Nelle carceri si muore di caldo ma nessuno se ne preoccupa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 agosto 2023 In carcere, non esiste l’aria condizionata e le finestre sono spesso schermate, non consentendo un adeguato passaggio d’aria. In molti istituti, le docce non sono all’interno delle celle, e in alcuni manca persino l’acqua in diverse ore della giornata. Il sovraffollamento aggrava la situazione e per coloro che soffrono di patologie particolari, il danno è maggiore. Senza dimenticare che durante il periodo estivo cresce l’incidenza dei suicidi. Quest’anno, ricordiamo, siamo già arrivati a 39 detenuti che hanno perso la vita in questo modo, rischiando di superare il record di 84 casi registrati l’anno scorso. Ogni estate si ripresenta il problema, ma quest’anno l’ondata di caldo eccezionale peggiora la situazione. I detenuti vivono in celle sovraffollate, rimanendo fermi per lunghe ore nelle loro brande, aspettando che un filo d’aria entri dalle finestre. La maggior parte delle celle (7 su 10) non ha una doccia, e nella migliore delle ipotesi, alcuni detenuti possono rinfrescarsi immergendo i piedi in secchi di acqua fredda. I ventilatori sono pochi o, in alcuni casi, del tutto assenti. In alcune carceri, anche se qualcuno ne possiede, non possono accenderli perché l’impianto elettrico non regge. Inoltre, come denunciato recentemente da Irene Testa, garante delle persone private della libertà della regione Sardegna e tesoriera del Partito Radicale, i ventilatori consentiti dall’amministrazione costano 40 euro, quasi il doppio del prezzo esterno, rendendoli inaccessibili per la maggior parte dei detenuti. Gli spazi esterni sono per lo più in cemento armato, dove è impossibile trovare un po’ d’ombra. In queste condizioni si trovano anche le donne incinte (ad esempio, c’è il caso di una donna reclusa nel carcere di Uta, in Sardegna, in gravidanza da 8 mesi, come denuncia Maria Grazia Caligaris dell’associazione ‘ Socialismo Diritti Riforme’), le persone con disagio mentale (che sono tra le più a rischio durante il grande caldo) e i bambini ospitati in carcere insieme alle loro mamme. Ma va sottolineato che anche gli agenti penitenziari sono gravemente colpiti dalla situazione. Si corre il reale rischio di logoramento psicologico e malessere lavorativo, il che aumenta ulteriormente i disagi e le tensioni. Solo la settimana scorsa, nel carcere siciliano di San Cataldo, i detenuti hanno protestato a causa del caldo intenso, aggiungendo anche il problema di alcune lamiere che ostruiscono le finestre delle celle. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per ora, sembra non intervenire. L’ultima circolare che ha ordinato interventi concreti, purtroppo rimasta inevasa, risale al 2017, a firma dell’allora capo Santi Consolo. La circolare chiedeva di prevedere una diversa modulazione degli orari dei passeggi per evitare che le persone siano all’aria aperta nelle ore più calde della giornata, assicurare e implementare la funzionalità, nei cortili di passeggio, dei punti idrici a getto e nebulizzatori, realizzare, laddove possibile, aree ombreggiate e, dove c’è una oggettiva carenza di acqua (come in alcune carceri che presentano queste gravi problematiche), di prevedere la fornitura ai detenuti di acqua potabile in bottiglia e di taniche in ogni stanza da utilizzare come riserva in caso di improvvisa mancanza di acqua. La circolare richiedeva anche la riformulazione dei menù giornalieri per prevedere la disponibilità degli alimenti consigliati durante la stagione estiva e, soprattutto, assicurare l’apertura delle finestre delle celle durante le ore notturne per favorire il circolo dell’aria. Inoltre, nel lontano 2017, il Dap chiese di sensibilizzare l’area sanitaria. E qui si trova, infatti, un problema. C’è di fatto un quasi totale disinteresse dell’amministrazione sanitaria, sia a livello centrale che locale, come se le ondate di calore non avessero alcun impatto sulla salute della popolazione detenuta o che lavora nel carcere. Come se il carcere non facesse parte del territorio su cui operare per prevenire i rischi legati al grande caldo. Tuttavia, la riforma del 2008 aveva sancito il passaggio delle competenze in materia di tutela della salute delle persone detenute dalla Giustizia alla Sanità. Forse è il caso che intervenga anche il ministro della Salute, oltre al ministro della Giustizia. Case di reinserimento sociale al posto del carcere per pene brevi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 agosto 2023 Proposta di legge di Riccardo Magi su impulso del Garante del Lazio Stefano Anastasìa. Nell’ambito di una proposta di riforma dell’ordinamento penitenziario, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, ha presentato un’interessante iniziativa: l’istituzione di case territoriali di reinserimento sociale per i condannati a pene brevi o brevissime. La proposta, originariamente concepita dal magistrato Alessandro Margara, autore della riforma penitenziaria e della legge Gozzini, è ora diventata una proposta di legge ad hoc, con il primo firmatario il deputato di Più Europa, Riccardo Magi. L’obiettivo delle case di reintegrazione sociale è quello di fornire un’alternativa al carcere per i detenuti con pene inferiori a un anno. Stefano Anastasìa ha evidenziato che molti enti territoriali hanno già affrontato la questione dell’housing per le persone in esecuzione penale che non avrebbero motivo di rimanere in istituti penitenziari. Ci sono state anche esperienze tradizionali nel passato di enti locali che si sono impegnati nell’accoglienza di persone in esecuzione penale. Nel Lazio, ad esempio, al 30 giugno erano detenute 225 persone con pene inferiori a un anno e 987 con un residuo pena inferiore a un anno. Questi numeri dimostrano quanto sia necessario trovare soluzioni adeguate per pene così brevi. La proposta di Anastasìa si concentra sulle risorse disponibili, come spazi, personale e strutture, con l’obiettivo di creare case dedicate alle persone con pene brevi. Tali strutture potrebbero essere gestite dagli enti locali o dal demanio, e fornire servizi di base che non comportano costi elevati, o che possono essere realizzati grazie al volontariato. L’idea delle case di reintegrazione sociale rappresenta un approccio innovativo e umanitario nel trattamento delle persone condannate a pene brevi. Queste strutture potrebbero consentire un adeguato processo di reinserimento sociale, favorendo una maggiore riabilitazione dei detenuti e riducendo il rischio di recidiva. Stefano Anastasìa ha incoraggiato gli enti locali a lavorare su proposte simili, ipotizzando delibere locali e leggi regionali che favoriscano la creazione di queste strutture. Questo percorso di sperimentazione a livello territoriale potrebbe portare a una futura iniziativa legislativa nazionale. La proposta delle case territoriali di reinserimento sociale rappresenta un importante passo avanti nel riconsiderare il modo in cui affrontiamo il tema della pena e della rieducazione dei condannati. Sperimentando questa modalità, potremmo aprire la strada a un sistema che, almeno per chi è detenuto per pene brevi, il carcere può benissimo essere superato. Garante detenuti, l’appello di Avs: “La nomina rispetti i criteri di legge” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 agosto 2023 “La nomina del Garante dei detenuti rispetti i criteri di legge e garantisca la rappresentanza di genere”: è questo l’appello lanciato a Nordio da Devis Dori, capogruppo Avs in commissione Giustizia e Luana Zanella, presidente di Avs alla Camera. Sul tema i parlamentari hanno presentato anche una interrogazione. Chissà se ci sarà il tempo di rispondere, considerato che tra il Cdm di domani e quello di lunedì il Guardasigilli potrebbe portare sul tavolo la terna che avrebbe scelto: Felice Maurizio D’Ettore, in qualità di presidente del Collegio e attualmente professore ordinario di diritto privato a Firenze, affiancato da Mario Serio, Professore ordinario di Diritto privato comparato nell’Università di Palermo e da Carmine Antonio Esposito, ex presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli ora a riposo. “Le indiscrezioni - scrivono i due parlamentari - ci sorprendono, tanto più che la legge istitutiva dell’Ufficio del Garante sancisce che la scelta debba ricadere su “persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti alla tutela dei diritti umani”. L’assenza di un rapporto in atto di pubblico impiego (riferito a D’Ettore, ndr) è un requisito preliminare alla selezione, dovendo essere il collegio indipendente sul piano giuridico. Chiediamo conto al ministro Nordio di tutto ciò e, soprattutto, di come intenda garantire un’adeguata rappresentanza di genere”. Effettivamente con l’escamotage della quota rosa, il ministro della Giustizia potrebbe modificare la terna che Repubblica ha reso nota e farvi entrare Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, che meriterebbe quel posto a prescindere dal genere. In realtà era già stata scelta - tramite una email ricevuta dopo un colloquio col capo di Gabinetto Rizzo - ma poi un’altra email aveva annullato la precedente. Salute mentale e carcere, cosa ci insegna il caso di Luca Delfino di Massimo Cozza* La Repubblica, 2 agosto 2023 Questo episodio di cronaca, dopo l’omicidio della psichiatra Barbara Capovani da parte di un suo ex paziente, e altri episodi di violenza all’interno delle carceri, pone all’attenzione dell’opinione pubblica il tema del rapporto tra salute mentale e giustizia. La storia di Luca Delfino condannato a quasi 17 anni di carcere per l’omicidio dell’ex fidanzata Antonella Multari, e da qualche giorno entrato nella Residenza per le Misure di Sicurezza (Rems) di Genova Prà, sta destando interesse da parte dei mass media. Ancor più dopo l’intervista del suo avvocato che ha affermato che durante il periodo carcerario non gli sarebbe mai stata data, somministrata o proposta alcuna cura. Il vizio parziale di mente - Luca Delfino, nonostante l’omicidio, è stato in carcere per un periodo limitato di tempo, in quanto all’epoca del processo gli è stato riconosciuto il vizio parziale di mente, previsto dall’art. 89 del codice penale del 1930. Durante i lavori peritali gli sarebbe stato diagnosticato un grave disturbo della personalità con tratti borderline, narcisistici, paranoidei, antisociali e sadici. La chiusura degli OPG e il ruolo delle REMS - Essendo stato riconosciuto socialmente pericoloso, scontata la pena in carcere, era prevista la misura di sicurezza detentiva in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Ma gli OPG con la legge 81 del 2014 giustamente sono stati definitivamente chiusi. Pertanto c’è stato l’ingresso in REMS, una struttura ad esclusiva gestione sanitaria interna con un massimo di venti posti, con la previsione di una attività di sicurezza e di vigilanza esterna perimetrale. L’omicidio di Barbara Capovani - Questo episodio di cronaca, dopo l’omicidio della psichiatra Barbara Capovani da parte di un suo ex paziente, e altri episodi di violenza all’interno delle carceri, pone all’attenzione dell’opinione pubblica il tema del rapporto tra salute mentale e giustizia. In primo luogo c’è bisogno di investire nella tutela della salute mentale in carcere, in termini di umanizzazione, ambienti, formazione e risorse professionali con una maggiore sinergia tra operatori della giustizia e sanitari. Andrebbe promosso un piano nazionale con la partecipazione di tutti gli attori, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria alla Sanità e dalla Magistratura, con la consapevolezza della necessità di maggiori investimenti non solo di risorse ma anche culturali. Ma va anche registrato che negli ultimi anni abbiamo assistito ad un aumento delle persone giudicate non imputabili per infermità mentale, con una lista di attesa per le REMS. D’altro canto sono aumentate anche le persone che commettono reati, non destinate alle Rems, in carico ai Dipartimento di Salute Mentale (DSM) della ASL, già con risorse carenti e aumentando le loro criticità, su indicazione della Magistratura in alternativa al carcere, più con disturbi di personalità con problemi di dipendenza che con gravi patologie psichiatriche. Senza dimenticare la presenza di una lista di attesa di centinaia di persone con misure di sicurezza detentive, con alcune che, in attesa di essere inserite nelle Rems, rimangono in carcere, e per le quali l’Italia è stata già condannata dalla Corte Europea. Più in generale è sempre maggiore la tendenza ad assegnare alla psichiatria compiti di controllo sociale, di custodia piuttosto che di cura. Gli atti di violenza sono spesso attribuiti al disturbo psichiatrico, anche quando rientrano nell’ambito delle componenti costitutive dell’essere umano, che si possono manifestare per una molteplicità di cause sociali, culturali, storiche, educative ed ambientali. Cosa possono fare la politica e le istituzioni - Una parte di queste criticità sono già state evidenziate dalla Corte Costituzionale nella sentenza 22 del 2022, e adesso sembra che la politica e le istituzioni abbiano intenzione di affrontare questa problematica, con progetti di legge e con la recente costituzione di un tavolo tecnico presso il ministero della Salute, in collaborazione con il ministero della Giustizia. Si tratta di un tema complesso, che parte dal carcere ma che intreccia il diritto alle cure con il diritto alla sicurezza, per il quale vanno cercate le migliori soluzioni possibili ma senza ritornare al passato degli OPG. *Psichiatra, Direttore Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 2 In carcere senza colpe: la realtà dei bambini detenuti di Anna Catalano e Chiara Gargioli Donna Moderna, 2 agosto 2023 Un’infanzia dietro le sbarre insieme alle madri detenute. La racconta una fotografa che lancia l’appello perché ai bambini venga restituito il diritto di essere liberi. “Per gli errori dei genitori non devono pagare i bambini”. È netta la posizione di nonna Marta, nome di fantasia, che vive con i nipoti mentre la figlia sta scontando la sua pena. “Gli Icam (Istituti di custodia attenuata per le detenute madri) non sono una casa. Mia nipote ha vissuto 3 anni con la mamma e mi aspettava guardando dalla finestra della sua stanza che aveva le sbarre, perché un Icam è un carcere, dove si è controllati e a volte anche perquisiti. Le sembra comparabile ai posti dove crescono i bambini che non hanno genitori detenuti?”