Case di lavoro, un “parcheggio d’anime” di Giulia Melani Il Manifesto, 30 agosto 2023 Cosa succede ad una persona condannata dopo che ha scontato la sua pena? Nella quasi totalità dei casi, ovviamente torna in libertà, ma non è sempre così. Questa regola, apparentemente scontata e basilare, non vale per tutti. Circa 250 persone, dopo aver espiato la propria pena, si trovano recluse, per un tempo indeterminato, in una struttura del tutto analoga ad un carcere e che, quasi sempre, del penitenziario, rappresenta una sezione: la casa di lavoro o colonia agricola. In Italia ce ne sono 9. Da Alba a Barcellona Pozzo di Gotto, passando per Tolmezzo, Venezia, Castelfranco Emilia, Isili, Aversa, Vasto e Trani. Si tratta di una realtà poco conosciuta e trascurata. Come sosteneva Valerio Onida, la casa di lavoro è “una “provincia” un po’ dimenticata del nostro diritto penale”. Per questo, la società della Ragione le ha dedicato un lavoro di ricerca quantitativa e qualitativa sostenuto dall’Otto per mille della Chiesa Valdese, che si è da poco concluso e che ha permesso di intervistare internati e operatori. A questa misura di sicurezza, introdotta dal Codice Rocco del 1931, sono sottoposte persone che sono etichettate come delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e che sono in realtà, per la gran parte, persone che vivono plurime condizioni di vulnerabilità e possono contare su poche reti di supporto. Socialmente pericolosi li definisce il codice e li qualifica il magistrato, continuando ad utilizzare un concetto che un grande psicopatologo forense come Fornari già trent’anni fa riteneva “equivoco, riduttivo e non scientifico”. La misura di sicurezza, come e più del carcere, prendendo in prestito l’espressione da Margara, rappresenta una forma di “detenzione sociale”. Ingiusta e illiberale - come sostiene Monsignor Bruno Forte -: “dovrebbe far vergognare una democrazia fondata sui principi del rispetto della dignità di ogni persona e della solidarietà verso i più deboli, sanciti nella nostra Costituzione repubblicana”. La casa di lavoro, inoltre, è fonte di grande sofferenza proprio perché “non meritata”. È difficile per le persone che vi sono sottoposte comprendere ed accettare le ragioni di una ulteriore sanzione, lo si coglie dalle parole di uno degli intervistati, che ripete un ciclico “perché” che resta senza risposta: “Perché siamo qua? Non perché siamo criminali. Ho conosciuto chi aveva commesso più reati di me, più gravi di me e non ha fatto la casa lavoro. Allora perché? Perché siamo psichiatrici? Perché siamo disagiati?” Inoltre, la sofferenza è acuita dall’indeterminatezza, dovuta alla possibilità che il magistrato proroghi la misura. Così, in casa di lavoro si sta in un limbo che può apparire senza via di uscita, tanto che tra gli intervistati alcuni dichiarano di avere iniziato ad assumere stabilizzatori dell’umore che non avevano mai assunto prima. E allora perché tenere in piedi una misura platealmente ingiusta, illiberale, che raddoppia la pena, e che opera un discrimine tra le persone non sulla base dei fatti commessi ma delle loro vulnerabilità? Difficile immaginare che la casa di lavoro possa aiutare, dopo lunghi anni di detenzione, a reinserire. Una struttura detentiva, lontana, anche molto lontana, dalle reti di riferimento della persona come può agevolarne il reinserimento? E ammesso che sia proprio il lavoro a favorire la rieducazione, una casa di lavoro in cui il lavoro è poco, malpagato, ed è per la gran parte un lavoro “domestico” per garantire il funzionamento dell’istituto, può svolgere questa funzione? Più realisticamente, con le parole di uno degli intervistati, la casa di lavoro appare essere un “parcheggio d’anime”. Un parcheggio che sarebbe giusto - come nella proposta di legge presentata dall’On. Magi (AC n.158) - finalmente superare. *La proposta di legge e la ricerca su societadellaragione.it/misuredisicurezza Il piano di Meloni: rinviare la riforma della giustizia e giocarsi tutto con un referendum sul premierato di Salvatore Merlo Il Foglio, 30 agosto 2023 S’avanza un’idea al governo: invitare il ministro Nordio alla pazienza e alla ponderazione e investire tutto sulla riforma costituzionale. Verso un plebiscito dopo le europee, con il precedente (pericoloso) di Renzi. Separare la grande riforma costituzionale della giustizia, che slitterà a dopo dicembre, dalla grande riforma costituzionale sulla forma di governo che andrà incardinata il prima possibile. Evitare la concomitanza di un doppio referendum, perché si combatte una battaglia alla volta, e puntare subito tutto sul premierato: chiamare dunque gli italiani a votare ancora una volta dopo le europee - “volete voi un premier eletto direttamente dal popolo?” - un po’ come fece a suo tempo Matteo Renzi quando voleva abolire il Senato e il Cnel. Ma con un quesito referendario forse più semplice, tutto sommato, da spiegare agli italiani. Questo è il piano di cui si discute a Palazzo Chigi. Assai seriamente. E che contempla anche il rischio, calcolato, di trasformare un plebiscito sulla forma di governo in un plebiscito sulla figura di Giorgia Meloni. Che è quello che accadde proprio a Renzi. Una sfortunata vicenda politica, quella dell’ex presidente del Consiglio, lo scavezzacollo di Rignano sull’Arno, che gli attuali inquilini di Palazzo Chigi contemplano, nel suo orrore, un po’ come a teatro, ovvero con quel piccolo brivido superficiale che coglie gli spettatori di un dramma, ma che si placa subito in un confortevole sentimento di sicurezza: a me questo non capiterà mai. “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, diceva Giulio Andreotti. “Meglio tirare le cuoia che tirare a campare”, lo parafrasava all’incirca Renzi mentre sfidava il mondo intero col suo referendum del 4 dicembre 2016 . E Meloni, invece? La presidente del Consiglio a differenza di Renzi forse non coltiva sogni napoleonici, per così dire. Ma non è nemmeno Andreotti. Restando insomma nella metafora, Meloni non è un eroe classico, ovvero un eroe del trionfo e della conquista, ma forse è un eroe moderno, ovvero un eroe pervaso dal dubbio: si barcamena tra compromessi e negoziati, come sul Pnrr con l’Europa così con gli alleati di governo ai quali spiega le virtù d’una manovra economica da mettere insieme con pochi soldi e all’insegna della prudenza. Fare politica consiste nel fare concessioni, perché occorre cedere sugli aspetti secondari per non rinunciare all’essenziale. E dunque Meloni non intende mettere insieme la riforma della giustizia, che tra le altre cose prevede anche la controversa separazione delle carriere dei magistrati, assieme al referendum costituzionale sul premierato. Meglio separare, e rinviare. Per non rinunciare. Meglio afferrare subito il tema più popolare, e forse più semplice. Un po’ perché il minestrone diventerebbe difficile da illustrare agli elettori, e un po’ forse perché la Giustizia è uno di quegli argomenti che accendono gli animi, alimentano conflitti, espongono a troppi rischi. L’eroe classico (Renzi) raggiunge l’apoteosi imponendo le proprie posizioni, l’eroe moderno (Meloni) sa come trionfare attraverso il rinvio e in caso anche attraverso la rinuncia. Sicché, se nei primi mesi di governo era stata la presidente del Consiglio a spronare all’azione riformatrice il ministro della Giustizia, se prima era lei a insistere, adesso è Meloni che invece frena e invita Carlo Nordio alla pazienza e alla ponderazione. Il disegno di legge di riforma costituzionale del ministro Maria Elisabetta Alberti Casellati è pronto, ha fatto sapere lunedì la premier durante il Cdm: “Darà stabilità ai governi e poteri decisionali ai cittadini su chi deve governare”. La giustizia, per il momento, può attendere. Separare le carriere ha un fine: la terzietà del giudice. È Caselli a non volerlo vedere di Francesco Petrelli Il Dubbio, 30 agosto 2023 Dice il dottor Caselli che la riforma della separazione delle carriere sarebbe per l’Ucpi una vera e propria “ossessione” e non si accorge che se c’è qualcosa da segnalare in proposito è al contrario proprio l’ostinazione con la quale la magistratura italiana continua a difendere l’attuale assetto ordinamentale nel quale pubblici ministeri e giudici costituiscono un unico monolite, condividendo una medesima carriera, gli avanzamenti, le nomine e la disciplina. Si tratta sostanzialmente di un unicum nel contesto europeo nel quale Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Inghilterra, ciascuno con le sue peculiarità e con le sue diverse organizzazioni (per non dire delle altre democrazie occidentali), hanno sistemi nei quali pubblici ministeri e giudici hanno carriere ben separate. Non sono dunque gli avvocati penalisti ad essere vittime di una “ossessione”, ma piuttosto la magistratura italiana che non accorgendosi che tutti gli altri paesi europei marciano con un altro passo, cerca di convincerci che sono