I suicidi in cella non si scongiurano con nuove carceri ma se si allontana la disperazione di Francesca Fuscaldo* Il Dubbio, 31 agosto 2023 Il numero dei suicidi in carcere sta progressivamente aumentando e il dato è allarmante: 84 nel 2022 e già 40 dall’inizio del 2023. Il ministro Nordio ha recentemente affermato di voler adottare adeguate contromisure, intervenendo sull’edilizia carceraria e implementando il personale medico, paramedico e assistenziale. Il sovraffollamento carcerario e l’inadeguatezza degli spazi affligge il nostro Paese ed è ormai noto e attenzionato da tempo, anche dagli organi internazionali, così come l’insufficienza del personale medico e assistenziale. Si tratta però di misure pensate per chiudere e soffocare. Il suicidio non è un fattore che risolvi con cemento e laterizi, né implementando il controllo. Chi vuole morire non arriva a questa scelta per una questione di metri e sa farlo in ogni momento, con qualsiasi mezzo e senza alcunché. Solo uno stato di disperazione totale può condurre una persona a sopportare la fame e la sete fino a trovare la morte. La certezza di aver buttato la propria vita. L’idea di non avere più altro da vivere, niente per cui sorridere, nessuno da cui tornare. E tutta questa disperazione non proviene da stanze piccole o carenza del personale. Vi è correlazione tra tipo di reato commesso e suicidio. Predominano crimini passionali legati all’ambito familiare e tossicodipendenza. Un dato comune: dove e da chi tornare? Per non parlare dei suicidi in custodia cautelare. I suicidi senza condanna. E se poniamo questo dato in correlazione al numero degli innocenti prima sottoposti a custodia cautelare in carcere e poi assolti, certamente non ci vengono in mente, né le stanze e né il personale. Perché non sono questi i fattori che conducono alla disperazione. È l’innocenza violata a farlo, l’essere sottoposti al verdetto mediatico senza processo, il sentirsi senza alternativa e la convinzione di non avere speranza. La stessa speranza che ci fa dire che si deve intervenire sì, ma non avendo come primo obiettivo quello di aumentare ciò che conduce alla morte. Prima che con l’edilizia carceraria, bisogna intervenire con l’edilizia sanzionatoria. Prima di aumentare i colloqui telefonici, bisognerebbe introdurre pene realmente proporzionali al fatto commesso. Servono misure alternative come pena principale e un ripensamento sulle fattispecie bagattellari. Serve mettere ordine tra la giustizia e il giustizialismo. La giustizia non provoca rabbia, frustrazione e impotenza. È la speranza, non solo di chi la ottiene ma, spesso, anche da chi la subisce. Dona la possibilità di redimersi e di dimostrare di poter essere migliore. La giustizia non uccide, il giustizialismo può farlo. Sono le pene percepite come ingiuste. Sono le sentenze senza processo, lo schiaffo rivolto alla presunzione di innocenza, l’inadeguatezza del sistema preventivo e l’ingiustizia a uccidere. Ed è a tutto questo che ci si deve rapportare. *Criminologa Il sistema penitenziario e le sue infrastrutture di Ilaria Cartigiano L’Opinione, 31 agosto 2023 Le azioni contro il sovraffollamento. Gli eventi drammatici verificatasi nel carcere di Torino ad inizio del mese dimostrano come la situazione degli istituti penitenziari del nostro Paese continui a essere allarmante. Nei soli mesi estivi, infatti, secondo i dati dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, sono ben 15 detenuti che si sono tolti la vita (47 dall’inizio dell’anno). E come è noto, il problema principale è strettamente legato al sovrappopolamento presente negli istituti di pena. Un problema non solo italiano, ma anche europeo stando ai dati del rapporto Space del Consiglio d’Europa che registra un tasso ufficiale di sovraffollamento delle carceri europee del 107,4 per cento. Sebbene possa ritenersi intervenuto un miglioramento rispetto alla notevole diminuzione del numero dei detenuti dal 2008 e al progressivo ridimensionamento della custodia cautelare, permangono delle serie criticità. Criticità che si amplificano proprio nella stagione estiva, quando gli episodi estremi aumentano in ragione delle ferie del poco personale penitenziario e della sospensione delle attività formative previste. Il piano di azione del Ministero della Giustizia, pronto a partire già in autunno, è chiaro e prende corpo proprio da una puntuale ricognizione degli interventi di edilizia penitenziaria avviati e/o da avviare. Alla previsione di portare a compimento la realizzazione di otto nuovi padiglioni, come previsto dal Pnrr, si aggiunge la conversione delle ex caserme presenti sul territorio nazionale in strutture per detenuti condannati per reati di scarso allarme sociale. Il ministro Carlo Nordio - al termine della visita nel carcere le Vallette di Torino - ha spiegato come l’uso di strutture compatibili con la sicurezza in carcere rappresenti “la soluzione su cui bisogna iniziare a lavorare”. Ma non solo. Si mira anche all’incremento del personale presso gli istituiti penitenziari in forte sottorganico, al fine di riequilibrare il numero dei detenuti rispetto al numero degli operatori dedicati alle varie attività di assistenza e di rieducazione, quali educatori, psicologi, figure dirigenziali. Si intende aumentare, infatti, il supporto psicologico “ai detenuti che versano in condizione di particolare disagio” ha aggiunto Nordio, evidenziando che tale azione “si inserisce in una volontà più ampia di vicinanza verso i detenuti” che possa di fatto consentire l’effettivo reinserimento nella società. Dello stesso avviso è Mauro Palma, presidente dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, che ha rimarcato la necessità di “superare le polemiche e tornare al valore costituzionale della pena, nel pieno rispetto di chi ci opera e della sua finalità sociale”. Le proposte di riforma della giustizia e gli investimenti previsti dal Pnrr, così, diventano decisivi per un miglioramento reale dell’attuale stato in cui versa il sistema penitenziario nazionale. Sebbene lo Stato sia chiamato a garantire la certezza della pena, non bisogna dimenticare il significato rieducativo e di dignità che la stessa pena deve avere. Case di lavoro, “un fenomeno marginale che va superato” redattoresociale.it, 31 agosto 2023 “La società della ragione”, finanziata dalla Chiesa evangelica valdese, che pubblica un report proprio sulle case di lavoro. Sono nove sull’intero territorio nazionale (Alba, Vasto, Castelfranco Emilia, Aversa, Tolmezzo, Biella, Isili, Barcellona Pozzo di Gotto e la “Giudecca” di Venezia) e al 31 marzo scorso i detenuti presenti sono 247 (lo 0,44% sul totale dei detenuti) Carcere. Case di lavoro, “un fenomeno marginale che va superato”. Il sistema penale prevede, oltre alle pene, le misure di sicurezza: un retaggio delle costruzioni positivistiche e lombrosiane, a cui sono destinate le persone che sono ritenute socialmente pericolose. “La dottrina penalistica italiana del secondo dopoguerra ha spesso ritenuto questo istituto come in contrasto con i principi costituzionali, in particolare, con la funzione rieducativa della pena. Le misure di sicurezza per imputabili, infatti, si aggiungono alla pena detentiva già espiata e ne rappresentano una mera continuazione, di durata non predeterminata ed eseguita in luoghi del tutto analoghi al carcere. Nonostante le critiche di lunghissima data, le misure di sicurezza dell’assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa lavoro, introdotte dal codice Rocco, permangono”. A ricordarlo è “La società della ragione”, finanziata dalla Chiesa evangelica valdese, che pubblica un report proprio sulle case di lavoro. Quante sono. Le case lavoro, colonie agricole, o sezioni destinate a casa lavoro in istituti di pena sono nove sull’intero territorio nazionale: Alba, Vasto, Castelfranco Emilia, Aversa, Tolmezzo, Biella, Isili, Barcellona Pozzo di Gotto e la “Giudecca” di Venezia. Tra questi istituti soltanto la “Giudecca” è femminile con 5 presenze e va segnalato che a Tolmezzo le presenze riguardano detenuti al 41bis. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, relativi all’anno 2020, le persone internate in queste strutture erano 321, in totale. Oggi, nessun istituto è completamente adibito a casa di lavoro, sono tutti case di reclusione o case circondariali, in cui una o più sezioni sono destinate ai sottoposti alle misure di sicurezza della casa di lavoro o colonia agricola. “Le ricerche sulla colonia agricola e sulla casa lavoro sono esigue e la revisione della misura di sicurezza detentiva per imputabili non è centrale nell’agenda politica - si sottolinea nel report -. Dalle poche ricerche sul tema e dai pochi dati disponibili si evince che la popolazione che è sottoposta a questa misura è la più marginale, con bassa scolarizzazione e senza riferimenti sul territorio. Le stesse esigue ricerche evidenziano anche come le case lavoro siano strutture con caratteristiche analoghe ai penitenziari”. L’obiettivo della ricerca è quello di avviare un processo di trasformazione delle misure di sicurezza detentive per imputabili, volto ad eliminarne gli aspetti più afflittivi e renderle vocate al reinserimento sociale e non all’esclusione, attraverso la produzione e diffusione di una ricerca che evidenzi le qualità delle strutture e le tipologie di attività e la costruzione di protocolli e progetti efficaci di reinserimento sociale. La ricerca ha prodotto un report. E la riflessione conseguente ha portato a una proposta di legge, presentata in Parlamento (A.C. 158). La casa di lavoro - La misura di sicurezza dell’assegnazione ad una casa di lavoro o a una colonia agricola è prevista, per coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali, o per tendenza, e per gli altri casi previsti dalla legge, oggi, per lo più superati (era prevista, per esempio, per i minorenni dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, qualora la misura dovesse essere eseguita dopo la maggiore età, ma la materia è stata ampiamente riformata dalla riforma del diritto penale minorile), tranne l’ipotesi di applicazione per violazioni gravi e/o ripetute delle prescrizioni della libertà vigilata (art. 231 co. 2 c.p.). La colonia agricola e la casa di lavoro rappresentano i due diversi luoghi di esecuzione di un’unica misura, prevista e disciplinata dagli artt. 216-218 c.p. e differiscono soltanto per la tipologia di lavoro che vi viene svolto, di natura agricola, nella prima, di natura artigianale o industriale, nella seconda. La scelta dell’assegnazione all’una o all’altra viene effettuata dal giudice, ai sensi dell’art. 218 c.p. sulla base delle attitudini della persona e può essere modificata. La durata minima della misura di sicurezza è di due anni per il delinquente abituale, tre anni per il delinquente professionale, quattro anni per il delinquente per tendenze, un anno per gli altri casi previsti dalla legge. Case di lavoro, la fotografia - “Case di lavoro e colonie agricole, forse per il numero ridotto delle persone che vi si trovano ristrette, sono dimenticate, non solo dagli studiosi di diritto penale, che si occupano in una sparuta minoranza di misure di sicurezza e in numero ancora più esiguo di quelle per imputabili, ma anche dalla politica, che con pochissime eccezioni non affronta il tema della duplicazione sanzionatoria, e infine dalle istituzioni. Tanto che persino i dati statistici relativi a queste misure sono carenti o non aggiornati o addirittura incoerenti”, afferma la ricerca de “La società della ragione”. “Tra i dati messi a disposizione online dall’ufficio statistiche del Ministero di Giustizia, che, vale la pena ricordarlo, offre dati mensilmente aggiornati con numerose variabili e rilevazioni, il dato relativo alle persone in misura di sicurezza detentiva per imputabili risulta, dalla verifica del numero dei presenti in ciascuna casa di lavoro che abbiamo potuto effettuare nel corso della nostra ricerca e dai dati forniti dal DAP all’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, non coerente. La voce che, nella tabella detenuti per posizione giuridica delle statistiche ministeriali, riporta il numero di nostro interesse è così definita ‘Internati in case lavoro, colonie agricole, altro’, con un ‘altro’ che non è ulteriormente specificato (a differenza di alcune diverse categorie, che possono destare perplessità, in cui è riportato con un asterisco un chiarimento sulla definizione della categoria e la modalità di rilevazione). Il numero offerto dal Ministero è sempre sovradimensionato rispetto ad altri dati e mostra la presenza di internati anche in Regioni - come il Lazio o la Toscana - in cui non sono presenti sezioni di case di lavoro. Per queste ragioni, nel nostro studio e in questa prima ‘fotografia aerea’ delle misure di sicurezza, ricorreremo ai dati presenti nelle relazioni del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e non ai dati pubblicati sul sito del Ministero della Giustizia”. Un fenomeno marginale - Le misure di sicurezza per imputabili rappresentano indubbiamente un fenomeno marginale nel complessivo sistema penale. Dal 2015 ad oggi, il rapporto tra internati nelle case di lavoro e colonie agricole e popolazione detenuta non ha mai raggiunto percentuali superiori allo 0,5% e, in termini assoluti, la popolazione internata ha oscillato tra un minimo di 213 persone nel 2021 e un massimo di 279 nel 2018. “La misura di sicurezza non è marginale solo se guardiamo alla fase esecutiva e dunque alle persone sottoposte all’esecuzione in rapporto al numero dei detenuti, ma lo è già - e anzi in maniera maggiore - se osserviamo la percentuale di applicazioni di misure di sicurezza in rapporto alle sentenze irrevocabili di condanna - si afferma -. Da quasi venti anni, la misura di sicurezza risulta essere ordinata in sentenza in un numero irrisorio di sentenze irrevocabili di condanna, sempre inferiore allo 0,1%. Il numero ridotto delle persone sottoposte a misura di sicurezza, può in parte spiegare la posizione marginale che ricoprono gli studi sul tema e la mancata adozione di una riforma, a fronte delle critiche consolidate al sistema”. Le donne nelle case di lavoro - Nel mondo penitenziario le donne rappresentano una minoranza, che dal 1991 non ha mai superato le 3.000 unità e da diversi anni si assesta attorno al 4% della popolazione detenuta e non ha mai superato il 5% dal 1993 ad oggi. Nelle case di lavoro le donne sono in percentuale ancora inferiore, un margine di una popolazione già numericamente scarsa e dimenticata: un margine nel margine. Dal 2015 ad oggi, le donne internate non sono mai state superiori a 10 persone in termini assoluti, una percentuale di donne sul numero complessivo delle persone internate che oscilla tra l’1,2% e il 4,2%. Le internate sul numero di donne detenute raggiungono quote pari tra lo 0,13% e lo 0,40% per lo 0,01% della popolazione ristretta. I reati - La misura di sicurezza della casa di lavoro o della colonia agricola, può essere applicata in quelle ipotesi di pericolosità sociale qualificata, rappresentata dagli status di: delinquente abituale, professionale o per tendenza. Ai sensi dell’art. 109 c.p., le dichiarazioni di abitualità e professionalità possono essere effettuate in ogni tempo, mentre la dichiarazione di tendenza a delinquere può essere effettuata soltanto contestualmente alla sentenza di condanna. “La dichiarazione di abitualità, professionalità o tendenza a delinquere non è limitata sulla base della gravità dei reati commessi, soltanto a determinati reati, di maggiore gravità o allarme sociale o posti a tutela di beni giuridici ritenuti particolarmente rilevanti. La misura di sicurezza, avendo come presupposto la pericolosità sociale e funzione la difesa sociale è disancorata dal fatto commesso e non risponde al principio di proporzionalità - si evidenzia -. Ciò rende la misura, ancor più distante da un diritto penale garantista e rischia di favorire la riproduzione di gerarchie e differenze sociali, che nell’applicazione delle misure di sicurezza giocano un ruolo fondamentale”. Nel 2017, ultimo anno per cui è disponibile la rilevazione Istat, la casa di lavoro risultava ordinata nel 42% dei casi per reati contro il patrimonio, nel 17% per reati contro la persona e in un altro 17% per reati previsti da normative esterne al codice penale (come la violazione delle leggi in materia di sostanze stupefacenti o in materia di armi), nel 21% in ipotesi di reati contro l’ordine pubblico, il restante 3% era equamente ripartito tra reati contro la famiglia e reati contro il patrimonio. Guardando più nel dettaglio, dentro alle singole classi di reati che riportano almeno una violazione, la fotografia al 2017, i reati maggiormente rappresentati, risultano: associazione a delinquere di stampo mafioso (21%), estorsione (14%), il 13% per rapina, il 12% per violazione delle norme del T.U. stupefacenti, l’8% favoreggiamento, sfruttamento della prostituzione. “Se adottiamo uno sguardo diacronico ed esaminiamo le classi di reati per cui sono state applicate le misure di sicurezza della casa di lavoro e della colonia agricola dal 2000 al 2017, possiamo osservare alcune costanti e notare alcuni elementi che pur non ripetendosi negli anni appaiono significativi - affermano i promotori della ricerca -. Per quanto riguarda le costanti, possiamo osservare come i delitti contro il patrimonio e coprano quasi sempre la gran parte dell’area, sempre seguiti (ad eccezione dell’anno 2001 in cui il rapporto è invertito) dai delitti contro la persona. Anche i delitti contro l’ordine pubblico appaiono ben rappresentati. Seppure con diversa intensità nei 17 anni esaminati, si osserva anche una buona fetta di misure applicate per violazione del T.U. sugli stupefacenti. Si riscontrano, anche se non in percentuale massiccia - e con un picco negli anni 2006- 2009 - ipotesi di misure di sicurezza ordinate per violazione delle norme del T.U. sull’immigrazione. E negli anni 2000 e 2002 sono presenti anche casi di applicazione della misura di sicurezza per violazione delle norme che regolano la gravidanza e la procreazione medicalmente assistita”. Le persone internate non sono distribuite omogeneamente nelle nove case di lavoro e Aversa e Vasto ospitano da sole quasi la metà della popolazione complessiva (47%). Nonostante ancora oggi si possa riscontrare una disomogeneità tra le case di lavoro, occorre notare una tendenza a riequilibrare la popolazione presente. Nel 2018, la sola casa di lavoro di Vasto ospitava il 40% della popolazione internata. Un altro 30% si trovava a Castelfranco Emilia e tolti il 2% di internate femminili e l’1,8% di internati al 41 bis (entrambi con destinazione obbligata), il restante 26% era più o