. Bambini figli di detenuti: i dati e il codice penale - Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 marzo 2023, sono 28 i bambini che vivono in carcere insieme alle loro mamme, che sono 25 in tutto. Dati in aumento rispetto a gennaio, quando i bambini erano 17 e le mamme 15. Ma partiamo dalla legge e da quell’art. 146 del Codice penale che regolamenta la questione delle detenute madri e dei minori prevedendo il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne incinte, per le madri che hanno un figlio di età inferiore a 1 anno, e per coloro che sono affetti da Aids conclamato o da altra malattia grave. Nel 1975 arriva la legge 354: l’articolo 11 prevede che le detenute madri possano tenere con loro, quindi in carcere, i figli fino a 3 anni. Poi nel 2011, un altro passaggio: la legge 62 modifica la precedente prevedendo che alle madri con figli di età non superiore ai 6 anni, conviventi, non venga applicata la custodia cautelare in carcere, salvo esigenze di eccezionale rilevanza. E aggiunge che il giudice possa disporre la custodia presso un Icam. Dunque, l’Icam aspira a essere un ambiente più accogliente per i bambini cercando, in questo modo, di evitare loro traumi importanti negli anni più cruciali della crescita. Una realtà di discriminazioni e solitudine - Ma è davvero così? Stando alle parole di nonna Marta, no: “Si tratta di grand hotel per chi non ha nulla fuori, ma per gli altri, per chi ha una casa e una famiglia, sono in tutto e per tutto una galera”. Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza nonché firmataria della “Carta dei diritti, dei figli e dei genitori detenuti”, ricorda: “L’articolo 3 della nostra Costituzione recita il diritto di eguaglianza: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”. E secondo voi i bambini che crescono in carcere e quelli che crescono in una casa sono uguali? Nel nostro Paese si prendono scelte “adultocentriche”. Nel caso specifico, si pensa che chi deve scontare la pena debba stare in carcere e quindi i diritti dei bambini figli di detenuti diventano secondari”. In molte carceri oggi esistono le sezioni nido, luoghi appositi per le mamme con bimbi che non hanno raggiunto i 3 anni, di solito dotati di una cucina in comune, se possibile al piano terra, vicino a degli spazi verdi, per consentire ai piccoli di giocare all’aperto. Non tutti gli istituti sono uguali - Ma i bambini detenuti all’interno del carcere sono di fatto privati della completa libertà. In Italia gli Icam sono 5: Milano (San Vittore) Venezia (Giudecca), Torino (Lorusso-Cutugno), Avellino (Lauro), e Cagliari (Senorbì), quest’ultimo però non è stato mai utilizzato. Quello di Milano è stato aperto nel 2006, come sezione nido distaccata del carcere di San Vittore, e sorge in una sede, esterna all’istituto penitenziario con sistemi di sicurezza diversi da quelli di un carcere. “Per noi la prima cosa è l’attenzione al bambino, che deve vivere il più possibile fuori dal carcere. Nel nostro Icam le sbarre e i cancelli presenti, sono simili a quelli di tanti condomini”. A parlare è Marianna Grimaldi, funzionario giuridico e pedagogico del ministero della Giustizia e coordinatrice dello staff socio-educativo dell’Icam di Milano. “Siamo nati in tempi in cui tutto era più possibile. Non siamo i migliori, siamo stati solo più fortunati perché abbiamo potuto sperimentare, grazie anche alla realtà territoriale che ha accolto questa sfida. La nostra struttura opera su due sistemi binari: quello del bambino, di cui è responsabile il Comune di Milano, e quello della mamma, di cui è responsabile il ministero di Giustizia. L’Icam non è il paradiso. Le nostre detenute devono lavorare, assumersi la responsabilità di crescere i loro figli, di nutrirli, pulirli, e, quando necessario e concesso, anche di accompagnarli a scuola”. L’importanza dell’integrazione - Uno dei punti cruciali degli Icam è che ciascuno dipende dalla territorialità in cui si trova. Ci sono linee guida generali, ma ogni istituto stabilisce un regolamento interno, che può essere molto diverso da quello degli altri. “Quando mia nipote abitava con la mamma a Lauro, era la prima a essere presa con il pulmino e l’ultima a essere lasciata al ritorno per evitare che gli altri bambini vedessero dove viveva. Il primo giorno di scuola, quando le maestre le hanno chiesto di presentarsi e rispondere alla domanda “Da dove vieni?”, lei ha detto: “Dal carcere”, come a togliersi un peso e poi, tornata a stare con me, non ha mai più voluto parlare dell’Icam”. Nonna Marta è addolorata, perché lo stigma del carcere è quello che più grava sui suoi nipoti. “La mia è una famiglia perbene eppure a mio nipote hanno detto che è un ragazzo abbandonato e lui ci è rimasto malissimo”. Uno stigma che potrebbe essere abbattuto facilmente come è successo a Milano, nella zona dove è sorto l’Icam. “Tutto il quartiere ha accolto questi bambini” spiega Grimaldi. “E, grazie all’interessamento del Comune, abbiamo 4 educatori che quotidianamente supportano le mamme nel loro ruolo genitoriale se ne hanno bisogno. Qui i bambini non nascondono da dove vengono, perché gli abbiamo insegnato che non hanno colpe. Le donne possono partecipare, alle recite di Natale e di fine anno e vengono accolte dalle altre mamme senza pregiudizio”. Un’alternativa: le case famiglia protette - Al centro del dibattito politico adesso ci sono le case famiglia protette. A oggi sono due: quella milanese gestita dall’Associazione C.I.A.O. e quella romana “Casa di Leda”, gestita da una cooperativa e varie associazioni. Si tratta di abitazioni private in cui una madre detenuta, con figlio minore di 6 anni e senza un’abitazione propria, può vivere agli arresti domiciliari durante il processo o scontare la pena a seguito di una condanna, così come previsto dalla legge 62/2011. Un disegno di legge presentato dall’ex deputato Pd Paolo Siani puntava a potenziare il ricorso a queste case famiglia protette. Proponeva l’abrogazione della disposizione in base alla quale debbano essere istituite “senza oneri per lo Stato”, perché questa è una limitazione che ha impedito la loro diffusione in tutto il Paese e ha quindi contribuito alla presenza di bambini detenuti. “Nel 2020 feci approvare l’emendamento alla Legge di Bilancio. Prevedeva 1 milione e mezzo ogni anno per 3 anni su territorio nazionale” racconta lo stesso Siani. Il decreto è stato largamente votato nel maggio 2021, ma il 23 marzo di quest’anno è stato ritirato perché gli emendamenti avanzati dalla maggioranza lo avrebbero snaturato in modo evidente. Un futuro che preoccupa - “La mancata approvazione del disegno di legge Siani è stata un’occasione persa. Ciò che più mi spaventa è che i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza siano strumentalizzati dallo scontro politico tra partiti contrapposti” commenta Carla Garlatti. “Occorre pensare alla sostanza dei problemi e considerare i diritti un argomento trasversale che vada oltre gli schieramenti”. Come dire che al centro dovrebbero esserci soltanto i minori e quello che è giusto garantire per loro e per la loro crescita. Al momento non è così, dato che la Lega ha presentato un nuovo testo per cancellare il differimento automatico della pena per le donne incinte e con i figli di età inferiore a 1 anno. Sugli scenari futuri Paolo Siani ha le idee chiare: “Se venisse approvato, sarebbe gravissimo. Bisogna mantenere alta l’attenzione con iniziative come la mostra “Senza Colpe” della fotografa Anna Catalano. Ha documentato egregiamente la vita dei bambini che vivono negli Icam e la porteremo dovunque ci sarà possibile. Solo con la consapevolezza delle persone, possiamo sperare che la politica prenda in considerazione, l’esigenza di una giusta legge”. La Mostra - “Senza Colpe” racconta, attraverso le foto scattate negli appartamenti in cui alloggiano, la vita dei bambini che in Italia vivono con le proprie mamme negli Icam (Istituti a carcerazione attenuata per madri). Autrice è la fotografa Anna Catalano. La mostra è già stata presentata in varie città e sarà esposta in autunno al Palazzo della Provincia di Prato (per informazioni, annacatalanofoto.com). Il Film - Arriva dal 24 agosto sul grande schermo “La lunga corsa”, un film di Andrea Magnani, con Adriano Tardiolo, Giovanni Calcagno, Barbora Bobulova e Nina Naboka. È la storia - a tratti divertente e surreale - di Giacinto: figlio di due detenuti, dentro al carcere è nato e cresciuto. A 18 anni, quando dovrebbe sperimentare la libertà di “volare via” scopre quanto, con il suo passato, sia difficile avere ali attrezzate per farlo. Decreto legge per circoscrivere i reati di criminalità organizzata Adnkronos, 2 agosto 2023 È in arrivo una norma finalizzata a chiarire cosa debba intendersi per “reati di criminalità organizzata”, evitando che gravi reati vadano impuniti per effetto da una recente interpretazione avanzata con una sentenza della Corte di Cassazione. Il provvedimento, annunciato dalla premier Giorgia Meloni alla vigilia della strage di via D’Amelio, è in preparazione: “ci stiamo lavorando, sarà in Cdm giovedì o al più tardi settimana prossima, comunque prima della pausa estiva”, confermano dal ministero di via Arenula. Per i reati di criminalità organizzata la legge prevede un uso più esteso e incisivo degli strumenti di indagine, oltre a un maggior rigore nella concessione dei benefici penitenziari. Ma una sentenza della Cassazione, la n. 34895 del 2022, ha ristretto il campo d’azione, prevedendo che possono ‘farsi rientrare nella nozione di delitti di ‘criminalità organizzata solo fattispecie criminose associative, comuni e non’, escludendo dal regime i reati di per sé non associativi, come ad esempio un omicidio. La sentenza, finita nel mirino del governo, ha ad oggetto il regime delle intercettazioni ambientali, ma afferma principi di carattere generale che potrebbero avere ricadute -il timore- sui processi in corso nonché sulla pubblica sicurezza. Da qui la decisione di un intervento ad hoc, “per evitare impunità con effetti potenzialmente dirompenti sul sistema”, spiegano le stesse fonti. Bologna, Nordio: “Strage neofascista” di Niccolò Carratelli e Francesco Olivo La Stampa, 2 agosto 2023 La destra assente alle celebrazioni. Piantedosi per il Governo, presente anche Schlein. Infuria la polemica per la commissione di inchiesta proposta da Fratelli d’Italia. Una commemorazione tesa, fatta di aperture, ma anche di scontri frontali. Bologna oggi ricorda la sua ferita più grande, la strage alla stazione del 2 agosto 1980. Giorgia Meloni, che nel passato ha negato la matrice fascista riconosciuta dalle sentenze della magistratura, non sarà alla manifestazione, e questa non è una novità. A rappresentare il governo ci sarà il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, già prefetto del capoluogo emiliano, che però non parlerà dal palco, una prassi ormai consueta negli ultimi anni. Un altro ministro, Carlo Nordio, finito nel mirino del presidente delle associazioni dei parenti delle vittime, Paolo Bolognesi, prova a smorzare le polemiche, riconoscendo che “in sede giudiziaria è stata accertata la matrice neofascista della strage”. Aggiungendo poi l’impegno “per una inderogabile ricerca di quella verità completa che la Repubblica riconosce come proprio dovere”. Il ministro resta praticamente l’unico tra gli eletti di Fratelli d’Italia a utilizzare l’espressione di “strage fascista”, che compare nella lapide alla stazione. La destra, insomma, Piantedosi a parte, non sarà a Bologna e il Pd parla di “silenzio inaccettabile”. Altre commemorazioni sono previste al Senato, presieduto da Ignazio La Russa, e alla Camera. A Montecitorio si voterà anche la mozione sulla desecretazione degli atti della strage di Bologna, proposta da Andrea De Maria, del Pd, dove si sottolinea “il valore delle motivazioni della sentenza del processo di primo grado “ai mandanti”. La tensione è provocata soprattutto dalla richiesta di una commissione d’inchiesta, portata avanti dal presidente della Commissione cultura alla Camera Federico Mollicone, di FdI. Secondo l’esponente meloniano “questa non è una commissione sulla strage di Bologna, ma sulla storia d’Italia durante la guerra fredda, dal 1945 alla scomparsa di Graziella De Palo nel 1980”. La proposta vuole ereditare il lavoro fatto dalle commissioni Stragi, Mitrokhin e Moro 2, per mettere al centro il ruolo delle potenze straniere nelle vicende italiane, specie quelle dell’est Europa, “che anche presidenti che venivano dal centrosinistra, come Giovanni Pellegrino e Beppe Fioroni hanno riconosciuto”. Secondo Mollicone, “la commissione avrà consulenti trasversali e non vuole sostituirsi alla magistratura, né vuole essere contro qualcuno, ma ha tre obiettivi: ricostruire la storia della guerra fredda in Italia, fare luce su alcune vicende specifiche (Caso Moro, quello di Graziella De Palo, l’attentato alla sinagoga di Roma) e creare un archivio unico digitale, che sarà la scatola nera della Repubblica”. Questo insistere sull’influenza di Paesi stranieri, secondo i familiari delle vittime, serve a far riemergere la teoria della matrice palestinese, rilanciata da un presunto documento del ministero degli Interni ungherese che riferiva delle attività dei terroristi tedeschi del gruppo di Carlos collegati con i palestinesi. Secondo Bolognesi, si tratta di “una sciocchezza tirata fuori dai soliti personaggi che vogliono fare solo confusione e depistaggio”. A Bologna ci sarà sicuramente Elly Schlein: “La verità sulla strage la conosciamo: è stato un attentato di matrice neofascista, ci sono sentenze definitive a certificarlo”. La segretaria del Pd ha partecipato spesso nel passato alle commemorazioni, ma “quest’anno, con questo clima preoccupante, è ancora più importante esserci”. E ricorda anche come, da vicepresidente dell’Emilia-Romagna, sia andata diverse volte in tribunale alle udienze del processo contro Paolo Bellini (condannato in primo grado per la strage) nel quale la Regione si è costituita parte civile. “Non servono altre inchieste, atteniamoci alla verità giudiziaria - dice la leader Pd a La Stampa - respingiamo con forza qualsiasi tentativo di depistaggio e di revisionismo”. Toni simili da parte di Federica Mazzoni, segretaria bolognese del