eppure su quell’aggettivo si continua a discutere, e ci si continua a dividere. Tanto più nel primo anniversario celebrato con il partito erede del Movimento sociale italiano alla guida del governo, visto che proprio le sezioni del Msi avevano inizialmente frequentato, negli anni Settanta, i condannati. Entusiasti di sfoderare i saluti romani ai raduni con Giorgio Almirante sul palco. Sensibilità e dubbi - Ad alimentare le polemiche ha contribuito il fatto che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nata nel 1977, ha evitato di ricordare il marchio nero di quella bomba. A differenza del presidente del Senato Ignazio La Russa, classe 1947 e dunque militante missino di quella stagione e pienamente consapevole del clima dei Settanta in cui sono cresciuti anche i responsabili accertati dalle sentenze; il suo silenzio avrebbe fatto ancor più rumore. Ma al di là delle differenti sensibilità, e dei pronunciamenti della magistratura, resta il fatto che intorno a quei verdetti non s’è mai diradato l’alone del dubbio. Non solo a destra, giacché ai tempi del comitato “E se fossero innocenti?”, negli anni Novanta, c’erano molti nomi e personalità della sinistra ad esprimere perplessità sulla colpevolezza dei condannati. Perché anche senza contare che non ammettevano quel crimine a differenza di tutti gli altri (e avevano ottimi motivi per farlo, in ogni caso), non tornavano i conti sui ragazzini poco più che ventenni (Valerio Fioravanti e Francesca Mambro; Luigi Ciavardini era addirittura minorenne nell’agosto ‘80) divenuti improvvisamente stragisti, e per di più senza mandanti. Il processo a loro carico infatti, partito con una filiera di intermediari legati al neofascismo della generazione precedente e alle trame piduiste, di grado in grado aveva perso quasi tutti i pezzi, lasciando solo a quei tre la colpa di 85 morti e oltre duecento feriti; altri due “camerati” che avrebbero dovuto fornire l’esplosivo e assistenza sul posto (Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco, presente alla stazione quel 2 agosto) erano stati prima condannati e poi assolti. E il depistaggio organizzato da Licio Gelli con Francesco Pazienza e due ufficiali del servizio segreto militare, pareva piuttosto un impistaggio, poiché dietro la falsa “Operazione terrore sui treni” che indicava una pista internazionale si poteva risalire anche a Fioravanti e ai suoi amici. Il contesto - Perfino sul supertestimone dell’accusa contro i Nuclei armati rivoluzionari, il falsario romano Massimo Sparti, si sono addensati sospetti mai del tutto fugati di una ricostruzione studiata a tavolino e premiata con una scarcerazione per una malattia terminale che invece l’ha lasciato in vita per molti anni. Dopodiché ai tre “ragazzini” s’è aggiunto un altro ex-Nar più anziano, Gilberto Cavallini, e infine l’ambiguo Paolo Bellini, più vecchio ancora e legato ad Avanguardia nazionale, cioè al neofascismo stragista della generazione precedente. Condannato in un processo dove sono indicati pure i mandanti; Licio Gelli e il banchiere piduista Umberto Ortolani, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato e l’ex senatore missino Mario Tedeschi. Tutti morti. Così è stata aggiunta qualche tessera al mosaico incompleto, al termine di un giudizio dove sono stati ascoltati storici, giornalisti e studiosi vari della materia, per ricostruire un contesto che vede le diverse sigle del terrorismo nero di due differenti stagioni, riunite in un unico disegno stragista che lega la strategia del 1969, avviata con gli attentati prima della bomba di piazza Fontana, a quella di undici anni dopo. Ma non si è riusciti a dimostrare, ad esempio, che Bellini e Fioravanti si conoscessero; e non è stata trovata prova certa del finanziamento di Gelli ai Nar. Gli atti desecretati - Pure sulla condanna non definitiva che chiude il cerchio, quindi, c’è chi avanza dubbi. Chiedendo - in questo caso a destra - di accertare la verità anche attraverso i documenti degli archivi segreti non ancora pubblici. Sebbene non sia ben chiaro quali siano, poiché quelli sulla cosiddetta “pista medio-orientale” sono stati svelati e non hanno confermato l’ipotesi alternativa a quella neofascista. Anzi, secondo alcune letture l’hanno esclusa, dal momento che dalle carte emerge come la crisi tra Italia e Fronte popolare per la liberazione della Palestina, fosse stata risolta fin da luglio, dunque prima della strage. Anche chi non ha dubbi sulla matrice neofascista e sulla colpevolezza dei condannati (e non è detto che le due cose debbano coincidere) auspica ulteriori desecretazioni e nuovi passi verso la verità. Ma per completare quella già disegnata dai verdetti giudiziari, non per sostituirla con un’altra. Non è una differenza da poco, che spiega le divisioni al di là delle richieste all’unisono. “I killer non vanno difesi”: minacce al legale di Atqaoui di Valentina Stella Il Dubbio, 3 agosto 2023 Nel mirino degli hater l’avvocata Mozzarini, difensore del 23enne reo confesso dell’omicidio della sua ex. Ecco l’identikit perfetto del soggetto da attaccare sui social: avvocato, donna, legale di un uomo che ha ucciso un’altra donna. Ormai è un copione che si ripete ogni volta. Adesso è il turno di Maria Louise Mozzarini, la quale assiste Zakaria Atqaoui, reo confesso dell’omicidio della ex fidanzata Sofia Castelli a Cologno Monzese. L’avvocato ha ricevuto delle critiche, è stata biasimata per aver intrapreso la difesa del ragazzo, prima come avvocato d’ufficio e poi confermata come di fiducia. La professionista ha ricevuto sia pec da privati cittadini sia insulti sui social, tutti dello stesso tenore: “Vorrei conoscere l’avvocato che difende l’assassino di questa ragazza. Come si fa a difendere un mostro del genere? Già, dimenticavo che i soldi fanno gola a tutti, avvocato dei miei stivali”; “Come si fa a difendere una persona del genere?”; “Questa gente non meritano avvocati!!!!”. E quando qualcuno di buon senso prova a difenderla sottolineando che “il difensore non difende il delitto ma si occupa di tutelare i diritti legali del soggetto. Ma è difficile da capire”, la replica è pronta: “Di quali diritti legali parli!?!? Uno così ha anche dei diritti!?!? Finché c’è gente come voi, i delinquenti saranno sempre in libertà”; “Andate a quel paese avvocati che arrivano a difendere queste persone”; “Come può una donna difendere x lavoro un assassino senza giustificazione?”; “Beh una donna che difende un assassino del genere per soldi (perché alla fine son questi che contano del resto a lei frega nulla) si aspetta per caso solidarietà? Chiedo...”; “una persona con le palle e con dei valori morali rifiuterebbe il mandato”; e potremmo continuare ancora ed ancora. A supportare l’avvocato Mozzarini ci ha pensato la Camera penale di Monza con un comunicato: “Esprimiamo solidarietà alla collega, destinataria di singolari richieste da parte di privati cittadini che la invitano a non assicurare al proprio assistito quelle garanzie processuali che spettano, per legge, a ciascun indagato. Vi è persino chi invita a non accettare l’incarico, ignorando come la difesa di ufficio non preveda, ovviamente, tale possibilità”. I penalisti aggiungono: “Proprio quest’ultimo punto dovrebbe indurre a diverso ragionare. Riflettano, infatti, gli indesiderati commentatori sul fatto che l’assistenza di un difensore sia prevista come obbligatoria e irrinunciabile dallo stesso Stato titolare della funzione punitiva, in attuazione del principio di inviolabilità del diritto di difesa richiamato dalla Costituzione. Basterebbe porre mente a ciò che per molti è un’ovvietà, non per tutti, evidentemente, per comprendere come l’idea di giustizia di un moderno Stato di diritto non contempli scorciatoie di sorta a fronte di crimini efferati, i quali anzi evidenziano più di altri la necessità di un giusto processo per l’accertamento della responsabilità dell’accusato. Quanto più tale principio sarà accolto dall’opinione pubblica come connotazione essenziale della giustizia penale, tanto più - conclude la nota - sarà possibile garantire il sereno svolgimento dell’accertamento giudiziale, unica strada per soddisfare i diritti di ciascuna parte processuale”. Solo due mesi fa la stessa camera penale era stata costretta a fare un comunicato simile a tutela dell’avvocato Sebastiano Sartori, difensore di Alessandro Impagnatiello, reo confesso dell’omicidio della sua fidanzata Giulia Tramontano. Tra i tanti commenti contro il legale leggemmo: “Come si fa a difendere un energumeno del genere; non dovrebbe esistere nessun avvocato che anche a titolo gratuito difenda questo mostro! Come si può esercitare il potere di difesa? Sarebbe da annientare anche lui”; e ancora “le chiedo di riflettere sul ruolo che sta svolgendo e sul messaggio che sta trasmettendo alla società. Difendere un individuo responsabile di una simile atrocità non solo è moralmente riprovevole ma può anche minare la fiducia della comunità nel sistema giudiziario”. I penalisti di Monza replicarono: “Nulla di nuovo, purtroppo: l’identificazione del difensore con il proprio assistito e, dunque, con il reato commesso è una costante che trova il proprio apice proprio in occasione di crimini efferati, i più adatti ad alimentare sentimenti di ritorsione e di vendetta”. Per concludere: “Stupisce infatti l’analfabetismo costituzionale che ispira certe esternazioni, e che ignora non solo la centralità della Difesa nel sistema giudiziario, ma anche gli antecedenti storici che hanno condotto a ritenere indispensabile la presenza di un Difensore a fianco dell’indagato, a prescindere dalla gravità del reato di cui è accusato”. Parma. L’insostenibile calvario di un detenuto tra patologie e sofferenze