meno equamente ripartito tra le restanti tre case di lavoro (Biella, Barcellona Pozzo di Gotto, Isili). Oggi, l’apertura della casa di lavoro di Aversa e il progressivo ampliamento di Barcellona Pozzo di Gotto, oltre ad un decremento del 10% delle persone internate, hanno permesso una decrescita sia della popolazione internata a Vasto, diminuita del 40% che di quella a Castelfranco, ridotta del 54,7%. Il paradosso: la casa di lavoro e l’inabilità al lavoro - Il lavoro è legittimazione stessa della casa di lavoro. Per questo risulta paradossale che siano internate in casa di lavoro, persone molto anziane e già in pensione e/o persone inabili, totalmente o parzialmente al lavoro. “Dalla nostra indagine risulta che nella casa di lavoro di Aversa - dove il problema ci è stato sottoposto e segnalato dai funzionari giuridico pedagogici, ben 14 persone sono inabili al lavoro. Di queste, 7 sono valutate inidonee totalmente e in forma permanente, delle altre 7 2 sono inidoneità parziali e 5 suscettibili di rivalutazione”. Donne e madri detenute… con i loro bambini di Mario Pavone politicainsieme.com, 31 agosto 2023 A pochi giorni dal suicidio di due detenute nel carcere delle Vallette di Torino, il tema del sovraffollamento delle strutture penitenziarie italiane resta in primo piano. “Ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, per la giustizia e mia personale” - come ha affermato il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, dopo la morte di Susan John, la donna nigeriana di 43 anni, lasciatasi morire di fame e di sete, e di Azzurra Campari, la 28enne italiana trovata impiccata nella sua cella. Sono casi eclatanti, ma già lo scorso anno un magistrato scrisse una lettera aperta, all’indomani del suicidio di un’altra donna, ammettendo di aver commesso un errore, di non essersi reso conto che si trattava di una persona fragile ed aggiungendo lapidariamente che “è responsabilità di tutti farsi carico del problema, senza limitarsi a gridare allo scandalo quando accadono casi del genere. Record di suicidi in carcere - Se il doppio suicidio alle Vallette ha riguardato donne, il problema delle morti in cella spinge a trovare una soluzione per tutta la popolazione carceraria. Nel 2022 si sono registrati 84 suicidi negli istituti penitenziari italiani, il numero più alto. Secondo un’analisi del Garante dei detenuti, pubblicata lo scorso dicembre quando i suicidi erano 79, è donna il 6% di chi ha deciso di porre fine alla esistenza in carcere. Il numero maggiore di suicidi (avvenuti in 55 strutture su 190 su tutto il territorio italiano) si è verificato a Foggia con cinque casi, quattro avvenuti a Milano San Vittore e Firenze Sollicciano, seguite da Roma Rebibbia e Roma Regina Coeli, con tre episodi. Quante sono le donne nelle carceri italiane - Quanto accaduto, che appare come un film già visto più volte, ripropone con forza il tema della detenzione femminile ma ancor più quello delle Madri detenute con i loro bambini. La criminalità femminile è divenuta materia di indagine e di studio solo da poco, ossia da quando, negli ultimi trent’anni, le donne sono diventate protagoniste del profondo cambiamento sociale che ha interessato il nostro Paese e che si è risolto nella approva zione di una serie di leggi a favore della libertà e della emancipazione delle donne: dalla procreazione controllata alla depenalizzazione dell’aborto, dal divorzio all’abrogazione del reato di adulterio femminile, con il riconoscimento di una parità - in termini di diritto di accesso a lavori prima esclusivi del mondo maschile e di parità di retribuzione - che interessa ora l’intera sfera sociale. Va sottolineato come la ridotta incidenza statistica della delinquenza femminile anche se, è stato registrato un lieve aumento di tale fenomeno, aveva determinato in passato uno scarso interesse alla detenzione femminile che ha portato a trattare i problemi e le difficoltà delle donne allo stesso modo in cui vengono trattati quegli degli uomini, con una carente analisi della differenziazione dei loro bisogni e con la propensione a generalizzare anche gli eventuali problemi da proporre. Ne deriva che molti dei problemi specifici, che sono legati alla detenzione della donna, sono stati poco o male osservati e valutati. È forse per questo che il diritto penitenziario ha trascurato di adeguarsi ai cambiamenti che sono avvenuti nella società in termini di diritti delle donne anche a proposito del problema che più di ogni altro pesa sulle donne detenute ossia il problema della maternità in carcere. Secondo il Garante dei detenuti, le donne detenute sono 1.488, pari al 4% della popolazione carceraria italiana, distribuite in 49 sezioni femminili all’interno di case circondariali miste (ma di fatto a prevalenza maschile) e quattro istituti esclusivamente riservati a donne che sono quelli di Rebibbia a Roma, di Trani, Pozzuoli e della Giudecca a Venezia. Sarebbero una minoranza, dunque, ma è come se scontassero una “doppia pena”. “Purtroppo le donne sono spesso colpevolizzare due volte e scontano una doppia pena: oltre a quella per le azioni illegali che hanno compiuto, non sono ritenute buone madri”, afferma Diana De Marchi, Presidente della Commissione Pari Opportunità del comune di Milano. Sempre secondo il Garante “fatta eccezione per il carcere di Rebibbia, che non solo è quello femminile più grande d’Italia, ma anche d’Europa ed ospita circa 3/400 donne, per gli altri Istituti a, prevalenza maschile, non c’è di fatto un’adeguata offerta di attività per le detenute in carcere il cui compito è rieducativo e di reinserimento sociale, come previsto dalla Costituzione” ed aggiunge “Nella maggior parte dei casi alle donne viene data la possibilità di svolgere attività che si limitano al beauty o all’uncinetto ma che, soprattutto, non danno alcuna possibilità di reinserimento sociale o lavorativo. Come alternativa, occorrerebbe pensare a un corso di alfabetizzazione per detenute straniere o di informatica per tutte per favorire il reinserimento al lavoro. Un esempio virtuoso, da menzionare, è quello avviato dal Carcere di Lecce con il Progetto “Made in Carcere” che prevede la realizzazione di borse ed accessori di abbigliamento da parte delle detenute da vendere in negozi convenzionati, un’idea vincente sul mercato perché adottata anche da Grandi Firme della Moda. Le madri detenute con i loro bambini - Secondo l’Associazione Antigone, al 31 gennaio 2023 erano 17 i bambini di età inferiore a un anno che vivevano in carcere con le loro 15 madri detenute. Il nucleo più cospicuo, composto da 8 donne con 9 bambini, si trovava all’interno dell’ICAM di Lauro, seguito da 3 donne e 3 figli nell’ICAM di Milano San Vittore e da una donna con 2 bambini nell’ICAM della Casa di Reclusione femminile di Venezia. Vi sono poi tre nuclei composti solo da una madre e un bambino all’interno dell’ICAM della Casa Circondariale di Torino, nella sezione nido di Rebibbia femminile e nella sezione femminile della Casa Circondariale di Lecce. L’andamento della presenza dei bambini in carcere ha continuato a oscillare negli ultimi trent’anni in alto (fino a superare le 80 unità) e in basso senza essere particolarmente influenzato neanche dalle modifiche normative introdotte nel tempo a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori con la istituzione degli ICAM di cui diremo oltre… È stata invece la pandemia, con la paura per le carceri, che ha comportato, una drastica riduzione dei numeri, passati dai 48 bambini della fine del 2019 ai 29 della fine del 2020, fino a raggiungere i 17 che oggi si trovano all’interno di istituti di pena. Secondo la Relazione sull’amministrazione della Giustizia nel 2022, la riduzione del numero dei bambini in carcere è individuabile sia nella contingenza dell’emergenza epidemiologica sia nel favore crescente per le misure alternative e sostitutive, concesse in via prioritaria dall’Autorità giudiziaria alle donne madri di figli minori. Rispetto alla nazionalità delle madri detenute è possibile constatare l’esistenza di un numero maggiore delle detenute straniere, le quali probabilmente incorrono in maggiori difficoltà nell’accesso a misure alternative. Quali sono le misure alternative esistenti - Le attuali alternative al carcere per la popolazione carceraria femminile sono rappresentate dalla semilibertà (si esce di giorno per svolgere attività lavorativa, di studio o volontaria, per poi tornare a dormire in carcere); l’affidamento in prova ai servizi sociali (dopo l’attività autorizzata dal magistrato di sorveglianza e dalla direzione, non occorre tornare in carcere); la detenzione domiciliare, sia precedente che successiva al processo. Quando nel 2013 l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a causa del sistema penitenziario da riformare, venne aperta la strada a misure come la possibilità di scontare gli ultimi due anni di pena ai domiciliari. Ma, di fatto, tali misure non possono essere usufruite dar chi, per esempio, non ha una casa o un lavoro, oppure ha un pregiudicato in famiglia oppure si tratta di persone in povertà economica, culturale e relazionale” come nel caso di detenuti/e stranieri. Occorre, quindi, pensare a strutture intermedie gestite sul territorio per le Donne e Madri detenute per ridurre gli ingressi in carcere e facilitarne le uscite, senza far venire meno la sicurezza, ad esempio creando strutture intermedie sul territorio, gestite dagli enti come Comuni, Regioni o terzo settore come, un tempo, erano le Carceri Mandamentali. Non occorrono, quindi, nuove mura di cinta o filo spinato utilizzando le Caserme dismesse- come afferma il Ministro Nordio- ma più permeabilità con la società civile, come prevede l’art.17 della Costituzione ed occorre smettere di pensare che il carcere sia un luogo a sé. Le morti che sono avvenute devono farci interrogare di più su queste tematiche. Che cosa sono gli ICAM - Gli ICAM sono nati a seguito della legge n. 62/2011 proprio al fine di valorizzare il rapporto tra detenute madri e figli minori e creare una alternativa alla detenzione in carcere. L’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (abbreviato in ICAM) venne costituito in via sperimentale a Milano nel 2006 per consentire alle detenute madri che non posso no usufruire di alternative alla detenzione in carcere di tenere con sé i loro figli. In totale sono dodici gli istituti carcerari italiani che ospitano i figli delle Madri detenute alcuni con veri nidi, cioè spazi attrezzati ad hoc e in cinque casi si stratta di ICAM ossia strutture detentive i più simili a case che a luoghi di detenzione, previste dalla legge ma finora realizzate solo in parte. La convivenza tra donne e bambini è comunque forzata e con ritmi imposti dalle regole del carcere, ma resta più umana che nel carcere vero e proprio, dove mamme e detenute comuni sono mischiate e dove i tempi degli adulti, il rumore e la tensione dovuta al poco spazio condizionano pesantemente la crescita dei bambini. Gli ICAM - così come le sezioni nido delle carceri ordinarie, aree detentive allestite per i bambini - servono ad alleviare in qualche modo l’esperienza del carcere ai figli piccoli delle detenute. Il modello di custodia attenuata che si segue può avere effetti positivi sulle detenute e sul loro percorso di reinserimento della società, ma parliamo comunque di un carcere: per quanto attenuata, e in molti casi gestita con competenza e attenzione, la detenzione viene in ogni caso percepita dai bambini, con potenziali conseguenze negative sul loro sviluppo. Per questo, chi si occupa di detenute con figli ritiene che sia sempre necessario il ricorso a misure alternative, come la detenzione domiciliare o le case famiglia protette, in grado di far scontare la pena alle detenute ma anche di garantire ai figli e alle figlie un’infanzia il più possibile assimilabile a quella dei bambini liberi. Questi trattamenti alternativi riguardano ad esempio il soggiorno in reparti particolari, a custodia attenuata, meno duri rispetto al carcere vero e proprio: l’ambiente deve essere accogliente e più simile ad una vera casa, proprio per evitare che i bambini soffrano l’esperienza della carcerazione forzata. L’Ordinamento penitenziario italiano, in effetti, prevede che le madri detenute con prole inferiore ai sei anni debbano usufruire di trattamenti alternativi alla detenzione, finalizzati a non traumatizzare eccessivamente i figli, che fino a quell’età devono in ogni caso rimanere sotto la tutela del genitore di sesso femminile che ne faccia richiesta. L’ICAM è una struttura che non ricorda in alcuna maniera il carcere, essendo simile ad un asilo nido, in cui i bambini possono trascorrere serenamente il periodo di “carcerazione” insieme alle loro madri: camere confortevoli e luminose, ambienti personalizzati, infermeria, ludoteca, biblioteca e aula formativa per le donne, cucina attrezzata e soggiorno sono stati appositamente concepiti per consentire alle madri detenute con bambini piccoli una vita più dignitosa. L’esempio virtuoso dell’ICAM di Milano - In Italia, esistono attualmente solo pochi centri a custodia attenuata. Uno di questi è l’ICAM e della Casa famiglia Ciao, a Milano, luogo ove le “recluse” possono soggiornare con i loro figli sino al compimento del sesto anno di età. La struttura opera dal 2006 in via sperimentale ed è sorto da una convenzione tra il Comune di Milano, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e il Tribunale per i minorenni affinché le madri possano avere un’alternativa alla carcera zione, in modo da tenere i figli con sé. L’iniziativa ha avuto successo ed è diventata un modello a livello nazionale. Sempre a Milano è sorta la casa famiglia Ciao, che ha le stesse finalità. Si tratta di realtà importanti che possono essere replicate in altre regioni come spiega Diana De Marchi, che grazie alla delega al Lavoro e Politiche sociali della Città Metropoli tana di Milano, ha lavorato alla riattivazione dello “sportello Lavoro e Diritti” presso gli istituti penitenziari milanesi allo scopo di promuovere attività che facilitino il reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti. Le case protette - Tuttavia, stare in cella con la mamma, ma solo fino ai tre anni, non è la soluzione al problema dei bambini delle detenute perché la separazione dopo tale periodo crea disagi psicologici e problemi di crescita: bambini, affidati a famiglie adottive o in carico ai servizi sociali, sono spesso privati di tutto il contatto fisico di cui avrebbero bisogno per conquistare fiducia e sicurezza e tendono a vivere la separazione come un abbandono, come sottolinea Ornella Favero di Ristretti Orizzonti, importante Rivista del Sistema Carcerario. Per contro le Case Famiglia Protette, gestite da Associazioni, Volontari, Parrocchie, appaiono come l’alternativa più efficace, anche se a tutt’oggi insufficienti a ospitare tutti i bambini con le loro mamme. “La mamma resta dentro a espiare la sua pena, ma il bambino può uscire, andare al nido o a scuola, accompagnato dai volontari”, spiega l’Associazione Antigone, “Anche se i volontari sono figure esterne, diverse dalla mamma, che quindi agli occhi del bambino conserva un raggio d’azione sempre limitato, offrono un’accoglienza e un sostegno che possono far crescere i piccoli in un clima più equilibrato e familiare. I bambini in carcere come vivono? A questo punto occorre chiedersi: come vive un bambino in carcere? Come si disegnano il suo orizzonte, il suo linguaggio, la sua capacità di movimento negli spazi ristretti della cella? Di chi impara a fidarsi, oltre alla madre, alle altre detenute e al personale penitenziario? La vicenda dolorosa accaduta nel Carcere di Rebibbia, dove una detenuta ha lanciato dalle scale i suoi due bambini (la piccola è morta e per il fratellino di neanche due anni è stata dichiarata la “morte cerebrale”), ha riportato all’improvviso alla ribalta la condizione dei bambini tra le mura della prigione, bambini sui quali ricadono inevitabilmente le scelte delle madri oppresse dal senso di colpa di doverseli tenere con sé, spesso obbligate dalla povertà o dalla solitudine, che può cagionare, nei casi più estremi, il loro suicidio.. Sta di fatto che “I piccoli che restano in carcere con le madri vivono in strutture obsolete, poco ariose, create per gli uomini e che non sempre hanno la sezione nido, dove le donne rappresentano appena il 5 per cento dei detenuti e dove i bambini fino ai tre anni possono stare per legge quando è la mamma stessa a chiederlo, nel caso in cui non si voglia separare dai figli, oppure non abbia familiari o una casa disposti ad accoglierli” spiega Ornella Favero. Colpevoli di nulla, questi bambini trascorrono i primi anni della loro vita tra porte blindate e sbarre, in una sezione dove il cancello della cella resta aperto ma da cui, per uscire, si devono attraversare altre porte blindate e cancelli con altre sbarre. Un orizzonte limitato, oltre il quale non c’è scoperta, avventura, sorpresa. Perché finisce lì. “Di solito c’è un cortile o un giardino interno attrezzato con i giochi per i bambini, ma vi si accede a orari determinati e sempre con chiavi e cancelli, delimitato da muri spesso grigi, in cemento. Dove ci sono solo donne e gli unici uomini sono agenti in divisa, dove mancano figure maschili di riferimento e gli scambi sociali sono limitati alle detenute e ai loro figli, al personale penitenziario e ai volontari, se ci sono. Dove spesso le stesse mamme soffrono di gravi disturbi o arrivano da situazioni di disagio e disperazione” sottolinea Ornella Favero. Il tempo per queste mamme è un tiranno, non perché ne abbiano poco (come accade nella routine di tutte le mamme), ma perché è tutto ciò che hanno da offrire ai loro bambini. E i bambini hanno “solo” loro, l’unica figura di riferimento. Ed ecco che il legame tra i due diventa strettissimo, dove i chiaroscuri propri del binomio mamma-figlio qui prendono tinte forti, sulla spinta dei sensi di colpa, del rifiuto o, al contrario, di un’accettazione passiva. Questo accade fino al compimento del terzo anno di età, quando, all’improvviso, il legame con la Madre viene interrotto ope legis e, purtroppo, i tempi e i modi di questa lacerazione sono dolorosi per entrambi poiché la mamma viene allontanata con un pretesto e al suo ritorno il bambino non c’è più. Seguono scene di disperazione, donne che si feriscono gravemente come pure bambini incapaci di capire perché vengono portati via dall’ambiente in cui hanno sempre vissuto, l’unico che conoscono, per entrare in una vita “normale”, ma non per loro, cresciuti in prigione.. Anche il colloquio con i fratelli arrivati da fuori con un familiare (quando c’è), apre nuove ferite, che si rinnovano a ogni visita perché