Pd: “Oggi, più che mai, con tante verità già emerse, il silenzio del governo è inaccettabile - attacca - poiché diventa complice e colpevole, esattamente come tutti i tentativi di revisione, depistaggio, richiesta di commissioni d’inchiesta per rimettere in gioco la pista palestinese già fugata definitivamente”. Nordio: “Strage di Bologna fu neofascista, ferita aperta” Bologna, un 2 agosto all’ombra della commissione d’inchiesta del governo di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 2 agosto 2023 La cerimonia a Palazzo d’Accursio alla presenza del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, alle 8 e 20, la partenza del corteo alle 8 e 50 e gli interventi davanti alla stazione col minuto di silenzio e il fischio finale del treno alle 10 e 25. Il programma per la commemorazione dei 43 anni della strage del 2 agosto è quello di sempre. Il clima nel quale si ricorda il massacro di 85 persone, e il ferimento di oltre 200, invece no. È stata una vigilia di polemiche e anche oggi si prevede una giornata ad alta tensione. Per la prima volta l’anniversario della bomba coincide con un governo guidato da una premier di destra. Quella stessa destra che annovera frange di esponenti politici che, più o meno apertamente, mettono in discussione le sentenze che indicano quali esecutori materiali l’eversione neofascista, finanziata e coperta dalla P2 di Licio Gelli e da apparati dello Stato. L’ultimo episodio che ha inasprito il confronto è il botta e risposta tra il ministro alla Giustizia, Carlo Nordio, e il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime Paolo Bolognesi che lo ha accusato di “tutelare i terroristi”. La premessa parte dal processo contro Gilberto Cavallini, condannato in primo grado all’ergastolo per la strage (per l’attentato sono già stati condannati in via definitiva Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, e in primo grado Paolo Bellini). A conclusione del processo Cavallini, “gli avvocati del terrorista neofascista - spiega Bolognesi - hanno chiesto l’annullamento della condanna sostenendo che quattro giudici popolari avevano superato il limite dei 65 anni, previsto dalla legge. Noi abbiamo ribattuto che la legge prevede il limite di età al momento della nomina, non alla fine del processo”. E Nordio che fa? “Rispondendo a un question time in Parlamento, ha detto che esiste una sentenza delle sezioni unite della Cassazione favorevole alla tesi Cavallini, e questo è falso”. Nel pomeriggio Nordio ha buttato acqua sul fuoco con una nota: “In sede giudiziaria, è stata accertata la matrice neofascista della strage e ulteriori passi sono stati compiuti per ottemperare - come ebbe a ricordare il capo dello Stato - alla inderogabile ricerca di quella verità completa che la Repubblica riconosce come proprio dovere”. E ancora, entrando nel merito: “Già nel primo pacchetto di riforme approvate dal Consiglio dei Ministri a giugno è stata inserita una norma, per evitare che potessero essere annullate sentenze per gravissimi reati. È stato chiarito che il requisito dei 65 anni, come età massima dei giudici popolari delle Corti d’Assise, deve sussistere soltanto al momento della nomina. Le preoccupazioni di Bologna devono essere fugate in via definitiva”. Insomma, non c’è nulla da temere. La polemica con Nordio arriva dopo quella di inizio anno, quando successivamente alle sentenze di primo grado che hanno condannato all’ergastolo Cavallini e Paolo e ricostruito il contesto dei mandanti, Fabio Rampelli, vice presidente della Camera di FdI, ha depositato la proposta per una commissione d’inchiesta bicamerale sugli anni di piombo e sui collegamenti esteri del terrorismo. Un’operazione bollata dal Pd e dalle associazioni, come “volta a riscrivere la storia”. Tanto che alla Camera oggi ci sarà un confronto che su questo si annuncia infuocato. Una “battaglia”, appunto, a cui parteciperà Andrea De Maria che, per la prima volta dopo 38 anni di presenza costante, rinuncerà a essere a Bologna per essere invece a Roma a difendere una mozione del Pd proprio sulla strage. De Maria interverrà per “sottolineare il valore delle motivazioni della sentenza degli ultimi processi”. Sentenza “che spiegano il ruolo della P2 e di settori deviati dei servizi segreti”. Da qui per chiedere al Governo, “di adottare tutte le iniziative volte a garantire lo svolgimento senza interferenze nei processi”. Nelle stesse ora Piantedosi interverrà a Bologna dove alcuni collettivi lo hanno già definito “ospite non gradito”. Bologna, i familiari delle vittime contro Nordio: “Tutela i terroristi” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 2 agosto 2023 Bolognesi attacca il ministro della Giustizia che replica: “La ricerca della verità piena è un dovere inderogabile”. E nel giorno della commemorazione, domani, in Parlamento si discute la mozione De Maria: “Il governo impedisca ingerenze nei processi”. “Nordio tutela i terroristi”, ma più in generale, “questi vogliono riscrivere la storia rimettendo in discussione i processi sulla strage. E’ l’ennesimo tentativo di sporcare la verità acquisita sulle responsabilità della destra, della massoneria e di parte dei servizi. Ed è inaccettabile”. Paolo Bolognesi lo dice apertamente. Da presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage del 2 agosto 1980, ha sempre denunciato “il rischio di depistaggi” che negli anni è affiorato. Ora però c’è qualcosa di più. Ci sono un governo e un parlamento “particolarmente sensibili” alle tesi di alcuni esponenti di centrodestra, secondo cui a mettere la bomba che uccise 85 persone (oltre 200 furono i feriti) non furono formazioni di destra con la copertura di apparati deviati dello Stato, ma terroristi palestinesi. Così mentre a Bologna si ricorda il 43esimo anniversario dell’attentato alla stazione, a Roma si combatte una battaglia politica particolarmente aspra che coinvolge, secondo Bolognesi, “anche” il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. “Anche”, ma non solo. Perché in ballo c’è una commissione parlamentare d’inchiesta sugli anni di piombo interpretata dal centrosinistra come la longa manus dei revisionisti più accesi. Lo scontro sulla commissione strage - Partiamo dalla commissione. Dopo le sentenze di primo grado che hanno condannato all’ergastolo Cavallini e Bellini e ricostruito il contesto dei mandanti della strage (Licio Gelli in primis), Fabio Rampelli, vice presidente della Camera e colonnello di Fratelli d’Italia, ha depositato la proposta per una commissione d’inchiesta bicamerale sugli anni di piombo e i collegamenti esteri del terrorismo. Un’operazione bollata dal Pd (e non soltanto) come “volta a riscrivere la storia”. Contro la commissione Rampelli, a febbraio è stata indetta una conferenza stampa a cui hanno partecipato il Presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo, il parlamentare del Pd Andrea De Maria, Paolo Bolognesi, Manlio Milani (presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di piazza della Loggia), e Federico Sinicato (presidente dell’associazione familiari delle vittime di piazza Fontana). Un fuoco di fila, per chiedere il ritiro della proposta a cui Rampelli ha detto no. La mozione del Pd - Mentre nelle retrovie della politica si discute della commissione sugli anni di Piombo, la partita proseguirà domani, 2 agosto, giorno del 43° anniversario della bomba alla stazione di Bologna, con un appuntamento alla Camera che si annuncia infuocato. Una “battaglia”, appunto, a cui parteciperà Andrea De Maria che per la prima volta dopo 38 anni di presenza costante, rinuncerà a essere a Bologna alla commemorazione per essere invece a Roma a difendere una mozione del Pd proprio sulla strage. Spiega, infatti, che “si tratta di sottolineare il valore delle motivazioni della sentenza del processo di primo grado cosiddetto ai mandanti. Una sentenza che spiega con grande nettezza il ruolo della loggia massonica P2 e di settori deviati dei servizi segreti, nell’organizzazione e nel finanziamento della strage, i cui autori materiali sono stati terroristi neofascisti, e di azioni di depistaggio, precedenti e successive alla strage”. E aggiunge “nella mozione chiediamo al Governo, fermo restando il diritto sancito dalla Costituzione alla presunzione di innocenza nei confronti delle singole persone coinvolte fino ad eventuale condanna definitiva, di adottare tutte le iniziative volte a garantire, per quanto di competenza, lo svolgimento sereno e senza interferenze nei processi, ancora non conclusi, riguardanti la stagione stragista che ha insanguinato l’Italia e ha visto collaborare insieme neofascisti, logge massoniche segrete ed agenti infedeli degli apparati di sicurezza”. Come dire: Giù le mani dalle sentenze. Clima avvelenato - Ad avvelenare il clima c’è anche la partita Nordio. Bolognesi, afferma che il ministro “ha fornito un assist ai terroristi, che li tutela, dando così una sponda a chi perora la fantomatica pista Palestinese”. La premessa parte dal processo contro Gilberto Cavallini, condannato in primo grado all’ergastolo per la strage (per l’attentato sono già stati condannati in via definitiva Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, e il primo grado Paolo Bellini). A conclusione del processo Cavallini, “gli avvocati del terrorista neofascista - spiega Bolognesi - hanno chiesto l’annullamento della condanna di primo grado sostenendo che quattro giudici popolari avevano superato il limite dei 65 anni, previsto dalla legge. Noi abbiamo ribattuto che la legge prevede il limite di età al momento della nomina, non alla fine del processo”. E Nordio che fa? “Rispondendo a un question time in Parlamento, ha detto che esiste una sentenza delle sezioni unite della Cassazione favorevole alla tesi Cavallini, e questo è falso. Ma nessuno ha protestato. Nemmeno quando la Cassazione ha confermato la nostra tesi”. Bolognesi lo vede come un tassello, non per arrivare alla verità, ma per continuare a negarla, anche alla vigilia del massacro che ha segnato Bologna e l’intero Paese. La replica di Nordio - Nel pomeriggio Nordio ha buttato acqua sul fuoco con una nota nella quale si legge: “In sede giudiziaria, è stata accertata la matrice neofascista della strage e ulteriori passi sono stati compiuti per ottemperare - come ebbe a ricordare il capo dello Stato - alla inderogabile ricerca di quella verità completa che la Repubblica riconosce come proprio dovere”. E ancora “E’ stato chiarito che il requisito dei 65 anni, come età massima dei giudici popolari delle Corti d’Assise, deve sussistere soltanto al momento della nomina. Le preoccupazioni di Bologna devono essere fugate in via definitiva. E un ulteriore contributo per una diffusa conoscenza di quella stagione di odio e trame occulte potrà arrivare anche dalla digitalizzazione degli atti processuali di interesse storico, al centro di uno specifico tavolo al Ministero a cui ho voluto dare nuovo impulso. Tra i progetti in corso, uno riguarda i processi ai Nuclei armati rivoluzionari, sostenuto anche dall’Associazione tra i familiari delle vittime del 2 agosto. La strage alla stazione di Bologna è una ferita aperta per tutto il Paese e solo una verità senza zone d’ombra può portare ad un’autentica giustizia”. Strage di Bologna: ricordo e veleni: il povero Nordio trattato da “fiancheggiatore dei Nar” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 agosto 2023 Nel quarantatreesimo anniversario della strage del 2 agosto, giornali e associazioni dei familiari delle vittime attaccano il guardasigilli e la premier. Come ogni anno, all’avvicinarsi alla commemorazione della Strage di Bologna, non mancano le polemiche. Quella più forte arriva probabilmente da Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione familiari delle vittime, che, in un’intervista a La Stampa, ha attaccato pesantemente il Ministro della Giustizia Nordio il quale avrebbe dato addirittura “un assist ai terroristi”. Come è noto la Corte d’assise di Bologna ha condannato alla pena dell’ergastolo Gilberto Cavallini riconoscendolo colpevole di concorso nel reato di strage. Racconta Bolognesi: “Gli avvocati del terrorista neofascista Cavallini hanno chiesto l’annullamento della condanna di primo grado sostenendo che quattro giudici popolari avevano superato il limite dei 65 anni, previsto dalla legge. E si basavano su due precedenti in Sicilia. Noi abbiamo ribattuto che la legge prevede il limite di età al momento della nomina, non alla fine del processo”. E Nordio che c’entra, chiede il giornalista? “Rispondendo ad un question time in Parlamento ha detto che esiste una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione favorevole alla tesi di Cavallini, è questo è falso. Ma nessuno ha protestato. Nemmeno quando la Cassazione ha confermato la nostra tesi”. Le cose stanno realmente così? Partiamo dall’inizio, ossia da una interrogazione presentata dalla senatrice Musolino (Gruppo per le Autonomie) a gennaio: “due diverse Corti d’assise d’appello (Palermo e Messina) hanno “annullato” la condanna di imputati accusati di reati gravissimi sul presupposto che due giudici popolari avevano superato i 65 anni di età al momento della pronuncia della sentenza. Alcuna disposizione nella legge prevede che al raggiungimento di questo limite operi una decadenza dell’incarico […] Si chiede di sapere se il Ministro in indirizzo non ritenga necessario disporre una verifica sulla vicenda descritta e se non ritenga di intervenire con urgenza per scongiurare, anche mediante un provvedimento di interpretazione autentica, che un caso simile possa verificarsi ancora”. Il Ministro ammise la serietà e la complessità di un problema con il quale la Cassazione si sarebbe già confrontata, esprimendo un orientamento costante, nel ritenere che la piena assimilazione della figura del giudice popolare con quella del giudice togato riguardi anche l’età. “L’orientamento consolidato della Cassazione impedisce qualsiasi attività ispettiva, perché le corti si sono adeguate a tale orientamento consolidato e, quindi, a una sorta di interpretazione autentica che danno le sezioni unite della Corte di cassazione” risposte il Guardasigilli. Si riferiva ad esempio alla sentenza 957/2003 della V sezione della Cassazione: “Essendo il requisito dell’età una delle condizioni di capacità dei giudici popolari (art. 9 della legge n. 287/1951), è