tutti gli altri a sbagliare. Salvo che non si intendano mettere nel conto anche le cosiddette demokrature dell’est Europa, assieme alla Turchia, la Romania e la Bulgaria, dove l’idea autoritaria e illiberale della giustizia ben si coniuga con carriere rigorosamente unificate come la nostra. Ma proseguendo nella sua argomentazione a guardia dell’intoccabile sistema nostrano, il dottor Caselli prova a spiegare in base a vecchi e nuovi argomenti quali gravi errori siano commessi dai riformatori vittime della loro irragionevole “fissazione”. Uno dei nuovi argomenti è che la creazione di due diversi Consigli superiori, uno per i pubblici ministeri ed uno per i giudici, imporrebbe ulteriori separazioni in quanto, in base al medesimo principio, si dovrebbero anche separare le carriere dei giudici dell’udienza preliminare e dei giudici del Tribunale ed anche quelle dei giudici della Corte di appello e così via, dimenticando tuttavia che la cosiddetta “eterogeneità fra controllori e controllati” deve essere applicata all’interno del processo con esclusivo riferimento al giudice ed alle parti, non certo fra un giudice di primo grado (che non è parte) ed il giudice dell’impugnazione la cui cognizione scandisce fasi processuali differenti. Ha detto in proposito Andrea Mirenda, componente togato del Csm, che se uno studente prospettasse mai un simile assunto sarebbe severamente “bacchettato”. Gli altri argomenti sono due argomenti “classici”. Il primo è quello della famosa “cultura della giurisdizione” che i pubblici ministeri separati perderebbero venendo attratti in una “diversa cultura”. Non dice tuttavia il dottor Caselli cosa sia questa così pericolosa cultura differente, e tanto meno ci spiega cosa intenda per “cultura della giurisdizione”, che è una entità così indistinta che ognuno individua in qualcosa di differente ma di egualmente ineffabile. Il Franco Cordero della “Lettera a monsignore” avrebbe evocato lo spirito dell’”elefante rosa”: un accidente metafisico, un “mana” che viene evocato quando l’interlocutore non sa come spiegare - o non vuole spiegare - un fatto che è invece tutto terreno, prodotto di causalità materiali e di condizionamenti eziologici meno eterei. Il secondo argomento è quello assai risalente del pubblico ministero collocato in uno spazio indistinto e dunque “inevitabilmente” attratto nell’orbita dell’Esecutivo, funzionario addomesticato dalla politica, in quanto privo di responsabilità esterna. Occorre in proposito ricordare come in verità nella riforma disegnata da Ucpi e portata in Parlamento, non dagli avvocati ma da 70 mila cittadini italiani, pm e giudici restano tutti magistrati e tutti appartenenti al medesimo ordinamento giudiziario, distinguendosi solo per carriere, e dunque per funzioni e per organizzazione: i due diversi Csm ne garantiscono, così, non solo l’indipendenza esterna dal potere esecutivo, ma anche la cosiddetta indipendenza interna, ovvero la sottrazione ad ogni condizionamento proveniente dalla promiscua gestione di giudici e pubblici ministeri nelle reciproche carriere e discipline. Vi sarà un giudice, finalmente terzo, a controllare gli straordinari poteri di iniziativa del pubblico ministero. Noi riteniamo che sia proprio questa la più concreta delle prerogative della giurisdizione, senza che vi sia alcun bisogno di evocare improbabili “culture” che non servono ad altro che a giustificare una resistenza corporativa e cetuale che contrasta con lo spirito di una democrazia moderna e aperta al rinnovamento, cui tutti dovremmo aspirare, e con la ragionevole aspirazione di una riforma che ha come fine la realizzazione di quella necessaria terzietà del giudice che sta incisa da oltre venti anni nella nostra Costituzione. Insomma, se una ossessione abbiamo è solo quella della compiuta attuazione della nostra Carta e dei suoi valori a tutela del giusto processo. Le toghe moderate di “Mi”: le correnti rosse ci trattano come infiltrati del governo di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 30 agosto 2023 Retroscena sui veleni nell’Anm, nel gruppo guidato da Piraino c’è chi dice: sulle carriere separate ci tendono trappole. La posizione ufficiale di Magistratura indipendente, il gruppo moderato delle toghe, sulla proposta di separare le carriere fra pm e giudici attualmente in discussione in Parlamento sarà resa nota prima del Comitato direttivo centrale dell’Anm previsto per il prossimo 9 e 10 settembre a Roma. “La proposta di separare le carriere fra pm e giudici rischia di diventare un’arma di distrazione di massa: ci sono infatti diverse criticità nelle riforme sulla giustizia approvate nella scorsa legislatura ed in quelle in discussione nell’attuale sulle quali non si discute con uguale intensità”, è il comune sentire di molte toghe di Mi in questi giorni. Magistratura democratica, la corrente di sinistra, ha invece già deciso di prendere posizione in maniera ferma, come ricordato ieri in un colloquio con il Dubbio dal pm di Rimini Stefano Celli. Il magistrato, componente del Comitato direttivo dell’Anm, aveva stigmatizzato il comportamento dei colleghi sul punto, a suo dire condizionato dalla presenza nel governo di uno storico appartenente ad Mi, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. “Faremo valutazioni senza condizionamenti di sorta e senza essere oggetto di strumentalizzazioni”, ricorda allora una toga di Mi a microfoni spenti. Il segretario nazionale di Mi Angelo Piraino, in una intervista al Dubbio della scorsa settimana, aveva ricordato che le scelte sono del legislatore, alla magistratura compete evidenziarne le criticità, “senza invasioni di campo”. “La disparità è strutturale. Da una parte c’è lo Stato, con un pm che dispone della polizia giudiziaria, e dall’altra il privato cittadino. Il problema è semmai dare al privato cittadino gli strumenti per evitare che ci sia un abuso del maggiore potere che nei fatti ha la pubblica accusa. Una riforma del genere non può cambiare la mente del giudice”, aveva aggiunto Piraino, augurandosi quindi che il pm ragionasse come un giudice. Sulla separazione delle carriere, comunque, si discute senza soluzione di continuità da più di trenta anni, da quando è entrato in vigore l’attuale codice di procedura penale di tipo accusatorio. Su quale debba essere l’inquadramento del pubblico ministero nell’ordinamento giudiziario italiano sono intervenuti negli anni il fior fiore dei giuristi italiani. Le riforme in questi anni, va ricordato, hanno cercato di scoraggiare e limitare quanto più possibile i passaggi. La recente riforma Cartabia, approvata dopo una complicata mediazione tra posizioni molto distanti all’interno dei partiti che appoggiavano il governo Draghi, ha ridotto ad uno il passaggio entro i dieci anni dalla prima assegnazione delle funzioni. Trascorso tale periodo, è ancora consentito, per una sola volta, il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, purché la toga non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali. Il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro avverrà poi in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste. Nel 2022 le richieste di passaggio di funzione erano state appena una ventina su un organico di oltre 9mila magistrati. Con queste nuove regole i numeri sono destinati inevitabilmente a ridursi ancora. Ciò non ha impedito di superare il ‘peccato originale’: la comune appartenenza all’Ordine giudiziario che, soprattuto nei piccoli uffici giudiziari, determina la creazione di rapporti ‘amicali’ fra colleghi, spesso anche vincitori dello stesso concorso, che non può non riverberarsi, anche solo sotto il profilo dell’apparenza, sulla terzietà ed imparzialità che deve avere il giudice. Mutando il titolo del libro dell’avvocato Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi, “Non diamoci del tu”. Caso Bezmotivny, per gli anarchici repressione senza sovversione di Frank Cimini L’Unità, 30 agosto 2023 Il ricorso del pm sarà discusso davanti al Tribunale del Riesame il 6 settembre mentre quello dei difensori che chiedono di annullare tutte le misure cautelari è stato discusso ieri mattina e i giudici si sono riservati di decidere. “Non emergono dagli atti di indagine elementi seri e concreti che consentano di fare affidamento su una cooperazione da parte degli indagati. Anzi tale concorso di volontà non solo non è ipotizzabile ma può ragionevolmente escludersi. Si tratta di soggetti refrattari al rispetto delle regole imposte dall’autorità”. Questo scrive il pm di Genova Federico Monotti nel ricorso contro la decisione del gip di decidere “solo” per arresti domiciliari e obblighi di dimora in relazione alla posizione degli anarchici accusati di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo per la pubblicazione della rivista Bezmotivny definita dai magistrati “clandestina” pur stando in bacheca sulla pubblica via di Carrara. Siamo in presenza di una