gli stessi i non capiscono perché loro devono restare dentro mentre gli altri familiari se ne vanno a casa. La cruda realtà dei bambini in carcere non deve indurci al pietismo per tale incresciosa situazione, ma occorre risolvere il problema senza indugio ampliando il ricorso a misure alternative che permettano alle detenute madri di scontare la pena insieme ai figli in contesti familiari, salvaguardando il proprio ruolo genitoriale e lo sviluppo del bambino nei primi anni della sua vita. Potrebbe essere una buona risposta, ma non l’unica, per deflazionare il Sistema Carcerario senza ricorrere a nuove strutture da allestire in tempi non certo brevi. Sul punto, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha affermato che “Le donne nelle carceri sono una minoranza quantitativa, ma anche qualitativa, nel senso che a loro sono offerte anche meno possibilità di attività all’interno delle strutture, mentre dovrebbero essere luoghi di recupero, come afferma la Nostra Costituzione”. Tenere separato un bambino in quanto figlio di una detenuta costituisce una violenza inaudita, che contraddice espressamente i contenuti della Convezione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, oltre a essere sul filo dell’incostituzionalità. “La pena”, dice l’art. 27 della Costituzione Italiana, “non deve mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. In definitiva, se la pena da scontare resta imprescindibile, essa deve essere considerata secondaria rispetto ai diritti del minore che vanno comunque, tutelati. Una pena che divida traumaticamente una donna da suo figlio o li costringe a convivere solo in condizioni di restrizione, è una pena disumana non soltanto per una ma per entrambi.. “In un paese civile e per un’Amministrazione che voglia essere degna dello Stato che serve e rappresenta, i problemi umani non ammettono disattenzioni, distrazioni ed insensibilità, né ammettono rifiuti o ritardi, giacché il prezzo di questi è l’attesa spasmodica e la moltiplicazione delle sofferenze di chi chiede, è l’intollerabile inquietudine e rimorso di coscienza di chi, potendo fare tutto o almeno qualcosa, non fa nulla o fa meno di quello che potrebbe” (N. Amato già Direttore generale delle carceri italiane). La riforma della giustizia verso un binario morto? di Paolo Pandolfini Il Riformista, 31 agosto 2023 Due ostacoli fanno temere uno stop improvviso: la manovra complicata e l’ombra del referendum. La riforma della giustizia, “liberale” e “garantista”, voluta dal Guardasigilli Carlo Nordio e da realizzarsi in più tappe rischia di finire subito su un binario morto. La novità è di queste ore e rappresenta un radicale cambio di passo rispetto a quanto dichiarato appena una decina di giorni fa dalla premier Giorgia Meloni, secondo cui l’intervento sulla giustizia sarebbe dovuto andare al pari di quello costituzionale sul premierato. I motivi dello stop improvviso sarebbero essenzialmente due. Il primo riguarda la legge di Bilancio che si preannuncia molto difficile. “Sarà una legge di bilancio complicata, tutte lo sono. Siamo chiamati a decidere delle priorità, non si potrà fare tutto, certamente dovremo intervenire a favore dei redditi medio bassi, ma dovremo anche usare le risorse a disposizione per promuovere la crescita”, aveva messo le mani avanti l’altra settimana il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti (Lega). Il problema è la mancanza di almeno 20 miliardi nei conti delle entrate, soldi che però servono urgentemente per far tornare i conti della manovra di bilancio d’autunno. La Ragioneria ha già fatto sapere che nei primi sei mesi dell’anno il fabbisogno dello Stato è salito a 95 miliardi di euro, circa 52 miliardi in più rispetto a un anno fa. Un aumento che nessuno aveva nemmeno lontanamente ipotizzato. A ciò si aggiunge che le entrate fiscali non stanno andando bene. Si versano molte meno imposte di quanto era stato preventivato dagli uffici di via Venti Settembre. Un quadro poco roseo che inevitabilmente costringerà il governo ad una manovra fatti di tagli e di conseguenza ad un dibattito parlamentare che si preannuncia molto acceso in quanto, oltre a dover fare economie, i partiti della maggioranza dovranno rinunciare alle tante promesse che erano state fatte in campagna elettorale. In questo scenario non edificante la riforma della giustizia, che non potrà essere fatta a costo zero, è destinata a passare in secondo piano. “Già sarà un miracolo trovare le risorse per far quadrare i conti, figuriamoci per gli investimenti che ha in mente Nordio”, fanno sapere alcuni parlamentari della maggioranza. Investimenti importati sono previsti sia nelle infrastrutture, ad esempio nell’edilizia giudiziaria, e sia nel personale. Nel progetto Nordio si dovrebbero assumere almeno trecento magistrati in più rispetto a quelli previsti ora dalla pianta organica solo per far funzionare il nuovo sistema delle misure cautelari: non più provvedimenti monocratici ma collegiali. Il secondo punto, invece, è tutto politico. La riforma Nordio necessita di una modifica della Costituzione, in particolare per quanto riguarda la separazione delle carriere in magistratura fra pm e giudici. Anche se fosse votata dal Parlamento, difficilmente il voto raggiungerebbe i due terzi sia alla Camera che al Senato. Numeri che il governo Meloni non ha dovendo così ricorrere al referendum costituzionale dove non è previsto il quorum. Visto che anche la riforma del premierato prevedrà - per gli stessi motivi - un referendum costituzionale, i colonnelli di Fratelli d’Italia, prima della ripresa dei lavori parlamentari, starebbero suggerendo alla premier di non insistere sulla riforma della giustizia, avvisando Nordio di alzare il piede dall’acceleratore per dedicarsi ad interventi meno incisivi. Per convincerla gli hanno ipotizzato scenari drammatici. La riforma della giustizia rappresenterebbe una chiamata alle armi dagli esisti quanto mai incerti. Sicuramente una campagna mediatica violentissima, capeggiata dall’Associazione nazionale magistrati e dai suoi giornali di riferimento, che farebbe passere l’esecutivo di destra come quello che vuole bloccare il lavoro dei pm, favorire la mafia, e gli odiati colletti bianchi. Un danno all’immagine della premier che viene pur sempre da un partito “legge e ordine”. A ciò si aggiunge cosa accadde a Matteo Renzi quando da presidente del Consiglio nel 2016 volle riformare la Costituzione al referendum. Un precedente non felice. Bisognerà vedere come la prenderanno gli alleati di governo, ad iniziare da Forza Italia che si è molto impegnata sulla giustizia in questi mesi. Indagini preliminari e giurisdizione: è questa la separazione da fare di Alberto Cisterna L’Unità, 31 agosto 2023 Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri non è la strada per assicurare maggiori garanzie ai cittadini. Va invece interrotto radicalmente il circuito opaco di corresponsabilità tra il gip e il pm. Non c’è da crederci, ma chissà. Che la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri nella versione hard proposta dalle Camere penali, e solo in parte mitigata dalle componenti più garantiste della maggioranza, possa superare il vaglio parlamentare pare onestamente difficile. Non è certo un problema di numeri, se ai voti del centrodestra si sommassero quelli dell’ex-Terzo polo la riforma passerebbe tranquillamente, ma è abbastanza evidente che la maggioranza non sia compatta sul punto e che la premier non vuole “rogne” con le toghe all’approssimarsi di una stagione politica complessa e incerta. Probabilmente si partirà con dozzine di audizioni, pareri, interlocuzioni, mediazioni, passi in avanti e fughe all’indietro. Se la montagna non partorirà il topolino, non è detto che, alla fine, non dia alla luce un coniglio, ossia una riforma pavida, pasticciata, indecisa, ondivaga. Sia chiaro: la separazione delle carriere, in sé considerata, è stata già acquisita da almeno un decennio e più e questo lo sanno tutti. I passaggi dal ruolo giudicante a quello inquirente e viceversa sono pochissimi e, ormai, ci sono giudici e pubblici ministeri che non cambierebbero mai le proprie funzioni e che preferiscono non mutare pelle. Il ché sia chiaro è e sarà un problema enorme per la giustizia italiana. Non può esserci una cultura della giurisdizione distinta da quella dell’investigazione e, piuttosto, dovrebbero crearsi osmosi formative più salde con la professione forense, piuttosto che pensare di spacchettare l’ordine giudiziario. Anche a praticare un taglio netto, una cesura decisa con due Csm, due ordini, due procedure di reclutamento, non sarà questa la strada per dare maggiori garanzie ai cittadini. L’avvocatura penale pretende, a ragione, una completa equiparazione con l’accusa innanzi al giudice terzo e imparziale, ma questo non si ottiene pensando di “degradare” i pubblici ministeri al ruolo di avvocati della polizia. Perché è inutile girarci intorno, un pubblico ministero isolato dalla giurisdizione non può che finire definitivamente nel circuito della polizia, appiattendosi (come già spesso avviene) al ruolo di “copia e incolla” di informative di reato da inoltrare al giudice cautelare o a quello delle intercettazioni o, sotto forma di abnormi “memorie”, persino al giudice del dibattimento, consumando la propria funzione in quella di succubo patrocinatore delle condanne ispirate dalle indagini. Questo, tuttavia, non vuol dire arretrare rispetto al principio della piena parità tra accusa e difesa, imposto dalla riforma costituzionale del 1999 e da un nugolo di convenzioni internazionali, che in effetti in Italia attende da troppo tempo una piena attuazione. Lo snodo processuale in cui più acute sono le fibrillazioni dell’auspicata terzietà - sarebbe ipocrita negarlo - è quello delle indagini preliminari. La circostanza che il pubblico ministero, un po’ pilatescamente, si limiti a chiedere la cattura degli indagati o l’attivazione di intercettazioni o l’acquisizione di tabulati e rimetta al giudice la decisione ha creato un circuito opaco di responsabilità. Anzi di corresponsabilità tra giudice per le indagini preliminari (gip) e pubblico ministero (pm) che deve essere interrotto, e con una certa dose di radicalità e coraggio. Troppo spesso alcuni pubblici ministeri si fanno scudo della circostanza di aver “solo” richiesto la cattura di indagati e che la decisione non è stata la loro; per cui quando i malcapitati sono assolti, se non scarcerati a distanza di poco tempo dai provvedimenti coercitivi, il conto - dicono - deve essere presentato al gip. Si è generato un perverso, e poco limpido, piano inclinato che dalla polizia giudiziaria, attraverso un pubblico ministero “copista”, attinge direttamente alla sfera di responsabilità del gip (dedito in qualche caso anche lui alla confezione del medesimo collage con alcune minuscole varianti) il quale - egli davvero - ha da auspicare e perorare che i colleghi del tribunale del riesame abbiano comprensione per il suo lavoro e non lo castighino in modo troppo severo. E’ stata la contaminazione delle indagini preliminari (da concepire in origine, secondo molti studiosi, come una mera fase amministrativa) con il controllo giurisdizionale che genera quasi tutti i problemi che sono lamentati dall’avvocatura penalistica italiana la quale, tuttavia, ha da muoversi in una strettoia tutt’altro che agevole. Non può abdicare al controllo giurisdizionale nella fase delle indagini perché teme potentemente un pm svincolato (come nel Codice Rocco) da qualsivoglia verifica sugli atti più pervasivi che connotano le investigazioni (archiviazione, misure cautelari e captazioni). Ma d’altra parte l’avvocatura ha visto sostanzialmente fallire ogni tentativo di rafforzare le guarentigie difensive in quella fase processuale, da ultimo con la farraginosa e impraticabile riforma Cartabia in tema di iscrizione nel registro delle notizie di reato. Ha innanzi a sé un Moloch di cui non sa e, in fondo, non vuole disfarsi; un ircocervo irriconoscibile e inemendabile. La soluzione radicale sarebbe quella di portare la giurisdizione fuori dal perimetro delle indagini preliminari prevedendo che il pm possa da solo intercettare o possa persino assoggettare a un fermo “breve” gli indagati con alcuni semplici precauzioni: a) un potere di cattura (come nella fase transitoria tra vecchio e nuovo codice nel 1989) limitato a 20 giorni al massimo; b) la collocazione dei fermati, salvo casi eccezionali, in strutture di detenzione domiciliare con braccialetto elettronico (l’idea delle caserme dismesse non suona male); c) la sottoposizione rapida a un collegio (sul modello del Grand Jury) del materiale raccolto (intercettazioni, perquisizioni, sequestri, interrogatori et cetera) affinché, nel pieno contraddittorio delle parti, giudici terzi e incontaminati ne stabiliscano l’utilizzabilità processuale e, soprattutto, la sufficienza ai fini di un dibattimento o curassero i riti alternativi. Se a questo si accompagnasse il divieto assoluto di pubblicazione dei nominativi degli indagati sino alla celebrazione dell’udienza di conferma e convalida delle attività del pm, si potrebbe avere una cornice meno precaria e, forse, più affidabile di quella oggi tanto contestata. In altre parole, si tratta di evitare che l’accusa nella fase delle indagini possa vedere assegnato il sigillo della legittimità processuale agli atti che richiede, coprendoli sotto l’ombrello protettivo della giurisdizione. Fatto, questo, che notoriamente è la fonte di tante proteste delle difese che vedono - ad esempio - quasi mai contestata nei successivi gradi del processo la legittimità delle intercettazioni disposte da un gip. Può darsi che questa sia la vera separazione da attuare, abbandonando un modello di indagini solo in teoria perfetto, ma che, nella sua concreta applicazione (dopo oltre 30 anni), può probabilmente dirsi che abbia causato danni e sollevato questioni di enormi proporzioni. Separare pm e gip - secondo lo schema in auge in questi tempi - non migliorerà in alcun modo questa situazione, almeno sino a quando il pubblico ministero non tornerà ad assumersi per intero la responsabilità degli atti che compie e che, ora, solo sollecita e propone. Una diarchia pericolosa che non genera garanzie e che ha affrancato qualche pm dal peso di iniziative talvolta avventate. In chiusura: nessuno immagini che un’accusa priva di controllo giurisdizionale preventivo sia più pericolosa o più nociva, quando il pm avesse da assumersi gravi e grandi responsabilità in proprio, o con il procuratore della Repubblica, una certa “paura della firma” prenderebbe corpo anche nei più agguerriti anfratti dell’inquisizione. Separazione delle carriere, tra stalli e nodi irrisolti di Paolo Pandolfini Il Riformista, 31 agosto 2023 Sul tavolo ci sono quattro proposte di legge. L’idea sulla commistione può sparigliare le carte. L’estate volge al termine e, puntuale, riparte il dibattito sulla riforma della giustizia. Una riforma quanto mai attesa e di cui si discute ormai da almeno trent’anni. In una intervista della scorsa settimana, la premier Giorgia Meloni ha affermato di considerare l’intervento sulla giustizia, al pari di quello costituzionale sul premierato, ‘prioritario’ per il Paese. Il problema è capire come e quando, visti i precedenti, tale intervento avverrà. Sul fronte dei lavori parlamentari, mercoledì prossimo, è in calendario la discussione sulla separazione delle carriere fra pm e giudici in Commissione affari costituzionali alla Camera. Un tema da sempre incandescente. Sul tavolo ci sono quattro proposte di legge presentate da Forza Italia, Lega, Azione e Italia viva. Nazario Pagano, il presidente forzista della Commissione, ha deciso - dopo mesi di stallo - di imprimere una accelerazione ai lavori e punta ad arrivare in aula prima della fine dell’anno. A luglio Enrico Costa e Roberto Giachetti, deputati di Azione e Italia viva, avevano inviato una nota proprio a Pagano chiedendogli di reinserire nell’ordine del giorno le proposte di legge in materia di separazione delle carriere della magistratura. “Su questi provvedimenti - avevano sottolineato i due deputati - sono state effettuate cinque audizioni, l’ultima a fine marzo. Poi il tema è uscito dal calendario dei lavori della Commissione, in coincidenza con l’annuncio del ministro Nordio di presentare un disegno di legge governativo in materia entro il 2023”. “Attualmente non abbiamo calendarizzato la proposta della separazione delle carriere”, aveva però affermato il Guardasigilli, precisando che trattandosi comunque di una riforma costituzionale doveva essere collegata ad altri tipi di riforme che dipendono anche da “considerazioni di ordine politico”. Un problema che non ci sarebbe, invece, per il vice ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto (FI). “La separazione delle carriere in magistratura trova fondatezza nella Costituzione. Quest’ultima, infatti, all’articolo 104, sancisce che la magistratura è un ordine autonomo e indipendente. L’articolo 111, però, chiarisce che soltanto il giudice è terzo e imparziale. Ovviamente, autonomia e indipendenza sono principi ‘sacri’ e intoccabili per tutti i magistrati, pm compresi”, aveva precisato Sisto, ricordando che non è stata mai in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale, anch’essa prevista dalla Costituzione. In attesa di capire come si evolverà il dibattito parlamentare, non poteva mancare allora l’intervento a gamba tesa della magistratura associata. Il 9 settembre è prevista la riunione dell’Associazione nazionale magistrati a Roma e le toghe di Magistratura democratica (il gruppo di sinistra) spingono per far mettere all’ordine del giorno il tema della separazione delle carriere, avendo già dichiarato la propria contrarietà, senza se e senza ma, a qualsiasi riforma in tal senso. Prima dell’estate il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, esponente della sinistra giudiziaria, in vari interventi non aveva perso occasione per esternare tutta la sua contrarietà alla possibilità che pm e giudici avessero in futuro percorsi professionali diversi. “La separazione delle carriere è una riforma che apre ad altre, perché dalla separazione dovrebbe poi seguire la discrezionalità dell’azione penale: un pm separato dalla giurisdizione e quindi fuori da quei meccanismi di compensazione e di controllo che prevede la Costituzione, lo lasceremo da solo o ci sarà qualcun altro che ambirà al controllo sull’azione penale? E quello non potrà che essere il controllo politico”, aveva ricordato Santalucia. Per dar forza al ‘Santalucia pensiero’ era stato anche preparato un appello a Nordio, sottoscritto da circa 500 magistrati in pensione. “Siamo magistrati in pensione