evidente che tale elemento non può essere inteso come riferito esclusivamente al momento della iscrizione negli albi comunali o, al massimo, sino al successivo momento dell’estrazione per la formazione del collegio. Il venir meno del suddetto requisito anagrafico opera illico et immediate e impedisce automaticamente l’ulteriore espletamento delle funzioni giudiziarie da parte del soggetto che ne sia privo, essendo inammissibile una sorta di prorogatio, oltre i termini fissati dalla legge, delle condizioni di capacità del giudice popolare, che vengono meno con il raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, esattamente come avviene per i giudici togati al raggiungimento dell’età massima di 70 anni”. Inoltre capiamo bene: Nordio non disse che esiste una decisione della SU ma che l’orientamento era talmente consolidato da far ritenere l’esistenza di una interpretazione autentica delle SU. Il Ministro comunque annunciò di “rimodulare completamente la legge, in modo da allineare l’età dei giudici popolari con quella dei giudici togati”. È vero che la questione rimaneva comunque aperta, visto che a maggio la Cassazione ha annullato con rinvio la decisione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo perché a suo dire il superamento del tetto dei 65 anni dei giudici popolari, presenti nel collegio giudicante, non fa scattare la nullità della sentenza. Nordio, come promesso, ha inserito nel suo ddl, incardinato proprio ieri nella Commissione Giustizia del Senato, la seguente previsione: “Si introduce una norma di interpretazione autentica per chiarire che il requisito di età massima fissato per i giudici popolari delle Corti d’Assise in 65 anni deve sussistere soltanto al momento della nomina. Si evita così il rischio che - in procedimenti per gravissimi reati anche per mafia e terrorismo - siano ritenute nulle le sentenze pronunciate da Corti d’Assise nelle quali un giudice popolare abbia superato i 65 anni durante il processo”, si legge in una nota di sintesi di Via Arenula. Lo ha ribadito ieri lo stesso responsabile di Via Arenula in un comunicato: “43 anni dopo quel vile attacco, rinnoviamo la vicinanza ai familiari delle 85 vittime e dei 200 feriti e all’intera comunità di Bologna, che negli anni ha saputo trasformare il dolore in impegno civico e in sostegno all’attività dei magistrati. In sede giudiziaria, è stata accertata la matrice neofascista della strage e ulteriori passi sono stati compiuti per “ottemperare - come ebbe a ricordare il capo dello Stato - alla inderogabile ricerca di quella verità completa che la Repubblica riconosce come proprio dovere”. In nome di quest’essenziale obiettivo, il Ministero della Giustizia si sforza di assicurare ogni supporto possibile agli uffici giudiziari impegnati nelle indagini sul terrorismo, come contro la mafia: così già nel primo pacchetto di riforme approvate dal Consiglio dei Ministri a giugno è stata inserita una norma, per evitare che potessero essere annullate sentenze per gravissimi reati. È stato chiarito che il requisito dei 65 anni, come età massima dei giudici popolari delle Corti d’Assise, deve sussistere soltanto al momento della nomina. Le preoccupazioni di Bologna devono essere fugate in via definitiva”. Quindi sostenere che Nordio abbia fornito un assist ai terroristi appare una considerazione spropositata e svincolata se si guarda al complesso contesto giuridico e alla novità normativa. L’altra polemica che sta tenendo banco è la richiesta da parte della destra di istituire, appellandosi a nuovi documenti dei servizi, una Commissione parlamentare di inchiesta “sulle connessioni del terrorismo interno ed internazionale con gli attentati, le stragi e i tentativi di destabilizzazione delle istituzioni democratiche avvenuti in Italia dal 1953 al 1992”. La proposta non piace al Partito Democratico: “Le sentenze sulla strage oggi ci sono. Diciamo quindi no - ha detto il presidente della Regione Emilia-Romagna, il dem Stefano Bonaccini - a chi, anche in Parlamento, pensa di poter attenuare le responsabilità fin qui accertate, o avviare operazioni di revisionismo o di riscrittura di quanto accaduto e sancito dai Tribunali, risultati preziosi raggiunti con così tanta fatica”. Da ultimo c’è molta polemica sull’assenza oggi a Bologna della premier Giorgia Meloni che manda Piantedosi. Due anni fa andò Cartabia, senza Draghi. E comunque la premier mantiene la sua coerenza forse con questa assenza considerato che proprio l’anno scorso dichiarò: “La strage alla stazione di Bologna di 42 anni fa rappresenta una ferita aperta per tutta la Nazione. Gli 85 morti e gli oltre 200 feriti meritano giustizia, per questo continueremo a chiederla insieme alla verità. Lo dobbiamo alle famiglie delle vittime e a tutto il popolo italiano”. Strage Bologna, Luciano Violante: “Una Commissione? Se è seria può essere utile” di Mario Ajello Il Messaggero, 2 agosto 2023 L’ex presidente della Camera: “Un’inchiesta parlamentare sui responsabili delle deviazioni. Il Paese ha sconfitto i progetti stragisti ma si deve continuare a cercare la verità”. Presidente Violante, sa pensa di una commissione d’inchiesta sulla strage di Bologna: può servire o rischia di diventare l’ennesimo organismo inutile e confusionario? “Dipende. Molte commissioni d’inchiesta sono state proficue. La commissione parlamentare sui reati della mafia contro i sindaci ha fatto emergere meritoriamente il problema drammatico del foggiano. Non mi pare si possa dire la stessa cosa, della cosiddetta commissione Mitrokin che rientrava chiaramente in una battaglia politica”. Quella su Bologna? “Una commissione politica contro le sentenze, sarebbe eversiva. Può servire invece scoprire le responsabilità politiche per le deviazioni. Perché alti ufficiali come Musumeci e Belmonte inventarono prove false e scontarono in silenzio anni di galera? C’era un disegno politico contro la nostra democrazia. Chi lo ispirava? Le deviazioni sono una tema drammatico, sulle quali il Capo dello Stato ha detto parole ferme. Le commissioni d’inchiesta servono a individuare le responsabilità politiche e le deviazioni rientrano nelle responsabilità politiche”. La strage non fu rivendicata. “Nessuna strage è mai stata rivendicata. Non avevano bisogno di spiegazioni; erano parte di un progetto che si sarebbe compreso col tempo. L’Italia è stata colpita da undici stragi politiche, due opposti terrorismi con più di 500 uccisi in quindici anni, due stragi di mafia, diversi tentativi di rovesciamento violento del governo, l’omicidio di un uomo di Stato, Aldo Moro, di 24 magistrati e di undici giornalisti. Dovevano schiantarci. Ma siamo stati più forti, non abbiamo ceduto. L’Italia della democrazia ha vinto grazie al concorso di tutti. A volte dimentichiamo le nostre virtù profonde. È grave perché in quei sacrifici c’è la nostra identità”. C’entrano i palestinesi nella strage di Bologna? “Le tensioni con i palestinesi le aveva risolte il generale Giovannone. E poi Licio Gelli aveva manovalanza terroristica in casa propria, non aveva bisogno dei palestinesi”. Secondo lei fa bene o sbaglia Meloni a non andare alla celebrazione della strage, dove comunque ci sarà il ministro Piantedosi? “È una scelta che spetta a lei, e che va rispettata. La questione è un’altra: questa destra di governo deve fare uno sforzo - che non riguarda certamente né Giorgia Meloni né il gruppo dirigente di Fratelli d’Italia - per liberarsi dai mostri del passato. Nella destra italiana ci sono state componenti eversive, come ci sono state le Brigate Rosse a sinistra. Capisco che i più giovani, per un malinteso spirito di partito, possano ambire a rovesciare la storia e i processi. Ma le cose sono andate tragicamente in un’altra direzione. C’è ben altro di più degno per impegnarsi oggi a destra. Tentare di riscrivere la storia spaccherebbe il Paese e non porterebbe a nessun risultato politico”. Lei è un veterano delle commissioni d’inchiesta, che cosa si aspetta in questo caso? “Le Commissioni funzionano quando c’è civiltà politica. Questo clima è essenziale particolarmente oggi. I documenti desecretati, ad esempio, potrebbe prima leggerli il Copasir, poi fare una relazione al Parlamento e su quella base il Parlamento potrebbe decidere quanto è più utile per il Paese”. Strage di Bologna, Bellini arrestato: è nel carcere di Spoleto. Si nascose per anni a Foligno facendosi passare per pilota brasiliano, tra amicizie, coperture e una misteriosa fidanzata C’è molta parte d’Italia stanca del peso schiacciante della nostro storia. Siamo il Paese che Leonardo Sciascia descriveva “senza verità e senza memoria”? “Un giudizio disperato e deresponsabilizzante. La verità e la memoria si costruiscono con la tenacia, non sono un dono della storia. Dobbiamo essere orgogliosi di un Paese che, nonostante tutto ciò che ha passato, è in piedi, è forte ed è capace di battersi per verità e memoria”. Si può arrivare a una verità condivisa da tutti? “La verità si costruisce nei fatti, nella storia e nelle coscienze, non con maggioranze, di destra o di sinistra”. Mambro, Fioravanti, Ciavardini condannati definitivamente per la strage, su Gilberto Cavallini è in corso il processo d’appello dopo l’ergastolo in primo grado. E ora si è aggiunto tra gli esecutori materiali un altro neofascista, Paolo Bellini, ergastolo in primo grado, che unisce più mondi: è da questa figura e dalle sue connessioni che può scaturire qualche novità? “Guardiamo avanti. Se riuscissimo a riconoscere la tenacia degli uomini e delle donne, lo spirito di servizio di tanti servitori dello Stato, la disponibilità al sacrificio di un intero Paese, tutti fattori che ci hanno permesso di vincere, questo 2 agosto potrebbe essere celebrato proficuamente, continuando a cercare le verità che mancano con la stessa forza civile che ci ha portato a sconfiggere i progetti stragisti”. Piemonte. L’associazione Antigone racconta le donne nelle carceri di Andrea Zanello La Stampa, 2 agosto 2023 Nella casa circondariale di Vercelli sono detenute la ragazza più giovane (19 anni) e la donna più anziana (classe 1943) di tutta la popolazione carceraria femminile del Piemonte. A Biliemme inoltre sulle 30 detenute totali (11 sono straniere), 26 sono state condannate e 4 risultano indagate. Sono soltanto alcuni dei numeri diffusi dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria in occasione della presentazione di “Dalla Parte di Antigone - Primo rapporto sulle donne detenute in Italia”. Il report è stato presentato a Torino dall’associazione Antigone, in collaborazione con il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. Dall’indagine si scopre che le donne sono una minoranza della popolazione detenuta, ma scontano il peso di un sistema detentivo declinato al maschile. “Il carcere deve coltivare la voglia di andare avanti, in tutte le donne e gli uomini che vivono in stato di detenzione. A queste persone va restituita umanità e dignità”, ha detto il consigliere segretario della Regione Piemonte Gianluca Gavazza. Al Lorusso e Cutugno di Torino sono recluse 129 donne, di cui 100 condannate. Le altre sono in custodia cautelare, e di queste 50 sono straniere. La più giovane ha 20 anni, la più anziana 75. In Piemonte le detenute sono 159 (3.872 gli uomini). Vercelli è il secondo carcere piemontese e ha delle criticità già sottolineate da Bruno Mellano: “Mancano determinati spazi per i detenuti: il sovraffollamento è un problema. Servono nuovi ambienti per attivare corsi e progetti stanziali. Uno degli spazi da recuperare è quello dell’ex sezione nido. Inoltre servono anche degli interventi strutturali: sull’area sanitaria e nei locali dedicati alle aule scolastiche”. Per la popolazione carceraria femminile sono stati attivati progetti che riguardano l’educazione alimentare e la produzione di sacchetti di lavanda. “Il tavolo del volontariato è attivo a Vercelli, ma manca una figura fondamentale come il garante comunale” dice Mellano, che ha scritto al sindaco Andrea Corsaro per chiedere quale sia lo stato dell’arte per la nomina di un nuovo garante. A giugno era stato nominato un garante, in seguito alle dimissioni di quello precedente, ma pochi giorni dopo la persona nominata aveva fatto un passo indietro. “L’estate - continua Mellano - per il carcere e per i suoi detenuti è un periodo particolarmente critico. E’ necessaria una presenza sul territorio”. Altro tema sul tavolo è quello legato alla dirigenza: dopo pochi mesi alla guida del carcere di Vercelli Caterina Ciampoli ha dovuto lasciare l’incarico e al suo posto è stata nominata Giuseppina Piscioneri che però ha già un’agenda fitta visto che è direttrice di Asti e reggente di Alba. Milano. La lettera dei detenuti di San Vittore: “Noi, condannati a delinquere ancora” i detenuti di “Costituzione viva” La Stampa, 2 agosto 2023 Chi ricade a commettere reati è soggetto a questa aggravante che può arrivare a pesare fino a due terzi della pena. “Ma con una norma fatta così conta di più il fatto o l’autore?”