giurisprudenza sempre più creativa che arriva a affermare che gli indagati devono cooperare con l’indagine altrimenti non risultano affidabili. Per cui per loro ci può essere solo la custodia cautelare in carcere. Il ricorso del pm sarà discusso davanti al Tribunale del Riesame il 6 settembre mentre quello dei difensori che chiedono di annullare tutte le misure cautelari è stato discusso ieri mattina e i giudici si sono riservati di decidere. Agli atti è stata allegata una relazione della Digos sull’ultimo numero della rivista che è praticamente stata chiusa con l’esecuzione delle misure cautelari. La polizia racconta le difficoltà economiche del quindicinale emergenti dallo scambio di mail tra gli indagati per concludere: “Malgrado le difficoltà appare di tutta evidenza la ferma volontà del gruppo editoriale a proseguire nella stampa del quindicinale anarchico clandestino proseguendo nella loro idea apologetica associativa istigatoria ed esaltando sia la parte ideologica sia l’azione diretta”. L’operazione di Genova è stata denominata dalla polizia “Scripta scelera” e questo la dice lunga sulla volontà di rispettare il principio della presunzione di innocenza come aveva annunciato l’allora ministro Marta Cartabia. Una copia del quindicinale era stata chiesta da Alfredo Cospito detenuto a Sassari. Nonostante l’ok del magistrato di sorveglianza il giornale non è stato ancora consegnato. I legali insistono. Hanno paura lor signori insomma di un quindicinale chiuso per mancanza di soldi perché tra l’altro non tornerebbero indietro i soldi delle vendite delle copie mandate a diversi centri sociali. Mezzo secolo fa più o meno il potere costituito scatenò la repressione per un fumetto pubblicato dalla rivista Metropoli. Ma almeno il potere di allora aveva l’attenuante cosiddetta che c’era di mezzo Moro e oltre ai morti per le strade. Qui nel terzo millennio siamo alla repressione senza sovversione. Del tutto preventiva. Zero prove del patto con la mafia: così la Cassazione smonta l’accusa dopo 13 anni per Raffaele Lombardo di Giuseppe Bonaccorsi Il Dubbio, 30 agosto 2023 Gli organi inquirenti avrebbero dovuto dimostrare, e non l’hanno fatto, che esisteva un “patto”, in questo caso tra l’ex presidente della Regione Sicilia e Cosa Nostra. La Corte di Cassazione ha depositato tre giorni fa le motivazioni della sentenza di assoluzione di Raffaele Lombardo, ex governatore della Sicilia e per molti decenni uomo forte della politica a Catania. Lombardo, nato politicamente con la Democrazia cristiana, è stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa nel marzo di quest’anno, a conclusione di un lungo processo durato quasi 13 anni e caratterizzato da numerosi colpi di scena, due sentenze contrastanti, sino al rinvio della Cassazione e al nuovo giudizio d’appello. L’ultimo atto di un iter giudiziario lunghissimo è arrivato a destinazione nell’inverno scorso quando Piazza Cavour ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale di Catania avverso la sentenza di assoluzione dell’appello “bis”, e quindi ha confermato l’assoluzione con formula definitiva per l’ex governatore della Sicilia. Nelle motivazioni, i giudici della Suprema corte spiegano che l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa può reggere soltanto se si dimostra “non la mera vicinanza al detto gruppo o ad i suoi esponenti, anche di spicco e neppure la semplice accettazione del sostegno elettorale dell’organizzazione criminosa, ma la prova del patto in virtù del quale l’uomo politico, in cambio dell’appoggio elettorale, si impegni a sostenere le sorti della stessa organizzazione in un modo che, sin dall’inizio, sia idoneo a contribuire al suo rafforzamento o consolidamento: irrilevante”, invece, “la concreta esecuzione delle prestazioni promesse, spesso rilevanti solo ai fini di prova”. In sintesi gli organi inquirenti avrebbero dovuto dimostrare, e non l’hanno fatto, che esisteva un “patto”, in questo caso tra l’ex presidente della Regione Sicilia e Cosa Nostra. Serviva almeno una prova che dimostrasse l’impegno assunto dal politico a favorire i boss: per i giudici della Suprema Corte è stato dunque “corretto il ragionamento svolto nella sentenza di appello bis” del gennaio 2022, che appunto aveva già assolto Lombardo. “L’analisi della Corte d’Appello”, prosegue la Cassazione, “è stata svolta altresì sulla scorta di un puntuale e completo esame di tutte le risultanze processuali, sicché alcuna carenza od omissione dell’esame dei dati processualmente rilevanti inficia la scansione del ragionamento probatorio”. Le motivazioni della sentenza a carico dell’ex governatore Lombardo ricalcano, per certi versi, quelle della sentenza Mannino, che pure venne assolto dal concorso esterno. Anche per l’ex ministro, i giudici della Suprema Corte sentenziarono che il fatto non sussiste perché non era stato provato alcun patto tra il politico e Cosa Nostra. Mannino venne arrestato nel 1992 con l’accusa di concorso esterno con alcuni gruppi mafiosi dell’Agrigentino. Scontò 9 mesi di carcere e 13 di arresti domiciliari. Nel 2001 ci fu per lui la prima assoluzione perché il fatto non sussiste, decisione poi confermata nel 2010 dalla Cassazione. L’assoluzione Mannino è diventata un caso giudiziario che ha fatto giurisprudenza e ancora oggi viene citato nelle aule dei Tribunali. Tra l’altro Mannino, ai tempi della militanza di Lombardo nella Dc, era capocorrente di quest’ultimo. Raffaele Lombardo venne indagato per l’accusa di concorso esterno quasi 14 anni fa, ma non è mai andato in carcere. La sua carriera politica costellata da grandi risultati in realtà finì quando venne raggiunto dall’avviso di garanzia della Procura di Catania: per lui sono stati 13 anni di processi e di colpi di scena. Mio marito e gli altri in celle lager di Franca Berto Corriere di Verona, 30 agosto 2023 Franca Berto, la moglie di Massimo Zen - la guardia giurata padovana arrestata per aver ucciso un ladro in fuga racconta le condizioni di vita in carcere del marito e degli altri detenuti, e svela che Zen è stato recluso nella stessa prigione in cui si trovano alcuni parenti della vittima. La lettera denuncia anche le condizioni in cui i familiari devono far visita ai detenuti, e si traduce in un appello a Nordio. Mi chiamo Franca Berto e sono la compagna di Massimo Zen ex guardia giurata che all’alba del 22 aprile 2017 uccise il giostraio Manuel Major che con due complici stava fuggendo dopo aver piazzato quattro colpi ai bancomat del territorio ed è stato condannato a nove anni e sei mesi per omicidio volontario. Dopo la sentenza della Cassazione è entrato in carcere a Padova il 16 giugno 2023 e successivamente trasferito per motivi di sicurezza, in quanto nello stesso carcere sono detenuti molti parenti del defunto, alla Casa Circondariale di Verona Montorio. In questi mesi di frequentazione settimanale per i colloqui ho raccolto uno spaccato di vita raccapricciante dai racconti e resoconti sulla quotidianità dentro le mura. Non voglio assolutamente entrare nel merito della decisione sulla condanna, ma la mia vuole essere una lettera di denuncia sulla base di questa testimonianza e su quanto ho potuto vedere sulla situazione igienico-sanitaria e psicologica in cui i detenuti sono costretti a vivere in questo carcere, e su come vengono trattati i famigliari che accedono ai colloqui. Voglio essere la compagna, la moglie, la madre, la figlia, la sorella di qualunque detenuto che non ha voce per raccontare la quotidianità vissuta in maniera deprecabile. In questa torrida estate dove si raccomandava di stare in casa al fresco o di andare nei centri commerciali per usufruire dell’aria condizionata, più di 500 detenuti (contro una capienza prevista di 335 persone) sono stati costretti a vivere in celle super-affollate senza possibilità di refrigerio, neanche un misero ventilatore, e che aspettano l’ora dei colloqui settimanali per accedere a locali climatizzati. L’ora d’aria la passano in un cortile di cemento nelle ore più calde dov’è inumano resistere. Per non parlare poi delle docce comuni: fatiscenti, sporche, scrostate senza manopole o miscelatori, da dove se va bene esce solo acqua fredda, sempre che non venga addirittura chiusa per razionamento! Costretti a lavarsi semi-vestiti per non rischiare di prendere qualche fungo o il tetano, e lavare così anche i vestiti. Il sovraffollamento inoltre genera continui litigi e sono all’ordine del giorno accoltellamenti, incendi di materassi per protesta, aggressioni a guardie che sono carenti per poter garantire un minimo di sicurezza. E tutto ciò è da imputare a una politica dei tagli dei costi a scapito di una qualità di vita dei detenuti e di sicurezza di chi ci lavora. E che dire dello spauracchio per l’arrivo del prossimo inverno dove chi lo ha già vissuto in carcere racconta di notti passate con il berretto in testa, due maglioni e la coperta, in una cella simile