civilisti e penalisti, giudici e pubblici ministeri, che sentono il bisogno di intervenire contro l’annunciata riforma della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri”, avevano esordito le ex toghe, ipotizzando scenari sudamericani in caso la riforma passasse. Va ricordato, però, che il governo non ha presentato un proprio testo. “Sulla separazione delle carriere si parla astrattamente, non c’è un testo del governo, non abbiamo capito chi lo sta scrivendo o chi dovrebbe scriverlo. Per questo richiamiamo la centralità dell’iniziativa parlamentare”, aveva fatto sapere il presidente dell’Unione camere penali italiane, l’avvocato Gian Domenico Caiazza. Nel 2017 le Camere penali si erano fatte promotrici a loro volta di una raccolta di firme per una riforma d’iniziativa popolare sulla separazione delle carriere fra pm e giudici. Pur a fronte del successo avuto, circa 700mila le firme raccolte, l’iniziativa dei penalisti non ebbe però alcun seguito. La separazione delle carriere “è la riforma sempre voluta da Berlusconi”, ha ricordato Paolo Barelli, presidente dei deputati di Forza Italia. “Sapete qual è la vera separazione delle carriere che voglio? Quella tra magistrati bravi che devono andare avanti e che meritano rispettano e magistrati ideologici che non possono fare danni al nostro Paese”, era stato invece il commento di Matteo Renzi, leader di Italia viva. Una proposta che potrebbe sparigliare le carte è quella del laico del Csm Ernesto Carbone: no separazione ma ‘commistione’. In pratica, dopo un periodo il pm dovrebbe passare a fare il giudice e viceversa. Anzi, prima di fare il pm bisognerebbe obbligatoriamente aver esercitato funzioni giudicanti, ad esempio il gip. Il rinvio della separazione delle carriere non preoccupa Forza Italia (ma i penalisti sì) di Ermes Antonucci Il Foglio, 31 agosto 2023 Gli azzurri non temono che la volontà di Meloni di dare priorità alla riforma del premierato possa penalizzare l’approvazione della riforma della giustizia. Caiazza (Ucpi), però, lancia l’allarme: “Il tempo corre”. Puntare tutto sull’approvazione della riforma costituzionale che introduce il premierato (con annesso referendum), rinviando a un secondo momento la riforma costituzionale della giustizia e della separazione delle carriere tra giudici e pm (con secondo annesso referendum)? Nessun problema. La strategia immaginata dalla premier Giorgia Meloni, anticipata ieri dal Foglio, non sembra preoccupare Forza Italia, cioè il partito di governo che da sempre ha fatto della riforma della giustizia una delle sue battaglie campali. “Penso che ci sia il tempo e soprattutto il consenso parlamentare per approvare entrambe le riforme”, dichiara Pietro Pittalis, deputato di FI e vicepresidente della commissione Giustizia della Camera. “La separazione delle carriere è un punto qualificante del programma di governo”, nota. “Non realizzare la riforma sarebbe quindi un tradimento nei confronti degli elettori”, aggiunge Pittalis. “Vista la coerenza dimostrata finora da Meloni non pavento alcun rischio che la riforma della giustizia possa saltare”, conclude. Della stessa opinione si mostra anche il deputato forzista Tommaso Calderone, primo firmatario della proposta di legge sulla separazione delle carriere presentata da FI: “Si tratta di un pilastro fondamentale del programma elettorale non solo di Forza Italia, ma dell’intero governo”, dice al Foglio, escludendo preoccupazioni per la precedenza che Meloni vorrebbe attribuire alla riforma del premierato. “Le due riforme sono compatibili”, afferma Calderone. “Possono essere esaminate entrambe - aggiunge -, fermo restando che per noi la riforma della giustizia costituisce una priorità assoluta”. “L’obiettivo è ripristinare l’equità nel processo, oggi troppo sbilanciato in favore dell’accusa. Occorre rimettere i diritti degli imputati al centro del sistema giudiziario. Noi siamo disposti a raddoppiare il nostro sforzo”, conclude Calderone. Il ragionamento della premier è molto semplice: evitare di approvare un testo di riforma costituzionale che tenga dentro temi fra loro molto diversi, come la forma di governo, la separazione delle carriere fra giudici e pm, la struttura del Consiglio superiore della magistratura, e che chiami quindi gli italiani a votare su un quesito referendario molto complicato, in favore invece di due “momenti riformatori”, ciascuno dei quali con il proprio referendum, più semplice da spiegare ai cittadini. Senza dimenticare, inoltre, che mentre il problema della stabilità dei governi appare essere ormai molto sentito dai partiti, ed evidente persino all’opinione pubblica, i temi relativi alla giustizia sono ben più incendiari e divisivi. Forza Italia non teme - al momento - che la volontà di Meloni di dare priorità alla riforma costituzionale per l’introduzione del premierato possa penalizzare l’approvazione della riforma della giustizia. Eppure di motivi per preoccuparsi ce ne sarebbero diversi, a partire dai tempi di approvazione richiesti dai testi di riforma costituzionale e dalle sfide elettorali che attendono il governo (rischiando di condizionarne l’andamento). Un allarme, in questo senso, proviene da Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali italiane (Ucpi): “La notizia pubblicata ieri sul Foglio non fa che confermare le nostre preoccupazioni sull’accantonamento della riforma della separazione delle carriere”, dichiara Caiazza. “I segnali nell’ultimo periodo sono stati abbastanza evidenti - prosegue -. Alla Camera sono incardinati diversi progetti di legge, la prossima settimana riprenderanno le audizioni, eppure il governo ha annunciato una propria iniziativa legislativa. Perché? L’esecutivo ha una idea della separazione delle carriere diversa da quella del Parlamento?”, si chiede Caiazza. “Ci viene ripetuto che è un percorso lungo ed è vero, però bisognerebbe cominciarlo subito, non rinviarlo costantemente, perché per approvare un testo di riforma costituzionale servono due anni”, conclude il presidente dei penalisti. Paola D’Ovidio: “Difficile prevenire le violenze. Serve formazione e più magistrati” di Giulia Merlo Il Domani, 31 agosto 2023 Parla la consigliera Csm di Magistratura indipendente. Il gruppo ha chiesto al Csm di creare un comitato che diffonda le buone prassi tra procure. Ma servono più toghe in organico e una specializzazione su reati difficili da prevenire ma anche da dimostrare Le cronache degli stupri di gruppo a Napoli e Palermo raccontano di un aumento dei reati legati alla violenza di genere. Difficili da prevenire ma anche da indagare, “richiedono una grande attenzione, con potenziamento di risorse e di organici degli uffici giudiziari, accurata formazione specifica dei magistrati e, più in generale, adozione di tutti gli strumenti idonei a dare una risposta di giustizia efficiente. Per questo abbiamo chiesto al Csm di aprire una pratica” spiega Paola D’Ovidio, che è stata sostituto procuratore presso la procura generale di Cassazione e oggi siede al Csm con il gruppo moderato di Magistratura indipendente. Esiste in magistratura la percezione di un aggravamento della situazione in tema di violenza di genere? Sì, il Csm se ne sta occupando e non da oggi. Esiste un monitoraggio del 2018 che ha permesso di raccogliere le buone prassi in materia, dall’organizzazione degli uffici ai rapporti con la polizia giudiziaria, fino ai criteri di priorità da utilizzare. La cronaca, però, ci racconta di un aumento dei casi, quindi è necessario andare oltre nel sostegno ai magistrati, sia inquirenti che giudicanti, impegnati in questo delicato settore. Gli uffici giudiziari sono attrezzati per perseguire in modo strutturato questo tipo di reati? Si tratta di reati odiosi e di particolare complessità, che vanno valutati sia come fattispecie a se stanti che per le implicazioni sociali che comportano, dal punto di vista dell’allarme sociale e del danno ai contesti familiari. Per questo serve più supporto agli uffici a vari livelli: servono più risorse e mezzi, maggiore formazione e un confronto con il legislatore. Partiamo da quello che manca... I reati di violenza di genere richiedono una particolare specializzazione per il magistrato che se ne occupa, sia inquirente che giudicante. Si tratta di competenze che si trovano più facilmente nei grandi uffici, molti dei quali sono già organizzati con colleghi che hanno sviluppato competenze specifiche nel settore. Più difficile, invece, è reperire la stessa competenza in quelli più piccoli, dove la specializzazione per forza di cose è meno possibile. Per questo il primo passo è quello di aumentare risorse umane, colmando le attuali carenze di organico. Da pubblico ministero, come si affronta un’indagine su questo tipo di reati? La difficoltà maggiore è quella di individuare i segnali premonitori della violenza, se ce ne sono. In questo senso la normativa del Codice rosso è stata efficace ma non sempre è sufficiente. Concretamente, il pm deve entrare in complesse dinamiche endofamiliari, che possono mettere in discussione i normali criteri di indagine. In che senso? Le faccio un esempio. In casi di violenza di genere, spesso la vittima è anche l’unico testimone del reato e ne va valutata l’attendibilità. Visto il tipo di contesto, però, i normali criteri di valutazione della prova vanno applicati alla luce di dinamiche familiari delicate. Per farlo serve un supporto conoscitivo che richiede di andare oltre le generali regole giuridiche. Questo a tutela non solo della vittima ma anche dell’indagato, perché si tratta di accuse infamanti e vanno verificate nel modo più accurato possibile. La copertura mediatica che spesso questi casi attirano rischia di condizionare le indagini? A titolo personale posso dirle che non mi sono mai sentita influenzata dai media. Certamente, però, una grande attenzione mediatica può influire in modo improprio non tanto sul giudice o sul pm, quanto sulle parti. Per esempio un indagato può assumere atteggiamenti fuorvianti, oppure la vittima può decidere di non parlare più per paura. Come si forma un magistrato che si occupa di questi temi? La Scuola superiore della magistratura sta lavorando molto, ma non sempre tutti i richiedenti riescono ad accedere ai corsi specifici e sarebbe auspicabile un confronto con il csm per valutare un loro potenziamento. Sul fronte dell’esperienza sul campo, si dovrà lavorare per favorire la mobilità dei magistrati specializzati. Le competenze necessarie però vanno oltre il diritto e toccano le scienze psicosociali, presupponendo il supporto formativo di medici e psichiatri. Lo stesso vale anche per la polizia giudiziaria che è di ausilio nelle indagini e deve essere a sua volta formata per interagire correttamente sia con le vittime che con gli indagati. Che prospettive di intervento ci sono? L’apertura di una pratica al Csm proposta dai consiglieri di MI serve proprio a questo, attraverso un serio monitoraggio. La nostra ipotesi è quella di creare un comitato che monitori le buone prassi già in atto, che consulti specialisti e metta in circolo informazioni utili agli uffici, sia giudicanti che requirenti. Inoltre, sarà utile un confronto con il legislatore per ragionare anche di eventuali modifiche procedurali per rendere più efficace non solo la condanna, ma anche la prevenzione di questi reati. Quali sarebbero gli interventi ipotizzabili nell’immediato? Il primo passo è certamente il potenziamento dell’organico specializzato. Per le procure più piccole, che sono quelle on maggiore difficoltà perché gli organici sono spesso sottodimensionati rispetto alle esigenze, a titolo esemplificativo, si potrebbe ragionare sulla creazione della figura di un magistrato distrettuale che assicuri anche in tali uffici una continuità di lavoro e di presenza. Sarà il confronto ed il dialogo collegiale del Csm ad individuare nel dettaglio gli strumenti più adeguati. L’obiettivo del Csm è quello di sostenere i colleghi, che svolgono un compito molto gravoso e di grande responsabilità. Come procede l’interlocuzione con il ministero della Giustizia, in questa fase in cui i rapporti tra la politica e toghe sono piuttosto tesi? Il ministero sta facendo il massimo per incrementare l’organico togato, basti considerare che ora sono in fase di correzione due concorsi per nuovi magistrati ed un terzo, già bandito, sarà espletato in tempi brevi. Il periodo del Covid ha bloccato i concorsi per quasi due anni, ma su questo tema l’interlocuzione è positiva. Cos’altro servirebbe? Questi reati chiamano tutti gli operatori di giustizia ad una responsabilità sociale se possibile ancora maggiore. Per questo servono protocolli con l’avvocatura, il sostegno degli ospedali e il supporto della polizia giudiziaria, perché la risposta di giustizia ai cittadini sia la più rapida, efficace e corretta possibile. Da vittima dello stupro a bersaglio social: ora basta show sull’orrore di Francesca Spasiano Il Dubbio, 31 agosto 2023 A finire nel tritacarne stavolta è la ragazza violentata a Palermo. Il Garante privacy: media spregiudicati. Domani la a visita di Meloni al Parco Verde di Caivano, teatro delle violenze su due bimbe. La lezione di don Patriciello: “Un esercito qui? Sì, di maestri”. Vittima due volte, prima ancora di mettere piede in un tribunale. Anche lì, dentro l’aula, la ragazza che ha denunciato lo stupro di gruppo a Palermo rischia di finire alla sbarra per dimostrare che quella violenza non se l’è procurata. Ma è probabile che la 19enne ripeterà il suo racconto davanti al Gip nell’ambito dell’incidente probatorio, senza testimoniare a processo. Perché questa volta il paradigma dello show giudiziario si è rovesciato, e a finire nel tritacarne mediatico è la vittima stessa. Che dopo il grido di dolore lanciato sui social è stata trasferita in una comunità protetta, lontana da Palermo, dove avrà anche la possibilità di lavorare. “Sono stanca, mi state portando alla morte. Io stessa, anche senza questi commenti, non ce la faccio più. Non ho voglia di lottare né per me né per gli altri. Non posso aiutare nessuno se sto così”, ha scritto la giovane postando uno dei tanti insulti che le sono arrivati su Instagram. È il segnale di un malessere profondo, che era già arrivato qualche giorno fa, sempre sui social, quando la ragazza aveva rotto il silenzio per mettere a tacere chi l’accusa di inventarsi lo stupro. O peggio, di “meritarlo”. L’onda di solidarietà sembrava averle dato uno “scopo”: mettere insieme le voci di donne che come lei hanno subito abusi. Ma l’onda della gogna alla fine è stata più forte: “Se riesco a farla finita porterò tutti quelli che volevano aiutarmi sempre nel mio cuore”, recita l’ultimo messaggio, quello che ha fatto scattare l’allarme. Un epilogo che già dice molto dei danni che la sovraesposizione mediatica di un fatto di cronaca può procurare anche sulla vittima, quando si trasforma in un bersaglio. Per il pregiudizio che in questi casi si fa strada, ma anche per la tentazione autoassolutoria di una società che non si rassegna ad accettare l’evidenza: la violenza può colpire chiunque. L’esperto di turno si sforzerà di ripeterlo per la donna uccisa o stuprata. Ma il salotto adibito sui social o in tv per scavare dentro il male che non riusciamo a spiegare non fa che alimentare la ricerca spasmodica delle responsabilità che dovrebbero essere oggetto di accertamento penale. Non siamo al solito “trucchetto” delle indagini show, che tanto contribuiscono alla condanna preventiva di chi è sotto accusa. Questo caso ci insegna qualcosa di più: il biasimo che normalmente colpisce il presunto colpevole può travolgere anche la vittima, se è il suo comportamento che il tribunale mediatico si incarica di giudicare. Ecco allora che non resta più un angolo, dentro la rete, dove la ragazza di Palermo possa trovare riparo dalla morbosa curiosità per ciò che le è capitato. Da qualche parte si trova persino il suo nome, come ha denunciato il Garante per la protezione dei dati personali. Che intanto ha avviato un’istruttoria nei confronti dei siti e delle testate online che ne hanno diffuso le generalità, violando le più basilari regole che un giornalista è chiamato a rispettare. “Si sono registrati diversi casi in cui l’informazione è stata da subito caratterizzata da un eccesso di particolari e da una morbosa attenzione sulla vicenda”, ha spiegato l’Autorità, avvisando circa le ricadute penali di tale divulgazione. È innanzitutto una questione di deontologia, e se ce ne freghiamo alla violenza si aggiunge altra violenza. Come ha ricordato anche la Commissione Pari opportunità del Consiglio nazionale forense, scesa in campo per garantire l’impegno dell’avvocatura contro il fenomeno della vittimizzazione secondaria. In che modo? Investendo soprattutto nella formazione, come da più parti si continua a ripetere. Anche tra le forze politiche, che ora accelerano per garantire una risposta immediata alle violenze di Palermo e Caivano. “Anche qui, vedo due diversi livelli su cui operare. Se lo Stato viene percepito come distante, ci deve essere. Perciò, come primo immediato intervento, bisognerà riaprire la palestra, i centri che fanno un lavoro importante di educazione e socializzazione”, ha assicurato al Sole24Ore Giorgia Meloni, che questa domani mattina è attesa nella città napoletana, con interventi concreti alla mano. La premier lo ha promesso, la sua non sarà una semplice visita. E anche dopo le minacce ricevute via social garantisce che il “governo non farà passi indietro”. Per prima cosa sistemerà il centro sportivo Delphinia, teatro delle presunte, reiterate, violenze sessuali di gruppo ai danni di due bambine di 11 e 12 anni. Un impegno concreto che ora si aspetta anche don Patriciello, che proprio alla premier aveva rivolto il suo appello. Ma ai luoghi dell’orrore, il Parco Verde di Caivano, non occorrono slogan. Né lo Stato d’assedio invocato dal governatore della Campania Vincenzo De Luca. Serve un “esercito di maestri elementari e assistenti sociali”, dice il parroco antimafia. Il cui monito forse potrà indirizzare anche l’agenda politica, divisa tra la formulazione di una maggiore asprezza della risposta punitiva e l’impegno nel campo della prevenzione. Non solo castrazione chimica, dunque, come invoca la Lega. Ma anche una “task force” a tutela dei giovani e un controllo preventivo sui contenuti digitali “violenti” per renderli inaccessibili ai minori, come invece propone Fratelli d’Italia in un ddl che sarà pronto a settembre. Quale sarà la priorità della premier? Esclusa la polemica che riguarda il compagno e giornalista Andrea Giambruno, s’intende. Il “no” al differimento della pena per motivi di salute deve indicare l’alternativa di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2023 