. “Una recidiva ben temperata”. Noi, detenuti e volontari del gruppo “Costituzione viva” della Casa circondariale di Milano San Vittore, abbiamo dato questo titolo a un incontro con docenti e studenti di giurisprudenza delle Università di Milano-Bicocca e Bocconi, tutti condividendo il riferimento all’esempio di un maestro di diritto e impegno civile come Valerio Onida. Un incontro pieno di dati, contenuti anche complessi e scambi di opinioni tra i partecipanti, inclusa l’area giuridico-pedagogica della Casa circondariale (la ringraziamo una volta di più, insieme alla Direzione). “Recidiva” significa “ricaduta”. È l’aggravante della responsabilità penale per chi, dopo essere stato condannato definitivamente per un reato, ne commette un altro. È un istituto di applicazione frequentissima, assai discusso nei progetti di riforma del Codice penale, come pure nelle sentenze costituzionali e di Cassazione. Ne abbiamo discusso tante volte anche noi, negli incontri con i giudici costituzionali: l’ultima volta a ottobre, con il presidente emerito Giuliano Amato. Più concretamente, questo tema coinvolge pesantemente molti detenuti. Non solo quando si tratta di giudicare e punire il secondo reato, ma, ad esempio, anche quando si applicano le misure cautelari, o si devono concedere i benefici penitenziari. È una sorta di presunzione permanente di maggiore colpevolezza e pericolosità, della quale è difficile liberarsi, una spirale inesauribile che ti spinge ogni volta sempre ai primi posti nella lista dei sospetti. Ritarda la riabilitazione del condannato. Può portare a un aumento delle pene davvero importante: fino a due terzi, quasi fino a pesare più della gravità stessa del secondo reato di per sé. Per capirlo, basta guardare l’ultimo caso giudicato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 141/2023). Un imputato, che aveva minacciato (solo a parole) i dipendenti di un supermercato per farsi dare dieci euro, sommandosi ai ripetuti aumenti dei minimi edittali gli effetti della recidiva reiterata, sarebbe andato incontro a cinque anni di reclusione, se non fosse intervenuto il giudice delle leggi. In una punizione così pesa di più il reato o il reo, il fatto o il suo autore? È giusto paga-re di nuovo, a un prezzo così caro, un debito con la società che è già stato assolto? E se anche lo fosse, non dovrebbero contare nulla tante altre circostanze, come ad esempio l’estrema difficoltà in cui si può trovare chi, uscito una prima volta dal carcere, si misura con tutte le difficoltà della vita quotidiana - anzitutto, quella di trovare un lavoro - aggravate però dalla perdita dei legami familiari e sociali, senza nessuna assistenza, nemmeno quella che lo stesso ordinamento penitenziario promette e prevede? Ricordiamo, a questo proposito, le parole di un’altra sentenza costituzionale (n. 149 del 2018): accostava, da un lato, la “responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato”; dall’altro, “la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino favorendo il progressivo reinserimento del condannato”. Insomma, anche a voler condividere la logica della recidiva, occorre assicurarne una applicazione “ben temperata”: che tenga conto non solo della lista dei precedenti, ma di tutte le circostanze concrete della singola persona, della sua situazione e del suo percorso individuale di vita. E, anzitutto, che sia fissato un limite temporale oltre il quale la recidiva risulti neutralizzata: se una condizione per la sua applicazione è la “pericolosità”, non bastano, per esempio, cinque anni senza reati per considerarla superata? Già in passato, peraltro, due commissioni parlamentari per la riforma del codice penale si sono così orientate. Partendo da queste domande, abbiamo ascoltato, nel nostro incontro, due relazioni: una sulla recidiva in generale, l’altra sulla sua applicazione in un campione di sentenze (270 condanne per rapina presso il Tribunale di Milano). Abbiamo ripercorso la storia di questo istituto, la cui disciplina ha oscillato negli anni tra gli estremi del rigore e dell’elasticità: si era spinta nella prima direzione l’ultima riforma organica del 2005; la Corte costituzionale è intervenuta poi più volte ad attenuare tanti automatismi, ma non tutti. Abbiamo appreso che, nella larga maggioranza dei casi, nel momento in cui applica e pondera la recidiva, il giudice in sostanza non dà una motivazione specifica: del resto, non sempre ha le informazioni necessarie, al di là del certificato del casellario, ad esempio sul contesto sociale, familiare ecc. E poi, a volte, mancano proprio i parametri: talora il giudice può rifiutare di applicare la recidiva se il precedente penale è risalente nel tempo, ma cosa vuol dire esattamente “risalente”? Ci è stato fatto osservare che l’aumento della pena, dovuto alla recidiva, può essere quantitativamente molto maggiore dello sconto spettante, invece, per legge nei casi di detenzione avvenuta in condizioni degradanti, anche per il sovraffollamento. Non è facile capire su quali unità di misura sia regolata la bilancia penale. La cosa più stupefacente, comunque, è questa: sull’applicazione, così frequente, di questo istituto non esistono statistiche precise, sistematiche e aggiornate. Nessuno sa davvero come funziona la recidiva qui e oggi, se serve a qualcosa, e a cosa. Anche per questo è stato interessante ascoltare i dati sul campione di sentenze milanesi. Ci hanno dato alcune conferme delle considerazioni generali: la recidiva pesa, sia nella quantificazione della pena, sia nella probabilità di misure cautelari; la sua applicazione - o il fatto di considerarla compensata da circostanze attenuanti - è motivata raramente; colpisce perlopiù adulti, con problemi di marginalità sociale e tossicodipendenza, spesso stranieri. Non c’è dubbio, la recidiva fotografa un fallimento. Certo, anzitutto quello di chi è ricaduto nel reato. Ma non solo il suo. È il fallimento di un’intera filiera sociale e istituzionale, che viene poi raccolto di nuovo dal carcere, ultimo anello della catena. Benché ogni detenuto costi allo Stato, ogni anno, oltre 50 mila euro. Non il più produttivo degli investimenti, evidentemente. È un tema da approfondire ancora. Anche noi lo faremo, ad ottobre, in un’altra giornata in cui torneremo a guardare alla pena: al suo volto costituzionale e legislativo e a quello, più cupo, che ha nella realtà. Torino. Carcere violento, i medici se ne vanno. Dimissioni dei dottori dalle Vallette di Carlotta Rocci La Repubblica, 2 agosto 2023 Nessuno vuole fare il medico al carcere di Torino. Nelle ultime settimane sono stati diversi i sanitari che hanno scritto alla direzione dell’istituto penitenziario e all’Asl per chiedere di rinunciare all’incarico e ai turni alle Vallette. Ieri, ad appena tre mesi dalla sua nomina, ha rassegnato le sue dimissioni anche il direttore sanitario Alessandro Franchello che aveva raccolto molte delle lamentele dei suoi colleghi in queste ultime settimane inoltrandole alla direzione del carcere. Attualmente nel penitenziario delle Vallette lavorano tredici medici con diverse specializzazioni, altri due sono “gettonisti”, professionisti pagati per il singolo turno, uno dei tanti sistemi trovati dall’Asl per cercare di arginare la carenza di personale. Sono cinque gli psichiatri che prestano servizio nella sezione sestante. Una ventina i medici che fino al 2022 prestavano servizio di continuità assistenziale ma il numero si è ridotto. I detenuti, e potenziali pazienti, sono oltre 1.200, in una condizione di sovraffollamento cronico che la direzione ha provato a ridimensionare programmando il trasferimento di detenuti verso altre carceri ma spesso l’operazione non riesce per la mancanza di personale o per il rifiuto degli stessi detenuti. L’ultima aggressione a un medico è del 19 luglio. Un detenuto di 26 anni, trasferito dal carcere di Velletri, dove è accusato dell’omicidio del suo compagno di cella, e già protagonista a Torino, di episodi di violenza, con l’incendio di un materasso, ha preso a pugni il medico che - a suo dire - non gli aveva somministrato la terapia adeguata. Poco prima aveva incendiato un altro materasso e danneggiato un computer e una scrivania nella sezione dove era detenuto. Non è un caso isolato. “I medici aggrediti sono almeno tre nell’ultimo periodo”, segnalano i sanitari che lavorano nelle diverse sezioni. Gli episodi di violenza si sommano a quelli di cui sono vittime gli agenti penitenziari come più volte segnalato dai sindacati di polizia. “È inaccettabile che il personale e gli altri operatori che fanno servizio all’interno del penitenziario debbano recarsi sul posto di lavoro con la paura di rischiare per la propria vita e incolumità”, segnalava l’Osapp una decina di giorni fa in una lettera indirizzata al prefetto di Torino e alla direzione dell’Istituto di pena. I medici scappano dai turni nelle sezioni perché - dicono - si sentono soli e in pericolo perché nei corridoi non ci sono abbastanza agenti per garantire la sicurezza di dottori e infermieri. Tra i tanti medici che hanno scritto alla direzione sanitaria per chiedere di essere spostati di incarico c’è chi ha detto d non essere più disponibile al servizio in carcere preferendo svolgere la stessa attività al minorile dove la situazione sembra essere meno critica. Da inizio luglio ci sono state diverse riunioni e incontri in carcere per provare a risolvere una situazione riconosciuta dalla stessa amministrazione che sta cercando di concordare con il personale sanitario fasce orarie in cui aumentare l’attenzione per consentire a medici di lavorare in sicurezza, un altro protocollo riguarda la salute mentale per la gestione de casi più problematici visto che l’esistenza, a Torino, di uno dei reparti più grandi d’Italia come il Sestante, porta spesso al carcere i casi più critici. Il reparto era stato chiuso a lungo, ristrutturato e poi reparto con 14 celle, almeno la metà sono state rese inagibili dai danni causati dagli stessi detenuti. La gestione de casi psichiatrici e la necessità di superare il modello di reparti come il Sestante era stato affrontato recentemente anche dai garanti piemontese e cittadino e da associazioni come Antigone, anche alla luce dell’altissimo numero di episodi di autolesionismo registrati. Dopo le dimissioni del direttore sanitario l’Asl dovrà decidere se indire un nuovo bando di gara per assegnare il posto che al momento vene ricoperto ad interim. per la gestione ordinaria dal direttore del dipartimento di Prevenzione, a cui fa capo la sanità penitenziaria, Roberto Testi. Torino. Associazioni in allarme: “Detenuti fragili a rischio” di Carlotta Rocci La Repubblica, 2 agosto 2023 La salute in carcere è un tema delicato anche solo per il fatto che si aggiunge a una condizione di privazione della libertà personale che complica qualunque manovra. “L’accesso alla documentazione sanitaria non è semplice, molte informazioni si perdono”, denunciano gli avvocati dell’associazione StraLi che, tramite il consigliere Simone Fissolo hanno portato il tema in consiglio comunale. “Il caso di un detenuto straniero, senza famiglia, con gravi problematiche di salute di natura psichiatrica ha portato alla luce la situazione drammatica che vive il carcere Lorusso e Cutugno”, commenta il consigliere denunciando la difficoltà con cui famigliari e difensori possono avere incontri con i medici, avere accesso alla cartella clinica o alle informazioni delle visite specialistiche. La procedura per accedere alla cartella non è diversa da quella di ciascun cittadino iscritto al servizio sanitario nazionale ma - precisa l’associazione - “se ne può avere solo copia cartacea dietro al pagamento d circa 50 euro, e in alcuni casi, solo a fronte di un’autorizzazione giudiziaria”. La questione è ancora più delicata quando il paziente è psichiatrico. Fissolo ha raccontato in aula il caso di un detenuto straniero, senza una rete famigliare alle spalle e nullatenente, non in grado dunque, di pagare la somma necessaria ad ottenere una copia della cartella. “Mancano i mediatori per i colloqui”, denuncia Fissolo sulla base dell’informativa di Strali, un punto su cui ha risposto l’assessore Gianna Pentenero sottolineando che in carcere sono presenti 5 mediatori. L’assessore ha comunque riconosciuto come la situazione sanitaria sia “una problematica importante e urgente”. Gli avvocati Benedetta Perego, Emanuele Ficara e Nicolò Bussolati, membri dell’associazione si dicono soddisfatti per il riconoscimento della problematica generale ma sottolineano “le contrazioni del diritto alla salute e d difesa rispetto all’accesso alle informazioni sanitarie. La dignità delle persone passa anche per queste garanzie fondamentali, che non possono essere trascurate, tanto più in un istituto dove solo nelle ultime settimane si sono tolte la vita tre persone”, dicono. L’associazione denuncia difficoltà anche come a volte informazioni necessarie vengano perse nel trasferimento dei detenuti da un carcere ad un altro “rendendo complicata anche la continuità delle terapie”. I colloqui tra medici e famigliari sono regolati da un accordo con l’Asl del 2018 ma - denuncia Strali - sono spesso difficili. “I pazienti psichiatrici a volte vengono spostati nel reparto dedicato senza dare spiegazioni all’interessato”, si legge nell’interpellanza comunale, “questo rischia di aggravare condizioni di fragilità già importanti”, sottolinea l’associazione no-proft che si occupa d diritti umani. Viterbo. Dottori in fuga da Mammagialla, la denuncia del Garante dei detenuti di Mattia Ugolini viterbotoday.it, 2 agosto 2023 Nessuno vuole andare a fare il medico al carcere di Mammagialla. A denunciare la situazione è il Garante delle persone detenute della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, ascoltato in audizione dalla settima commissione del consiglio regionale lo scorso 25 luglio. Il focus era sullo stato dell’assistenza sanitaria negli istituti penitenziari laziali e, nel corso dei lavori, sono stati ascoltati anche i dirigenti delle Asl interessate dalle strutture sanitarie a servizio della popolazione detenuta. Anastasìa ha puntato il dito sulle tre criticità fondamentali, aggravate dal sovraffollamento che interessa la maggior parte degli istituti penitenziari del Lazio: l’inadeguatezza del nucleo traduzioni della polizia penitenziaria, preposto ad accompagnare i detenuti alle visite specialistiche all’esterno; la carenza di personale medico e paramedico all’interno degli istituti penitenziari; le gravi carenze nell’assistenza psichiatrica e la scarsità di percorsi alternativi al carcere sul territorio. Da qui è emerso lo stato in cui versa Mammagialla, da cui i medici sono letteralmente in fuga. L’analisi del Garante dei detenuti, infatti, è stata in qualche modo confermata da Simona Di Giovanni, direttore amministrativo della Asl di Viterbo, la quale ha riferito che gli avvisi per l’assunzione di nuovo personale sono andati deserti e che la teleradiologia e la telecardiologia sono già attive nel carcere viterbese, ma non è possibile implementare altri ambiti per problemi legati alla fibra ottica. In poche parole, nessun dottore pare disposto a prestare servizio nella casa circondariale, su cui già grava la crisi del personale di polizia penitenziaria. La situazione a Mammagialla è critica anche per quel che riguarda le violenze ai danni degli agenti, ormai all’ordine del giorno, ed il sovraffollamento delle celle, come riportato dai sindacati. Tuttavia, gli stessi problemi di Viterbo sembrano tediare anche altre Asl laziali come, ad esempio, quelle di Civitavecchia, Velletri e Rieti: “Non si trovano medici penitenziari, preferiscono andare a fare la guardia medica”, ha detto Livio