di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 agosto 2023 Una drammatica vicenda emerge dal cuore del sistema carcerario italiano, in cui un detenuto, colpito da gravi patologie, è costretto a sopportare condizioni inaccettabili. Nel corso del tempo, la sua salute è peggiorata drasticamente, portandolo - come detto - a perdere la vista e a dover sottostare a una serie di disagi nonostante le sue necessità mediche. L’uomo, il cui nome è omesso per preservarne la privacy, è attualmente recluso nel carcere di Parma. È gravemente malato, le sue condizioni di salute sono peggiorate negli ultimi tempi ed è costretto a vivere in condizioni inadeguate. Ha perso la vista, ha lenzuola sporche nonostante abbia necessità di fare autocateterismi su superfici sterili. Nell’ultimo periodo addirittura ha iniziato ad avere problemi di deglutizione e gli hanno applicato una picc centrale. A seguito di una segnalazione dell’associazione Yairaiha Onlus, la senatrice Ilaria Cucchi ha preso posizione, rivolgendosi al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e al direttore del carcere, Valerio Pappalardo, esortandoli ad agire. La senatrice ha sottolineato inoltre come il detenuto non possa essere considerato compatibile con il regime carcerario. La storia di questo detenuto è una testimonianza cruda delle sfide che i reclusi affrontano quando si trovano ad affrontare patologie gravi e complesse all’interno del sistema penitenziario. La sua lotta è costellata da una serie di complicazioni mediche che hanno messo a dura prova la sua salute e, in alcuni casi, addirittura la sua stessa vita. Come evidenziato dalla segnalazione dell’associazione Yairaiha e documenti medici allegati, il detenuto è stato ricoverato d’urgenza presso l’ospedale di Parma a causa di valori pressori pericolosamente elevati, ulteriormente complicati dalla presenza di numerose allergie. Tuttavia, l’incapacità dei medici carcerari di intervenire tempestivamente ha comportato conseguenze gravi, tra cui una sepsi con febbre altissima. A complicare ulteriormente il quadro clinico è stata la sindrome di dumping, una condizione debilitante caratterizzata da sintomi invalidanti come sudorazione e svenimenti sincopali. La storia di questo uomo è segnata da numerosi tentativi, da parte sua e dei suoi familiari, di ottenere cure adeguate e un trattamento rispettoso della sua salute fragile. Tuttavia, le richieste di cure appropriate sono state spesso ignorate e l’accesso a visite mediche adeguate è stato negato in numerose occasioni. Questa situazione ha portato a peggioramenti nel suo stato di salute nel corso degli anni, con ripercussioni gravi anche sugli organi vitali. Inoltre, le sue condizioni di detenzione sono state caratterizzate da un’igiene precaria, con conseguenti infezioni alle vie urinarie, aggravate dall’esecuzione quotidiana di autocateterismi in ambienti non sterili. I familiari del detenuto sono preoccupati non solo per il suo stato fisico, ma anche per la sua salute mentale. Ha manifestato segni di profonda depressione e disperazione, dichiarando persino di voler porre fine alla sua vita. Le condizioni della sua detenzione all’ospedale di Parma non offrono certo un ambiente adatto al suo benessere psicologico, con una finestra chiusa e la mancanza di un campanello d’allarme funzionante. La richiesta di differimento della pena e, successivamente, degli arresti domiciliari presso l’ospedale sono state accolte solo in parte, evidenziando le sfide burocratiche e legali che spesso ostacolano soluzioni umane e compassionevoli. La senatrice Cucchi ha portato la questione all’attenzione delle autorità competenti, sottolineando l’importanza di garantire che ogni individuo, anche dietro le sbarre, abbia accesso a cure mediche adeguate e rispettose dei diritti umani. La storia di questo detenuto è un triste riflesso delle sfide più ampie che affliggono il sistema carcerario italiano e sottolinea l’urgenza di riforme significative per assicurare un trattamento umano per tutte queste storie che puntualmente si ripresentano nelle patrie galere. Modena. Morti nel carcere, la Corte Ue per i diritti umani chiede chiarimenti all’Italia di Valeria Casolaro lindipendente.online, 3 agosto 2023 La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto ammissibile il ricorso dei familiari di uno dei detenuti deceduti durante la rivolta nel carcere Sant’Anna di Modena, scoppiata l’8 marzo 2020 per via all’assenza di misure adeguate al contenimento della diffusione Covid-19 e al conseguente terrore del contagio tra i detenuti. Sul caso, spiegano gli avvocati, i magistrati hanno chiesto l’archiviazione senza che fosse fatta luce sulle cause dei nove decessi tra i detenuti. Il governo italiano sarà ora chiamato a rendere conto del motivo per cui non è stato in grado di mettere in atto una comunicazione efficiente riguardo la pandemia all’interno della struttura e giustificare la mancata tutela dei detenuti, oltre a rispondere della eventuale violazione del divieto di effettuare trattamenti inumani e degradanti. È il 7 marzo 2020 quando nell’istituto di Modena, pesantemente affollato, si verifica il primo contagio da Covid-19. Le immagini che filtrano all’interno del carcere grazie alla televisione (l’invito a non uscire di casa, il distanziamento sociale, il lockdown) scatenano trai i detenuti il panico, amplificato dalle condizioni di restrizione della libertà personale e di sovraffollamento, ormai strutturale all’interno degli istituti penitenziari italiani - nel carcere di Sant’Anna la capienza era di 369 posti, i detenuti presenti 546. E poi la mancanza di mascherine e di disinfettanti, l’impossibilità di mantenere il distanziamento, le restrizioni circa le visite dei familiari. Quello di Modena non è l’unico carcere nel quale si verificano sommosse e rivolte, ma costituisce il caso più grave, di fatto il più grave degli ultimi 40 anni di storia penitenziaria italiana “per entità, ampiezza del coinvolgimento della popolazione detenuta, tragicità dell’epilogo”. Il bilancio, dopo quattro giorni, è di 9 deceduti tra i prigionieri. Sono 120 gli agenti di polizia penitenziaria indagati per violenza, lesioni e tortura. Il 23 giugno scorso, tuttavia, la procura di Modena chiede l’archiviazione del caso. Le testimonianze dei detenuti sono definite “inattendibili”, le dichiarazioni sui pestaggi “discordanti”. Le ferite su detenuti coinvolti e cadaveri sono tuttalpiù riferibili a “condotte facinorose”. E poi “Appare oltremodo inverosimile che, a fronte di una situazione così allarmante, il personale di polizia penitenziaria concentrasse la propria presenza e le proprie energie per portare a compimento azioni di pestaggio in danno dei detenuti, piuttosto che impegnarsi affinché quella che appariva come una rivolta dalle dimensioni ‘epocali’ potesse essere gestita nel migliore dei modi e nel minor tempo possibile”. Tutte conclusioni alle quali i magistrati sono giunti senza tuttavia poter visionare i video di sorveglianza, dei quali non è ancora chiaro se vi sia traccia o meno. Inizialmente era stato dichiarato che i detenuti avevano distrutto le telecamere, poi che i secondini avevano staccato la corrente: “potrebbero comparire magicamente nel momento in cui ci sarà da accusare di devastazione e saccheggio i detenuti ritenuti responsabili della rivolta” commenta Alice Miglioli, del Comitato verità e giustizia per la strage del Sant’Anna di Modena. Per la procura, dunque (come già successo nel 2021, con la prima richiesta di archiviazione), la colpa è ancora una volta solamente dell’overdose di metadone e degli psicofarmaci. A distanza di oltre tre anni dai fatti, tuttavia, il governo sarà forse finalmente chiamato a rispondere delle violazioni dei diritti umani che hanno avuto luogo nel penitenziario. La Corte EDU ha ritenuto ammissibile il ricorso dei familiari di una delle vittime. Il governo dovrà dunque ora rispondere ai quesiti della Corte Europea riguardo l’eventuale mancato rispetto delle norme europee in materia di salvaguardia dei diritti umani. Come spiegato dalla legale Barbara Randazzo, “Il giudizio interno si è aperto e concluso nell’ambito di neppure di un grado di giudizio, essendoci stata un’archiviazione per i nove decessi dei detenuti. Con questa archiviazione è stata chiusa definitivamente una vicenda senza che fosse stata fatta chiarezza sulle dinamiche che hanno dato luogo ai fatti”. Roma. Maxi-frode sui cibi per i detenuti: due indagati della ditta Ventura di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 3 agosto 2023 L’azienda è collegata allo storico gruppo di Arturo Berselli, da sempre vincitore del servizio di ristorazione nelle carceri regionali, vitto e spaccio (sopravvitto). I vertici della Ventura srl, l’azienda di Napoli che, un anno dopo l’altro, si è aggiudicata la gara d’appalto per il vitto nelle carceri laziali sono sotto accusa per frode nelle pubbliche forniture. Due sono gli indagati, iscritti dai pm Giulia Guccione e Gennaro Varone sul registro della Procura. La svolta investigativa è arrivata dopo il blitz dei finanzieri del nucleo di polizia valutaria che il 18 gennaio scorso hanno prelevato e sottoposto ad analisi di laboratorio il cibo servito alla popolazione di Rebibbia. Tra latte annacquato e carne di scarto quei prodotti si sono rivelati adulterati, come denunciato dall’ex garante capitolina, Gabriella Stramaccioni, in un lungo esposto alla magistratura. Ventura è la vincitrice di un appalto che fissa a 3 euro e 90 centesimi (ma in precedenza erano appena 2,39) il costo giornaliero di colazione, pranzo e cena per ciascun detenuto. Nel silenzio di tanti la ditta napoletana avrebbe raggirato la pubblica amministrazione. Se poi quest’ultima si sia rivelata distratta