a un frigo. Parliamo poi della fantomatica “riabilitazione”. Un parolone che riempie solo le bocche di certi politici ma che, tradotta in realtà, per questo carcere si tratta per pochi di accedere a percorsi scolastici durante l’anno, ma che nel periodo estivo si traduce in una assurda ricerca di come far passare il tanto tempo a disposizione. Riuscire a tenere la testa salda, scarseggiando anche i supporti psicologici, non è cosa facile e la dimostrazione sono i suicidi e tentati suicidi che sono più frequenti di quel che si pensa, perché a volte le notizie non trapelano. Se le persone non vengono tenute occupate con percorsi riabilitativi seri e tutto l’anno, se non viene dato un valido e costante appoggio psicologico e se le condizioni di vita all’interno non sono “umane”, si palesa una istigazione al suicidio subdola ma purtroppo realistica. Vivere per anni in questa situazione disumana non è possibile. Ci inorridisce l’America che in molti Stati applica la pena di morte, ma vivere in carceri così mal strutturate e al limite della decenza è un lento morire. E vogliamo parlare del cibo che i più sono costretti a comprarsi nella nota spesa settimanale per integrare i menù poco vari e soprattutto per l’assenza del carrello-pasti la sera della domenica e nelle sere delle varie festività, ad esempio ferragosto. E comunque, i cibi che si possono portare dall’esterno sono pochi e la loro esclusione è sovente motivata non da ragioni di sicurezza ma perché gli stessi prodotti vengono venduti all’interno del carcere, e quindi i detenuti se li devono acquistare magari a prezzi più elevati. Ma se il familiare, per ragioni economiche, volesse comperare i prodotti a un discount a prezzo ridotto, deve sborsare più soldi in nome di che cosa? E comunque i prezzi dei prodotti dovrebbero essere adeguati e non maggiorati! Parliamo poi del trattamento riservato ai parenti in visita? Capisco la difficoltà di relazionarsi con persone di culture, ceti, istruzione e livelli di comprensione diversi, ma alla base manca una formazione adeguata del personale e, soprattutto, una carenza dello stesso. Non tutti quelli che arrivano a dover entrare in quel mondo sono, solo per il fatto di avere un familiare detenuto, dei “delinquenti”. L’empatia è alla base di chi deve, per lavoro, relazionarsi con il sociale, ma questo sarebbe chiedere troppo a un sistema che è rimasto punitivo e non riabilitativo. Se già solo con i familiari vengono usati metodi poco esplicativi, come si può essere pronti ad avere una visione di recupero del detenuto in quanto “persona” e non “reato”? Quando arriviamo in carcere, anche noi parenti perdiamo la nostra personalità, perché non veniamo più chiamati con il nostro nome ma con il nome del detenuto. Per non parlare delle deprecabili condizioni dei bagni della sala d’attesa per i parenti, gli unici servizi igienici di cui si può usufruire nell’attesa di andare al colloquio. Se proprio bisogna, si va a proprio rischio: sporchi lerci e senza carta e sapone per lavarsi le mani, ma tutto questo non viene mai denunciato sia per paura di ritorsioni interne al proprio caro, sia perché poi la volta successiva magari non ti fanno passare delle cose che devi consegnare al tuo familiare. Ma soprattutto perché la voce degli “emarginati” difficilmente viene ascoltata. Ci preoccupiamo del benessere psico-fisico degli immigrati perché visibili agli occhi dell’opinione pubblica e interessanti dal punto di vista economico, ma dei reclusi che non hanno voce chi si preoccupa? E carissimo ministro Nordio, lei che pensa a tante soluzioni per il sovraffollamento, non troverebbe semplice e risolutivo far espiare delle pene alternative a quei detenuti che sono alla prima condanna e non pericolosi, che hanno una residenza e una famiglia funzionale dove rientrare, e per i quali i Comuni sarebbero disposti a farsi da garante per far scontare loro delle misure cautelari diverse al carcere? Forse costa meno un braccialetto elettronico (se proprio ritenuto indispensabile), che il costo del mantenimento di un carcere. (...) Ma la domanda che faccio al nostro guardasigilli è: come mai c’è tanta attenzione per persone pericolosissime e condannate al carcere duro, e invece c’è menefreghismo davanti a tutti gli altri condannati per reati minori che vivono in condizioni disumane? Emila Romagna. Il Garante: “Più contrasto alla povertà, solo così si può dare un futuro a chi è in cella” ansa.it, 30 agosto 2023 Agosto al lavoro per il Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna. Cinquanta detenuti ascoltati, cinque carceri visitate dal garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri. Le visite alle strutture detentive di Reggio Emilia, Modena, Castelfranco Emilia, Bologna e Forlì si sono concentrate sulla rilevazione dei problemi dei detenuti comuni mentre sono stati fatti colloqui con i detenuti ristretti. “Disoccupazione, bassa scolarizzazione, poche esperienze professionali, rete famigliare inesistente o comunque gravata dalla povertà segnano la vita dei detenuti comuni, ai quali non resta altro futuro che quello di scontare per intero le loro condanne, congelate in contesti che offrono poche occasioni di vero riscatto”. Un agosto al lavoro per il garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna Roberto Cavalieri che, nel corso del mese di agosto, ha visitato gli istituti di Reggio Emilia, Modena, Castelfranco Emilia, Bologna e Forlì e ascoltato oltre una cinquantina di detenuti. Le visite si sono concentrate sulla rilevazione dei problemi relativi alle modalità di detenzione dei detenuti comuni, quindi che rientrano nel circuito della media sicurezza, e la realizzazione di colloqui con i ristretti. “Queste visite sempre molto utili per avere un quadro veritiero della situazione - afferma Cavalieri - rafforzano la mia convinzione che il problema principale sia quello della mancanza di misure di contrasto alla povertà. La maggior parte dei detenuti ha lamentato difficoltà nell’ottenere risposte dai competenti uffici di sorveglianza sia riguardo alla concessione della liberazione anticipata sia in merito alla concessione di misure alternative alla detenzione e di benefici. A questi problemi si aggiungono quelli relativi a risposte a bisogni sanitari, in particolare modo per le persone ristrette che già prima della detenzione erano portatrici di patologie complesse”. Nel corso delle visite, tutte effettuate nel mese di agosto - riporta il garante - è stata data particolare attenzione alle minoranze penitenziarie: donne, giovani, persone lgbtq+, anziani. “Le figure direttive degli istituti penitenziari presenti in servizio nel periodo delle visite, si prodigano, assieme ai funzionari giuridico-pedagogici e al personale di Polizia penitenziaria, per cercare di sostenere i detenuti nella soluzione dei loro problemi, ma, purtroppo, il sovraffollamento, le ristrette disponibilità di finanziamenti e il contesto di territori non sempre ricettivi rendono il loro lavoro una vera e propria impresa” puntualizza Cavalieri. Il garante Roberto Cavalieri, infine, fa sapere di aver avviato un monitoraggio sulla capienza delle sezioni per detenuti che accedono al lavoro all’esterno o in semilibertà e sulla presenza di detenuti che godono di questi benefici. “Si distinguono - sottolinea il garante - gli istituti penitenziari di Ravenna, Castelfranco Emilia e Bologna, con presenze numerose di detenuti in queste condizioni: a Ravenna oltre il 20% dei detenuti definitivi accedono a benefici, mentre a Bologna sono 35 i detenuti e le detenute che tutti i giorni escono dal carcere per lavorare”. Per quanto riguarda, invece, le strutture detentive di Reggio Emilia e Modena, a parere del garante “è necessario un maggiore impegno da parte dell’amministrazione penitenziaria e della Magistratura di sorveglianza per ampliare il numero di reclusi che possono accedere al lavoro esterno”. Augusta (Sr). Detenuto muore in carcere per infarto, dubbi sui soccorsi siracusaoggi.it, 30 agosto 2023 “Un detenuto è morto per arresto cardiaco nel carcere di Augusta, dove scontava l’ergastolo per omicidio”. A segnalarlo è la segreteria provinciale del Sippe, sindacato di polizia penitenziaria. Secondo quanto è stato reso noto, l’uomo avrebbe avvertito un malore, a cui sarebbe seguito l’esito irreparabile. Da verificare se, con soccorsi maggiormente tempestivi, la vittima avrebbe potuto salvarsi. Il sindacato evidenzia, a questo proposito, la carenza importante di organico a disposizione. “Siamo rammaricati - il commento della segreteria provinciale. Pare che in turno, per vigilare 4 sezioni, in quel momento ci fosse un solo agente penitenziario. Ci domandiamo se tutto ciò possa essere ritenuto normale. Adesso è subito caccia all’anello più debole”. Milano. Nel Centro per il recupero dei minori autori di violenza sessuale: “Li aiutiamo a capire ciò che hanno fatto, per non ripeterlo” di Sabina