La Corte di cassazione, sentenza n. 36215 depositata oggi, ha accolto con rinvio il ricorso di un detenuto malato di cancro condannato per reati di mafia. Sì al differimento della pena per praticare le cure mediche necessarie alla tutela della salute anche per chi sta scontando la pena per reati di mafia. La Corte di cassazione, sentenza n. 36215 depositata oggi, conferma sul punto la linea della concretezza affermando che nel caso di diniego il tribunale dovrà indicare specificamente i luoghi in cui può avvenire la cura e le relative modalità. La Prima sezione penale, accogliendo (con rinvio) il ricorso del detenuto, ha così annullato l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Palermo che aveva rigettato l’istanza volta alla concessione del differimento della pena, o, in subordine, di detenzione domiciliare per motivi di salute, disponendo contestualmente la trasmissione degli atti alla Direzione della Casa circondariale di Benevento, perché, di concerto con il Dirigente sanitario, fosse individuata tempestivamente una struttura sanitaria pubblica anche in ambito extraregionale, per la sollecita risoluzione delle esigenze terapeutiche e interventistiche di cui il detenuto necessita, dando altresì atto dell’elevato grado di pericolosità del detenuto (affetto da epatite cronica e carcinoma), condannato per il delitto di cui all’articolo 416-bis cod. pen. e mai dissociatosi. In particolare, per il giudice le esigenze terapeutiche erano affrontabili “mediante tempestivo intervento chirurgico, non richiedente standard di abilità superiori alla norma, presso struttura pubblica del Ssn”. Nel ricorso il detenuto ha sottolineato il ribaltamento delle relazioni mediche che concludevano per l’incompatibilità con il carcere evidenziando l’indifferibilità dell’intervento chirurgico e la necessità di garantire successivamente tutte le cure necessarie. La Cassazione ricorda che, secondo la previsione dell’articolo 147, comma 1, n. 2, cod. pen., il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena può essere concesso al condannato che risulti affetto da “una grave infermità fisica” che renda le condizioni di salute del soggetto incompatibili con il carcere. E che ai sensi dell’articolo 47-ter, comma 1-ter, ord. pen., ove ricorra tale presupposto, può essere disposta la detenzione domiciliare in luogo del rinvio dell’esecuzione della pena, chiesto in via principale, ove il giudice ritenga che l’esigenza di contenere la residua pericolosità del detenuto con un presidio detentivo sia prevalente rispetto a quella di tutela della salute. Il rigetto dell’istanza postula dunque una valutazione di compatibilità delle condizioni di salute del detenuto con il regime carcerario attraverso un giudizio bifasico che tenga conto del quadro nosografico ed in concreto delle modalità di somministrazione delle terapie. Mentre il grave stato di salute va inteso come patologia implicante un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti tali da non poter essere praticati in regime di detenzione inframuraria neppure mediante ricovero in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell’articolo 11 ord. pen.. Da tutto ciò la Cassazione conclude che il differimento della pena per motivi di salute può essere concesso “solo per l’impossibilità di praticare utilmente, in ambiente carcerario, le cure necessarie nel corso dell’esecuzione della pena”, tuttavia “là dove il Tribunale di sorveglianza ritenga che il differimento invocato non possa essere concesso, per essere possibili utili pratiche sanitarie anche presso luoghi esterni di cura, vi è l’onere di indicare con precisione, e non genericamente, tale luogo quando si ammette la necessità di assicurare l’espiazione della pena in diversa struttura, onere al quale si accompagna quello di verifica della concreta fattibilità delle cure indicate come necessarie”. Cassazione: al 41 bis vietata la borsa frigo per conservare il cibo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 agosto 2023 Accolto il ricorso del ministero della Giustizia avverso la decisione del tribunale di Sorveglianza. Ma il divieto dell’uso della borsa refrigerante combacia con lo scopo del regime speciale? Con la sentenza numero 34609, la Corte Suprema conferma il divieto per i detenuti sottoposti al rigido regime penitenziario differenziato del 41-bis di utilizzare borse frigorifero per la conservazione dei cibi. Questo suscita varie riflessioni approfondite sul bilanciamento tra le restrizioni del 41 bis e i diritti fondamentali dei detenuti. Il caso di Antonio Scognamillo, detenuto in regime 41-bis, ha portato alla luce aspetti cruciali di questa decisione, specialmente per quanto riguarda il dibattito sulle misure afflittive che potrebbero sembrare eccessive rispetto all’obiettivo di tale istituto. Il regime penitenziario 41-bis è noto per le sue restrizioni severe, applicate ai detenuti considerati particolarmente pericolosi o affiliati a organizzazioni criminali. L’obiettivo principale è evitare che i detenuti trasmettano messaggi ai loro gruppi criminali di appartenenza. In questo contesto, è essenziale garantire il diritto alla salute e a un’adeguata nutrizione. Tuttavia, la decisione della Cassazione sembra essere incline alle esigenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria, trascurando la protezione dei diritti dei detenuti. Ma procediamo per gradi. Il Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila ha respinto la contestazione avanzata dall’Amministrazione penitenziaria contro la decisione del magistrato di Sorveglianza, che aveva accolto la richiesta di Antonio Scognamillo, detenuto al 41 bis. Il magistrato aveva stabilito che l’Amministrazione penitenziaria dovesse autorizzare l’uso di una borsa frigorifero rigida, già in possesso del detenuto, previo controllo. La richiesta del detenuto riguardava un diritto soggettivo, ovvero il diritto alla salute. Si è accertato che le borse frigo di tipo morbido, permesse per l’acquisto da parte dei detenuti, sono in grado di mantenere la temperatura fredda solo per un periodo estremamente breve. Il prolungato stoccaggio dei cibi in tali borse può alterarne la freschezza, con possibili conseguenze sulla salute di chi li consuma. Inoltre, è opportuno considerare che il detenuto dispone già di altri oggetti mobili nella sua cella, che potrebbe usare impropriamente, come ad esempio le sedie. Secondo la magistratura di sorveglianza, concedere l’autorizzazione all’uso di una borsa frigorifero rigida rappresenta una soluzione adeguata per bilanciare la necessità di preservare la qualità dei cibi acquistati o ricevuti dal detenuto, tutelando così la sua salute, con la responsabilità di non aggiungere oneri all’amministrazione in termini di organizzazione delle attività all’interno dell’Istituto e di gestione del personale. Tuttavia, il ministero della Giustizia presenta ricorso in Cassazione, sollevando l’argomento di una presunta violazione di legge e un’eccessiva interferenza in una sfera di competenza amministrativa statale. Il Ministero sottolinea anche che non si tratta di un pregiudizio attuale e grave nell’esercizio di un diritto, poiché la mancata idoneità delle borse frigorifero morbide non trova riscontro in alcuna valutazione specialistica o sanitaria. Sottolinea inoltre che nell’ordinamento penitenziario non esiste alcuna disposizione che imponga l’acquisto di borse frigorifero o frigoriferi da parte dei detenuti. Al contrario, vi è un esplicito divieto di accumulare generi alimentari. Da ciò deriva che l’Amministrazione non ha l’obbligo di fornire tali oggetti ai detenuti. La Cassazione accoglie il ricorso presentato dal ministero della Giustizia e annulla senza rinvio l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza. Nell’accogliere il ricorso, la Corte richiama una precedente giurisprudenza che conferma il divieto di utilizzare il frigorifero della sezione di assegnazione per la conservazione dei cibi freschi e congelati, a scapito delle borse termiche con tavolette refrigeranti. La Corte ammette che le mattonelle refrigeranti sono adatte solo per un periodo limitato, ma sottolinea che “non è contestabile che, con la sostituzione tempestiva con nuove mattonelle, si assicura il mantenimento delle condizioni di salubrità degli alimenti”. Tuttavia, non sembra affrontare il potenziale problema di disponibilità immediata delle nuove mattonelle per continuare la conservazione dei cibi. Rimane il fatto che il regime 41-bis presenta misure afflittive che sollevano interrogativi sulla loro connessione con lo scopo originario di tale istituto. Il divieto dell’utilizzo della borsa frigorifero rientra tra queste: in che modo ostacolerebbe il divieto di comunicare con l’esterno? Veneto. Suicidi, caos, agenti aggrediti: l’estate delle prigioni-polveriera di Andrea Priante Corriere del Veneto, 31 agosto 2023 Agenti aggrediti, gesti di autolesionismo, proteste. È l’estate nera delle prigioni del Veneto: una polveriera che, dietro torrette e muri invalicabili, pare in procinto di esplodere. “Ci sono tensioni in tutta la regione, la situazione sta degenerando” conferma il segretario del sindacato Uspp, Leo Angiulli. Qualche flash da radio-carcere. A Verona, martedì scorso due reclusi hanno dato fuoco alla cella e poi hanno usato le gambe di un tavolo come mazze contro gli agenti. Il giorno precedente, era stata la volta di uno psichiatra della struttura a cui un detenuto, rientrato dopo un ricovero in ospedale, ha fratturato il setto nasale. “Abbiamo chiesto che tutti i vetri siano sostituiti con plexiglass antisfondamento - ha raccontato Matteo Barbera, pure lui sindacalista della penitenziaria - perché i carcerati li rompono e li mangiano. Non abbiamo avuto risposta”. Due settimane fa, a Vicenza, tre albanesi che pretendevano di essere trasferiti sono riusciti ad arrampicarsi sui muri dei cortili, issandosi sul tetto. Ci sono volute ore di trattativa per farli scendere. Tensioni anche nella sezione alta sicurezza dove - stando a quanto segnalano alcuni attivisti - la protesta starebbe montando, con detenuti che quotidianamente inscenano la “battitura” (cioè sbattono pentole e suppellettili sulle porte come forma di protesta) e altri intenzionati a intraprendere uno sciopero della fame. Se soltanto questa estate la casa circondariale di Venezia ha dovuto fare i conti con due suicidi, in quella di Padova nei giorni scorsi un agente è finito al pronto soccorso dopo essere stato aggredito da un detenuto che gli ha sbattuto la testa contro un muro. Mentre nella Casa di Reclusione, sempre a Padova, un poliziotto è stato rinchiuso in un reparto: per farlo uscire i colleghi hanno dovuto ingaggiare una colluttazione. Questi sono soltanto gli ultimi episodi, maturati in un contesto che si fa sempre più caotico, come raccontato nella lettera pubblicata ieri dal Corriere, scritta da Franca Berto, la moglie dell’ex guardia giurata Massimo Zen che a Montorio sta scontando la condanna per aver ucciso un ladro in fuga. Scrive di sovraffollamento e di organici ridotti all’osso. E ha ragione. Stando agli ultimi dati del ministero della Giustizia, al 31 luglio nei nove istituti penitenziari del Veneto erano presenti 2.512 detenuti, quando potrebbero contenerne (il criterio è di 9 metri quadrati per singolo detenuto) al massimo 1.947. Il 30 per cento in più. Tradotto: celle affollate che rendono ancora più insopportabile il caldo torrido delle scorse settimane. Ma per chi non regge stress e tensione, scarseggiano psicologi e operatori. In un report di marzo, quando i reclusi nella nostra regione erano un centinaio di meno, il Garante dei diritti della persona scriveva: “Il Veneto è la terza regione che risente maggiormente del problema ormai cronico dell’affollamento nelle carceri. Il tasso raggiunge il 125,5%, prima del Veneto solo la Lombardia (131%) e la Puglia, con 138%”. Sono i dati peggiori dal 2020, anche se ci si può consolare pensando che nel 2010 le galere venete arrivarono a ospitare addirittura 3.255 persone. Una follia. E poi c’è la carenza di personale. “Nella nostra regione mancano all’appello 600 agenti di polizia penitenziaria. I nuovi inserimenti arrivano col contagocce e spesso non bastano a coprire neppure i pensionamenti” spiega Angiulli. “La mancanza di organico è arrivata a un livello critico, al punto che la situazione rischia di sfuggire di mano”. A complicare ancor di più le cose, c’è la mancanza delle figure apicali: pochissimi istituti penitenziari veneti hanno un direttore fisso. “Sono quasi sempre a scavalco tra più carceri” spiega il Garante dei detenuti di Vicenza, Mirko Maule. “Rimangono pochi mesi e poi vengono sostituiti, col risultato che i progetti avviati all’interno della prigione subiscono continui stop. Un esempio? A Vicenza ho visto cambiare sei direttori in tre anni”. Il tutto si ripercuote anche su chi non ha colpe, con le famiglie che per far visita ai parenti reclusi sono costrette a superare mille ostacoli, anche burocratici. In qualche modo, anche loro scontano una condanna. Le soluzioni? Ognuno ha una propria ricetta, a cominciare dal ministro Carlo Nordio che vorrebbe usare le vecchie caserme oggi in disuso per creare nuovi spazi di detenzione. “Ma se mancano gli agenti, come le sorvegliamo?” chiede il segretario del Uspp. “L’unica soluzione - dice don Carlo Vinco, garante dei detenuti di Verona - è ridurre il sovraffollamento puntando sulle pene alternative al carcere”. Per il suo collega di Vicenza, invece, occorre limitare le tensioni “ad esempio favorendo l’impiego dei detenuti per i lavori socialmente utili. A volte basterebbero piccoli accorgimenti per migliorare le condizioni di vita all’interno delle prigioni. Ma ciò che spesso manca - conclude - è una visione politica del problema”. Veneto. Ostellari: “Allargheremo i diritti su lavoro e familiari. Ma più sanzioni ai violenti” di Silvia Madiotto Corriere del Veneto, 31 agosto 2023 Ieri mattina il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari ha visitato la casa di reclusione e la casa circondariale di Padova, il giorno dopo una grave aggressione nella struttura, ha portato la sua solidarietà agli agenti e e parlato del piano del governo per allentare la tensione nelle carceri: “Sono previste nuove assunzioni di guardie penitenziarie e un rafforzamento dell’assistenza e formazione ai detenuti”. Senatore Ostellari, che situazione ha trovato a Padova? “Un clima di grande collaborazione. Sono venuto a portare un saluto e la mia solidarietà a tutti i poliziotti e al personale della struttura. Momenti di tensione accadono in molti istituti, purtroppo, ma aggressioni e intemperanze non sono tollerabili. Le criticità del sistema derivano da anni di sostanziale disinteresse da parte della politica e stiamo intervenendo. Credo che sia necessario però, da parte di tutti, sottolineare le molte cose positive che si realizzano. Stiamo cercando di raggiungere un obiettivo importante: migliorare il sistema, partendo dai posti vacanti. A settembre terminerà il corso di formazione per 57 nuovi direttori. Uno di questi verrà assegnato alla casa circondariale di Padova”. Dai familiari dei detenuti e dal personale arrivano segnalazioni di criticità all’interno delle strutture. Come pensate di intervenire? “Le linee sono due: rispetto delle regole e tutela dei diritti. In primo luogo, vogliamo dare maggiore protezione agli operatori e a chi rappresenta lo Stato, e che troppo spesso viene aggredito”. In che modo agirete? “Prevedendo sanzioni maggiori per chi usa violenza nei confronti delle forze di polizia e del personale, perché questo diventi un deterrente. Da settembre procederemo all’applicazione della circolare sulla media sicurezza che prevede la permanenza in cella dei detenuti quando non svolgano attività lavorative e formative. Ma vogliamo pensare anche ai diritti dei detenuti e a un carcere più moderno. Le telefonate ordinarie aumenteranno da 4 a 6 al mese. Ogni direttore potrà ampliare questa concessione e usare le telefonate come strumento trattamentale, in base al bisogno del soggetto”. Altra criticità emersa è la “riabilitazione”, della formazione in carcere... “Stiamo affrontando il tema del lavoro attraverso una cabina di regia con il Cnel per cercare di attrarre ancora più imprese nel circuito, facendo conoscere loro i benefici, anche fiscali, delle assunzioni. Il lavoro incide sulle recidive, le abbassa del 98%. È anche attraverso il lavoro che costruiamo la nostra comunità”. Un problema datato è quello del sovraffollamento. Come pensate di intervenire? “Non si risolve con leggi svuota-carceri, ma investendo su formazione e lavoro, gli unici strumenti per mostrare ai detenuti che hanno un futuro”. E in tempi brevi? “Non ci sono vie più facili ma stiamo mettendo su questo fronte il nostro massimo impegno. Il carcere è un luogo di rieducazione, non solo di detenzione. Investire in formazione è una strada più lunga, ma dà risultati concreti” Anche in Veneto emergono criticità. Proteste, litigi, situazioni igienico sanitarie precarie. E i familiari si sentono trattati in modo poco umano... “Sono in programma investimenti anche sull’edilizia carceraria per modernizzare e adeguare le strutture. È in corso un monitoraggio da parte del ministero. Luoghi migliori consentono trattamenti migliori. Sono però convinto che sia importante raccontare il mondo del carcere non solo nei suoi aspetti negativi. Qui ci sono persone che offrono percorsi di speranza”. Le rivolte dei detenuti sono arrivate anche a Vicenza, Padova e Verona. Il Veneto è diventato una polveriera? “No. Purtroppo sono episodi che accadono in tutto il Paese e questo perché sono in aumento i soggetti problematici, che non accettano di attenersi alle regole. Ad oggi, alle intemperanze segue il trasferimento, ma non risolve il problema. Creeremo percorsi riservati e reparti dedicati, alleggerendo la pressione sui reparti ordinari, con l’assistenza di personale medico, psicologi ed educatori”. Aumentando il personale? “Chiederemo una mano al ministero della Sanità e alle Regioni. Nelle carceri ci sono persone che vanno curate, l’assistenza deve essere di qualità”. Sono in arrivo più fondi? “Arriveremo entro fine anno a 3.450 assunzioni. Coinvolgeremo anche altri ministeri, penso a quello degli Interni per i lavori di pubblica utilità negli enti locali. Per quanto concerne gli istituti minorili abbiamo riaperto quello di Treviso e il prossimo anno dovremmo inaugurare quello di Rovigo. Sarà un Ipm moderno”. Piemonte. Nel primo Rapporto sulle donne detenute tutti i numeri della sofferenza di Roberto Gramola La Voce e il Tempo, 31 agosto 2023 Alla vigilia della drammatica estate funestata dai suicidi di due recluse nel carcere torinese, mercoledì 