è ancora da appurare: una denuncia per turbativa d’asta da parte dell’azienda esclusa dalla gara, la Ladisa di Bari, al momento non è approdata ad alcuna conclusione (se non quella amministrativa visto che il Consiglio di Stato ha dato ragione alla ricorrente, assistita dall’avvocato barese Enrica Della Bruna). La Ventura è collegata allo storico gruppo di Arturo Berselli, da sempre vincitore del servizio di ristorazione nelle carceri regionali, vitto e spaccio (sopravvitto). Chi, per ragioni di qualità, evitava il cibo della mensa finiva per foraggiare la medesima ditta acquistando prodotti allo spaccio. Un pronunciamento del garante della concorrenza, all’epoca in cui i due servizi erano assegnati alla stessa Ventura, aveva evidenziato dubbi sulla legittimità del caso. In seguito (Marta Cartabia ministro) le gare per vitto e sopravvitto sono state separate ma la Ventura ha continuato ad aggiudicarsi il servizio di mensa. Anche la Corte dei Conti aveva rimarcato il contrasto di quell’appalto aggiudicato con un vertiginoso ribasso con il diritto (costituzionale) alla salute da parte dei detenuti. Tanto che il procuratore regionale del Lazio, Pio Silvestri, aveva ipotizzato un possibile danno di immagine per la pubblica amministrazione. Nell’esposto della ex garante confluivano le testimonianze dei detenuti, alcuni dei quali impiegati nelle cucine del penitenziario. Si parlava di pesce trattato con farine, di carne di scarto e latte mescolato ad acqua. E se dalla Ventura non rilasciano commenti, è Stramaccioni il cui incarico non è stato rinnovato, a dire la sua: “L’inchiesta conferma le mie denunce sulla vergognosa e annosa vicenda del vitto e sopravvitto nelle carceri romane della quale nessun garante comunale o regionale si è occupato. Per quella denuncia ho scontato isolamento e ritorsioni nel corso del mio mandato”. Torino. Il giudice ai carabinieri: “Si può dare del ‘tu’ agli immigrati, ma va fatto con rispetto” di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 3 agosto 2023 Il magistrato Andrea Natale lo ha spiegato durante una lezione in un processo per direttissima, in cui lui stesso ha dato del “tu” all’imputato: “Può servire per la comprensione”. Si può dare del “tu” a un immigrato se è utile per farsi comprendere, ma bisogna comunque rivolgersi a lui con rispetto. La lezione di buone maniere è quella del giudice Andrea Natale del Tribunale di Torino, che ieri mattina ha celebrato un processo per direttissima nei confronti di un giovane di origini africane di fronte a un pubblico speciale, una trentina di carabinieri che stanno svolgendo un corso di formazione. Il tema della giornata era legato agli aspetti tecnico-giuridici connessi ai procedimenti che si celebrano per direttissima e per questo i militari hanno partecipato all’udienza. Nel corso della quale il giudice si è rivolto all’imputato dandogli, per l’appunto, del “tu”. A fine processo, il magistrato si è intrattenuto con i carabinieri e ha spiegato: “Avrete notato che io, all’imputato, davo del “tu”. Ovviamente non l’ho fatto per maleducazione, ma soltanto perché in questo caso il “tu” era più funzionale a farsi capire. Quindi, si può dare del “tu” in questo caso, ma l’importante è farlo con rispetto”. Del resto, il “lei” è una locuzione di cortesia che non si usa in tutte le lingue: non esiste ad esempio nei Paesi anglosassoni e anche in diversi idiomi africani. Per gli immigrati che arrivano in Italia e si confrontano con la nostra grammatica è chiaramente più facile comprendere una domanda o un dialogo dando loro del “tu”. Così come per l’imputato che oggi - 2 agosto - era presente in aula. L’uomo, che alle spalle ha quattro denunce per reati contro il patrimonio, era stato arrestato nelle scorse ore mentre scappava dopo aver rubato cuffiette per cellulare in un ipermercato e aver dato diversi pugni a un vigilante. Il giudice ha convalidato l’arresto, ma lo ha scarcerato dandogli l’obbligo di firma. Una misura che non entrerà in vigore, perché l’imputato ha patteggiato una pena (sospesa) inferiore ai due anni. Vicenza. Al S. Pio X conclusa seconda sessione del corso di “Cittadinanza attiva & responsabile” Ristretti Orizzonti, 3 agosto 2023 Si è conclusa ieri nella Casa Circondariale di Vicenza S. Pio X la seconda sessione del corso di “Cittadinanza attiva & responsabile” finanziato dall’Otto per mille della Tavola Valdese - Progetto OPM/2022/32508 che ha visto per quasi due mesi le collaboratrici di “Progetto Carcere 663 - Acta non Verba OdV” impegnate nel preparare alla vita attiva (all’uscita dal carcere, ovviamente) la dozzina di detenuti che Direzione e Area Giuridico - Pedagogica dell’Istituto hanno ritenuto potessero essere utilmente coinvolti nell’azione formativa. La prima sessione dedicata ad un’altra dozzina di persone era terminata verso febbraio e, per poter iniziare la seconda, si è dovuto attendere la fine dell’anno scolastico data la scarsità di spazi a disposizione nella struttura. Un sacrificio per tutti con questo caldo ma crediamo ne sia valsa la pena. Mantova. Il rapper si esibisce in carcere, un messaggio di speranza di Paola Cortese Gazzetta di Mantova, 3 agosto 2023 Parole forti, di rabbia mista a speranza, sono state cantate la mattina del 2 agosto in carcere da tre giovani detenuti la cui esibizione ha preceduto quella del celebre rapper Jamil. L’organizzata è stata curata dal collettivo musicale Strongvilla. L’auditorium “don Mario Chittolina” si è affollato per l’occasione, molto sentita e attesa dai detenuti e dalle detenute fans del rapper veronese. A rompere il ghiaccio sono stati proprio Andrea, Hamed e Francesco, che si sono esibiti al termine del loro laboratorio di musicoterapia “Pensieri liberi”, condotto da Annalisa Losacco con canzoni che raccontano di loro, dei loro sogni e della loro vita, passata e presente. Applauditi dal pubblico hanno poi lasciato campo libero all’esibizione di Jamil. “Sono contento ti essere vicino a questi ragazzi cui sono davvero riconoscente perché mi ascoltano - ha detto prima di esibirsi Jamil, 32 anni, noto a livello nazionale con collaborazioni anche con Fedez, Emis Killa e Mr Rain - È la prima volta che canto in un carcere, non sono emozionato, è normale, avrei potuto benissimo esserci anch’io dall’altra parte. Nonostante tutto si può avere un momento di rivalsa. Occupare il proprio tempo con qualcosa di artistico. La musica è stata la mia fortuna. Quando ho cominciato a viverci non ho voluto sputarci sopra. Mi sembrava irrispettoso verso Dio e verso il destino. Quando non hai soldi ti crei l’alibi, ma a un certo punto della mia vita ho deciso che non dovevo più fare scelte sbagliate”. L’appuntamento, una sorta di festa della musica che la casa circondariale di Mantova organizza ogni anno, era inserito in “Milone 2.0”, progetto regionale che ha per capofila la cooperativa Hike. L’esibizione di Jamil ha entusiasmato i numerosi carcerati che hanno partecipato alla mattinata diversa. Hanno cantato con lui, battuto il tempo, e poi hanno indossato la t-shirt che il rapper ha regalato a ognuno di loro per poi mettersi in posa, tutti inseme, per una foto di gruppo. All’evento hanno preso parte il comandante di reparto Marco Rosario Romano e la direttrice della casa circondariale Metella Romana Pasquini Peruzzi oltre a tanti componenti dello staff. Quasi anticipando il messaggio di Jamil, per la prossima settimana è programmato l’inizio di un laboratorio di canto rap curato da Strongvilla. “Abbiamo spostato la festa della musica per avere con noi proprio Jamil un artista più vicino ai detenuti - ha spiegato Chiara Sgarbi, funzionario giuridico pedagogico della casa circondariale di Mantova - Abbiamo avuto anche corsi di breakdance, e altri laboratori di musica e scrittura. Le nostre collaborazioni, oltre che con Strongvilla per la musica, sono anche con Teatro Magro e con l’arteterapia”. Attualmente il carcere di via Poma sta ospitando il massimo dei detenuti possibili, solo due nella sezione femminile, senza peraltro mai rinunciare a tutte le attività e ai percorsi riabilitativi. “Pensare l’impensabile tentare l’impossibile”. Il caso Cospito e il 41bis recensione di Frank Cimini Il Dubbio, 3 agosto 2023 “Pensare l’impensabile tentare l’impossibile” è il titolo di un lavoro di 73 pagine (10 euro Edizioni Colibrì’) a cura dell’Archivio Primo Moroni, Calusca City Lights e Csoa Cox 18 che sintetizza un dibattito avvenuto a Milano nei mesi scorsi e va oltre aggiornando il caso di Alfredo Cospito e del 41bis del quale viene messa in discussione la definizione di carcere duro perché significherebbe pensare che possa esistere un carcere leggero. Insomma il problema è il carcere. “Pensare l’impensabile, tentare l’impossibile” è una frase di Alfredo Cospito riferita da uno dei suoi legali Maria Teresa Pintus. “Il 41bis è una misura di pressione non una condanna come si sente dire nei talk show e pure nei telegiornali. La condanna la infligge il giudice il 41bis no - sostiene Pintus- La sottoscrizione avviene a firma del ministro della Giustizia, quindi dell’esecutivo. Se da un punto di vista tecnico è un errore da un punto di vista popolare il 41bis invece resta effettivamente una condanna di cui è molto difficile ottenere la revoca. Il 41bis diventa un marchio. L’unico giudice competente a revocarlo è nel nostro Paese il Tribunale di Sorveglianza di Roma che si configura come un tribunale speciale”. E non è vero che il 41bis viene applicato solo a chi ha l’ergastolo ostativo. Tra i destinatari anche reclusi in attesa di giudizio. Charlie Bernao parla del collegamento fortissimo tra guerra è populismo penale, attività interna di repressione di punizione e di uso della tortura. “I giuristi creano a tavolino