Pignataro La Repubblica, 30 agosto 2023 Il criminologo Paolo Giulini, cofondatore del Centro italiano per la promozione della mediazione: “Il trattamento non cura questi ragazzi: non c’è nulla di patologico in loro. Semmai li portiamo ad avere consapevolezza del reato e a rielaborarlo, per evitare recidive”. “Di fronte all’aumento di minori che agiscono violenza sessuale la forma di intervento più adeguata non è chiuderli in carcere e buttare la chiave, ma sottoporre questi giovani a trattamenti criminologici specifici con l’obiettivo di aiutarli a maturare piena consapevolezza del reato commesso e della sua gravità, e scongiurare il rischio che ripetano il gesto. Peccato, però, che in Italia questi programmi scarseggino”. Lo spiega Paolo Giulini, criminologo clinico, cofondatore del Cipm (Centro italiano per la promozione della mediazione) che ha una trentennale esperienza con gli autori di reati sessuali presso la Casa di reclusione di Milano-Bollate. La messa alla prova - “Da dieci anni il Cipm ha sviluppato una serie interventi dedicati proprio agli adolescenti e ai giovani adulti”. Oggi il gruppo è composto da quindici persone, con un’età che va dai 15 ai 28 anni. La maggior parte di loro è accusato di violenza sessuale su coetanee o famigliari (per lo più verso sorelle); alcuni di adescamento o di detenzione di materiale pedopornografico. “Non tutti quelli che frequentano il nostro gruppo settimanale provengono dal carcere però”, specifica Giulini. “La legge italiana prevede, infatti, che il Giudice possa sospendere il procedimento penale attivando una “messa alla prova”, per valutare l’eventuale cambiamento del minorenne”. Al termine del percorso (che può durare al massimo tre anni) il Giudice deciderà se dichiarare l’estinzione del reato oppure se procedere con il processo. La capacità di recuperare - “La messa alla prova è prevista anche per reati tremendi come l’omicidio e lo stupro: ciò che conta, infatti, non è la gravità del reato quanto capacità del minore di recuperare”. La scelta della terminologia utilizzata dice molto. “Li chiamiamo “giovani autori di violenza” invece di “giovani violenti o maltrattanti” nella convinzione che vi sia la possibilità di lavorare sui comportamenti. Pur riconoscendo che non tutti cambieranno”. A tal proposito Giulini sottolinea che “il trattamento non cura il minore. Non c’è nulla da curare perché nella maggior parte dei casi, all’origine del gesto, non c’è una patologia psichiatrica, una malattia mentale, una incapacità di intendere. Alla base si riscontra piuttosto una fragilità che deriva da un complesso intreccio di aspetti sociali, culturali, relazionali, emotivi e identitari”. Quello con questi giovani è un lavoro che avanza gradualmente. “Spesso all’inizio manifestano meccanismi di difesa, di negazione o di minimizzazione dell’atto commesso, e mancano di empatia nei confronti della vittima, ignorando le ripercussioni che il loro gesto ha, e avrà, sulla traiettoria di vita della ragazza”. Il confronto avviene spesso in un gruppo tra pari. “La maggior parte di loro partecipa alle attività, frequenta gli incontri con i criminologi e gli psicoterapeuti e si affida agli educatori, altri invece non credono di dover cambiare, ma solo di dover prendere parte al percorso per non subire delle conseguenze”. Ad esempio per evitare il carcere. Il rischio di recidiva - Questi trattamenti funzionano? “La valutazione del rischio di recidiva è un obiettivo necessario e al contempo complesso da realizzare. Per avere un dato sulla recidiva dovremmo continuare a seguire i ragazzi una volta terminato il percorso, ma questo non ci è possibile. Dal nostro lavoro trattamentale ventennale con gli autori adulti, comunque, emergono risultati molto incoraggianti. È ormai evidente che limitarsi a punire, senza attivare un trattamento peggiora la situazione. Nel caso specifico del lavoro con i più giovani è dirimente considerare in quale contesto famigliare e sociale avviene il percorso. Se i ragazzi provengono da un nucleo familiare disfunzionale, maltrattante o comunque non adatto a rispondere ai loro bisogni di crescita, viene attivato un trattamento settimanale anche per i genitori”. Il reinserimento sociale - A Milano il Cipm ha avviato anche il progetto “Circolo di Sostegno e Responsabilità”: “tre volontari, formati, supervisionati e in contatto con gli operatori del trattamento - conclude Giulini - si impegnano nella presa in carico e accompagnamento del giovane autore di reato a rischio di recidiva, aiutandolo nei propri bisogni di reinserimento e fornendogli un supporto per parlare delle proprie difficoltà”. Questo intervento si basa sui principi della giustizia riparativa, attraverso cui i partecipanti vengono coinvolti e responsabilizzati nel percorso di reinserimento sociale. “Le valutazioni su questi Circoli, avviati da più di una trentina di anni in Canada hanno dimostrato una drastica diminuzione del tasso di recidiva”. Napoli. La solitudine di don Patriciello di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 30 agosto 2023 Il parroco di Caivano denunciò l’orrore del Parco Verde, dove sono state stuprate ripetutamente due bambine, in un libro tremendo e insieme pieno d’amore, Vangelo dalla terra dei fuochi. Lo ha pubbicato dieci anni fa. “La camorra ha bisogno di “manodopera” come dell’aria. Ha bisogno di braccia giovani, di persone dal curriculum ancor vergine. Ha bisogno di rimpiazzare coloro che vengono arrestati. La camorra sa bene in quale mare andare a pescare i suoi pesciolini. Sa postarsi e attendere la preda con la pazienza del gatto che bracca il topolino. Poi lo adesca, lo ammalia, lo circuisce, lo cattura. Lo fa suo. Lo deruba della libertà, della dignità, della gioia di vivere. Lo rende nemico della sua stessa gente, della sua stessa anima. Lo convince che sta facendo l’unica cosa giusta da fare. Per comprar loro le scarpe. Per mandarli a scuola. Per non farli vergognare davanti agli amici. A lungo andare questi discorsi vengono assimilati, fatti propri. È umiliante, deprimente per tanti genitori non poter far fronte alle esigenze dei propri figli. Non sono riusciti a portarli al mare nemmeno un giorno solo, quest’estate. Non potranno comprar loro lo zainetto con l’occorrente per la scuola che riapre...”. Sono passati dieci anni da quando don Maurizio Patriciello, il parroco di Caivano che ha chiesto a Giorgia Meloni di andare a vedere coi suoi occhi i problemi del Parco Verde, il suo degrado, la sua disperazione, la miseria economica e culturale in cui si è sviluppata l’agghiacciante storia delle due bambine violentate per mesi da un branco di minorenni tra i quali figli di camorristi, denunciò l’orrore in un libro tremendo e insieme pieno d’amore, Vangelo dalla terra dei fuochi. Dieci anni. Durante i quali don Maurizio si è speso quotidianamente, rischiando la pelle, per tentare di recuperare, troppo spesso in drammatica solitudine, quei ragazzi: “Solo il volto imberbe tradisce la loro età. Ragionano, infatti, di pistole, di carcere e di droga come il più navigato dei trafficanti. Sanno tutto. Sanno i rischi che corrono e i soldi che guadagneranno. Sono preziosissimi per chi delinque. Mano d’opera essenziale. Mantengono, nascondono e trasportano le armi. Il killer le avrà solo al momento opportuno. Non può correre il rischio di farsele trovare addosso dalla polizia. Hanno poco più di quindici anni. L’età in cui bisognerebbe passare le giornate sui libri per imparare l’arte di vivere e sperare; sognare e progettare. Invece stanno lì. A disposizione del capo. Aspettano di essere comandati”. Dov’era lo Stato? Dov’era la scuola? Roma. “In cella da innocente, nessuno mi ascoltava. Ora devono pagarla” di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 30 agosto 2023 Parla il turista finito 13 giorni a Rebibbia senza un motivo. Gergo Hetey era a Roma con la futura moglie quando è stato arrestato. In Ungheria aveva subito il furto dei documenti: qualcuno aperto a suo nome società in Italia non versando contributi ai dipendenti. Hetey a sua insaputa è stato indagato, processato e condannato. “Chi visita Roma non si dimentica mai il Colosseo o la basilica di San Pietro, ecco a me invece resterà per sempre impressa la cella del carcere di Rebibbia, non era certo la vacanza che volevo fare”. Scherza Gergo Hetey, turista ungherese di 40 anni. La settimana romantica che avrebbe voluto trascorrere in compagnia della futura moglie si è trasformata in un soggiorno obbligato di 13 giorni a Rebibbia, dal 3 al 16 agosto. Dietro le sbarre da innocente, salvo poi essere liberato. Scarcerato dai giudici della sezione feriale della Corte d’Appello di Milano con questa motivazione: Hetey in Italia è stato processato senza esserne stato mai informato. Una decisione che gli ha permesso di lasciare il carcere ma che non accontenta la vittima di questo blackout giudiziario: “Vogliamo la completa assoluzione, il mio cliente in Ungheria ha subito il furto dei documenti - spiega l’avvocato Massimiliano Scaringella - qualcuno ha utilizzato la sua identità e ha aperto società in Italia non versando contributi ai dipendenti, dopodiché Hetey a sua insaputa è stato indagato, processato e infine condannato a un anno di reclusione senza che le autorità italiane lo abbiano mai informato”. Partiamo dall’inizio, il giorno in cui è arrivato a Roma... “Il due agosto sono arrivato in albergo, la prima volta che ho messo piede in Italia. Io e la mia compagna abbiamo lasciato le nostre valigie in stanza, poi siamo andati a visitare Roma, il Colosseo, il Vittoriano, Fontana di Trevi”. Fin qui tutto bene insomma… “Sì un film romantico, il giorno seguente si è trasformato in horror”. Racconti pure... “Il tre agosto dopo una passeggiata sono rientrato in hotel e ho visto la polizia che mi aspettava fuori dalla camera. Gli ho chiesto cosa volessero da me e loro mi hanno arrestato, ho provato a spiegare in inglese che io non ero quella persona, che ci doveva essere un errore”. E invece? “Invece mi hanno portato in galera, a Rebibbia. La mia fidanzata, era scioccata, io ero distrutto. Pareva uno scherzo ben riuscito, ma non lo era e così mi sono trovato dentro una cella a domandarmi “ma cosa cavolo sta succedendo, cosa ho fatto?”