Bernardini, dirigente medico del carcere reatino. “Occorre una riflessione - ha concluso il Garante dei detenuti - per capire come si possa incentivare la presenza di personale, riconoscendo che la prestazione di servizio sanitario all’interno di un istituto di pena è obiettivamente la prestazione di un servizio in una sede disagiata e che quindi bisognerà trovare degli incentivi. Molti giovani medici o esercenti professioni sanitarie se possono scegliere se fare il medico o l’infermiere dentro un carcere o farlo sul territorio ovviamente scelgono di farlo sul territorio. Noi dobbiamo sapere che la scelta di lavorare in carcere, come alcuni dei presenti fanno da tantissimi anni, può diventare una vocazione ma in qualche modo deve essere incentivata”. Firenze. Carceri e vite al limite. Gianassi (Pd): “La destra ignora situazioni gravissime” di Niccolò Gramigni La Nazione, 2 agosto 2023 In tutta Italia le condizioni delle carceri sono drammatiche, con strutture fatiscenti, detenuti in condizioni di disagio psichico e tanti suicidi. Il deputato Pd Federico Gianassi sta lottando per interventi urgenti e sistematici. Caldissimo d’estate, freddissimo d’inverno. Cimici, cibo in scadenza o scaduto, muffa. Celle luride, detenuti in condizioni di disagio psichico. La situazione del carcere di Sollicciano, più volte documentata dai reportage pubblicati sulle pagine de La Nazione, è drammatica. Sollicciano però non è l’unica struttura con questi problemi perché in tutta Italia se dici carcere pensi solo all’inferno. Su questo tema il deputato Pd (e capogruppo dem in Commissione Giustizia) ed ex assessore a Firenze, Federico Gianassi (foto) si sta battendo con forza. “I tagli all’amministrazione penitenziaria ed al Dipartimento della Giustizia minorile non verranno cancellati - ha detto durante la discussione del suo ordine del giorno al Decreto Pa2 ieri alla Camera -. Il governo ha infatti bocciato nell’aula di Montecitorio il nostro atto che proponeva di reintegrare le risorse tagliate con il bilancio 2023 per assumere agenti, ristrutturare le carceri e promuovere la funzione rieducativa della pena”. Secondo Gianassi, “la destra ignora la gravissima situazione sulle carceri: strutture fatiscenti, fredde di inverno, roventi di estate, tanti detenuti in condizioni di disagio psichico, tanti i suicidi; in queste condizioni precarie operano gli agenti e tutta l’amministrazione penitenziaria in sottorganico”. “Le terribili condizioni delle carceri italiane sono tornate all’attenzione del dibattito pubblico, anche grazie a preziosi contributi giornalisti come avvenuto con il reportage del Quotidiano Nazionale - ha ricordato Gianassi. Sono emerse la fatiscenza delle strutture, l’inadeguatezza dei luoghi spaventosamente freddi d’inverno e roventi d’estate, la presenza di detenuti in condizioni di disagio psichiatrico e molte altre storture che non sono più compatibili con un sistema di esecuzione della pena degno di un Paese civile. Tali criticità sono state riscontrate anche nel carcere della mia città, Sollicciano. Non bastano le parole, servono fatti. Occorrono interventi urgenti e sistematici”. Vigevano (Pv). Carcere sovraffollato con + 60% di detenuti e poco personale di Umberto Zanichelli Il Giorno, 2 agosto 2023 La Commissione speciale della Regione al Piccolini: “Sono emerse varie criticità, ci confronteremo con chi vi lavora”. Intervenire sui problemi più urgenti che sono quello del sovraffollamento e della carenza di personale. La Commissione speciali carceri della Regione Lombardia ha effettuato una visita alla casa di reclusione della frazione Piccolini di Vigevano. A questo primo incontro, che è stato promosso da Andrea Sala, ex-sindaco di Vigevano ora consigliere regionale della Lega, che è segretario della Commissione, ne seguirà un secondo che avrà come obiettivo quello di confrontarsi direttamente con il personale della polizia penitenziaria alle prese, ormai da anni, con carenze di organico e la necessità di strutturare meglio il percorso di inserimento e lavoratori e sociale dei detenuti. “Situazioni critiche” - “Sono emerse delle situazioni critiche - ha spiegato la consigliera regionale di Fratelli d’Italia, Alessia Villa, che della Commissione è la presidente - visti anche gli ultimi episodi che si sono registrati all’interno della struttura. L’intenzione della Commissione è quella di ascoltare chi all’interno del carcere lavora ogni giorno per capire in che modo possiamo essere utili alla soluzione delle loro problematiche”. “Si è trattato di un incontro conoscitivo - sottolinea Andrea Sala -. La Commissione si riunirà e poi decideremo a livello politico cosa portare sul tavolo del confronto”. All’incontro hanno preso parte anche il sindaco di Vigevano, Andrea Ceffa, l’assessore alla polizia locale Nicola Scardillo, la consigliera comunale del Pd Arianna Spissu e la consigliera regionale del Pd, Roberta Valacchi accompagnati dalla dottoressa Rosalia Marino, direttrice della struttura. Interrogazione parlamentare - “Sul tema della carenza di personale - ha fatto rivelare Valacchi - la competenza è in capo al Governo. Quello che possiamo fare noi in quanto forza di minoranza è quella di sollecitarlo ad un intervento tempestivo. Il consiglio regionale sarà chiamato a dare una risposta a queste esigenze prima possibile. Quello emerso non è un problema che riguarda solo Vigevano ma è purtroppo diffuso. Per questa ragione - conclude - abbiamo in programma la visita ad altre case di detenzione della regione per avere un quadro dettagliato della situazione”. Sulla situazione del carcere di Vigevano l’onorevole Franco Mirabelli (Pd) ha depositato alla Camera una interrogazione parlamentare. Nel carcere cittadino il sovraffollamento è del 60% rispetto alla capienza mentre la pianta organica del personale risulta scoperta del 20%. Torino. Si va verso la riapertura del Cpr. Ma su lavori e tempi è buio totale di Luca Rondi altreconomia.it, 2 agosto 2023 Il “Brunelleschi” è stato chiuso a marzo 2023 dopo le rivolte dei reclusi. La prefettura dichiara che la ristrutturazione è avviata ma i dettagli non sono pubblici. Intanto le attività di manutenzione proseguono. “Non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione in merito all’inizio dei lavori”, spiega la Garante dei diritti dei detenuti Monica Gallo. Il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Torino, chiuso a seguito delle proteste dei reclusi a marzo 2023, riaprirà. Ma non si sa quando. A metà giugno di quest’anno la prefettura di Torino ha comunicato infatti ad Altreconomia che “le attività tecniche connesse alle opere di ristrutturazione del centro risultano avviate”, aggiungendo però di non essere in possesso di ulteriori dettagli in quanto la stazione appaltante dei lavori è il ministero dell’Interno. Il Viminale ha riferito a sua volta di non poter fornire informazioni specifiche né sulla tempistica né sulla tipologia dei lavori in programma. E nemmeno gli interlocutori privilegiati del territorio hanno informazioni in merito. “Non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione in merito all’inizio dei lavori”, osserva la Garante dei diritti dei detenuti Monica Gallo che esprime perplessità rispetto alla tipologia di interventi realizzati: “La riapertura del Centro a condizioni strutturali e gestionali invariate presenterebbe le uguali problematiche passate, auspico che si apra quanto prima un dialogo e un confronto tra tutte le istituzioni, anche con il personale interforze che si occupa della sicurezza all’interno del centro, per affrontare la questione e ridurre al minimo la detenzione amministrativa”. Da qualche mese circolano in città le notizie dell’inizio dei lavori di ristrutturazione in corso Brunelleschi ma le informazioni sono poche. Altreconomia è riuscita a ricostruire che, effettivamente, sono in corso degli interventi di ordinaria e straordinaria amministrazione realizzati dall’azienda L’Operosa Spa che però non sembrano essere collegati a quanto successo a seguito delle rivolte del marzo 2023. Il bando di assegnazione di questi lavori risale infatti al 15 settembre 2021 quando Invitalia, l’Agenzia nazionale di proprietà del ministero dell’Economia (già attiva nel campo delle migrazioni sul “fronte libico”), pubblica un bando da 11,3 milioni di euro su mandato del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in seno al ministero dell’Interno, per la manutenzione straordinaria dei Centri di permanenza per il rimpatrio di tutta Italia e tra i “lotti” di gara, c’è anche quello specifico del “Brunelleschi” di Torino. Il progetto, a cura del Provveditorato alle opere pubbliche per il Piemonte, braccio locale del ministero delle Infrastrutture, risale al 3 settembre 2021 ed è firmato dall’ingegnere Osvaldo Pittori sotto il coordinamento generale dell’architetta Giulia Leoni. Prevede un “piano di manutenzione straordinaria” dovuto da “usura, uso improprio e atti vandalici minori” degli impianti elettrici, meccanici (condizionamento e riscaldamento, impianto idrico sanitario) e delle opere edili (inferriate, portici, cancelli e così via) dal costo annuo pari a 264mila euro, per un preventivo totale, su quattro anni di intervento, di 1,05 milioni di euro a cui si aggiungono quasi 74mila euro per i “costi di sicurezza”. Ad aggiudicarsi la commessa, come detto, è L’Operosa Spa (ribasso del 28,7%) che da fine marzo 2022 ha preso in carico la manutenzione del “Brunelleschi”. Mentre la direzione dei lavori quadriennali è stata affidata all’architetta Angela Zattera di Genova. Napoli. Detenuto picchiato a Poggioreale, Ciambriello: “Andrà in comunità” di Andrea Aversa L’Unità, 2 agosto 2023 Un mese fa è stato ricoverato in terapia intensiva all’ospedale Cardarelli. L’annuncio del Garante Ciambriello: “Abbiamo individuato una struttura a Caserta. Bisogna fare luce sulla vicenda”. È passato più di un mese da quando Giuseppe Arvolio aveva ricevuto una telefonata dai carabinieri. I militari gli avevano detto che il fratello Aniello era stato ricoverato d’urgenza presso l’ospedale Cardarelli di Napoli a causa di un malore. Chi è Aniello Arvolio? Originario di Nola (località vesuviana in provincia di Napoli), 48 anni, l’uomo si trovava nel carcere di Poggioreale dove aveva fatto il suo ingresso a inizio giugno. Doveva scontare sei mesi di detenzione. Ma Giuseppe, giunto presso il nosocomio napoletano insieme alla sorella Antonietta, aveva poi scoperto che Aniello era stato brutalmente pestato: sul corpo c’erano lividi, ferite ed ecchimosi. Chi è Aniello Arvonio il detenuto picchiato a Poggioreale - Aniello Arvolio era giunto al Cardarelli in condizioni critiche, tanto da essere stato ricoverato in terapia intensiva. Talmente gravi i traumi riportati che l’uomo non era in grado di parlare. Secondo quanto riportato da Il Mattino, i fratelli della vittima sono riusciti a sapere da una dottoressa che Aniello, oltre a una forte tachicardia, aveva subito anche lo sversamento della milza. Fatto, questo, che avrebbe potuto costringerlo a subire un intervento chirurgico. La famiglia Arvonio non ha mai avuto nulla a che vedere con vicende criminali. Purtroppo Aniello è diventato schiavo dell’alcolismo. Proprio in preda ad un forte stato di ebbrezza, ha aggredito un carabiniere. La pena avrebbe potuto scontarla anche ai domiciliari. Il trasferimento in comunità - Come spiegato a l’Unità da Samuele Ciambriello, Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania, per fortuna - ad oggi - le condizioni di salute di Aniello sono molto migliorate. Il Garante ha confermato, così come denunciato dalla famiglia Arvonio, che Aniello era stato ricoverato nel reparto di rianimazione e che non riusciva a parlare. Entrato ‘in salute’ in carcere, ne è uscito a pezzi. Poi la bella notizia, risultato di un lungo lavoro. Ciambriello ha rivelato che Aniello Arvonio uscirà dal carcere per finire di scontare la sua pena in una comunità. Ad accoglierlo l’Associazione Centro le Ali Onlus di Caserta. Un luogo di certo più idoneo di un penitenziario per una persona che ha bisogno di sconfiggere una dipendenza. “È necessario però - ha detto Ciambriello - che sulla vicenda venga accertata la verità”. Verona. Morì in cella, il dramma di Donatella rivissuto online di Laura Tedesco Corriere di Verona, 2 agosto 2023 Notte degli amici in diretta streaming a un anno dalla tragedia. La lettera della 27enne suicida alla De Filippi, le lacrime del papà. Un anno fa, nella notte tra l’1 e il 2 agosto 2022, Donatella Hodo si tolse la vota in cella a Verona lasciando una lettera d’amore al fidanzato. “Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia so cosa vuol dire amare qualcuno ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei. Perdonami amore mio, sii forte, ti amo e scusami”. Un’ultima, straziante lettera d’amore: l’addio al mondo di Donatella Hodo, la 27enne che nella notte tra l’1 e il 2 agosto 2022 si uccise inalando gas dal fornelletto nella solitudine della cella nel carcere Montorio a Verona, erano state quelle commoventi parole al fidanzato Leo che la stava aspettando “fuori” per iniziare la convivenza e realizzare il loro sogno di coppia. Purtroppo però Donatella, reclusa per una serie di piccoli reati contro il patrimonio legati al tunnel della droga da cui stava faticosamente cercando di uscire, non sopravvisse a una notte di solitudine, di depressione, di angoscia, a un “buco nero” da cui forse, secondo le amiche che non l’hanno mai dimenticata fondando in suo nome l’associazione per i diritti dei detenuti Sbarre di Zucchero, “sarebbe bastata una telefonata per salvarle la vita e farle superare quelle ore di crisi profonda, quella sua paura di non farcela”. Una tragedia da non dimenticare, quella costata la vita a Dona, che nel primo anniversario è stata commemorata la notte appena trascorsa con una diretta streaming sui social di Sbarre, mentre il papà Nevruz Hodo si commuove: “Con la morte di mia figlia è come se me ne fossi andato anch’io, la mia salute ne ha risentito pesantemente. Proprio oggi (ieri, ndr) abbiamo installato una laa Castel d’Azzano in ricordo dell’amore immenso che ci legherà per sempre a lei, anima sofferente ma pura”. Nel nome di Dona le amiche e gli amici di Sbarre in questi 12 mesi di intensa attività hanno scritto libri, raccolto pensieri e poesie, organizzato eventi e raccolte