il diritto penale del nemico e contro il nemico si creano i presupposti per utilizzare la tortura che sarebbe vietata dalle convenzioni internazionali. Gli psichiatri e gli psicologi ci dicono che l’effetto dell’isolamento sulle funzioni cerebrali del prigioniero è molto simile a ciò che succede quando un uomo viene picchiato affamato o privato del sonno”. Insomma il 41bis è una forma aggiornata e particolarmente disumana di tortura. Elton Kalica parla di “carcere di annientamento” oltre che di tortura. Kalica che è stato detenuto in regime di alta sicurezza racconta che “ti contavano i calzini le mutande i pantaloni le magliette e soprattutto i libri. Al 41bis sono morti gran parte dei membri di Cosa Nostra e altri ormai in età avanzata moriranno nei prossimi anni. Poi si cercherà altra gente a mettere al 41bis o si deciderà di chiuderlo? “A mio avviso - conclude Kalica il fatto di averlo reso permanente attesta l’intenzione di perpetuarlo. Magari mi sbaglio ma voi non contateci”. “In tanti vogliono il morto ma nessuno si assume la responsabilità di vestire i danni del boia - dice Anna Beniamino coimputata di Cospito nel processo per i pacchi bomba di Fossano - in compenso sono tanti i becchìni pronti per preparare la fossa all’anarchico, un balletto sguaiato intorno a una forca. La lotta di un anarchico in sciopero della fame ha spezzato la narrazione imperante nonostante il ridicolo tentativo di dipingerlo colluso con i mafiosi”. L’avvocato Flavio Rossi Albertini ricorda che quando Cospito ha deciso di interrompere lo sciopero della fame ha ringraziato tutti e tutte coloro che hanno reso possibile “questa tenace quanto inusuale forma di protesta”. Considerazione finale inevitabile. Di questo lavoro sarebbe stato orgoglioso, e lo dimostra la partecipazione all’iniziativa dell’Archivio, il Maestro Primo Moroni che aveva dedicato molti anni della sua vita alla battaglia contro il carcere e l’articolo 90 il padre del 41bis all’inizio dell’infinita emergenza italiana. Infinita e infatti siamo ancora qui. “Delitti di criminalità organizzata e collaboratori di giustizia: luci e ombre del regime premiale” recensione di Tito Lucrezio Rizzo L’Opinione, 3 agosto 2023 Una spiccata notorietà in ambito europeo acquisì l’opera “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (1764), il quale sostenne che il magistero penale avrebbe dovuto ispirarsi più a un fine di difesa sociale, che a quello di comminare dei castighi, innanzi a delle responsabilità che dovevano essere sempre personali e mai “oggettive”. Criticò conseguentemente la pratica diffusamente in uso della tortura, la disumanità delle leggi e della pena di morte, la qual ultima andava nella generalità dei casi abolita, poiché il potere deterrente della sanzione non era legato all’entità del suo ammontare in astratto, bensì alla certezza della sua applicazione. Le pene dovevano perciò essere miti, ma sicure, senza alcuna eccezione alcuna, come quella rappresentata dalla grazia. Non dovevano in conclusione gli esecutori delle norme fare ricorso a degli atti di indulgenza particolare, bensì occorreva che il legislatore fosse saggio, misericordioso e umano per la generalità dei casi. Da allora la legislazione penale ha compiuto - naturalmente - dei grandi passi, fino ad arrivare ai tempi attuali, che costituiscono l’oggetto del pregevole libro della professoressa Antonina Giordano e della dottoressa Ilaria Leccese Delitti di criminalità organizzata e collaboratori di giustizia: luci e ombre del regime penitenziale premiale. Ivi viene affrontato un tema di particolare attualità, nel confronto sul rapporto costi-benefici nella legislazione sul pentitismo che, se per un verso ha consentito notevoli successi sotto il profilo investigativo, per altro verso ha evidenziato delle criticità sia sotto il profilo dell’attendibilità dei cosiddetti collaboratori di giustizia, che sotto quello di un reale ravvedimento interiore da parte degli stessi, e quindi di una netta rescissione dei legami con il mondo malavitoso. Il libro è l’edizione aggiornata alla più recente normazione, dottrina e giurisprudenza, del testo che nel febbraio del 2019 ottenne dalla Camera dei deputati il prestigioso Premio “Falcone e Borsellino”, grazie all’accurata analisi del fenomeno mafioso e del correlato sistema sanzionatorio, offerta con un nitore espositivo tale da renderlo accessibile anche al più vasto pubblico dei “non addetti ai lavori”. Il testo prende le mosse dalle finalità proprie del sistema penitenziario: quella punitiva e quella recuperativa, al fine del reinserimento nella società civile. Viene evidenziato il “sistema binario “con dei circuiti trattamentali differenziati, a seconda della tipologia del crimine commesso e dell’ambito in cui è stato realizzato, singolarmente o in un sistema di criminalità organizzata, nel qual ultimo caso il legislatore è naturalmente più severo nel momento sanzionatorio. Se, peraltro, il reo si dissocia fattivamente dall’organizzazione delinquenziale di provenienza collaborando con la giustizia, lo Stato interviene con la concessione di benefici penitenziari e misure di protezione in suo favore, venendosi in tal modo a realizzare una sorta di “sartorializzazione” della pena, perfettamente aderente con gli scopi sanciti dalla Costituzione (articolo 27,3: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”), e con quei requisiti di equità sostanziale che in ogni Paese civile sono volti a temperare il rigor iuris della Legge, intrinsecamente generale e astratta. Prendendo le mosse dalle origini del crimine organizzato nostrano (mafia, camorra, sacra corona unita), vengono citati anche rilevanti fenomeni di “importazione “romena, cinese, nigeriana, nordafricana, che nel loro insieme sono definiti “mafie”. Dal punto di vista strutturale, i sodalizi malavitosi hanno dei moduli organizzativi e operativi abbastanza omogenei: “Il crimine organizzato-osservano le AA - inteso come rete strutturata e gerarchicamente ordinata, risulta idoneo ad inserirsi fruttuosamente nella realtà economica e nei rapporti con le amministrazioni dello Stato, provocando una devianza dell’ordinamento democratico, definibile validamente come fallimento dello Stato”, operando anche tramite una sorta di rete transnazionale per la reciproca collaborazione, fra le strutture criminali dei vari continenti. Segue un ampio excursus storico-giuridico sul fenomeno mafioso in senso lato, intendendosi questo termine genericamente onnicomprensivo di tutte le organizzazioni criminali, che il legislatore ha opportunamente contemplato nell’articolo 416 del Codice penale, concernente il reato di associazione a delinquere, punibile già per l’esistenza di un vincolo associativo finalizzato alla commissione di reati, a prescindere dal fatto che vengano commessi o meno (cosiddetto “reato di pericolo”). Nel 1992 è stato introdotto un reato più specifico, con l’articolo 416 bis del Codice penale, per fronteggiare la specificità dell’organizzazione mafiosa, con la sua forza intimidatrice e omertosa. A fronte del “salto di qualità” compiuto dalla criminalità organizzata, con sempre più vaste ramificazioni e interazioni a livello internazionale, lo Stato ha risposto con una serie di misure di prevenzione sin dal 1965, per arrivare in ultimo, nel 2011, al Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, onde agire in anticipo contro i disegni organizzativi ed espansivi di una malavita ormai globalizzata, anche grazie alle opportunità offerte dalla tecnologia informatica. Ricorrono nel libro di cui si discorre, ampi ed esaustivi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza, anche sul tema del trattamento differenziato della pena, nell’ottica rieducativa attivata a far data dalla riforma del 1975 sull’ordinamento penitenziario, per la richiamata individualizzazione della pena, in base alla rilevanza di un serio impegno collaborativo da parte dal detenuto, al fine del suo reinserimento nella società civile. Tra i benefici penitenziari analizzati, assumono una particolare rilevanza l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio, l’affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare, il regime di semilibertà. È il principio di flessibilità delle modalità attuative della pena, che pur essendo doverosamente predeterminata nella necessaria astrazione generalizzante del legislatore, può nei casi particolari essere oggetto del richiamato adattamento sartoriale alla personalità del singolo reo, attraverso un apposito percorso riadattativo-trattamentale. Nascono da tale esigenza le sanzioni sostitutive, che consentono (nei casi in cui non è applicabile la mera pena pecuniaria) di applicare misure limitative della libertà personale (quali la libertà controllata e la semidetenzione) meno costrittive della reclusione e che, non comportando un totale sradicamento, rendono più facile il reinserimento sociale del condannato. Nella medesima ottica rientrano le misure alternative alla detenzione, quali l’affidamento in prova al servizio sociale e la semilibertà. Sono istituti che consentono al condannato alla reclusione, di evitarla in tutto o in parte (come nel caso della semilibertà, purché si rispettino determinate prescrizioni). Dalla stessa logica nascono gli istituti giuridici della liberazione anticipata e dei permessi premio riconosciuti dall’ordinamento penitenziario. È a far data dagli anni ‘70 che il principio rieducativo assurse a valore fondante di varie riforme legislative; mentre nella stessa Corte Costituzionale si veniva affermando il riconoscimento del richiamato principio, vuoi in materia di misure di sicurezza (sentenza 167/1972), vuoi in materia di libertà condizionale (sentenza 204/1974), al qual