. In carcere è riuscito a parlare con qualcuno per rappresentare le sue motivazioni? “La follia ulteriore è che non riuscivo a parlare con nessuno, da Rebibbia non mi facevano mettere in contatto con i miei parenti o con il consolato, stavo letteralmente uscendo fuori di testa. Mettetevi nei miei panni, vengo in vacanza a Roma e poi mi ritrovo in galera senza poter contattare nemmeno un avvocato. Mi dicevo: “qui passeranno mesi prima che si rendano conto dell’errore”. Poi cosa è accaduto? “Tramite un cappellano del carcere ho saputo che la mia fidanzata era riuscita a mettersi in contatto con l’avvocato Scaringella che poi ha assunto la mia difesa”. A quando risale il furto dei suoi documenti? “Era il 2006, oramai non ricordavo più del furto, ma per fortuna i miei familiari avevano conservato la denuncia. Qualcuno deve aver aperto società a mio nome a Milano. Consideri che io sono venuto per la prima volta in Italia lo scorso tre agosto”. Le accuse che hanno mosso nei suoi confronti a quando risalgono? “Ho scoperto nei giorni scorsi di essere stato indagato nel 2008, e condannato con sentenza definitiva nel 2014”. Ma un atto giudiziario deve esserle stato recapitato? “Mai. Non sarei mai venuto a Roma sapendo di avere una condanna, anche ingiusta, di un anno. Avrei prima incaricato un avvocato affinché risolvesse il caso”. Adesso cosa farà? “L’avvocato Scaringella mi ha spiegato che ho la possibilità di avere un indennizzo, sto riflettendo se procedere o meno. Il trauma che ho vissuto è stato enorme, nessuna somma potrà mai risarcirlo”. Immigrazione, gli errori bipartisan di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 30 agosto 2023 La destra di governo ammonisce la sinistra d’opposizione: non speculateci sopra. La sinistra, memore di quanto la destra ci abbia speculato sopra per anni ha deciso di rendere la pariglia ai rivali. La realtà è quell’intrusa che, pure a ignorarla, non svanisce. Una massima che andrebbe applicata in dosi massicce alle politiche italiane sull’immigrazione. Se esiste una questione da affrontare con approccio bipartisan è proprio la gestione dei flussi e dell’accoglienza. Non tanto per buon cuore, intendiamoci, quanto per buonsenso: perché, se oggi io la strumentalizzerò contro di te dall’opposizione, posso star sicuro che tu la userai contro di me quando sarò io al governo. Conviene? No. Ma siccome le migrazioni sono un argomento (apparentemente) facile da far capire agli elettori, nessuno resiste alla tentazione di brandirlo come una clava. Ciò che sta avvenendo in questi giorni di impennata negli sbarchi, con quota centomila già polverizzata nei primi otto mesi dell’anno e un aumento del 103% rispetto al 2022, dovrebbe tuttavia costituire una potente lezione per leader e partiti. Nella grande storia delle migrazioni umane (avremo un miliardo di sfollati nel mondo entro il 2050, a noi tocca amministrare la nostra quota-parte nel modo meno stupido possibile) i fatti si dimostrano più forti della visione che ne raccontiamo: politicizzarli è il peggior servigio che possiamo fare al Paese. Accade dunque che la destra, cresciuta nei consensi sul mantra dei rimpatri fulminei, dei porti chiusi e del blocco navale, si trovi, ora che è a Palazzo Chigi, di fronte a una crescita di flussi seconda solo all’anno della grande ondata 2016 (181 mila arrivi). E scopra quindi che i rimpatri sono rari e difficoltosi (servono accordi bilaterali, inesistenti), i porti non si possono chiudere (fuor di propaganda, non sono mai stati chiusi davvero) e che il blocco navale sarebbe un autogol (diverrebbe un pull factor, un traino per i barconi dei disperati che punterebbero le nostre navi per farsi salvare, vi spiegherà qualsiasi ammiraglio). Certo, dopo aver promesso mirabilie, è difficile far capire all’opinione pubblica la cruda realtà di un’immigrazione dalla parvenza inarrestabile. Sicché il governo tenta di difendere l’utilità degli accordi con la Tunisia (“funzionano, è in calo la curva della crescita degli sbarchi…”, azzarda un po’ il ministro Piantedosi) e prova ad accentrare tutto, convocando “permanentemente” il Cisr (il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica), anche se è dura immaginare l’uomo del bar che si rasserena ripetendosi “meno male che il Cisr c’è!”. Più in generale, la destra di governo ammonisce la sinistra d’opposizione: non speculateci sopra. Naturalmente, la sinistra, memore di quanto la destra ci abbia speculato sopra per anni accusandola di lassismo quando non addirittura di promuovere la “sostituzione etnica”, ha deciso di rendere la pariglia ai rivali. E, con uno straniante ribaltamento di ruoli, s’è messa a strillare all’emergenza migratoria con toni talvolta vicini al leghismo d’antan, bollando la destra di incapacità. Qui emergono, però, due problemi. Primo: è molto difficile sostenere questa posizione se per anni s’è fatto finta che la questione non esistesse affatto (pur con la virtuosa eccezione di Marco Minniti al Viminale) e si è messo in piedi lo sgangherato sistema d’accoglienza che abbiamo sotto gli occhi, figlio, in gran parte, d’un certo lavorio non sempre cristallino del centrosinistra negli anni Dieci. Secondo: le migrazioni non sono un’emergenza, e la sinistra dovrebbe ben saperlo. Sono strutturali, esistono, sono la realtà di questo tempo in cui il pianeta s’è di botto fatto più piccino; quindi, non è realistico addebitarle alla destra. Sarebbe tempo, insomma, di liberarsi di due atteggiamenti mentali in egual modo nocivi: l’idea messianica del migrante quale portatore di valori che salveranno la nostra deprecabile società occidentale (ergo, “accogliamoli tutti!”) e, per converso, quella millenaristica del migrante quale flagello della nostra civiltà e dei nostri sacri costumi (quindi, “respingiamoli tutti a mare!”). I migranti servono all’Italia, lo dicono gli imprenditori, e bene ha fatto il governo a prevedere un decreto flussi da quasi mezzo milione di lavoratori stranieri in tre anni: una mossa che la sinistra non ha mai avuto il coraggio di fare. Purtroppo, l’incontro tra domanda e offerta è ostacolato da una legge vecchia, controversa e ora più che mai inadeguata, la Bossi-Fini, che andrebbe dunque abrogata con l’accordo di tutti, senza che ciò costituisca un ammainabandiera per nessuno. Anche il recentissimo decreto Cutro, diventato legge sull’onda emotiva delle tragedie in mare, contiene un’inutile foga declaratoria e importanti criticità sui meccanismi di integrazione degli stranieri nel circuito della seconda accoglienza, che andrebbero superati senza che alcuno meni scandalo. Così come va risolta la schizofrenia sulle navi delle Ong, alle quali un giorno si chiede una mano nei salvataggi e il giorno dopo si riserva un trattamento da battelli pirata. Dobbiamo trovare modo di lavorare insieme. Le cronache dall’altra parte del Mediterraneo non sono rassicuranti. Il memorandum con la Tunisia, firmato in pompa magna e presentato come una svolta, non funziona per l’inaffidabilità del nostro presunto partner, il presidente Saied, che con la caccia xenofoba ai subsahariani aggrava fughe e flussi. E gli accordi con la Libia traballano assieme all’incerto destino del premier Dabaiba, che a Tripoli non controlla neanche il cortile di casa. Siamo soli, o quasi. Col trattato di Dublino che ci soffoca. Con l’Europa che da sempre ci usa da hotspot, sorridendoci. Pensate se i leader di maggioranza e opposizione si alzassero in piedi assieme per una volta. E, senza cercare sponde alleate a Bruxelles, parlassero per l’Italia con un’unica voce, senza slogan. Un