26 luglio al Collegio Carlo Alberto di Torino è stato presentato “Dalla parte di Antigone”, il primo rapporto sulle donne detenute in Italia. Ai lavori, promossi da Bruno Mellano, garante dei detenuti della Regione Piemonte, in collaborazione con l’Associazione Antigone Piemonte e la Fondazione Compagnia di S. Paolo, sono intervenuti rappresentanti delle istituzioni ed esperti a vario titolo sui temi della detenzione tra cui Claudio Sarzotti, presidente Associazione Antigone Piemonte e Perla Allegri, osservatrice di Antigone, Laura Scomparin, vice Rettrice dell’Università Torino, Giovanna Pentenero, assessore del Comune di Torino con delega alle carceri e Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino. Il rapporto (scaricabile su www.rapportoantigone.it/ primo-rapporto-sulle-donne-detenute-in-italia/) illustrato da Perla Allegri mette in rilievo la grave carenza di personale nel comparto sicurezza: psicologi, psichiatri e personale sanitario. Qualche dato: la presenza delle donne nelle carceri italiane è ormai stabile da anni attorno al 4% sul totale dei detenuti (56700): al 31 gennaio del 2023 erano 2.392 le donne negli istituti penitenziari (circa 120 a Torino su oltre 1400 ristretti) di cui 15 madri con al seguito 17 bambini al di sotto di un anno. Quest’anno sono giunte 7300 richieste di risarcimento ex articolo 35 per trattamento inumano per la mancanza di spazio vitale e di docce nelle celle come prevede la normativa. Non va meglio la situazione della formazione professionale: solo il 7% dei detenuti segue i corsi e solo il 4% li porta a termine. Allegri ha evidenziato come la condizione detentiva non stia migliorando anche se in alcuni istituti si stanno applicando buone pratiche per il reinserimento e auspica “un carcere pieno di vita anziché un carcere pieno di ozio”. Claudio Sarzotti, ordinario di Filosofia del Diritto alla Università di Torino, ha sottolineato che il mondo carcerario è ancora strettamente diviso in maschi e femmine mentre nella società civile sempre più la donna è protagonista dello sviluppo, sia nel campo lavorativo che politico e culturale. I lavori che si offrono alle donne recluse sono di cucito, lavanderia o confezionamento di oggettistica: gli stessi lavori sono rappresentati nelle immagini delle stampe ottocentesche delle carceri inglesi. C’è poi lo scandalo delle detenute madri con bambini: Sarzotti auspica che anche i padri possano entrare per portare il loro contributo allo sviluppo psichico dei figli. Per Laura Scomparin il rapporto - presentato lo scorso 8 marzo in Senato - offre una immagine crudele, ma molto realistica che ci rimanda alla prima fotografia che nel 1922 rese pubblica la presenza di donne in carcere: da allora non molto è cambiato. La carenza di offerte di trattamento per le donne è la conseguenza di una presenza molto bassa rispetto agli uomini. “Un conto è condividere la struttura carceraria e un conto è condividere l’attività trattamentale e la parità di genere è un diritto”. Giovanna Pentenero ha segnalato l’importanza degli “Sportelli lavoro” e l’apertura dello “Sportello dimittendi” al “Lorusso e Cutugno “, un ponte fra l’interno e l’esterno per permettere a detenuti e detenute a fine pena di favorire il rientro del mondo del lavoro e nelle relazioni sociali per ricostruire il proprio progetto di vita. Pentenero ha segnalato che le competenze delle ristrette sono generalmente molto basse: occorrono progetti che elevino formazione e istruzione per poter affrontare il complesso mondo del lavoro una volta libere. Monica Cristina Gallo infine ha aperto una finestra sulle recluse del carcere di Torino. “Molte hanno problemi di salute e dovrebbero essere prese in carico dal sistema sanitario cosa che non avviene. Inoltre le ristrette chiedono di essere aiutate a ricucire le relazioni famigliari: richieste che cadono spesso nel vuoto perché non hanno la possibilità di colloquiare né con gli agenti uomini che con gli agenti donne, per cui si sentono sole e abbandonate. Frosinone. Detenuto si toglie la vita in carcere, aperta un’indagine di Giovanni Del Giaccio Il Messaggero, 31 agosto 2023 Un detenuto di 35 anni si è tolto la vita nel carcere di Frosinone. Sull’episodio sono in corso accertamenti interni ed è stata avviata un’indagine da parte della Procura. Secondo una prima ricostruzione il detenuto si è impiccato nella sua cella, è stato soccorso e trasferito all’ospedale di Frosinone ma quando è giunto in ospedale per lui non c’era già più nulla da fare. L’uomo, originario di Ceccano, stando a quanto si apprende, si è tolto la vita impiccandosi in cella. Il tempestivo intervento della Polizia Penitenziaria ha permesso di trovarlo quando non era ancora troppo tardi. Gli agenti hanno attivato la macchina dei soccorsi. Nel carcere del capoluogo si sono portati i sanitari del 118 che hanno trasferito il giovane in condizioni disperate al Pronto Soccorso dell’Ospedale Spaziani. Purtroppo gli innumerevoli tentativi di strappare il 35enne alla morte sono stati inutili. I parametri vitali, poco dopo l’arrivo in ospedale, non davano già più alcun cenno; i medici si sono dovuti arrendere e non hanno potuto far altro che certificare il decesso del giovane operaio. Il caso riaccende inevitabilmente i riflettori sulle condizioni dei detenuti nei penitenziari italiani. Spesso lo status di alcuni soggetti non è compatibile con il regime carcerario. Forse proprio come in questo caso: il 35enne era in carcere da qualche mese e, stando a quanto appreso, aveva già manifestato atteggiamenti che avrebbero potuto essere un campanello d’allarme. Avellino. Autolesionismo e rifiuto delle cure: detenuto muore nel carcere di Ariano di Simonetta Ieppariello ottopagine.it, 31 agosto 2023 L’uomo, un italiano, è stato stroncato da un arresto cardiocircolatorio. Una tragedia ha colpito la casa circondariale di Ariano Irpino ieri, con la notizia della morte di un detenuto italiano di 54 anni. L’uomo è deceduto in carcere nella tarda mattinata. L’identità del detenuto non è stata rivelata, ma si è appreso che si tratta dello stesso individuo che, solo pochi giorni fa, era stato trasferito dalla casa circondariale di Avellino al Carcere di Ariano Irpino. L’uomo era entrato in evidenza per un episodio avvenuto poco dopo il suo trasferimento, quando aveva estratto un coltello artigianale dalla bocca, auto lesionandosi pesantemente e recidendo l’arteria di un braccio. La storia di autolesionismo di questo detenuto non era nuova alle autorità penitenziarie. Da quando era stato rinchiuso nel carcere di Avellino, alcune settimane fa, era stato portato in pronto soccorso ben quattro volte in un solo giorno a causa di autolesioni. Il detenuto era noto per strapparsi le medicazioni dei punti di sutura senza accettare le cure mediche, opponendosi anche alle trasfusioni di sangue. Il giorno prima della sua morte, il detenuto aveva firmato per ben due volte le dimissioni dall’ospedale Frangipane, rifiutando nuovamente il trattamento medico. Una grave situazione di tensione che aveva costretto i sanitari a richiedere anche l’ausilio di forze dell’ordine nel pronto soccorso. Secondo le informazioni preliminari, la causa del decesso è stata attribuita ad un arresto cardiocircolatorio. L’autorità giudiziaria competente ha preso in carico il caso ed ha disposto l’autopsia, che verrà eseguita lunedì prossimo. Torino. Tragica estate nel carcere, tre donne si tolgono la vita di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 31 agosto 2023 La visita allarmata del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il dolore dell’Arcivescovo Repole: “non possiamo abituarci a queste notizie”. La lotta del volontariato Caritas per rompere la solitudine. Ancora una volta due nostre sorelle non hanno trovato nessuna speranza di libertà a cui aggrapparsi se non la morte. Mentre ci raccogliamo in preghiera per loro, diamo voce allo scandalo per due decessi che interpellano tutti. Non possiamo ‘abituarci’ a queste notizie: in un Paese civile, nessuno dietro le sbarre deve sentirsi condannato a morte, ma deve trovare nel tempo della pena motivi speranza per il futuro come recita l’art. 27 della nostra Costituzione”. Sono le parole dell’Arcivescovo Roberto Repole diffuse il 12 agosto scorso all’indomani dei decessi, a poche ore una dall’altra, di due donne ristrette nella Casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno”. “Susan, 42 anni, si è lasciata morire di fame; Azzurra 28 anni, si è impiccata. Sono tre, con Graziana 52 anni, suicida il 29 giugno scorso, le detenute che nell’ultimo mese e mezzo si sono tolte la vita nel carcere delle Vallette, uno dei penitenziari italiani più sovraffollati e con il più alto tasso di suicidi. È un grido di dolore che ferisce tutti: non possiamo stare a guardare”, ha proseguito l’Arcivescovo che ha invitato la comunità cristiana torinese - che da sempre sulle orme dei nostri santi sociali si adopera tramite Caritas, volontari di alcune parrocchie, religiosi e cappellani “a stare accanto materialmente e spiritualmente ai ristretti, a coinvolgersi ancora di più: ‘Ero carcerato e mi siete venuti a trovare’ non è un’opera di misericordia ‘per addetti ai lavori’”. Infine un appello alla responsabilità alla comunità civile ed alle istituzioni locali e nazionali che hanno in carico la gestione del sistema penitenziario e del reinserimento dei reclusi nella società: “sappiamo trattarsi di un compito impegnativo, ma è una sfida necessaria per la sostenibilità della nostra convivenza ed una responsabilità nei confronti delle generazioni future”. La tragica morte delle due donne nella torrida estate italiana - dove le condizioni di vita in cella, già al limite, si aggravano - ha scosso la città e il Paese tanto che il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è precipitato alle Vallette il 12 agosto promettendo interventi per migliorare il sistema carcerario in emergenza da decenni. All’indomani dei funerali nella parrocchia Immacolata Concezione e San Donato di Susan, venerdì 25 agosto, abbiamo parlato della situazione al “Lorusso e Cutugno” con Wally Falchi, responsabile del Centro d’Ascolto della Caritas diocesana “Due Tuniche”, da anni impegnata nell’assistenza e nel reinserimento dei reclusi. “L’ingresso in carcere - ci ha detto - per le donne, ma anche per gli uomini rappresenta spesso una risposta mancata a situazioni di povertà grave, disagio, problematiche psichiatriche, dipendenze e inserimento nel contesto sociale. Le donne vivono la detenzione in solitudine estrema: spesso sono madri, con famiglia e genitori a carico anziani e l’abbandono dei propri cari le rende più fragili”. È noto che la solitudine e i suicidi in carcere sono strettamente connessi: la prima è ritenuta una causa principale dei secondi e numerosi studi registrano che il tasso di suicidio in carcere è superiore rispetto alla popolazione generale e la solitudine è uno dei principali fattori di rischio, come evidenzia Wally Falchi. Che prosegue: “Alcuni anni fa, all’inizio del nostro servizio in carcere come Centro d’ascolto, al termine di un colloquio con un detenuto segnalatoci dalla sua educatrice per un eventuale progetto di reinserimento, il signore mi disse: ‘grazie per essere venuta: anche se non riuscirà ad aiutarmi, io sono contento. Da tre anni non vedevo nessuno dal mondo esterno, i miei parenti vivono lontano e sono poveri, non ho nessuno. Grazie per avermi incontrato e ascoltato’. Ero senza parole, un uomo solo senza nessuno e senza speranza, che mi guardava negli occhi con immensa tristezza”. La solitudine e il tempo della pena che non offre opportunità di rieducazione, dunque sono le emergenze da affrontare dietro le sbarre. È sempre più elevato il numero di donne e uomini senza dimora che, quando escono dall’Istituto penitenziario, non hanno legami, sostegno, affetti: “elementi necessari per ripartire, voltare pagina, iniziare una nuova vita. L’uscita con una rete di legami già avviati quando si è ‘dentro’ e magari con un lavoro permette ai ristretti di riacquisire dignità”, aggiunge Falchi. “Per questo facciamo un appello alle aziende per l’inserimento di tirocini per detenuti”. La presenza capillare nel territorio della Caritas diocesana è un’antenna sulle nuove forme di povertà e sulle situazioni di frontiera spesso invisibili perché contenute, appunto, in un istituto di pena, microcosmo dei mali della nostra società. Attraverso il Centro d’ascolto “Due Tuniche” e la disponibilità di volontari, la Caritas si prende carico di alcuni bisogni dei detenuti, un servizio che potrebbe essere “pubblicizzato” maggiormente nelle parrocchie come ha invitato l’Arcivescovo. “I due protocolli d’intesa che abbiamo firmato con il penitenziario torinese e con Atc”, illustra Wally Falchi, “prevedono principalmente attività di ascolto e interventi su supporti e avviamenti lavorativi, volontariato restitutivo, affiancamento e sostegno di persone sole per adempiere al regolamento regionale degli assegnatari per non perdere l’abitazione durante il periodo di detenzione. E poi inserimenti nella nostra struttura ‘Casa Silvana’ in caso di permessi premio”. Caritas ha scelto di sostenere i ristretti attraverso apposite convenzioni con il Tribunale e l’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) di Torino Cuneo e Asti per l’accoglienza di reclusi a lavori di pubblica utilità o a misura di messa alla prova e di volontariato restitutivo. “Proprio il volontariato restitutivo può essere uno strumento importante dove le nostre comunità, parrocchie, associazioni e centri d’ascolto potrebbero essere coinvolti”, indica Wally Falchi. “Ci sono tanti reclusi che vogliono cambiare vita davvero: uno di loro mi ha detto recentemente: ‘Voglio pagare la mia pena ma uscire migliore e non peggiore, ritornare alla società e non odiare la società’. Siamo consapevoli che i nostri interventi sono una goccia dentro il mare però questa goccia a volte può recare un sollievo, ridare coraggio e aprire una piccola speranza per andare avanti. Tutti possiamo contribuire a dare speranza di vita oltre le sbarre”. Padova. Violenza nelle carceri, doppia inchiesta e un nuovo direttore del Circondariale di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 31 agosto 2023 Due detenuti trasferiti, un’indagine interna, un rapporto alla procura che aprirà un’inchiesta e un nuovo direttore a breve nominato alla guida della casa circondariale Due Palazzi di Padova. Ecco le novità dopo i due gravi episodi di violenza avvenuti nei penitenziari della città del Santo martedì scorso, mentre il sindacato Cgil Fp chiede un incontro urgente al provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto e al direttore della casa di reclusione (il grattacielo). Ieri intanto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari (che ha la delega anche per quanto riguarda il trattamento dei detenuti) ha visitato i Due Palazzi, le carceri padovane annunciando una serie di interventi ed entro l’autunno l’arrivo del nuovo direttore. Sono stati trasferiti altrove i due reclusi che sarebbero stati promotori degli atti di violenza. Si tratta del detenuto arrivato nella casa circondariale dal carcere milanese di Opera, persona definita violenta e aggressiva che, non a caso, si trovava in una struttura di massima sicurezza. È stato lui ad aggredire l’agente che stava provvedendo a richiamare in cella i detenuti. Trasferito anche il “collega” che nella casa di reclusione (il grattacielo) avrebbe acceso la miccia della rivolta convincendo altri detenuti a sequestrare un agente costretto - sotto la minaccia di una lametta - a chiamare un ispettore a sua volta sequestrato. Il gruppo si era chiuso nella sezione con pretese qualificate come inaccettabili. La rivolta si è conclusa solo con l’arrivo della squadra antisommossa. “Ho voluto manifestare la mia vicinanza e solidarietà alla Polizia penitenziaria e a tutto il personale” ha spiegato Ostellari all’uscita dalle due carceri, “Aggressioni e intemperanze non sono tollerabili. Le criticità che presenta il sistema dell’esecuzione penale derivano da anni di disinteresse da parte della politica. Stiamo lavorando per risolvere i problemi, a partire da due capisaldi irrinunciabili: rispetto delle regole e tutela dei diritti. A settembre terminerà il corso di formazione per 57 nuovi direttori, uno di questi verrà assegnato alla casa circondariale di Padova. Come richiesto da molte sigle sindacali, procederemo all’applicazione della circolare sulla media sicurezza che prevede la permanenza in cella dei detenuti, quando non svolgano attività lavorative e formative. Prevediamo inoltre un intervento che consenta di sanzionare con fermezza chi aggredisce il personale in servizio”. Quanto ai diritti: “Le telefonate concesse ai reclusi aumenteranno da quattro a sei al mese. Al direttore di ciascun istituto, tuttavia, sarà concessa la facoltà di disporne ulteriori”. Rieducazione: “Abbiamo costituito insieme al Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) una cabina di regia per coinvolgere più imprese e privati che intendano assumere dei detenuti e farli lavorare”. Tuttavia “la maggioranza degli episodi di violenza sono opera di soggetti dipendenti da sostanze e con problemi di tipo comportamentale e psicologico” rileva. Non esistono più gli ospedali psichiatrici giudiziari e chi soffre di problemi mentali è rinchiuso nelle carceri “ordinarie”. “Per diminuire le aggressioni e assicurare anche a questi soggetti un’opportunità di cura” continua Ostellari, “stiamo lavorando per istituire delle sezioni sperimentali ad alta specializzazione medica con un alleggerimento della pressione sui reparti ordinari, che ora accolgono anche questo genere di detenuti, spesso in mancanza di personale e strutture appropriati”. Palermo. “Sovraffollamento e servizi carenti”, protestano i detenuti nel carcere Pagliarelli Giornale di Sicilia, 31 agosto 2023 Hanno rifiutato la colazione e dalle 8 alle 10 hanno battuto con le stoviglie contro le sbarre. Un rumore avvertito anche dagli automobilisti che passavano davanti al penitenziario. Protesta stamani dei detenuti del carcere Lorusso di Pagliarelli, a Palermo. Hanno rifiutato la colazione e dalle 8 alle 10 e hanno battuto con le stoviglie contro le sbarre. Un rumore avvertito anche dagli automobilisti che passavano davanti al penitenziario. La protesta è scattata nei quattro piani della sezione circuito protetto dove attualmente si trovano circa 180 detenuti. Pare che i detenuti abbiano voluto manifestare la propria insofferenza per problemi di sovraffollamento della struttura, per la mancanza di acqua calda in cella e perché vorrebbero la custodia aperta che prevede una serie di vantaggi per gli accessi alle docce, le