ultimo riguardo essa statuì che “in virtù del disposto costituzionale sullo scopo della pena, sorge per il condannato il diritto al riesame della pena in corso di esecuzione, al fine di accertare se la quantità di pena espiata, abbia o meno realizzato positivamente il proprio fine rieducativo”. Dopo la nota riforma dell’ordinamento penitenziario, avviata con Legge 354/1975, il carcere venne considerato, alla luce dell’articolo 2 della Costituzione - con un’interpretazione a nostro avviso alquanto ardita, ma significativa dell’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza verso la preminenza delle finalità rieducative - come una “formazione sociale” dove il recluso deve poter estrinsecare la sua personalità, compatibilmente con il suo peculiare status. Tuttavia il sistema in parola venne guardato con crescente diffidenza, a causa dell’aumento della criminalità - segnatamente di tipo eversivo - che produsse una sempre più accentuata domanda di sicurezza: si giunse così a parlare di “crisi del mito del trattamento”. In realtà il sistema sembrava dare buoni frutti nel campo dei reati comuni, laddove nell’ambito di quelli più gravi, attività come il terrorismo dovettero affrontarsi con una legislazione d’emergenza adeguata alla devastante patologia del fenomeno, che impose di preservare il valore primario della salus suprema rei publicae di classica memoria. A far data dagli anni Ottanta il giudice costituzionale attribuì al principio rieducativo il “criterio finalistico principale” anche per gli ergastolani, per cui con sentenza 274/1983 statuì che “la possibilità di ottenere una riduzione della pena incentiva e stimola nel soggetto la sua attiva collaborazione all’opera di rieducazione. Finalità, questa, che il vigente ordinamento penitenziario persegue per tutti i condannati a pena detentiva, compresi gli ergastolani”. Il libro di cui si discorre, si conclude con un’esaustiva disamina della “nuova premialità” dell’ordinamento penitenziario, strettamente funzionale alle finalità rieducative del sistema carcerario, cui deve far riscontro la fattiva condotta collaborativa del recluso, che a determinate condizioni viene ammesso a speciali misure di protezione. “Delitti di criminalità organizzata e collaboratori di giustizia: luci e ombre del regime penitenziale premiale”, di Antonina Giordano e Ilaria Leccese, Di Carlo Edizioni, 18,77 euro La povertà si cura con le vere riforme di Elsa Fornero La Stampa, 3 agosto 2023 L’Italia soffre di problemi strutturali molto seri, riassumibili nella scarsissima crescita del reddito per abitante e dell’occupazione negli ultimi decenni. Per risolverli, servono cure in profondità che il nostro Paese sembra purtroppo trascurare, immerso com’è in un susseguirsi di emergenze. I governi si limitano così a inseguire le urgenze, tamponano il male senza riuscire a risolverlo; un po’ come un medico che si limiti a prescrivere al malato farmaci antinfiammatori senza preoccuparsi delle cause dell’infiammazione. Non si va alla radice dei problemi, non si analizzano i collegamenti tra le varie disfunzioni, si sorvola sulle cause più profonde del declino, si coinvolge poco l’opinione pubblica, portata a confrontarsi con un disastro al giorno e indotta a pensare che il governo possa ovviarvi senza che qualcuno paghi il conto. Questo percorso è forse comprensibile (ma non giustificabile) per governi che già nascono con una previsione di breve durata; non lo è, invece, per quelli che hanno aspettative di lungo termine, i governi di legislatura nei quali Giorgia Meloni orgogliosamente colloca il suo. Eppure, l’impressione complessiva è che questo governo sia costantemente in affanno e si dimostri complessivamente poco preparato, tenuto assieme da una generica cornice di destra che tende a premiare - nell’ambito di un sentiero di crescita troppo vago rispetto ai bisogni del Paese - le categorie sociali che ritiene più industriose: piccole e medie imprese, lavoratori autonomi, professionisti, considerati, a torto o a ragione, il bacino elettorale da cui attingere voti. In cima alle priorità il governo ne colloca così la liberazione dai lacci e lacciuoli della regolamentazione e della burocrazia; ne accetta la certa resistenza alla competizione di mercato e la preferenza verso nicchie di protezione; ne tollera benignamente una certa propensione a evadere le imposte, considerate una vessazione di stato. In questa scala di priorità, il “mondo del lavoro” e le sue crescenti difficoltà si trovano nettamente in secondo piano. Questo atteggiamento del governo se era forse giustificabile all’inizio della legislatura, non lo è più oggi, essenzialmente per due ragioni. Da un lato, un’economia che cresce in modo sostenibile ha bisogno di un sostanziale equilibrio tra lavoro e capitale, e quindi di un buon bilanciamento sociale, mentre è sempre più evidente che il lavoro - e gli investimenti che migliorano qualità, remunerazione e, conseguentemente, benessere dei lavoratori - è stato progressivamente sacrificato negli ultimi decenni, con impoverimento qualitativo dell’occupazione, riduzione dei salari reali e aumento della povertà e dell’emarginazione. Il fatto che questo andamento sia molto diffuso nel mondo non lo rende meno preoccupante. Anzi, dovrebbe rappresentare un chiaro monito per chi pensa che basti favorire l’impresa, con sussidi, condoni e altri strumenti sopra menzionati perché si avvii una ripresa duratura. Ci vogliono invece investimenti nella scuola, nella formazione, nella sanità e in tutti i servizi che rafforzano le competenze e l’occupabilità delle persone e ne favoriscono l’integrazione sociale, con il lavoro concepito non come mera necessità - o, peggio, mortificazione - ma come auto-realizzazione e contributo al miglioramento della società. Questa logica non è solo alla base di una parte importante del Pnrr, che non si limita al finanziamento di investimenti e riforme ma rappresenta soprattutto uno strumento di promozione di una società meno squilibrata, demograficamente, socialmente e territorialmente (il che, tra l’altro, suggerisce estrema prudenza sull’introduzione dell’autonomia differenziale, con il rischio di aumentare i divari e indurre sempre più i giovani a emigrare dal Sud). Dovrebbe anche essere alla base della prossima legge di bilancio, troppo vicina, però, alle prossime elezioni europee per non esserne condizionata. E qui interviene la seconda ragione dell’inaccettabilità di logiche partigiane di breve termine: il livello molto (elevato del nostro debito pubblico. Il fastidio che alcuni ministri mostrano nei confronti dei vincoli di bilancio è indicativo della miopia di chi guarda quasi soltanto alle prossime elezioni e si scorda delle prossime generazioni, peraltro sempre meno numerose e meno disponibili ad accollarsi i costi di politiche di corto raggio. È emblematico, a proposito, che le spese rinviate o accantonate del Pnrr riguardino in modo particolare proprio i più giovani: dagli asili nido alle residenze universitarie e persino le sistemazioni idrogeologiche che, riducendo i rischi ambientali, dovrebbero lasciare in eredità ai giovani un territorio più sicuro. Spetterà al ministro Giorgetti ricordare che non vi sono risorse sufficienti per accontentare tutte le esigenze (velleità?) delle forze politiche di maggioranza, e anche di opposizione, visto che le sirene elettorali sono presenti anche in questo campo (è significativo il recente richiamo del Fmi alla necessità di contenere la spesa pensionistica). Invece di invocare la troppo semplicistica contrapposizione tra assistenzialismo e crescita, le risorse andranno perciò concentrate sulle fasce più deboli nella doppia logica, sopra ricordata, dell’accompagnamento verso opportunità di inclusione e di crescita personale e collettiva. E ciò non solo per i vincoli che saranno posti dalle nuove regole europee con il nuovo del Patto di Stabilità ma soprattutto perché non possiamo continuare a sacrificare le prospettive dei giovani al benessere, sia pure relativo, delle generazioni meno giovani. Anche gli assistenti sociali vittime della fine del reddito di cittadinanza di Nello Trocchia Il Domani, 3 agosto 2023 Dietro una porta blindata c’è l’ufficio dei servizi sociali a Castel Volturno, 29 mila abitanti, altri 15 mila irregolari, e un solo assistente sociale assunto a tempo indeterminato, supportato da tre precari. A Castel Volturno, in provincia di Caserta, l’ufficio dei servizi sociali è protetto da una porta blindata, da anni. Dentro c’è una sola dipendente assunta a tempo indeterminato, altre tre persone sono state assunte con i fondi del piano operativo nazionale, i loro contratti si rinnovano di anno in anno e tra pochi mesi scadono. Gli abitanti del comune sono 29mila, altri 15mila sono gli invisibili, gli irregolari, sfruttati e spesso manovalanza del crimine organizzato locale e della mafia nigeriana che in questo territorio spadroneggia da tempo. La situazione del comune casertano non è diversa da quella di altri comuni dove ogni giorno bisogna fare i conti con la povertà materiale, culturale, il disagio sociale e le richieste d’aiuto. Contro i poveri - Il governo guidato da Giorgia Meloni ha cancellato il reddito di cittadinanza con un sms, spedito dall’Inps, che ha così comunicato a 169mila persone la fine dell’erogazione: “Domanda di reddito di cittadinanza sospesa come previsto dall’articolo 48 del decreto legge 20/23 in attesa eventuale presa in carico dei Servizi sociali”. Ma oltre al danno è arrivata la beffa. Gli assistenti sociali sono in numero insufficiente in quasi tutti i comuni, i dati del Consiglio nazionale della categoria (Cnoas) evidenziano questa mancanza generalizzata. Ci sono regioni con in media un