miraggio? Certo. Ma varrebbe la pena di immaginarlo, quel giorno, per vedere l’effetto che fa. Migranti. Meloni cerca un asse con il Quirinale. Piantedosi: “I servizi segreti facciano di più” di Francesco Olivo La Stampa, 30 agosto 2023 Il coordinamento affidato al sottosegretario Mantovano per evitare le frizioni con il Colle e il mondo cattolico emerse dopo il decreto Cutro. All’opinione pubblica “è difficile spiegare quello che succede”. Ma Giorgia Meloni vorrebbe che almeno al Quirinale e al mondo cattolico le cose arrivassero in maniera più chiara. L’immigrazione è, insieme alla manovra, il tema che toglie il sonno alla premier e come tutte le partite più delicate, a gestire il coordinamento tra i ministri sarà Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con buoni uffici al Colle e non altrettanto fluidi in via Bellerio, sede della Lega che sta tornando a ribollire. Ripensare la gestione dei dossier dei migranti, affidandoli nelle mani di quello che Matteo Salvini percepisce come un avversario, è una maniera per cercare di togliere al leader della Lega uno strumento di propaganda in vista delle Europee. In via della Scrofa si osserva con preoccupazione il ritorno della retorica salviniana sui “decreti sicurezza” e Mantovano cercherà quindi di mettere un argine, attraverso il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr). Dalla Lega però si rifiuta l’idea che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sia stato di fatto commissariato. Anzi, proprio dal Viminale è arrivata nei giorni scorsi la richiesta di un impegno dell’intelligence per cercare di affrontare una situazione ormai fuori controllo, non tanto nel sistema dell’accoglienza, che secondo Piantedosi sta reggendo, ma per cercare di monitorare le partenze. Secondo quanto l’ex prefetto di Roma ha riferito ai suoi colleghi, infatti, soprattutto in Tunisia, serve un maggiore lavoro di analisi per capire chi ci sia dietro al numero di spropositato di imbarcazioni di tutti i tipi che si lanciano verso le coste italiane. Chiedere di coinvolgere al massimo i servizi segreti vuol dire anche chiamare alle proprie responsabilità Palazzo Chigi, e quindi lo stesso Mantovano. Quello che Piantedosi spiega spesso ai suoi interlocutori è che il lavoro del ministero dell’Interno comincia quando le persone arrivano in Italia, mentre la vicenda migratoria, specie nell’accezione che Meloni sottolinea spesso, è molto più ampia e coinvolge necessariamente diplomazia e servizi segreti. Nel governo, per il momento, nessuno mette in discussione la bontà degli accordi firmati dalla premier e dall’Unione europea con il regime di Kais Saied, ma i risultati non si vedono e il negoziato tra Tunisia e Fondo monetario, decisivo per le sorti dello Stato nordafricano, non sembra sbloccarsi, nonostante le insistenze italiane. I numeri degli sbarchi sono quelli che sono e nemmeno i più entusiasti tifosi del governo possono sperare che basti il nuovo provvedimento per attenuare la portata di un fenomeno che la destra aveva promesso di affrontare con il pugno di ferro. Meloni ne ha parlato ieri al telefono con lo stesso Saied: il punto, ha poi spiegato Palazzo Chigi, sono le relazioni bilaterali e la gestione dei flussi migratori. L’emergenza continua, bisogna aumentare gli sforzi nella lotta contro la migrazione illegale. Meloni ha assicurato alla Tunisia che il sostegno italiano, anche in Europa, non verrà meno. L’auspicio della premier è che il prossimo decreto, che dovrebbe intervenire sulle espulsioni, abbia una vita meno travagliata di quello approvato nel Consiglio dei ministri straordinario a Cutro e poi ritoccato per lunghi giorni, dopo una complessa interlocuzione con il Quirinale sul tema della protezione speciale dei migranti. La vicenda del decreto nato sulle coste calabresi è proseguita per altri due mesi e anche la conversione parlamentare fu oggetto di una trattativa molto tesa, con la Lega che spinse fino all’ultimo minuto per reintrodurre molti elementi dei decreti sicurezza, fiore all’occhiello dell’età dell’oro di Salvini ministro dell’Interno. Proprio per evitare quel tipo di contrasti, che Meloni non vuole in nessun modo provocare, la partita è stata affidata a Mantovano, che notoriamente ha un rapporto cordiale e privilegiato con il Colle, ma anche con il mondo cattolico che non vede di buon occhio la linea dura sull’immigrazione. Migranti minorenni in aumento, accoglienza concentrata al Sud di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 agosto 2023 Dalla “disponibilità zero” registrata dall’ultimo bando in Emilia all’affollamento nel Mezzogiorno: per i ragazzi non accompagnati la protezione sociale non è uniforme. L’emissione di un avviso pubblico da parte della Prefettura di Reggio Emilia, lo scorso 21 luglio, finalizzato a trovare 30 posti nella provincia per l’accoglienza di altrettanti migranti stranieri non accompagnati, ha visto un’esigua risposta da parte degli interessati. Al termine del periodo di presentazione delle manifestazioni di interesse il 10 agosto scorso, nessuna offerta è stata pervenuta, portando a dichiarare che la procedura è risultata deserta. Questa situazione evidenzia le sfide che l’Italia sta affrontando nell’accoglienza dei minori migranti non accompagnati (MSNA) che, come vedremo, presenta un enorme disparità tra Nord e Sud Italia. Attualmente, la provincia di Reggio Emilia ospita circa 1.400 migranti, di cui 200 sono minori, che sono distribuiti in varie strutture seguendo il modello ‘ diffuso’. Tuttavia, con soli 260 alloggi disponibili, la capacità di accoglienza risulta limitata. Di fronte al costante flusso di arrivi, la Prefettura aveva persino valutato la possibilità di coinvolgere hotel nelle operazioni di accoglienza. L’avviso pubblico prevedeva specifiche condizioni per le strutture destinate ai minori, tra cui la presenza di personale di sorveglianza, medici e psicologi, nonché lezioni di italiano. Il periodo di affidamento dei minori doveva estendersi dal primo settembre successivo al 31 agosto 2024. Il prezzo a base d’asta per l’accoglienza era fissato a 54,73 euro al giorno per persona, esclusa l’Iva, con un ulteriore costo di 0,027 euro al giorno per ciascun minore per la scheda telefonica e 2,50 euro al giorno per il pocket money, costi non soggetti a ribasso. Questi sforzi di accoglienza si inseriscono in un contesto più ampio, dove si stima che al 30 giugno 2023, in Italia sono registrati ben 20.926 MSNA, una cifra che getta luce su una realtà che richiede attenzione e soluzioni a lungo termine. Come si evince dal sito governativo “integrazionemigranti” - i minori censiti nell’ultimo aggiornamento sono in maggioranza maschi (86,6%) e hanno per la maggior parte 17 (44,7%), 16 (24,7%) e 15 anni (12,1%); arrivano soprattutto da Egitto (5.341 minori), Ucraina (4.512), Tunisia (1.781), Guinea (1.174) e Albania (1.137) Due fasi per l’accoglienza dei Msna - L’approccio all’accoglienza dei MSNA è strutturato in due fasi consecutive. La prima fase è incentrata sulla protezione e l’identificazione. Questa fase iniziale è gestita dallo Stato, che si occupa anche dell’accertamento dell’età, dell’assistenza medica e psicosociale e del rintracciamento dei familiari. Secondo i dati pubblicati nel rapporto Sai, alla fine del 2021, oltre 3.800 minori stranieri erano accolti in strutture di prima accoglienza, rappresentando quasi un terzo dei 12.000 MSNA presenti in Italia a quella data. La seconda fase si svolge nelle strutture di seconda accoglienza, inserite nel sistema di accoglienza e integrazione (Sai). Queste strutture sono finanziate dal Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, insieme ai centri finanziati con risorse del Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami). Qui, i minori ricevono assistenza continua e vengono inclusi in progetti integrati per garantire loro il diritto alla salute e all’istruzione, nonché un trattamento paritario rispetto ai coetanei italiani e dell’Unione europea. accoglienza nel sud: Crescita dei Posti Una delle sfide più rilevanti nell’accoglienza dei MSNA è la necessità di posti sufficienti nelle strutture adeguate. La rete di accoglienza è stata notevolmente potenziata negli anni recenti, con 239 progetti Sai attivati dagli enti locali alla fine del 2021. Questi progetti hanno reso disponibili complessivamente 6.683 posti attivi per i MSNA, rappresentando un aumento significativo rispetto agli anni precedenti. Tra il 2016 e il 2021, il numero di posti disponibili è aumentato del 228%, un segno tangibile dell’impegno crescente nell’affrontare questa sfida umanitaria. Tuttavia, come elaborato da Openpolis attraverso la fonte “Centri d’Italia”, la distribuzione geografica dei posti evidenzia una concentrazione maggiore nel sud dell’Italia, in particolare in regioni come la Sicilia, la Campania e la Puglia. Questo concentrarsi dei posti nell’area meridionale è stato identificato