attività lavorative e sportive, i momenti di socialità e i contatti con le famiglie. Bari. Il carcere è vecchio e sovraffollato: “Criticità sicurezza, trattamento e socialità dei detenuti” L’Edicola del Sud Vecchio e sovraffollato. È la fotografia che emerge dopo il sopralluogo effettuato dai componenti della Camera penale di Bari nel carcere del capoluogo. La Casa circondariale barese sorge in un “edificio vetusto”, con criticità che riguardano la “sicurezza, il trattamento e la socialità dei detenuti” e con “spazi verdi totalmente assenti” e solo un “cortile dove si svolge l’ora di aria”. Al sopralluogo, effettuato il 21 agosto scorso nell’ambito dell’iniziativa Agosto nelle carceri, hanno partecipato fra gli altri Marisa Savino, presidente della Camera penale di Bari, l’ex presidente Guglielmo Starace e il vice presidente Filippo Castellaneta. I risultati sono contenuti in un documento dal quale emerge il sovraffollamento: nell’istituto ci sono 447 persone, di cui 445 effettivi e due ricoverati. Fra i detenuti 150 sono sono a titolo definitivo, 300 a titolo cautelare o misto. Sono 125 quelli nel circuito alta sicurezza. La capienza regolamentare sarebbe di 258 persone, più 32 nell’istituto femminile chiuso da tempo. Quanto alla polizia penitenziaria, ci sono 248 agenti in servizio su una pianta organica che ne prevede 276. Di questi 14 sono “prossimi alla pensione e quindi meno utilizzati”. Le carenze riguardano anche gli educatori: la pianta organica ne prevede dieci, poi ridotti a cinque. In servizio ce ne sono tre, “fra cui la coordinatrice”, costretti a svolgere “2.500 pratiche l’anno”. Quanto all’area sanitaria, “nel primo semestre 2023 sono state eseguite 299 prestazioni di psichiatria penitenziaria”, mentre sono “17 i malati oncologici in terapia o in follow up”. In seguito alla visita la Camera penale di Bari ha presentato una proposta: “Rendere immediatamente fruibile l’area femminile, di fatto chiusa e inagibile, per la realizzazione di spazi comuni per la socializzazione”. Evidenziando che occorre “sollecitare le istituzioni a prendere contezza che a Bari esiste tuttora un problema di edilizia giudiziaria e purtroppo anche di edilizia carceraria”. Aosta. “Brutti e buoni”: dal pane la speranza di un futuro costruttivo aostasera.it, 31 agosto 2023 Al carcere di Brissogne avviato il panificio interno “Brutti e Buoni”. Dieci detenuti protagonisti. Minervini “in atto il cambiamento delle carceri, grazie anche alla collaborazione con il territorio”. “Il carcere sta cambiando, si evolve e diventa davvero occasione per riscattarsi e per creare un percorso di espiazione della pena che abbia senso. Il processo di umanizzazione delle carceri è in atto e anche noi in Valle ne siamo protagonisti da tempo”. Una nuova visione di carcere emerge dalle parole di Domenico Minervini, direttore della Casa circondariale di Brissogne, in occasione della presentazione della nuova attività commerciale che da settembre 2014 arriverà, dopo la già avviata lavanderia, sul territorio valdostano. Si tratta del laboratorio di panificazione “Brutti e buoni”, un progetto che attualmente è in corso con la fase di formazione e che vede protagonisti 10 carcerati, provenienti dall’Italia e da Paesi extracomunitari. La progettazione e ristrutturazione dei locali del panificio sono stati finanziati da un progetto del Fondo sociale europeo, presentato dalla Cooperativa EnAIP e dalla Cassa delle Ammende, il salvadanaio del Ministero che raccoglie le sanzioni pecuniarie. I macchinari sono invece stati acquistati direttamente dall’Enaip, grazie a finanziamenti regionali. Presente all’incontro anche Enrico Sbriglia, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte e Valle d’Aosta, che ha voluto evidenziare l’importanza della collaborazione del territorio e delle associazioni, partendo proprio dal significato del pane e della parola compagno “condividere il pane” e così “intorno al pane si crea comunità”, un augurio dai molti significati tra cui la speranza che “il corso permetterà di trasformare il tempo in carcere in tempo utile, ma questo è possibile solo se questa attenzione del territorio alle carceri e a progetti come questo avrà continuità. L’obiettivo è di seminare bene raccogliere risultati seriali. Sarebbe un vero peccato se per qualche motivo venissero meno i fondi che sostengono tutto questo: sarebbe costruire un’immagine senza sostanza”. I risultati del corso, guidato dall’esperienza del panettiere Christian Trione, sono evidenti, anche al palato, e quando pani, grissini, dolci usciranno dal carcere, c’è l’auspicio che il territorio li accolga nelle proprie case, acquistandoli e gustandoli, permettendo così la sostenibilità di un progetto che dal pane parte per ridare speranza e un mestiere. Ne sono convinti anche i protagonisti di questa esperienza, i 10 carcerati che, affidando il compito ad un emozionato Giovanni, hanno voluto ringraziare i docenti del corso e il direttore del carcere, omaggiando tutti con un manufatto in pane, un cesto di fiori commestibile. “Speriamo che questo corso ci dia un indirizzo per il futuro - ha detto Giovanni - quando potremo guardare il sole senza avere davanti agli occhi le sbarre”. Luisa Trione, dell’Enaip ha ricordato che il laboratorio è stato allestito nel mese di gennaio 2014 permettendo così l’avvio del corso. “Comincia oggi la promozione di questa attività - ha evidenziato Trione - e chiediamo al territorio, una volta avviata la vendita, di sostenerla attraverso l’acquisto di questi prodotti e attraverso il passaparola”. Milano. La terza vita di Rocco: dopo la criminalità organizzata e il carcere, ora l’università e il volontariato a San Siro di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 31 agosto 2023 È stato il primo detenuto a ottenere la semilibertà solo per ragioni di studio. “Vorrei recuperare il rapporto con mia figlia”. Il primo giorno da studente all’università Statale, dopo undici anni senza mai uscire dal carcere, il 29 giugno 2022. Tre mesi più tardi il primo giorno come volontario con gli adolescenti “difficili” di San Siro, per la necessità di restituire agli altri quanto imparato nel tempo infinito della cella. La terza vita di Rocco, 48 anni, primo detenuto in Italia cui è stata concessa la semilibertà per ragioni di studio, è iniziata da poco. La prima invece è dietro le spalle. Nato in un paesino della Calabria, cresciuto tra i boss della ‘ndrangheta, affascinato dal valore fatuo dei soldi, è finito dentro molto presto. Una escalation di sbagli che l’hanno portato alla criminalità organizzata. Dal 1993 quasi trent’anni nei penitenziari di tutta Italia, con brevi interruzioni. “Si fa presto a dire che è stata colpa degli altri. Ho pensato tanto ad ogni singola scelta sbagliata. Ho fatto dentro e fuori dal carcere da quando ero ragazzino, ho lasciato la scuola troppo presto e in panificio, quando mi hanno messo a lavorare, non andavo quasi mai. Mio padre beveva, non mi vedeva neanche. Ero un disastro! Io mi vergognavo di lui ma anche di me stesso, non mi sentivo mai “abbastanza” - racconta Rocco. Volevo essere riconosciuto e non sapevo come, né da chi. La prima volta nella vita che qualcuno mi ha detto “bravo” è stato perché avevo commesso un reato e portato soldi”. Non si fa sconti, Rocco. A San Siro riesce a legare anche con i ragazzi più refrattari al dialogo e all’autorità. “Alcuni sono su un crinale pericoloso, rischiano di finire in cella o in comunità per piccoli reati. Grazie a loro sto prendendo coscienza del mio valore, nonostante i mille errori che hanno fatto male a me e alle persone cui voglio più bene”. Ce n’è una su tutte, e Rocco abbassa gli occhi che si fanno lucidi. La figlia che ha avuto a trent’anni: “Giustamente mi tiene lontano; sono stato un padre assente, chiuso, inadeguato. Ancora non sapevo la differenza tra essere e avere, non sapevo quanto è bello esistere per sé e per gli altri; non sapevo essere un papà”. Vorrebbe tanto recuperare quel rapporto: “Lei si vergogna di me come io mi vergognavo di mio padre. Oggi so di farle male con la mia presenza eppure ho la presunzione di credere che senza attraversare insieme quel male non potremo mai stare pienamente bene. Credo ci sia spazio per riscrivere un pezzo della nostra storia”. Torna a guardare dritto davanti a sé, Rocco. Ha appena preso 30 e lode all’esame ed è stato scelto nell’ambito del Bard prison project, programma educativo per cui alcuni detenuti, diventando tutor per studenti che sono in difficoltà con lo studio. La sua seconda vita in carcere per quasi trent’anni lo ha cambiato profondamente: “Nel 2014, nel reparto Alta sicurezza di Opera, ho iniziato da zero le scuole superiori e preso il diploma. Ma a quei tempi lo studio per me era un modo per uscire dalla cella (altrimenti le ore fuori erano solo due su 24). Con gli anni e con le relazioni umane invece ho scoperto la passione per i libri: per me sono diventati una finestra sul mondo, una lente per vedere il bello nell’altro”. Nel 2019 si è iscritto a Filosofia con il Progetto carcere della Statale e qualche tempo dopo è arrivata la sentenza della semilibertà, la prima in Italia per ragioni di solo studio. “Ricordo il giorno in cui sono andato la prima volta in università a seguire le lezioni. Erano undici anni che non uscivo e mi sono gustato da solo tutto: il viaggio in tram da Opera, la magnificenza della Statale, il vociare dei ragazzi. Crescere significa anche lavorare per la felicità dell’altro”. E chiude: “Sogno spesso l’Atacama: è il deserto più arido del mondo e più vicino al cielo, in Cile. Lì dove la vita pare non possa esserci nascono rose che durano un giorno, ma forti e bellissime. Vorrei che mia figlia mi sentisse...”. Pesaro. “Il femminile, il maschile nell’accadibile”, progetti contro la violenza di genere in carcere labirinto.coop, 31 agosto 2023 Venerdì 29 settembre la giudice Paola Di Nicola Travaglini, la direttrice della Casa Circondariale di Pesaro Palma Mercurio dialogano insieme a chi opera e partecipa ai progetti per il contrasto alla violenza sulle donne della cooperativa Labirinto, attivi nell’istituto di pena. Le porte della Casa circondariale di Pesaro si apriranno venerdì 29 settembre alle 15.00 per “Il femminile, il maschile nell’accadibile”, una conversazione pubblica per creare una connessione sui progetti per contrastare la violenza di genere, fuori e dentro il carcere. Da 12 anni infatti Labirinto cooperativa sociale si occupa di servizi e azioni per il contrasto alla violenza sulle donne nella provincia di Pesaro Urbino e di Viterbo; da questa esperienza è nata l’importanza di trattare il tema all’interno della Casa Circondariale pesarese, scelta condivisa con l’Ambito Territoriale Sociale 1 e realizzata in stretta collaborazione con la struttura detentiva. Da più di due anni donne e uomini detenuti nella casa penitenziale hanno la possibilità di prendere parte a progetti dedicati: a oggi Labirinto gestisce due progetti nella sezione femminile, Intrecci di parole e Il cielo fuori, e due nella sezione maschile Dico tra noi e il Laboratorio autobiografico. Dopo i saluti istituzionali di Luca Pandolfi, assessore alla Solidarietà del Comune di Pesaro, Presidente Comitato dei Sindaci ATS 1 e di Gloria Manzelli, provveditora regionale Emilia Romagna e Marche, Maura Gaudenzi, psicologa e psicoterapeuta, coordinatrice del Centro Antiviolenza Parla Con Noi, modererà la conversazione. La giudice della Corte di Cassazione e consulente giuridica della Commissione parlamentare sul femminicidio, Paola Di Nicola Travaglini dialogherà con la direttrice della Casa circondariale di Pesaro Palma Mercurio e con chi opera e partecipa ai progetti attivi nell’istituto di pena per il contrasto alla violenza di genere della cooperativa Labirinto; il confronto sarà intervallato da alcuni video che raccontano le attività realizzate con e per le persone detenute. L’incontro pubblico si terrà all’interno della Casa Circondariale, a Pesaro, in strada di Fontesecco 88/A. Per partecipare all’iniziativa è necessario richiedere l’autorizzazione all’ingresso, compilando il form dedicato. Le iscrizioni termineranno venerdì 8 settembre 2023; la direzione della Casa Circondariale comunicherà l’autorizzazione a partecipare via mail entro il 28 settembre 2023. Info: accadibile@labirinto.coop. “Stato di grazia”, l’esordio di Telese sulla mala giustizia da cui nessuno può sentirsi immune di Michele Anzaldi huffingtonpost.it, 31 agosto 2023 Venezia 80. Nel docufilm il giornalista ripercorre il calvario giudiziario di Ambrogio Crespi, con grande sensibilità civica e tempismo giornalistico. Il 6 settembre a Venezia, in occasione dell’80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica, sarà presentato e proiettato il docufilm “Stato di Grazia”, opera d’esordio di Luca Telese. Molti penseranno all’ennesima trovata di Telese per infilarsi da protagonista in uno dei festival del cinema più prestigiosi in Europa. D’altronde il giornalista ci ha abituato a queste sue sperimentazioni di comunicazione che spaziano in più campi: giornali, radio, televisione, editoria, social e adesso il cinema. Eppure basterebbe soffermarsi un attimo e passare dal cognome del regista al titolo del film, “Stato di Grazia”, e poi alla foto in bianco e nero che mostra la faccia di un padre disperato che a occhi chiusi stringe disperatamente a sé due bambini, per intuire che si è dinnanzi a un film drammatico. L’uomo della foto si chiama Ambrogio Crespi e quello scatto raffigura la disperazione dell’ultimo saluto di un padre ai figli mentre sta per entrare in carcere a scontare una ingiusta condanna. Il film racconta, infatti, la vicenda o meglio il calvario giudiziario di Ambrogio Crespi. Il titolo “Stato di Grazia” descrive o meglio sancisce la situazione in cui si è trovato Crespi, ossia quella di un uomo che ha ricominciato a vivere solo perché il presidente Mattarella ha deciso di concedere la “La Grazia Parziale”. Vittima di un’incredibile vicenda giudiziaria che gli è costata 306 giorni di carcere, di cui 106 giorni nel carcere di massima sicurezza di Opera a Milano. Il regista era stato condannato in via definitiva a sei anni di reclusione per concorso in associazione di tipo mafioso per fatti commessi tra il 2010 e il 2012, una strana storia di compravendita di voti tra malavitosi, che però era stata ritrattata dagli stessi malavitosi e che addirittura furono riconosciuti dal tribunale affetti di disturbi psichici, ma ciò non impedì la condanna di Crespi. Un uomo conosciuto da tanti politici, giornalisti e tutti quelli che si occupano di giustizia sia in senso negativo che positivo, per la sua passione e per i suoi docufilm di impegno civico. Nel 2014 il suo docufilm “Enzo Tortora: una ferita ancora aperta”, viene presentato alla Camera dei Deputati, in tanti si commuovono e in tantissimi si ripromettono di adoperarsi perché non accada mai più. Vale la pena ricordare che il film, nonostante parlasse della storia di Tortora, ha avuto una tormentata diffusione, per usare un eufemismo. Basta ricordare che, nonostante le richieste ufficiali di chiarimenti degli allora presidenti delle commissioni cultura di Senato e Camera, il docufilm non fu ammesso al Festival del Cinema di Roma e non fu trasmesso dalla Rai ma per fortuna da Mediaset. E poi fu la volta del docufilm “Spes contra Spem”, un difficile racconto su ergastolo e situazione carceraria, fatto con tale attenzione che alla presentazione del film a Venezia partecipò il ministro della giustizia di allora, Andrea Orlando. Eppure tutto questo impegno civico contro la mafia e sulla giustizia non è riuscito a evitare a Crespi e alla sua famiglia il gigantesco dolore, la paura e l’offesa del proprio onore di una carcerazione. Questa in estrema sintesi la storia che ha travolto la famiglia Crespi e che Telese prova a ripercorrere con il suo docufilm. Spero che l’opera prima di Telese abbia un grande successo, lo dico per il paese o come dicono alcuni per la patria, ma soprattutto per la giustizia italiana. Bisogna riconoscere che Telese in questo suo nuovo impegno ha dimostrato una grande sensibilità civica, decidendo di debuttare e impegnarsi con questo film, e anche un grande tempismo giornalistico, perché politicamente parlando si spera che questa sia la legislatura delle riforme in campo giudiziario. Sarebbe bello, anzi doveroso che la Rai in questa storia svolgesse il ruolo di Servizio pubblico, prima con servizi giornalistici sul Docufilm e poi magari consentendo a tutti gli italiani di poterlo vedere a casa e poi magari commentarlo con ospiti in studio. Capisco che possano sembrare tante cose e tutte di difficile realizzazione, ma il docufilm ci racconta giornalisticamente che nessuno è immune, e da Enzo Tortora ad ognuno di noi è ancora possibile il rischio di un caso di mala giustizia. Quella lezione di Paolo Grossi: ora lo Stato chieda scusa di Donatella Stasio La Stampa, 31 agosto 2023 La premier faccia come l’ex presidente della Corte costituzionale: non servono passerelle ma rispetto e senso di responsabilità. “Con il nostro assenteismo e la nostra indifferenza abbiamo tolto la speranza ai giovani. Troppe volte noi non ci chiniamo abbastanza verso di voi. Abbiamo altezzosità e superbia, che rasentano la stupidità. È nostro dovere infondervi la virtù della speranza. Sappiamo di avervi deluso. Vi abbiamo trascurato, abbandonato. Dovete invece sentirci solidali con voi nella migliore ricostruzione dell’Italia. Perciò si doveva venire qui, in questa terra martoriata, dimenticata, che ha bisogno di testimonianze. Questa terra va vista, ma non da lontano. Volevo e dovevo venire qui di persona. Volevo essere fisicamente accanto a voi”. Sarebbe bello se la presidente del Consiglio Giorgia Meloni sapesse parlare così alla gente di Caivano, dove oggi “scenderà” per annunciare una “bonifica” - così ha detto nel raccogliere l’invito del parroco senza aggiungere altro. A pronunciare quelle parole fu, nel 2017, un altro rappresentante delle istituzioni, il presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi, 84 anni, quasi il doppio di quelli della premier, professore di storia del diritto, purtroppo scomparso nel 2022, “sceso” anche lui nella Terra dei fuochi, ad Afragola. Non c’erano stati fatti di cronaca a dettare l’agenda del presidente della Corte, solo il bisogno di esserci, fisicamente, di chiedere scusa, senza giri di parole, di assumersi una responsabilità istituzionale, senza distinzioni, di infondere la speranza, che è un diritto di tutti e un dovere dello Stato. E questo fece. Quell’anziano signore fiorentino era stato invitato in un piccolo teatro zeppo di ragazzini delle elementari, delle medie e delle superiori provenienti, oltre