assistente ogni settemila abitanti, la legge ne prevede uno ogni cinquemila con un nuovo obiettivo di servizio che abbassa la media a uno ogni quattromila. Le ragioni di queste carenze negli organici sono note: gli enti locali pieni di debiti. Il blocco delle assunzioni e i vincoli di bilancio, negli anni, hanno fatto il resto. A questo si aggiunge una diffusa incapacità di spesa dei fondi messi a disposizione, come quello Povertà e inclusione. “La nostra professione è svolta negli enti locali, spesso, in situazioni di precarietà e insicurezza, un tempo indeterminato arriva a 1.400 euro al mese mentre vengono richieste responsabilità enormi. Noi siamo la pelle delle istituzioni, ma totalmente privi di tutela e di attenzioni”, dice Gianmario Gazzi, presidente del Cnoas. La pelle degli assistenti - Per scoprire questa pelle e le condizione nelle quali lavorano gli assistenti sociali, basta bussare dietro una di quelle porte. “Noi, a differenza delle psicologhe, non dobbiamo solo ascoltare, ma anche dare risposte. E spesso, per ragioni economiche, di strutture, quelle risposte non le abbiamo, una mancanza che ha un solo effetto: la frustrazione per noi, ma soprattutto per i cittadini”, dice un’assistente sociale che opera in Campania. “Da noi arrivano nuclei famigliari italiani che hanno in affido minori stranieri senza alcuna formalizzazione, a un certo punto del loro percorso vengono reclamati dalle famiglie biologiche. A noi tocca mediare, capire, risolvere. Siamo sommersi dalle note del tribunale che ci chiede la presa in carico di ogni tipo di famiglia, dove ci sono stati maltrattamenti, violenze, semplici litigi, abbandoni da parte dei minori oppure neonati. Continuo?”, chiede l’assistente. Ora è arrivato un nuovo carico, quello degli esclusi dal pagamento del reddito di cittadinanza. Per il presidente Gazzi il messaggio dell’Inps è “semplicemente indecente”. “Noi avremmo dovuto già occuparci di reddito, alcuni assistenti sociali sono stati assunti proprio nell’ambito di questa misura, ma viste le carenze del nostro ufficio ci siamo dedicate ad altro - dice l’assistente sociale - Quando vedi la fame in faccia le tenti tutte, abbiamo provato anche con le collette, ma ci siamo resi conto dell’errore, ci vogliono misure strutturali, progetti che non si esauriscono in sei mesi. Questo sms è una presa in giro, abbiamo paura di non riuscire a reggere le richieste, io capisco la posizione del governo che vuole puntare sul lavoro e non sull’assistenza, ma non si cancella così una misura. Molti con il reddito pagavano l’affitto, adesso come faranno?” La risposta dei sindaci - “C’è stata una calca al comune dopo quel messaggio, in molti sono andati a chiedere spiegazioni agli uffici. Da me è arrivato un solo signore e abbiamo lavorato per dilazionare il pagamento delle bollette. Il reddito ha disincentivato il lavoro e molti hanno fatto i furbi, detto questo noi abbiamo alti tassi di disoccupazione, è dura trovare lavoro qui. Il governo ora faccia qualcosa”, dice Luigi Petrella, sindaco di Fratelli d’Italia di Castel Volturno. In alcuni comuni, però, si è cercato di realizzare pienamente la misura provando quanto meno a delineare progetti per i percettori. Come a Bacoli, comune in provincia di Napoli, dove vivono 25mila persone che arrivano a 150mila in estate. “Quel messaggio è fuori dalla realtà, si tratta di un sms figlio di una furia ideologica, la buona politica valuta le misure nell’interesse dei cittadini e non di una parte politica. La presa in carico dei servizi sociali è impossibile, noi siamo usciti da un dissesto finanziario che si aggirava sui 56 milioni di euro. Noi dovremmo avere 8 assistenti sociali, ma ne abbiamo due e il governo che fa? Manda il messaggino?”, dice Josi Gerardo Della Ragione, sindaco di Bacoli, a capo di un movimento civico, sostenuto in passato anche dal M5s. “La norma parlava chiaro e consentiva di coinvolgere i percettori in attività per il comune dalle 8 alle 16. Così abbiamo realizzato i progetti di utilità collettiva, li abbiamo impiegati all’esterno delle scuole, nella libreria comunale, abbiamo aperto siti archeologici chiusi, questo ha consentito di raggiungere due obiettivi: valorizzare queste persone e mostrare la loro pubblica utilità all’intera comunità. Ora quasi un migliaio di famiglie non solo saranno più povere, ma si sentiranno anche inutili. Un capolavoro”, conclude il primo cittadino. Scuola. Quei genitori alleati dei figli bulli di Laura Eudati La Stampa, 3 agosto 2023 La tentazione di bocciare un bullo è fortissima. Specialmente quando il bullo è pericoloso e agisce ferocemente come è accaduto nella scuola media di Latina. La storia è andata diversamente: invece di far ripetere l’anno agli aguzzini, dirigente e professori hanno preferito scommettere sul proprio ruolo di educatori convocando vittima e bulli, famiglie ed esperti, tutti insieme per comprendere come sia potuto accadere che in una classe addirittura quindici studenti abbiano sfogato la propria aggressività contro una ragazzina, giorno dopo giorno, portandola all’isolamento e istigandola al suicidio. Fatti gravissimi, per i quali infatti è intervenuta la Procura per i minorenni. Secondo le cronache, la riflessione sul male procurato è servita. I ragazzini, giovanissimi, sono entrati in uno spazio nuovo di confronto nel quale hanno avuto l’opportunità di togliersi la maschera del bullo e della vittima. Ai docenti viene sempre ricordato di evitare il labeling, l’etichettatura dei ragazzi. Quello è un bullo, quello è un secchione, quello non ha voglia di studiare. Questo perché i comportamenti dei giovani adolescenti sono spesso temporanei, sono tappe di crescita. Se gli insegnanti pensassero che la condizione dei propri studenti fosse immodificabile, il progetto educativo arriverebbe a un binario morto. Sarebbe inutile andare a scuola. Se uno studente compie atti di bullismo, va aiutato a smettere. I bulli della scuola di Latina hanno compiuto esattamente questo percorso e, arrivati all’esame di terza media, sono stati promossi con un sei in condotta, dunque con un voto appena sufficiente. Può risultare fuorviante, poiché un tempo era un’ignominia avere il sette in condotta, solitamente comminato a coloro che mettevano la scuola a ferro e fuoco. Negli ultimi anni, invece, il voto di condotta può scendere fino al sei e soltanto il cinque normalmente garantisce una bocciatura automatica a prescindere dai voti nelle materie. Ed è recente inoltre il fatto che nel giudizio di uno studente non possano essere mischiati facilmente i voti con il comportamento. Anche per questo i ragazzi di Latina sono stati valutati per quanto avevano prodotto a scuola durante i compiti e le interrogazioni, mentre la faccenda del bullismo è stata tenuta separata. Dunque, bene ha fatto la scuola a mettere in campo tutti gli strumenti per arrivare a una conclusione positiva della faccenda. Positiva anche per la ragazzina vessata, che ha potuto vedere come la scuola abbia reagito in maniera forte e determinata per proteggerla e neutralizzare i bulli. Bocciandoli senza nessun intervento educativo, infatti, avrebbe avuto l’unico effetto di spedirli in una nuova classe dove probabilmente avrebbero messo in atto gli stessi comportamenti bullizzanti e, fuori della scuola, avrebbero potuto continuare a perseguitare la ex compagna. Tuttavia la vicenda presenta un lato oscuro. Alcune famiglie si rifiutano di far partecipare i figli al percorso di giustizia riparativa. Si tratta di attività socialmente utili: l’aiuto alle maestre di un asilo, l’accompagnamento di minori disabili, l’esperienza a contatto con problematiche sociali. L’atteggiamento di queste famiglie rischia di vanificare gli sforzi della scuola e mostra come dietro un bullo esistano quasi sempre le responsabilità di un padre o di una madre. Se i loro figli fossero stati bocciati, probabilmente avrebbero fatto ricorso come spesso accade in queste vicende. Fortunatamente la scuola ha reagito diversamente. Due fughe per la vita nella società del presentismo di Mario Giro* Il Domani, 3 agosto 2023 Un anziano che fugge da una Rsa in Trentino, quattro nigeriani in fuga su una nave che approda in Brasile. Abbiamo paura dei vecchi e dei migranti perché ci ricordano le nostre debolezze, come persone e come società. Ma queste due fughe sono il simbolo della vita che non cede. Due fughe, diverse ma tanto simili: fughe per la vita. In Italia, in Trentino, un anziano di 92 anni è fuggito dalla Rsa in cui è stato rinchiuso e che per lui è come una prigione. È riuscito a far perdere le sue tracce. Malgrado lo considerassero affetto di demenza, ha ritrovato a piedi la sua casa a 10 chilometri di distanza e vi si è barricato dentro. Dall’altra parte del mondo, in Nigeria, quattro uomini sono fuggiti dal destino di violenza e corruzione del loro paese, nascosti nel vano timone di un portacontainer. Senza saperlo hanno attraversato l’Atlantico e sono sbarcati in Brasile. Due fughe disperate, differenti ma unite dal sogno di una vita, dalla lotta per la vita. L’anziano è fuggito dalla solitudine a cui una società opulenta lo ha condannato lontano dalle sue cose e dai suoi luoghi cari. La casa è per tutti come la vita ma la collettività non ha trovato nulla di meglio che rinchiuderlo in un luogo anonimo, che nessuno può decentemente e onestamente chiamare “casa”. La sua fuga si capisce: non vuole finire da solo, non vuole morire nell’anonimato e nell’isolamento. Ci tornano alla mente i sei anziani morti per l’incendio nella casa coniugi a Milano: i media ne hanno parlato per un po’ ma poi tutti si sono dimenticati di loro e non c’era quasi nessuno ai loro funerali. È la fuga dall’abbandono, una malattia frequente in un mondo che