come un punto critico, in quanto non rispecchia l’incidenza dei minori stranieri sul totale degli sbarcati. L’arrivo disomogeneo di MSNA richiede un’attenta riflessione sulle politiche di accoglienza e una maggiore distribuzione equa dei posti disponibili. Mancanza di una risposta adeguata - L’esperienza dei MSNA è profondamente complessa, influenzata da fattori come la pandemia di Covid-19 e le crisi internazionali in corso. Nel 2020, l’emergenza sanitaria ha creato ulteriori difficoltà nell’accoglienza, costringendo i minori a adattarsi a una nuova situazione e gestendo la mancanza di spazi e opportunità. La condizione di vulnerabilità dei MSNA è accentuata dall’assenza di una figura genitoriale di riferimento, che rende essenziale l’assistenza e l’integrazione a tutti i livelli. L’accoglienza e l’integrazione dei MSNA richiedono una governance condivisa del sistema, come evidenziato dal consolidamento della rete Sai. Questo approccio multilivello si estende dalla prima accoglienza all’inclusione scolastica, dall’accesso ai servizi alla tutela delle fragilità. Nel perseguire questa missione, è fondamentale affrontare le sfide in corso, come la distribuzione disomogenea dei posti e la necessità di risorse adeguate per garantire un futuro sicuro e prospero per tutti i minori stranieri non accompagnati che cercano rifugio in Italia. Il sistema di accoglienza per i minori migranti non accompagnati si articola in diverse fasi. Inizialmente, i minori vengono accolti in strutture dedicate per le esigenze immediate di soccorso e protezione. Successivamente, vengono ospitati in strutture di seconda accoglienza, parte del sistema di accoglienza e integrazione (SAI), che garantisce loro servizi e supporto. Nel 2021, erano attivi 239 progetti SAI con 6.683 posti, distribuiti soprattutto nelle regioni meridionali. Tuttavia, la distribuzione delle risorse non è uniforme su tutto il territorio italiano, con una maggiore concentrazione di progetti e posti disponibili nel Sud. Questo aspetto ha portato ad una riflessione sulla necessità di una governance condivisa del sistema di accoglienza per i minori migranti non accompagnati, al fine di garantire una risposta adeguata alle loro esigenze. In conclusione, l’accoglienza dei minori migranti non accompagnati in Italia presenta sfide e complessità che richiedono un approccio multifase e multilivello. La situazione attuale mette in evidenza la necessità di un impegno costante per garantire loro diritti, protezione e opportunità di inclusione. Migranti. Oltre 1.500 chilometri con qualsiasi mezzo: è la rotta balcanica la “nuova” emergenza di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 30 agosto 2023 Più di 5.500 gli ingressi. Nel Nord centri pieni. I clandestini attraversano a piedi le montagne del Carso per arrivare a Trieste. Già nell’agosto dello scorso anno il Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) a Gradisca d’Isonzo (Udine) registrava un sovraffollamento di 600 persone rispetto alle 200 previste, in una struttura che ospita anche il Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr). Per risolvere la situazione fu deciso di dimezzare le presenze: l’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese dispose il trasferimento di 300 ospiti in centri di accoglienza nel Friuli-Venezia Giulia e in altre regioni. Dodici mesi dopo, come riportano anche le associazioni umanitarie - e nonostante le richieste bipartisan al Viminale del Consiglio comunale di Gradisca di chiudere la struttura dopo gravi episodi di violenza - si è ripresentato lo stesso scenario, ma con un’emergenza sbarchi sulle coste siciliane senza precedenti che ha, di riflesso, paralizzato il turn over al Cara. Niente ricambi, quindi, almeno per ora, soprattutto per l’intasamento dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) in tutta Italia dove vengono accompagnati in via prioritaria i profughi dal Mediterraneo. Problemi che si ripetono, ma questa volta con molti più migranti (oltre 500) accampati a Trieste e le reiterate proteste del sindaco Roberto Dipiazza. Profughi “diversi” - L’attuale responsabile del Viminale Matteo Piantedosi, che già nei mesi scorsi aveva lanciato l’allarme sull’aumento di arrivi dai Balcani ordinando un potenziamento di controlli anche con le autorità slovene nelle province di Trieste e Gorizia e, oltre confine, di Koper e Nova Gorica (in base all’accordo del 2019) ha ordinato l’immediato trasferimento di 200 profughi proprio nei Cas. Un provvedimento che potrebbe cominciare a mettere la rotta balcanica sullo stesso piano di quella mediterranea sul fronte dell’accoglienza. Anche perché il viaggio dei disperati (oltre 128 mila passaggi nel 2022) di oltre 1.500 chilometri, con qualsiasi mezzo, a rischio della vita fra violenze, malattie e hotspot finiti al centro di polemiche per maltrattamenti e precarie condizioni igienico-sanitarie, è un nuovo motivo di tensione. Passeur clandestini - D’altra parte dall’inizio del 2023, secondo il Viminale, sono già oltre 5.500 i migranti arrivati in Italia dopo essere passati per Turchia e Grecia, Albania, Montenegro, Kosovo, Serbia e Bosnia Erzegovina, anche se i numeri potrebbero essere più alti: i clandestini attraversano a piedi le montagne del Carso, seguendo passaggi come quello di Razglediš?e Kroglje (Vedetta di Crogole), questa volta per arrivare a Trieste. Per individuare sia loro sia i trafficanti sono state piazzate anche telecamere nei boschi. Per avere un’idea di quello che sta accadendo basta guardare i dati di quest’anno: prima di Ferragosto dal confine con la Slovenia erano arrivati 4.850 profughi, il 65% dei quali da Bangladesh e Afghanistan, +57% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Addirittura a giugno la percentuale era +178%. Trend in aumento - Insomma, così come sta avvenendo per la rotta mediterranea, che ieri ha superato quota 113 mila arrivi nel 2023 rispetto ai 105.127 di tutto il 2022, anche su quella dai Balcani si annuncia un trend in sensibile aumento, dato che l’anno scorso le persone identificate dopo il loro arrivo in Friuli-Venezia Giulia sono state 9.476 arrivi (nel 2021 furono 5.736). Si tratta della quota più ampia di migranti rintracciati alle frontiere nazionali terrestri che al momento sono oltre 12 mila, con circa 4 mila uscite verso la Svizzera. Addirittura peggiore lo scenario sugli arrivi dei Balcani frutto del monitoraggio svolto da gennaio a luglio scorsi da alcune associazioni e mediatori culturali (Comunità san Martino al campo, Diaconia valdese, International rescue committee e altre): i migranti intervistati sono stati 7.890 rispetto ai 3.191 dell’anno scorso. Quasi tutti uomini (92%), il 16% minorenni. Sette su dieci afghani, poi pachistani, bengalesi, nepalesi, curdi. Il 72% ha dichiarato di non voler rimanere in Italia, ma di essere solo di passaggio. Ma se fossero inseriti nelle quote dei flussi le loro intenzioni potrebbero cambiare. Bahrain. Detenuti politici attuano lo sciopero della fame di Michele Giorgio Il Manifesto, 30 agosto 2023 La protesta è scattata per le terribili condizioni di vita nelle carceri speciali. Digiuna anche Abdulhadi al Khawaja, noto attivista dei diritti umani condannato all’ergastolo. Oltre 800 prigionieri politici, tra cui il noto difensore dei diritti umani Abdulhadi al-Khawaja, gravemente ammalato, continuano lo sciopero della fame cominciato 23 giorni fa nel carcere di massima sicurezza di Jau e in altri centri di detenzione del Bahrain. Non ha dato risultati l’incontro che lunedì il ministro degli Interni, Rashid bin Abdullah Al Khalifa, ha avuto con i rappresentanti dei detenuti. I centri per i diritti umani denunciano che i prigionieri - molti in carcere dalla Primavera araba del 2011 - sono confinati nelle loro celle 23 ore al giorno, senza cure mediche e senza accesso all’istruzione, in condizioni disumane. Secondo l’attivista Maryam al-Khawaja, figlia di Abdulhadi, gli alleati occidentali del Bahrein, compresi gli Stati Uniti, hanno a lungo trascurato le violazioni dei diritti umani nel paese, consentendo di fatto il verificarsi di tali abusi. “Non saremmo dove siamo se il governo non ricevesse il tipo di sostegno che ha dall’Occidente. È come se fosse in grado di evitare qualsiasi tipo di responsabilità internazionale per i crimini che commette”, afferma. Maryam al Khawaja ricorda che nel 2011 suo padre fu picchiato fino a perdere i sensi davanti a lei e alla sua famiglia quando è stato arrestato. La rivolta del 2011 è avvenuta mentre la famiglia al-Khawaja viveva in Bahrain, dove era rientrata nel 2001 dopo un periodo di esilio in Danimarca. Poterono tornare perché il governo aveva concesso un’amnistia generale, liberando tutti i prigionieri politici e favorendo così il ritorno di molti esuli. Poi sono dovuti fuggire di nuovo. L’attivista spera in un’altra amnistia generale perché teme che suo padre possa morire in carcere.