che da Afragola, da tutti i comuni della Terra dei fuochi: Caivano, Cardito, Marano, Qualiano, Casoria, Villaricca, Frattamaggiore, Casavatore, Arzano, Giuliano, Scampia, Melito di Napoli, Trentola Ducenta, ed erano lì non per esigenze scenografiche ma per chiedere conto allo Stato di quel loro destino di abbandono, del “perché” la Costituzione dice che siamo tutti uguali ma non è vero, non dove dilaga la povertà, la mancanza di lavoro, di trasporti, di servizi sociali e sanitari, di centri culturali, campi sportivi, parchi giochi… Condannati a vivere con la paura, in un ambiente degradato, violento e avvelenato, che brucia persino la voglia di riscatto. Così si sentivano. A Grossi bastò guardarli negli occhi e, in barba a protocolli e quant’altro, restò lì per quasi tre ore, a parlare, a rispondere a domande (spesso tradotte in italiano, talmente stretto era il dialetto), ad abbracciare e stringere mani, a fare selfie. Una fila lunghissima di giovani voleva guardare in faccia lo Stato, toccarlo, chiedere conto, appunto. Grossi declinò, in prima persona plurale, gli errori, le assenze, i doveri dello Stato, di chi riveste incarichi pubblici, politici e istituzionali, a cominciare da quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”. E spiegò perché la Costituzione è, per tutti, “una corazza” e bisogna pretenderne l’attuazione: il riscatto parte da lì. Per tutti. Nessun bagno di folla, nessuna passerella, nessuna retorica ad uso telecamere. Con i suoi 84 anni, quel vecchio signore fiorentino spiazzò e diede un esempio in carne ed ossa di umiltà, di rispetto e di responsabilità istituzionali, come raccontano le cronache dell’epoca. Ecco, questo è Stato. Migranti, propaganda e verità di Francesco Bei La Repubblica, 31 agosto 2023 Lo scontro Salvini-Meloni sulla cabina di regia a palazzo Chigi e quello che servirebbe davvero per l’emergenza immigrazione. L’ultimo scontro nel governo sulla cabina di regia per i migranti si è svolto, al netto delle smentite di rito, lontano dai riflettori. Giorgia Meloni ha accentrato a palazzo Chigi la gestione dell’emergenza sbarchi, chiarendo che il terminale delle operazioni e del coordinamento tra i ministri sarà d’ora in poi il sottosegretario Alfredo Mantovano, suo fedele braccio destro e sinistro. Una novità che non è stata presa bene da Matteo Salvini che si è visto estromettere dalla gestione politica del dossier, nonostante il Viminale ricada nella sfera d’influenza del Carroccio. Certo, per il segretario della Lega può a questo punto risultare anche molto comoda questa esclusione. Con le Europee tra dieci mesi, Salvini può assistere da spettatore al prevedibile fallimento dei fragili argini politici e diplomatici che il governo sta provando ad alzare per far fronte al boom di partenze. Prova ne sia l’aumento vertiginoso dei barchini dalla Tunisia del dittatore Saied, nonostante le visite al massimo livello della stessa Meloni e il memorandum (con annessi finanziamenti) firmato tra Roma e Tunisi. Non ci sono soluzioni facili in vista e Salvini potrebbe a questo punto far sua l’espressione di Matteo Renzi all’epoca dell’alleanza M5S-Lega - “ora tocca a loro e pop-corn per tutti!” - salvo che la débâcle del governo, essendone uno dei vicepremier, finirebbe inevitabilmente per travolgere anche lui. Ma quanto sta accadendo non è un problema della maggioranza e non si limita a intaccare i rapporti interni al centrodestra. La situazione sempre più difficile che stanno sperimentando sindaci e presidenti dei Regioni di ogni colore, le tendopoli che iniziano a spuntare nei comuni, i giardinetti davanti alle stazioni ferroviarie trasformati in campi profughi, sono segnali di un’emergenza sfuggita a ogni controllo. Il problema riguarda tutti. Aprendo il primo Consiglio dei ministri dopo le vacanze, la premier ha ammesso che “è difficile spiegare all’opinione pubblica quello a cui assiste e lo capisco bene: i dati dicono che c’è un forte aumento rispetto all’anno precedente”. Se crede, possiamo darle qualche suggerimento se mai volesse rivolgere agli italiani un discorso di verità su quanto sta accadendo e su come uscirne. La prima cosa dovrebbero essere delle scuse per aver, insieme a Salvini, sparso demagogia a piene mani per anni sul tema immigrazione. Porti chiusi, espulsioni di massa, “prima gli italiani” nei lavori e nell’assistenza, complicità delle Ong con gli scafisti: tutte bugie, esagerazioni, propaganda becera con la quale la destra ha turlupinato anzitutto i suoi stessi elettori, trascinandoli verso un sentimento di paura e finanche di odio verso gli stranieri. Meloni non è responsabile del boom di sbarchi più di quanto non lo fossero i governi che lei attaccava quotidianamente. Il sito di fact checking Pagella politica ha calcolato che il record di partenze ci fu nel 2017, quando Meloni e Salvini strillavano contro il governo di Paolo Gentiloni: 119 mila sbarchi. L’anno dopo scesero a 23 mila. A ieri, primo anno di governo della destra, siamo a quasi 114 mila, ma restano ancora mesi per superare il picco di sei anni fa. La seconda cosa da dire è che l’Europa c’entra, ma fino a un certo punto. Non è vero, come dice la Lega e come ripetono i ministri anche di FdI, che l’Europa non fa niente. È una farneticazione immaginare, come ha detto il sindaco di Trieste Roberto Di Piazza, addirittura un complotto europeo contro l’Italia. Bruxelles in quanto tale su questo punto non conta, esistono soltanto gli interessi delle Nazioni sovrane tanto care alle nostre destre, con i loro prevedibili egoismi. È una guerra di tutti contro tutti e davvero, su questo punto, servirebbe più Europa. Purtroppo le destre hanno sempre predicato il contrario. Terzo punto: sarebbe l’ora di finirla con la retorica falsa della lotta agli scafisti. Come se la repressione penale in tutto l’orbe terraqueo servisse a fermare le partenze. Se anche stabilissero l’ergastolo o la fucilazione sul posto per i trafficanti di uomini, ammesso di poterli arrestare in Paesi stranieri, non cambierebbe nulla. Leggi durissime e carceri piene di mafiosi impediscono forse alla criminalità organizzata di continuare a riempire di droga le nostre città? Quarto, l’illusione dei Cpr. La politica del Viminale ora è tesa a creare dei grandi centri per i rimpatri in ogni regione. Fermatevi, state creando un problema più grande di quello che volete risolvere. I respingimenti e i rimpatri non si possono fare senza accordi preliminari con i Paesi di provenienza, le poche migliaia di (carissimi) voli effettuati finora sta lì a dimostrarlo. Finirà che si creeranno enormi carceri all’aperto dove spostare i migranti che ora sopravvivono ai margini delle nostre città. Avremo tolto il problema da sotto gli occhi per un po’, ma non avremo risolto nulla. E allora, cara Meloni, l’ultimo consiglio non richiesto è quello di prendere il toro per le corna. Come le ha suggerito sommessamente anche l’ex ministro Minniti, si tratta di prendere atto che la legge Bossi-Fini, figlia di un’altra epoca, non funziona più. Voi stessi ve ne rendete conto visto che avete triplicato i numeri del decreto flussi. C’è un enorme domanda di forza lavoro in Italia che non riesce a incontrare legalmente l’offerta. Rendete possibile assumere i lavoratori stranieri, rendete facili i permessi di soggiorno, legalizzate la clandestinità facendo emergere questi “fantasmi” in modo che possano iniziare a integrarsi con noi, studiare l’italiano, imparare un mestiere, mandare a scuola i propri figli. E, infine, fate diventare cittadini italiani i ragazzi e le ragazze che sono cresciuti qui. Questo, almeno, farebbe un vero partito conservatore. “Più morti in mare, accoglienza al collasso: il disastro della destra sui migranti” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 31 agosto 2023 “Gli arrivi sono cresciuti quest’anno del 112%: dopo aver parlato di impossibili blocchi navali il governo si trova alle prese con la realtà delle migrazioni, che è molto più complessa della propaganda”. La guerra a colpi di decreti e fermi amministrativi alle navi Ong, lo smantellamento del sistema di accoglienza. L’Unità ne discute con Giorgia Linardi, combattiva portavoce della Ong Sea Watch in Italia. La stampa mainstream sparge allarme per il boom degli sbarchi... È vero che quest’anno il numero degli arrivi è il 112% in più, percentuale che va crescendo di giorno in giorno. Numeri di arrivi che non si registravano dagli anni 2015-’16. Questo è un fatto indiscutibile. Dopodiché bisogna stare attenti. Anche il governo più di destra che potevamo immaginarci si trova di fatto a far fronte a una situazione che è quella che ha sempre sbeffeggiato, condannato quando chi governa oggi era all’opposizione e si trattava di fare propaganda. Ora devono fare i conti che slogan come blocco navale, cancellare le partenze e via elencando, vanno bene per acchiappare voti ma quando poi queste problematiche vanno gestiste ci si scontra col fatto che quello migratorio è un fenomeno che va accettato e gestito piuttosto che giudicato e utilizzato per altri fini. Siamo arrivati al paradosso del ministro Piantedosi che in una intervista a Libero che nel dire che i soccorsi in mare dovrebbero essere di competenza esclusiva dello Stato, di fatto non solo ammette implicitamente che per quanto la Guardia costiera italiana possa fare, comunque non è sufficiente ma in più espone dei dati che spiegano come l’intervento delle Ong sia decisamente minore, quanto a vite soccorse, rispetto all’intervento della Guardia costiera, smentendo così il pull factor. E questo a che conclusioni porta? Porta alla considerazione che la realtà porta pure il governo più di destra che potessimo immaginare a dovere fare i conti con il fatto che le partenze non si possono bloccare e che le persone continuano a scappare a prescindere da quello che possa decidere il governo italiano e che le Ong non costituiscono un fattore di attrazione delle migrazioni e non hanno alcuna influenza su quelle che sono le sue cause. È importante sottolinearlo, perché noi veniamo da più di cinque anni di propaganda contro la solidarietà e le migrazioni che tocca, come punti cardine esattamente quelli di cui accennavo, che le partenze vanno bloccate e che le persone non devono arrivare in Italia, cosa che invece sta avvenendo più che mai, e che le Ong favorissero l’arrivo di queste persone addirittura attraverso meccani di collusione con scafisti e trafficanti. Altro aspetto importante. È vero che siamo in una situazione critiche, attenzione però a narrazioni iper allarmistiche. Vale a dire? Quante volte abbiamo sentito dire l’hot spot di Lampedusa è al collasso, e così il sistema di accoglienza italiano. Se siamo perennemente al collasso, questo non è legato agli sviluppi degli ultimi mesi e alle scelte sciagurate di questo governo, ma ad un approccio alla migrazione e quindi all’accoglienza che non è mai stato di reale gestione. È un fenomeno che si è sempre cercato di mettere sotto il tappeto ed evitare di gestire realmente. Quanto all’accoglienza. La gestione delle persone in prima accoglienza è qualcosa che non ha mai riguardato certi Comuni e certe parti d’Italia, ma adesso che si è deciso di fare una legge che per scoraggiare le attività delle Ong manda le navi Ong a sbarcare nel nord Italia, ad esempio, ha esposto determinate città e comuni a una situazione molto delicata che ancora una volta mostra che delle persone non ce ne frega nulla. Perché? Perché gli arrivi al porto presuppongono una organizzazione importante. Presuppongono la presenza di organizzazioni umanitarie, un lavoro di screening, una serie di servizi e di attori presenti in porto, che, per quella che è la nostra esperienza non sono stati previsti. Un esempio. L’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, non è necessariamente presente agli sbarchi. Il fatto, molto triste e grave, è che queste persone continuano ad essere considerate e trattate come merci, poco importa. Si tratta di scarico merci. Senza contare intanto l’approccio disumano rispetto al fatto che bisognerebbe garantire certi servizi, e mettendo anche i Comuni in una situazione di difficoltà rispetto ad una gestione diversa, nuova. Altro punto dolente, riguarda la creazione dei Centri per il rimpatrio. Questo mostro di cui ci si era in qualche modo liberati, proprio grazie ad un grandissimo lavoro di testimonianza e denuncia di quanto queste strutture fossero altamente lesive dei diritti fondamentali delle persone che vi stavano rinchiuse, trattate come delle automobili, perché le persone nei Cpr sono sottoposte a fermo amministrativo come una vettura o come le nostre navi. Peccato che le persone non sono pezzi di ferro. Da lì tutti gli orrori che abbiamo sentito e denunciato, gli atti autolesionistici, l’abuso di psicofarmaci per sedare le persone. Di fronte a questo scempio, il governo ha deciso di aprire i Cpr in ogni regione. Si è fatto questo in uno schiocco di dita, con la cosiddetta legge Cutro. Il governo è stato iper attivo sul tema migratorio. Non scordiamoci che il decreto legge numero uno del 2023 è quello indirizzato contro le Ong, cosa che rende chiaro come le priorità del paese siano completamente sottomesse alla propaganda. Decreto che diviene legge. Di seguito c’è la famigerata legge “Cutro”. A livello europeo c’è un ruolo, negativo, di leadership giocato dall’Italia nella ridefinizione del sistema di asilo comune dell’Unione Europea e soprattutto in quelli che sono stati gli accordi di cooperazione esterna, in primis quello con la Tunisia. Tutte iniziative di carattere securitario ma che non hanno centrato l’obiettivo, l’unico, che questo governo si prefiggeva: quello di impedire l’arrivo delle persone. C’è poi un altro dato inquietante, che spesso sembra passare in secondo piano anche nei media… Di cosa si tratta? Delle morti in mare. Soprattutto per quel che concerne la rotta tunisina, l’utilizzo di barchini di ferro ha mietuto più vittime della media, già alta, degli ultimi anni. Su questo non si è voluto fare niente. Anzi, si è continuato con la strategia di ostacolare le forme di soccorso in mare di supplenza a quelle istituzionali, che non sono sufficienti o non ci sono affatto, e addirittura siamo arrivati di nuovo a strumentalizzare la tragedia delle persone in pericolo nel Mediterraneo per dare un senso alle politiche fallimentari in tema di migrazione. Non è casuale che da quando è stato siglato il memorandum d’intesa con la Tunisia, la Guardia costiera italiani indichi alle Ong di rivolgersi alla Tunisia per sbarcare le persone soccorse. Si tratta di un elemento in apparenza nuovo… Perché in apparenza? Perché un approccio simile l’abbiamo visto dopo la sigla dell’accordo bilaterale con la Libia, quando la Guardia costiera cambiò improvvisamente approccio dicendo che dovevamo coordinarci con questa sedicente Guardia costiera libica. È ancora una volta un traslare questioni di natura politica, legati ad accordi politici, sul piano operativo dei soccorsi in mare, e quindi strumentalizzare il Mediterraneo per dare in qualche modo legittimità a queste politiche, istituendo una prassi. Ma non è così che dovrebbe andare. Non solo. Se l’Italia avesse una minima, reale leva sulla Tunisia, non chiederebbe alle Ong di coordinarsi con la Tunisia per sbarcare lì, ma sarebbe lei stessa a coordinarsi con Tunisi per poi dire alle Ong guardate che vi aspettano, è tutto pronto. Il che aprirebbe un’altra partita perché la nostra posizione assolutamente critica su quel memorandum non cambia. E qui arriviamo alla nuova stretta repressiva verso le Ong... Picco di arrivi, grandi difficoltà, quale momento migliore per detenere le navi Ong e ricreare quell’associazione per cui è sufficiente che risuoni l’acronimo ong nei media, insieme ai dati relativi al picco degli arrivi, perché si faccia l’equazione Ong=arrivi. Ma questa equazione non convince più nemmeno lo stesso elettorato di destra che ha votato questo governo sul suo cavallo di battaglia della lotta all’immigrazione irregolare, il blocco delle partenze… Devono dare conto e le risposte sono preoccupanti, perché ancora una volta sono la lesione dei diritti, più supporto ai respingimenti attraverso gli accordi con i paesi terzi, apertura dei Centri di rimpatrio in ogni regione, uno scempio quanto a violazione dei diritti umani, rivedere la legge Zampa che ha il gande pregio di tutelare i minori stranieri non accompagnati. Si vanno a toccare tutta una serie di questioni strettamente legate ai diritti umani. Ma questo è il solo linguaggio che questo governo conosce. La mia preoccupazione è che questo governo ci porti a un punto di non ritorno. Cioè? Se anche da domani dovesse cambiare tutto, utopia, e dovessimo avere al governo le persone più progressiste, illuminate, aperte in circolazione, sono talmente tanti i passi indietro che abbiamo fatto negli anni scorsi e che stiamo continuando a fare da un anno di governo Meloni a questa parte, che non sarà facile, tutt’altro, costruire un sistema di accoglienza sul quale non si è mai investito negli ultimi trent’anni. Rimettere a posto i cocci rotti, ammesso che lo si voglia, fare rischia di diventare una missione al limite dell’impossibile. Noi siamo oggi molto al di sotto del punto zero. È estremamente difficile perché si tratta innanzitutto di una rivoluzione culturale, che vuol dire guardare all’altro non come un invasore. E accettare che le persone scappano ed emigrano. La politica dei “tappi” è tragicamente fallita. Metti un “tappo” con la Libia, con l’accordo del 2017, ecco che la rotta si allarga a macchia d’olio a est, con le partenze dalla Cirenaica, e ad ovest con la rotta tunisina, fatta in gran parte da persone subsahariane molte delle quali passate dalla Libia in Tunisia, o perché intercettate via mare e portate in Tunisia o passate via terra. Questo dimostra che le politiche “a tappo” non funzionano, che quelle politiche uccidono e ci rendono ricattabili. Abbiamo iniziato con la Turchia, abbiamo proseguito con la Libia, ora lo abbiamo appena fatto con la Tunisia e chissà quanti altri autocrati criminali ancora a cui andremo a servire su un piatto d’argento i nostri valori, chiedendo in cambio niente, rendendoci ricattabili, dando loro in mano uno strumento che consente questi attori senza scrupoli di ricattare l’Unione Europea, i paesi euro-mediterranei, tra cui l’Italia, utilizzando una carta, quella della pressione migratoria, che siamo noi a mettergli in mano. E mai, mai un focus sulle alternative praticabili come i corridoi umanitari, e altre forme di migrazione sicura e legale, che strappi dalle mani di trafficanti e aguzzini migliaia di esseri umani. Questo peraltro avrebbe bisogno di una solidarietà europea che purtroppo non esiste.