ha scelto di essere individualista fino al narcisismo. Africa dimenticata - Anche i quattro nigeriani fuggivano l’abbandono: quello della loro terra, Africa dimenticata di cui ci si ricorda solo per sfruttarne le risorse ma che si considera una minaccia non appena si avvicina troppo. Fuga dalla violenza di una terra martoriata dalle milizie e dai terroristi ma anche dalla polizia e dalle forze dell’ordine che diventano predatrici, davanti alle quali le persone normali non possono nulla. Terre senza diritti, universi di speculazioni, traffici, povertà e colpi di stato. Una fuga verso casa per l’anziano; una fuga verso una un luogo da chiamare casa per i giovani nigeriani. Rischiano la vita ma la società non trova nulla di meglio che rimetterli dietro un muro: quello della Rsa per l’anziano; quello alzato per difendersi dalle migrazioni per i giovani africani. Talvolta sono muri veri, barriere, reticolati. Ammettiamolo: ci è insopportabile la vista degli anziani -specialmente non autosufficienti - che diventano una pietra d’inciampo per una società abituata al giovanilismo e all’autocompiacimento. Meglio nasconderli nelle Rsa. Ci è altresì insopportabile la vista dei migranti per le strade delle nostre città, alla ricerca di un po’ di vita e di ascolto: ci ricordano che oltre il (grande) muro c’è un mondo intero che bussa. Meglio rinchiuderli nei centri che sono come carceri. La società del presentismo ha paura degli anziani come dei migranti: ricordano a tutti le intrinseche debolezze personali e collettive. Ma queste fughe rappresentano un grido, una volontà indomita di continuare a cercare più vita e più futuro. È l’irriducibile umano che sconfigge ogni paura, scavalca ogni muro e alla fine vince sempre. *Politologo Uruguay. Omicidio dentro l’ambasciata italiana, sulle indagini deciderà il gip di Roma di Clemente Pistilli La Repubblica, 3 agosto 2023 A due anni e mezzo di distanza dall’uccisione dell’imprenditore non è ancora stata fatta giustizia. I familiari si sono opposti alla richiesta di archiviazione ed è stata fissata un’udienza. Non è finita. C’è ancora possibilità di ottenere giustizia per la morte di Luca Ventre, l’imprenditore ucciso all’interno dell’ambasciata italiana a Montevideo, in Uruguay, il primo gennaio 2021. La madre e i tre fratelli della vittima si sono opposti alla richiesta di archiviazione delle indagini fatta dal sostituto procuratore della Repubblica di Roma, Sergio Colaiocco, e il gip Anna Maria Gavoni ha fissato un’udienza per il prossimo 27 settembre. Il giudice dovrà decidere se archiviare, disporre nuove indagini o ordinare alla Procura di formulare l’imputazione per l’indagato, al fine di chiederne il rinvio a giudizio. Il 35enne Luca Ventre, romano d’origine, due anni e mezzo fa entrò nell’ambasciata scavalcando il muro di cinta, dopo aver citofonato invano. Era spaventato, venne bloccato a terra da uno dei vigilantes e spirò dopo essere stato trasportato in ospedale. Per gli inquirenti uruguaiani non si è trattato di omicidio e l’imprenditore sarebbe morto non perché soffocato, ma causa di uno stato “iperadrenergico causato dall’eccitazione psicomotoria, associata al consumo di cocaina, con le ripercussioni elettrofisiologiche a livello cardiaco, avvenute in un contesto di misure di contenzione fisica”. Ma per la Procura di Roma, che ha indagato la guarda giurata Ruben Eduardo Dos Santos Ruiz con l’accusa di omicidio preterintenzionale, il 35enne è invece stato soffocato. Il sostituto procuratore Colaiocco precisa infatti che l’autopsia eseguita in Italia ha stabilito che Luca Ventre “è morto per asfissia meccanica violenta ed esterna per una prolungata costrizione del collo che provocò l’ipossia cerebrale, dalla quale derivarono il grave stato di agitazione psicomotoria e l’arresto cardiaco irreversibile, non potendosi escludere una concausalità nell’azione della cocaina”. Il magistrato ha anche aggiunto di aver raccolto “elementi più che sufficienti a sostenere in giudizio la responsabilità dell’indagato”. Perché dunque la richiesta di archiviazione? Il sostituto Colaiocco sostiene che vi è un “problema di procedibilità in Italia del delitto di omicidio commesso all’estero da uno straniero in danno di un cittadino italiano”, in quanto per esercitare l’azione penale il reo dovrebbe essere presente sul suolo nazionale e Ruben Eduardo Dos Santos Ruiz non si è mai recato in Italia. L’omicidio è però avvenuto all’interno di un’ambasciata italiana e dunque su suolo italiano. Occorrerà vedere se quest’ultimo particolare consentirà di arrivare a un processo per l’uccisione del 35enne. Medio Oriente. “Dentro e fuori dalla cella, la Palestina è un carcere” di Michele Giorgio Il Manifesto, 3 agosto 2023 Intervista alla Relatrice speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati che ha presentato il suo ultimo rapporto al Palazzo di Vetro. “L’occupazione militare israeliana ha trasformato l’intero territorio palestinese occupato in una prigione a cielo aperto, dove i palestinesi sono costantemente rinchiusi e sorvegliati”. È questa la denuncia contenuta nell’ultimo rapporto presentato alle Nazioni unite da Francesca Albanese, giurista e Relatrice speciale per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati. Dal 1967, riferisce Albanese, oltre 800.000 palestinesi, compresi bambini, sono stati arrestati e detenuti in base a regole autoritarie applicate dall’esercito israeliano. Alla Relatrice abbiamo rivolto qualche domanda. Francesca Albanese, la detenzione arbitraria è uno degli aspetti centrali della sua inchiesta... Ho preso in esame in particolare i presupposti normativi per cui la detenzione arbitraria è condotta dalle forze di occupazione israeliane. I palestinesi sono soggetti a lunghe detenzioni anche per aver espresso opinioni, pronunciato discorsi politici non autorizzati. Spesso sono ritenuti colpevoli senza prove, arrestati senza mandato, detenuti senza accusa né processo e brutalizzati durante la custodia. Il focus è sui palestinesi, perché sono i palestinesi ad essere incarcerati nel territorio occupato tanto da Israele quanto dalle autorità palestinesi in Cisgiordania e Gaza. Senza condonare o giustificare in alcun modo gli atti di violenza che commettono i palestinesi, ho riscontrato, come altri prima di me, che la maggior parte dei casi di detenzione non avviene in conseguenza di crimini o reati. Avviene per aver commesso azioni che dal punto di vista del diritto internazionale sono semplici atti di vita ordinaria. Per capirci, parliamo dell’attraversare una zona nel territorio occupato che Israele dichiara per qualche motivo chiusa. Organizzare una riunione di 10 o più persone in cui si parla di temi politici senza l’autorizzazione del governo (militare) comporta l’arresto fino a 10 anni. Il 95% dei palestinesi viene arrestato in prossimità delle colonie israeliane che ormai sono 270 nel territorio occupato, con 750.000 coloni. Tutto ciò, lei afferma, avviene in un contesto che definisce di “carceralità diffusa”... Sì, descrivo l’ingabbiamento della popolazione. Si pensi al Muro (alzato da Israele in Cisgiordania, ndr), alle colonie che sono costruite per circondare, per strozzare la crescita urbana delle città e dei villaggi palestinesi. Si pensa ai 400 km di strade segregate che non sono accessibili e utilizzabili dai palestinesi e a come spezzino la continuità del territorio palestinese. Poi ci sono i permessi che i palestinesi devono ottenere per costruire una casa, prendere la residenza, andare in una determinata scuola, per viaggiare all’estero, per ricevere visite familiari. Persino le relazioni amorose sono regolate da ordini militari. Quanto queste detenzioni sono la conseguenza anche della sorveglianza digitale... Per questo argomento mi sono state utili le testimonianze dei militari dell’associazione (israeliana) Breaking the silence, che ben spiegano come la tecnologia digitale che si è sviluppata negli ultimi 10 -15 anni abbia cambiato il modo di controllare e monitorare i palestinesi. Dal seguire le loro conversazioni su Facebook al monitoraggio dei flussi telefonici. Fino alla triangolazione di tutte le informazioni sulla loro vita, anche i controlli medici. I palestinesi sono facilmente ricattabili perché tutte le loro informazioni private sono nelle mani degli israeliani. Dal 2013 in poi sono aumentati gli arresti preventivi in seguito all’utilizzo dei social media. I palestinesi denunciano il sistema della doppia giustizia in Cisgiordania: loro sono giudicati dalle corti militari, i coloni dalle corti civili... Questo dualismo legale che è stato criticato in passato anche dall’ex giudice della Corte suprema israeliana Barack. E ha permesso il cristallizzarsi dell’apartheid. La vita dei palestinesi è regolata da legge marziale. Anche i minori palestinesi vengono portati dinanzi a giudici militari. Ben diverso è il caso dei coloni che pure si macchiano di gravi reati contro i civili palestinesi e le loro proprietà. Raramente sono portati in giudizio. Più che di doppia giustizia dobbiamo parlare di impunità per i coloni In Niger la forza “ultima opzione, ma noi siamo pronti” di Marco Boccitto Il Manifesto, 3 agosto 2023 La Cedeao tratta e allo stesso tempo pianifica l’intervento armato. A Niamey la giunta riapre le frontiere con i paesi vicini e invia una delegazione in Mali e Burkina per rafforzare il blocco regionale ribelle. Preceduta dall’esplicita minaccia di intervento armato nel caso in cui la giunta militare che ha preso il potere in Niger non ci ripensi, la Comunità economica degli stati dell’Africa Occidentale (Cedeao) è tornata ieri a Niamey con una delegazione guidata dall’ex presidente nigeriano Abdulsalami Abubakaruna. A tre soli giorni dalla