benefiche, attuato molteplici iniziative per sensibilizzare istituzioni e opinione pubblica, come l’appello appena inviato al presidente della Repubblica Mattarella “per concedere più visite e telefonate ai reclusi”. Un evento online toccante, quello organizzato la scorsa notte dalle fondatrici di Sbarre Micaela Tosato e Monica Bizaj, una diretta Facebook durante cui è stata letta la missiva inviata dal carcere da Donatella alla De Filippi, il suo idolo: “Ciao Maria, ti scrivo per raccontarti la mia storia e chiederti aiuto. Mi chiamo Donatella e ora purtroppo mi trovo in cella a Montorio, sono finita qui perché ho avuto un’infanzia e un’adolescenza difficili con tanti problemi, non ho avuto la forza di reagire e mi sono buttata nella droga”. Donatella voleva “ricominciare e cambiare vita”: alla sua presentatrice prediletta chiedeva “aiutami a cambiare”. Purtroppo alla De Filippi quella lettera non è mai arrivata, purtroppo nessuno ha potuto salvare Dona dal male oscuro, dalla “paura di non farcela”. Un dramma che ha segnato le coscienze, anche quella del giudice di Sorveglianza Vincenzo Semeraro che le ha chiesto “scusa” con una toccante lettera scandita ai funerali, “scusa per non averti capita”. Napoli. “Parole incatenate” al Centro diocesano di pastorale carceraria lapilli.eu, 2 agosto 2023 Storie, canzoni e poesie nate in carcere e messe in scena da detenuti e terapeuti; la sera del 13 agosto alle ore 20.00, al Centro Pastorale Diocesano Carcerario in Napoli alla via Buonomo 38 “Parole Incatenate”, con la Compagnia Stabile Assai. Uno spettacolo di rimembranze e suggestioni, scritta e diretta da Antonio Turco, responsabile delle attività culturali presso la Casa di reclusione di Rebibbia. Un evento organizzato dalla Pastorale Carceraria e dall’associazione Liberi di Volare onlus, con ingresso libero. La rappresentazione si compone di canzoni per amori lacerati, poesie dedicate alle proprie donne, canti della grande tradizione napoletana intonati nelle celle e da omaggi di grandi autori del passato, come Pierpaolo Pasolini, Raffaele Viviani, Ignazio Buttitta, Rosa Balestreri, Salvatore Di Giacomo, cantori della emarginazione popolare. Le poesie, quelle dedicate alle proprie donne che ancora aspettano o che, invece, hanno scelto di vivere una esistenza senza più legami. Tra quelle più significative e segnanti, Carmela, Voce e notte, Tammurriata nera e Passione sono i brani che hanno ispirato i grandi della canzone napoletana e che sono stati cantati nelle celle, nelle docce, nei corridoi, spesso in spazi in cui la voce ha voluto mandare messaggi di nostalgia o disperazione. A questi e altri maestri sarà fatto omaggio con monologhi che narreranno di “vite violente”, di una Napoli notturna, e di una Capitale in cui l’indifferenza produce morte. La Compagnia Teatro Stabile Assai della Casa di Reclusione Rebibbia di Roma è un gruppo teatrale operante all’interno del contesto penitenziario italiano, fondata nel 1982 da Antonio Turco, si serve dell’attività teatrale come strumento di socializzazione e riadattamento. Formano la compagnia, detenuti e da detenuti semi-liberi, che fruiscono di misure premiali, oltre che da operatori carcerari e da musicisti professionisti. I testi degli spettacoli sono inediti, scritti con la collaborazione di tutti i detenuti. Un particolare gruppo di teatranti ha collezionato, negli anni, diversi riconoscimenti, tra gli altri il “Premio Massimo Troisi”. Saranno interpreti della rappresentazione: Tamara Boccia, Giovanni Arcuri, Giorgio Carosi, Massimiliano Anania, Angelo Calabria; Antonio Turco, voce e chitarra, Mario Donatone, piano e voce, Roberto Turco, basso e voce, Lucio Turco, batteria e Ory Ferrazza, chitarra. Saranno presenti in scena alcuni minori della comunità Il Profeta “I ragazzi della comunità il Profeta saranno per alcuni giorni ospiti presso il nostro centro diocesano, un momento di condivisione di esperienze e di riflessione critica sulla realtà carceraria fatto di canzoni, di poesie, di una umanità che vive aldilà delle mura ma che ha bisogno di ponti per mantenersi legata alla comunità esterna, per conservare la speranza in un futuro di riparazione e reinserimento”, ha detto don Franco Esposito, direttore della Pastorale Carceraria di Napoli. Per informazioni e contatti: Pastorale Carceraria Diocesi di Napoli - Via Buonomo 39/41 (Napoli) - tel. 081.440916. Napoli. Carcere minorile di Nisida, ok al restyling del teatro di Eduardo di Daniela De Crescenzo Il Mattino, 2 agosto 2023 Questo teatro si deve fare. Per una volta tutti, governo, opposizioni, volontari e imprenditori sembrano d’accordo: lo spazio scenico voluto da Eduardo, ma chiuso da tempo a causa delle infiltrazioni, deve essere restituito ai ragazzi del carcere di Nisida. Un’operazione non facile, visti gli alti costi previsti e la complessità dell’iter burocratico. Ostacoli che potrebbero essere superati visto il largo fronte delle forze disponibili. Nei giorni scorsi la Camera ha approvato, con il parere favorevole del Governo, un ordine del giorno (prima firmataria l’onorevole del Pd, Debora Serracchiani) in cui si chiede di “valutare l’opportunità compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica di adottare azioni per ripristinare l’agibilità del teatro dell’istituto penale per minorenni di Nisida”. E il senatore Andrea Ostellari (Lega), sottosegretario alla Giustizia, spiega al Mattino: “Alla ristrutturazione del Teatro di Nisida possono concorrere tutte le Istituzioni. Il Governo è favorevole, siamo fiduciosi che anche la Regione, interpellata dalla consigliera Rescigno, farà la sua parte. L’obiettivo non è solo quello di ripristinare la funzionalità di un’edificio. Qui si tratta di assicurare ulteriori possibilità di educazione e avviamento al lavoro di giovani che oggi sono ristretti, ma domani torneranno a far parte della nostra Comunità. Con che atteggiamento e con che aspirazioni dipende da tutti noi”. E infatti il teatro fu voluto da Eduardo proprio per offrire ai giovani detenuti la possibilità di imparare i mestieri legati alla messa in scena: dall’attore, al costumista, al tecnico dei suoni: proprio questa è la magia del teatro, far convivere tante esperienze, sensibilità, e professionalità diverse. Proprio come sta accadendo in queste settimane, quando la città, ma non solo, si sta mobilitando per un progetto comune nel nome del senatore a vita che nel discorso tenuto in aula dopo la nomina, spiegò: “Mi sono sempre domandato quale potrebbe essere il mio contributo affinché la barca di questi ragazzi, che sta facendo acqua da tutte le parti, possa finalmente imboccare la strada giustizia. Sono convinto che se si opera con energia, amore e fiducia in questi ragazzi molto si può ottenere da loro”. La prima a lanciare un appello per la ristrutturazione del carcere è stata qualche mese fa Cristiana Farina, la sceneggiatrice della serie “Mare Fuori”. La prima risposta arrivò dal Fai, Fondo per l’ambiente italiano, che si è messo al lavoro per creare una cordata di imprenditori pronti a dare una mano. A coordinare le iniziative è il direttore dell’istituto penitenziario, Gianluca Guida che spiega: “Nel progetto dell’Istituto penale per Minorenni di Nisida parte centrale è riservata infatti al potenziamento dei talenti artistici, attraverso un percorso basato sul apprendimento del linguaggio del corpo e della voce”. E poi racconta: “Il 17 maggio di quest’anno, a seguito di una rinnovata attenzione alla ristrutturazione del Teatro di Eduardo che ha avuto grande eco sui social, si sono ritrovati a Nisida un gruppo di istituzioni, enti ed imprenditori interessati a contribuire alla risoluzione della vicenda”. È stata anche tracciata una road map che prevede la verifica del progetto di fattibilità elaborato dall’architetto Felice Giovanni Iovinella, di cui si occuperà il dipartimento di architettura dell’università Vanvitelli; la possibilità di costituire un comitato promotore del found racing: l’individuazione di una fondazione bancaria che possa gestire la raccolta fondi. Intanto si va avanti con la progettazione. E la professoressa Ornella Zerlenga, direttore del dipartimento di architettura dell’università Vanvitelli, spiega: “Stiamo approfondendo la conoscenza dei luoghi a partire dalla torre borbonica. Il teatro tornerà come lo aveva voluto Eduardo”. Perché la povertà ci riguarda tutti di Marianna Filandri La Stampa, 2 agosto 2023 Si parla molto in questi giorni di misure di contrasto alla povertà in seguito alla comunicazione di sospensione del Reddito di Cittadinanza a una parte dei beneficiari. Perché è stato sospeso? Non perché le famiglie sono uscite dalla condizione di povertà. Piuttosto il governo ha considerato che senza questa forma di sostegno al reddito molti si attiveranno per trovare un’occupazione o per frequentare un corso di formazione. Questo però è molto improbabile. Per comprenderlo guardiamo alle cause della povertà. Sono numerose, complesse e interrelate tra loro. Riguardano, ad esempio, il livello di istruzione, lo stato di salute, il territorio dove si nasce, le condizioni abitative, le relazioni sociali che si hanno. Su tutte però vi è una dimensione che più delle altre predice la condizione di povertà: la famiglia di origine. Nascere in una famiglia povera aumenta moltissimo la probabilità di essere poveri, al contrario nascere in un nucleo benestante protegge da questo rischio. Questo è particolarmente vero in Italia, un paese ritenuto piuttosto immobile. Cosa significa? Significa che sono poche le persone che si discostano dalla posizione dei genitori nella stratificazione sociale. Chi proviene da una classe alta rimarrà in una classe avvantaggiata e similmente chi proviene da una classe bassa rimarrà in una classe svantaggiata. Secondo i dati del World Economic Forum di qualche anno fa, il nostro paese era tra gli ultimi posti in Europa, seguito solo da Ungheria, Bulgaria, Romania e Grecia. L’immobilità non è una novità. Secondo uno studio di Banca d’Italia nella città di Firenze i cognomi delle famiglie più ricche sono gli stessi da seicento anni. Questi dati fanno sorgere dubbi sulle reali possibilità delle persone in difficoltà di uscire dalla loro condizione di indigenza. Tuttavia, un’ampia parte del discorso pubblico sulla povertà pone l’accento sulle responsabilità individuali. Così è stato rivisto l’accesso al sostegno al reddito per le persone povere. Individui e famiglie in condizione di deprivazione economica sono ritenuti in qualche modo colpevoli della loro situazione. Il lato positivo di riconoscere una grande capacità di agency agli individui è controbilanciato dalla considerazione che gli interventi pubblici sono considerati poco utili. Può lo Stato usare soldi pubblici per aiutare individui svogliati? Al massimo può ipotizzare misure di educazione. Da qui l’idea che le azioni del governo non mirino a contrastare la povertà, ma i poveri (pigri). Sebbene così facendo sono trascurate completamente le dimensioni strutturali di immobilità delle problematiche relative all’emarginazione, al disagio socioeconomico e alla coesione. Le conseguenze di questa visione ricadono su tutti. La povertà è un problema collettivo. In primo luogo, va affrontata per ragioni morali. È una società ingiusta quella che accetta un modello di società civile dove una parte di popolazione ha accumulato ricchezze a fronte di un’altra impoverita con grandi difficoltà ad arrivare a fine mese. In secondo luogo, va affrontata per motivi razionali. Un paese con un alto livello di povertà è un paese dove sono frequenti abbandoni scolastici, episodi di criminalità, malattie, sfratti, sentimenti di insicurezza e sfiducia. I costi per lo Stato aumentano all’aumentare del tasso di povertà. Una riduzione, dunque, migliorerebbe non solo la condizione delle persone povere, ma anche quella di chi non lo è. E con un buon risparmio sulla spesa sociale. Povera Milano. Assalto ai centri per l’impiego e file da Pane Quotidiano di Martina Mazzeo La Stampa, 2 agosto 2023 Agosto, Milano si svuota ma c’è chi in vacanza non va e resta qui, in fila da Pane Quotidiano o ai centri per l’impiego. Adesso, nello “spaccato di povertà assoluta” della ricca metropoli, come lo ha definito l’assessore al Welfare Lamberto Bertolè che si è trovato a gestire l’assalto agli uffici comunali, ci sono anche gli ex percettori del reddito di cittadinanza. E tra questi cresce la rabbia. Come cresce la confusione tra gli addetti ai lavori: un colpo questo stop ad agosto, quando gli operatori vanno in ferie. E ora si teme l’ondata. Tra chi venerdì scorso ha ricevuto “il maledetto sms” c’è Laura, 56 anni, del Corvetto. Per un anno ha preso 500 euro al mese, dal 2018 si divide tra servizi Caritas, corsi di formazione e centri per l’impiego. Un lavoro non arriva, “figuriamoci ad agosto”. Non ha figli né un marito, è arrabbiata. Il messaggio l’ha gelata, di punto in bianco. “Questo governo è disumano, nemmeno te lo dicono in faccia”. Nella stessa situazione c’è Silvana M., 51 anni, che vive ospite da amici. Appena ha ricevuto la comunicazione è andata dagli assistenti sociali a chiedere che cosa fare. Silvana è affetta da una malattia invalidante ma la pratica è ancora aperta. Se percepirà l’assegno, chissà. Vorrebbe separarsi dal marito, però - racconta - “mezzi non ne ho e come se non bastasse sono stata vittima di stalking. Questi al governo non si rendono conto...”