scadenza dell’ultimatum lanciato dopo il colpo di mano che ha di fatto destituito il presidente Mohamed Bazoum, si tratta di saggiare le intenzioni dei militari. Protagonismo inedito, questo dell’organismo che unisce gli stati della regione, abbastanza muscolare da permettere agli Usa e ai paesi europei più coinvolti, ovvero più irritati e preoccupati per la piega che hanno preso gli avvenimenti, di limitarsi in questa fase a bloccare gli aiuti e a organizzare l’evacuazione su base volontaria dei propri cittadini. I primi voli ieri hanno riportato a Parigi circa metà dei 1200 francesi presenti in Niger, mentre in Italia un centinaio di persone, italiane non, sono state accolte dal ministro Tajani ai piedi della scaletta. I 1500 soldati francesi e i 350 italiani restano dove sono. Oltre ad autorizzare i rientri, il Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp) ieri ha riaperto le frontiere terrestri con Algeria, Libia, Ciad, Burkina Faso e Mali: paesi vicini che hanno criticato, seppur con toni diversi, la prospettiva di un intervento armato esterno. Mali e Burkina Faso in particolare, insieme alla Guinea-Conakry, hanno garantito che reagiranno anche militarmente al fianco dei nigerini, in caso di blitz o invasioni. Il generale Abdourahamane Tchiani, capo della giunta militare o del Cnsp che dir si voglia, ha subito inviato una missione in Mali che poi dovrebbe recarsi anche in Burkina. Si tratta di consolidare un blocco regionale ribelle, che non vuole più saperne dei paesi occidentali e guarda semmai con un certo favore alla Russia, a un Putin che non per niente ha cercato di esibire anche nel recente summit Russia-Africa di San Pietroburgo una seducente veste anti-imperialista. “Problemi africani, soluzione africana”, è il principio richiamato ieri dal ministero degli Esteri di Mosca, che neanche a dirlo è favorevole alla pace, da ricercare nel dialogo nazionale. Ieri si è parlato piuttosto di guerra a Abuja, capitale amministrativa della Nigeria, dove si sono riuniti i capi di Stato maggiore dei paesi della Cedeao. L’uso della forza resta “l’ultima opzione sul tavolo - ha detto Abdel-Fatau Musah, commissario per la pace e la sicurezza - ma dobbiamo prepararci all’eventualità. C’è bisogno di mostrare che oltre ad abbaiare possiamo mordere”. Sempre dalla Nigeria da ieri è partita infine un’ulteriore e non trascurabile forma di pressione, il taglio delle forniture elettriche garantite fin qui al vicino del nord dalla compagnia Nigelec. Una misura che ha avuto effetti immediati sull’erogazione dell’energia in diverse città nigerine. Stupri, massacri ed esecuzioni: gli orrori della guerra in Sudan di Riccardo Noury Il Domani, 3 agosto 2023 Il 15 aprile sono iniziati gli scontri tra le Forze armate sudanesi e le Forze di supporto rapido, Amnesty International presenta un rapporto sui crimini compiuti dalle due parti. “Quella mattina ci siamo svegliati all’inferno. Si sentivano spari ed esplosioni ovunque”. La mattina era quella del 15 aprile, il primo giorno di guerra per il controllo del Sudan tra le Forze armate sudanesi, dirette dal capo del Consiglio supremo, generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Forze di supporto rapido, un gruppo paramilitare guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti. Alle 8 di mattina a Omdurman, la città a nord della capitale Khartum, era il caos. Fawzi al-Mardi era in apprensione per sua figlia Ala’, una dottoressa di 26 anni, uscita all’alba per andare al lavoro in ospedale. Quando, ore dopo, è tornata a casa, si è tranquillizzato. Pochi minuti dopo, un proiettile è entrato dalla finestra del salotto colpendo al volto e ferendo gravemente la moglie e poi centrando al petto Ala’, che è morta all’istante. “La morte ci è entrata dentro casa. Un solo proiettile, in pochi secondi, ha distrutto la mia famiglia”. Il rapporto - Questa storia è una delle tante contenute in un rapporto diffuso questa mattina da Amnesty International sui crimini di guerra compiuti nei primi 100 giorni dalle due parti in conflitto: massacri di civili a seguito di attacchi deliberati e indiscriminati con armi imprecise contro centri abitati densamente popolati, stupri e riduzione in schiavitù sessuale, attacchi mirati contro strutture civili quali ospedali e chiese, saccheggi e devastazioni. A Kalakla, uno dei quartieri meridionali di Khartum, gli scontri sono iniziati il 20 aprile. Mentre i rumori delle esplosioni diventavano più forti e vicini, Kodi Abbas, un insegnante di 25 anni, ha gridato ai suoi familiari di uscire di casa e mettersi in salvo. I due figli minori, Hassan di sei anni e Ibrahim di otto, insieme al nipotino Koko di sette anni, troppo piccoli per correre velocemente, non ce l’hanno fatta a fuggire. Il 13 maggio uomini delle Forze di supporto rapido sono entrati nel complesso della chiesa copta di Mar Girgis (San Giorgio), nel quartiere di Bahri a Khartum. Hanno ucciso cinque religiosi e trafugato danaro e una croce d’oro. Nel Darfur occidentale è tornato l’incubo della campagna di 20 anni fa. Vittime, le stesse: i civili. Criminali, gli stessi: le Forze di supporto rapido e le milizie arabe loro alleate. Il 14 maggio Adam Zakaria Is’haq, un medico e difensore dei diritti umani di 38 anni, è stato ucciso insieme a 13 pazienti nella clinica di emergenza Markaz Inqadh al-Tibbi, nel quartiere di Jamarik a El Geneina. Lavorava lì perché, un mese prima, l’ospedale principale era stato bombardato e distrutto. Secondo due colleghi di Is’haq, gli assassini facevano parte di una milizia armata araba. Il 28 maggio gli scontri tra Forze di supporto rapido e milizie loro alleate da un lato e gruppi armati di etnia masalit dall’altro hanno sconvolto la città di Misterei, a sud ovest di El Geneina. In un solo giorno sono state sepolte 58 persone. In una famiglia sono stati uccisi cinque fratelli. L’elenco dell’orrore - “Sei uomini delle Forze di supporto rapido hanno fatto irruzione alle 8 di mattina nella nostra abitazione. Si sono diretti nella stanza in cui c’erano mio marito e i suoi quattro fratelli e li hanno uccisi. Poi sono entrati nella stanza in cui mi ero chiusa con i miei figli e altre 12 persone, tra donne e bambini. Ci hanno presi a bastonate e a scudisciate, ci hanno chiesto dove fossero le armi e ci hanno rubato i telefoni”, ha dichiarato Zeinab Ibrahim Abdelkarim, moglie di uno dei cinque fratelli assassinati, Al-Haj Mohamed Abu Bakr. Il 6 giugno i dormitori femminili dell’Università di El Geneina sono stati centrati ripetutamente da colpi di mortaio. Sono rimaste ferite decine di persone che si erano rifugiate lì a causa dei combattimenti nei dintorni. Una donna di 25 anni di El Geneina ha raccontato che il 22 giugno tre miliziani arabi in abiti civili hanno fatto irruzione negli uffici dell’anagrafe, nel quartiere di al-Jamarik, dove lavorava, e l’hanno stuprata: “Non c’è alcun luogo sicuro a El Geneina. Avevo lasciato casa perché c’erano sparatorie ovunque e questi criminali mi hanno stuprata. Ora temo di essere incinta. Non potrei sopportarlo”. Sempre dalle parti di El Geneina, 24 donne e ragazze sono state rapite dalle Forze di supporto rapido e portate in un albergo, dove sono state trattenute per parecchi giorni in condizione di schiavitù sessuale. Molte di loro non hanno poi avuto accesso a cure mediche e a servizi di sostegno psicologico. Numerose strutture sanitarie e umanitarie sono state danneggiate o distrutte in tutto il Sudan, privando la popolazione di cibo e medicinali e aggravando una situazione già insopportabile. La maggior parte dei casi di saccheggio chiama in causa le Forze di supporto rapido. Il 21 giugno Amnesty international ha scritto alle Forze armate sudanesi e alle Forze di supporto rapido per condividere le sue conclusioni e chiedere informazioni su specifici casi documentati nel suo rapporto. Hanno risposto entrambe, rispettivamente il 12 e il 14 luglio, asserendo il proprio rispetto del diritto internazionale e accusando l’altra parte di averlo violato. La fuga - La realtà è che in Sudan nessun luogo è sicuro e chi può fugge negli stati confinanti. Lo hanno già fatto 560.000 persone, delle quali almeno 120.000 si trovano attualmente in Ciad, quasi 130.000 in Sud Sudan e oltre 250.000 in Egitto. Tantissime altre, dopo essere state costrette a pagare mazzette ai posti di blocco delle due parti in conflitto, sono ancora bloccate lungo le frontiere. Nella gran parte dei casi, sono prive di documenti: c’è chi ha lasciato il passaporto dentro le ambasciate occidentali, evacuate frettolosamente, dove si era recato per chiedere un visto d’ingresso; e chi, rifugiato in Sudan come nel caso degli eritrei e dei siriani, non è stato più in grado di rinnovare un permesso scaduto. Marocco. Critica il Re su Facebook, condannato a 5 anni di carcere Il Dubbio, 3 agosto 2023 L’imputato aveva contestato la normalizzazione dei rapporti tra Marocco e Israele. Il suo legale annuncia che presenterà ricorso contro la sentenza. Un tribunale di Casablanca ha condannato a cinque anni di carcere Said Boukioud, 48 anni, riconosciuto colpevole di aver criticato il re del Marocco Mohammed VI su Facebook. O meglio, di aver contestato la normalizzazione dei rapporti tra Marocco e Israele “in un modo che poteva essere interpretato come una critica al re”. Lo dichiara il suo avvocato, El Hassan Essouni, annunciando che presenterà ricorso nei confronti della sentenza “dura e incomprensibile”. Marocco e Israele hanno normalizzato le loro relazioni nel dicembre del 2020, nell’ambito degli Accordi di Abramo mediati dagli Stati Uniti. Boukioud è stato condannato in base all’articolo 267-5 del Codice penale che prevede il carcere dai sei mesi ai due anni per chiunque contesti la monarchia.