. Poi c’è Antonio, originario di Portici, che confidava nei navigator. Vent’anni di lavoro come scenografo, poi una patologia che ha colpito proprio le mani, quindi la malattia dei genitori, l’impossibilità di continuare a lavorare, lo sradicamento e il trasferimento a Milano. Antonio racconta di aver lavorato con stipendi da fame. “Nel 2021 ho lavorato per una cooperativa a 5 euro l’ora, facevo turni di notte e non mi pagavano nemmeno gli straordinari, appena l’ho fatto presente mi hanno licenziato. A conti fatti, lavoravo per 3 euro l’ora”. Il reddito era l’unico appiglio, “mi serviva per integrare perché il mio reddito era sotto la soglia di povertà”. Alla fine “questo governo ha tolto tutto a chi sopravviveva con lavori poveri come il mio: anziché trovare soluzioni ha finito per schiacciare la povera gente”. A Milano, la decima città tra le più colpite dallo stop, sul totale di circa 20 mila ex percettori sono oltre 3 mila le persone che venerdì hanno scorso ricevuto l’sms dell’Inps con la comunicazione della sospensione del sussidio. I numeri di Palazzo Marino dicono che solo 680 risultano “occupabili”. Secondo dati Inps aggiornati al 2023, in Lombardia sono quasi 149.000 i soggetti a cui è stato erogato il reddito di cittadinanza o la pensione di cittadinanza; di questi, 61.153 risiedono nell’area provinciale di Milano. Oltre ai 680 soggetti occupabili, ci sono quelli che non lo sono, “persone che vivono una condizione di estrema fragilità - ha spiegato Bertolè - con bisogno di sostegno e accompagnamento”. Quello che quindi “ne viene fuori è uno spaccato di povertà assoluta nella nostra città”. Da settimane, spiega, si lavora al ritmo di 163 convocazioni al giorno. Su 3 mila nuclei se ne sono presentati 2 mila. Un lavoro “pazzesco, che abbiamo fatto per evitare che queste persone perdessero l’assegno e anche per evitare che gli assistenti sociali venissero esposti a una situazione di rischio”, vista l’alta tensione sociale esplosa in queste ore. “Il governo - attacca - ha scaricato sui Comuni questo compito”. Sui Comuni e sul terzo settore: 1.900 circa i pasti distribuiti in viale Toscana da Pane Quotidiano solo ieri; oltre 4 mila ospiti al giorno, con punte di 4.500 il sabato, contando anche la sede di viale Monza. Più stranieri che italiani al momento, secondo il coordinatore dei volontari, Claudio Falavigna, quelli che si mettono in coda dalle primissime ore del mattino, ma “da inizio anno è aumentata anche la presenza di coppie, di single in giovane età e di italiani”. “Percepiamo il disagio che vivono i nostri ospiti - aggiunge -, il sensibile aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e la sospensione del reddito di cittadinanza hanno ulteriormente indebolito chi è già vulnerabile”. Una persona senza fissa dimora, ex percettore del reddito, si è rivolta alla Caritas di Milano. Disorientata, chiedeva che cosa fare. Peccato che “Caritas non ha avuto nessuna indicazione su come supportare queste persone”. L’unica cosa da fare al momento, spiegano, è orientarle ai servizi sociali del Comune. Sono decine, e continuano ad aumentare, le storie come queste. E si teme l’ondata a settembre. Tra gli addetti ai lavori il sentimento che serpeggia è un misto di impreparazione e frustrazione, tra vaghezza di indicazioni e il ruolo di supplenza allo Stato che si sentono chiamati a svolgere. Come il Fondo di comunità Giambellino, attivato da QuBì, la rete territoriale finanziata da Fondazione Cariplo. Solo in Giambellino-Lorenteggio, un quartiere già “compromesso”, spiega Luca Sansone, referente del progetto, “sono decine le famiglie”, italiane e straniere, prese in contro piede dallo stop al sussidio. Dove lo Stato è assente “proveremo a tamponare, probabilmente attiveremo dei buoni spesa e recupereremo beni alimentari, ma è solo un tampone. È una situazione che aumenta il conflitto sociale”. Cinquanta circa le persone che si sono già rivolte all’Inas della provincia di Milano, che terrà aperto per tutto il mese. Perlopiù nuclei con molti figli, di origine non italiana, spiega il responsabile Paolo Crimeni. Telefono alla mano, dice, “vogliono capire che fine faranno”. Davvero siamo circondati da persone meno gentili e oneste? Il declino morale è un abbaglio di Anna Meldolesi e Chiara Lalli Corriere della Sera, 2 agosto 2023 Due psicologi hanno esaminato 70 anni di sondaggi. Conclusione? Ogni generazione si lamenta del degrado della successiva. Se dovessimo basarci sull’esperienza recente di ciascuno di noi, forse risponderemmo che sì, non c’è più il rispetto verso gli altri che c’era una volta. Ma sarebbe la risposta sbagliata, per due motivi: perché bisogna diffidare dei ricordi (gli sgarbi subìti in passato non erano meno frequenti, ma li abbiamo dimenticati) e perché le brutte notizie fanno più rumore delle belle. E uno studio, ora, lo dimostra Prima o poi capita a tutti di pensarlo: viviamo in un’epoca di declino morale. Googlando si può facilmente verificare che questo pensiero viene attribuito al papa a proposito dell’esclusione verso i migranti, a Oriana Fallaci a proposito della debolezza dell’Occidente, all’Auschwitz memorial Museum per gli assurdi paragoni dei novax tra lager e obbligo vaccinale, al patriarca Kirill per l’ideologia gender e le temibilissime sfilate gay. Il concetto è abbastanza vago da potersi adattare a qualsiasi tema e a qualunque posizione politica, più o meno condivisibile, più o meno detestabile. Perciò è bene specificare subito cosa intendiamo qui: quando parliamo di declino morale ci riferiamo al fatto che oggi siamo circondati da persone meno gentili, meno oneste, meno affidabili di un tempo. Ma è un fatto dimostrabile o solo una percezione? Se dovessi rispondere in base alle mie esperienze recenti, non verrebbe fuori un bel quadro. L’altro giorno un uomo mi è passato davanti alla cassa del supermercato fingendo di avere solo un articolo da pagare e poi ha tirato fuori una busta di cose. Che dire dell’autista del bus che non si è fermato per farmi salire, delle telefonate altrui che sono costretta a sentire in treno, e poi le strade, perché sono tanto sporche? Il fatto è che dei propri ricordi bisogna diffidare: gli sgarbi subiti in passato non erano meno frequenti, ma per lo più li abbiamo dimenticati. E forse il mondo sembra peggio di quello che è anche perché le brutte notizie fanno più rumore delle belle. Mettete insieme le due distorsioni, quella relativa alle informazioni a cui siamo esposti e quella che riguarda i meccanismi della memoria, e il gioco è fatto. A sostenerlo è uno studio intitolato “L’illusione del declino morale” pubblicato su Nature da due psicologi americani. Adam Mastroianni (Columbia University) e Daniel Gilbert (Harvard) hanno passato in rassegna 70 anni di sondaggi condotti in 60 paesi, compresa l’Italia. In questo modo hanno potuto dimostrare che anche i nostri genitori si lamentavano del declino morale in atto e i loro genitori prima di loro e così via, indietro nel tempo, senza distinzioni di etnia, sesso, età, livello di istruzione. Probabilmente è altrettanto fatale che i modi dei giovani vengano travisati dagli adulti. Non i nostri figli, per carità, i giovani in generale (perché le persone che conosciamo bene di solito sono l’eccezione alla regola, il declino non le riguarda quasi mai). Che poi, a pensarci bene, oggi i ragazzi protestano per i cambiamenti climatici, mentre il fenomeno giovanile degli Anni ‘80 erano i paninari. O tempora, o mores! , ci hanno insegnato a dire in latino. Ma ho il sospetto che molte decine di migliaia di anni fa lo dicessero, a modo loro, anche i Neandertaliani. “Percezioni sbagliate e scollamento dalla realtà sono pericoli veri perché danno spazio a chi vuole farci tornare ai bei tempi andati”, di Chiara Lalli Succede anche rispetto alla nostra vita passata: rivisitare nostalgicamente e romanticamente quanto accaduto l’anno scorso o quindici anni fa, ripensare a quella cena o a quella vacanza come se fossero state perfette, dimenticando quel colpo di caldo e la pasta scotta. Spesso è falso anche se non sempre è facile dimostrarlo o avere termini di paragone. Spesso è il risultato di quella memoria selettiva che lascia svanire i ricordi sgradevoli per mantenere solo i particolari piacevoli. C’entra anche un po’ il nostro sentirci al centro dell’universo (la crisi copernicana non l’abbiamo mai superata) e pensarci l’unità di misura della bellezza e della morale. Ripenso alla discussione davanti a quell’orrendo tavolo da caffè tra Marie, Jess, Sally e Harry, in Harry ti presento Sally… “Tutti ritengono di avere buongusto e senso dell’umorismo ma è materialmente impossibile che tutti ne abbiano” vale per tutto. Perché dovremmo avere il senso morale? Perché dovremmo essere capaci di confrontare scenari e formulare giudizi? E poi forse c’entra la familiarità (e la nostra pigrizia). Mi viene in mente quello che scriveva Douglas Adams a proposito del nostro rapporto con la natura: “Qualunque cosa sia stata inventata dopo che abbiamo compiuto trentacinque anni va contro l’ordine naturale delle cose”. Le percezioni sbagliate e lo scollegamento dalla realtà (qualsiasi cosa sia la sua definizione precisa ma ci capiamo) possono però essere pericolose. A forza di credere al declino morale assoluto e alla dissoluzione delle tradizioni (che in questo contesto sono sempre belle e buone e rovinate dalla modernità - ovviamente non è vero), il primo che arriva a dirci che se gli diamo retta risolverà tutto e ci farà tornare ai bei tempi andati non lo riconosceremo come un ciarlatano o come un despota interessato solo ai propri interessi, ma come una specie di salvatore del mondo. “Ci penso io”, ci dirà impettito. E noi gli crederemo come si crede a Babbo Natale (fino a 6 anni siamo scusati, dopo no). Non è una credenza di pochi: nel 2015 il 76% degli statunitensi ha detto che il declino morale dovrebbe essere una priorità della politica. Insomma, è un’ombra meno evanescente di quanto dovrebbe. Forse è anche una invadente causa di infelicità personale. Perché se credi che il meglio della tua esistenza sia nel passato, se pensi che invecchiare sia un disastro perché ricordi solo la pelle levigata e i pomeriggi estivi e non la tragedia dell’adolescenza, allora sei destinato a rimpiangere per sempre qualcosa che non è mai esistito. E poi qual è l’alternativa? Essere morto. Anche se non viviamo nel migliore dei mondi possibili, potrebbe andare molto peggio. “Il mondo ha scordato noi palestinesi, così vince l’estremismo” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 2 agosto 2023 Il ministro degli Esteri Malki in visita a Roma incontra il suo omologo Tajani e chiede: abbiamo bisogno di una parte terza. “La Palestina oggi è una terra dimenticata, si parla solo di Ucraina e Cina, il mondo non ha interesse al processo di pace, così la situazione esploderà, non dovremmo lasciare il terreno in mano agli estremisti da ambo i fronti”. Il ministro degli Esteri Ryiad Malki ci riceve nell’ambasciata romana, di fronte alle Terme di Caracalla e a un passo dalla Fao. È appena tornato dal colloquio alla Farnesina con il suo omologo Antonio Tajani: “È stato un buon incontro, sono sicuro che potremo lavorare insieme. Abbiamo fiducia nell’Italia - dice -, lui è venuto in Palestina pochi mesi fa e ha appena visto qui a Roma il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen, sa bene qual è la situazione. Tajani è una persona di grande esperienza ed è rispettata da entrambi i fronti. A lui ho detto non possiamo aiutarci da soli, abbiamo bisogno di una parte terza”. La scorsa settimana il presidente Abu Mazen ha visitato Jenin per la prima volta in undici anni. L’Autorità Nazionale Palestinese sembra aver perso il controllo della città che un tempo era dominata da Fatah. Come lo spiega? “La nostra gente si aspetta che li proteggiamo e quando falliamo perdiamo il controllo che poi è proprio quello che vuole Israele. Ogni giorno i soldati israeliani invadono i villaggi,entrano nelle case, distruggono i mobili, se resisti ti ammazzano. Dall’inizio dell’anno sono stati uccisi 200 palestinesi, 100 le case rase al suolo e 500 quelle parzialmente distrutte, 4mila le persone arrestate. A Jenin hanno distrutto le strade, la rete elettrica e idrica. Seimila persone sono finite in mezzo a una strada. La loro politica è quella di renderci deboli”. Le elezioni legislative del 2021 sono state rimandate sine die e Abu Mazen, che ha 87 anni, non ha indicato un successore, questo crea uno stato d’incertezza nell’Anp... “Siamo una democrazia, non è Abbas che deve scegliere il successore!”. Ma che democrazia è se non votate? “Gli israeliani non ci permettono di organizzare il voto a Gerusalemme est e non possiamo tenere le elezioni solo in una parte del Paese. Abbiamo chiesto a Usa e Ue di aiutarci ma per ora non è stato ottenuto alcun risultato. Stanno ricattando la nostra democrazia. Se ci daranno il via in 60 giorni porteremo la nostra gente al voto”. I negoziati di pace sono fermi al 2014, c’è possibilità che ripartano? “Sono stati gli americani a sabotare il lavoro del Quartetto (Ue, Russia, Onu e Usa) che nel 2003 era stato incaricato di lavorare alla soluzione dei due Stati. Ma gli americani volevano giocare da soli per prendersi tutto il merito, poi nel 2014 hanno fallito. Da allora non è più successo nulla. Tutti i governi israeliani hanno detto che sono contro la soluzione dei due Stati. Oggi, poi,c’è l’esecutivo più estremista e più fascista di sempre. Quindi direi che le possibilità sono meno di zero. A meno che la comunità internazionale non imponga una soluzione”. Abu Mazen è stato in Egitto per incontrare i leader di Hamas. È possibile ristabilire un’unità tra le diverse fazioni palestinesi? “Il presidente sta lavorando fortemente a questo, ha parlato con gli esponenti di Hamas per ore ad Ankara quando ha visto Erdogan, poi domenica tutte le fazioni si sono viste in Egitto per discutere come arginare la violenza che sta colpendo il Paese. È un primo passo in questa direzione”. Abbas ha incontrato anche Xi Jinping. Pensa che la Cina possa avere un ruolo da mediatore più forte di quello americano? “Pechino non è interessata a mediare, vuole solo accrescere il suo ruolo nell’area ma è ovvio che se gli americani si dileguano chiunque potrà prendere il loro posto”. Domenica nella striscia di Gaza la gente è scesa in piazza per protestare contro i black out, la mancanza di acqua, le difficoltà della vita quotidiana. Cresce lo scontento nei confronti di Hamas? “Non c’è luce e acqua per 24 ore al giorno, la disoccupazione è al 70%, la gente è allo stremo cosa si aspetta? È la rabbia che viene fuori”. Grazie agli americani potrebbe esserci un accordo per normalizzare le relazioni tra Israele e l’Arabia Saudita. Cosa ne pensa? “Mi sembra che Riad abbia messo in chiaro che questo potrà accadere solo se nascerà lo Stato palestinese e finirà l’occupazione dei Territori. Biden, dal canto suo, cerca la rielezione e vuole mettere al sicuro il voto degli ebrei americani facendo vedere come si prodiga per aiutare Israele. Un gioco che, se riuscisse, dimostrerebbe che la questione palestinese non è importante per gli arabi”. Parliamo di diritti umani, negli anni sono state tantissime le persone Lgbt che hanno lasciato la Palestina vivere in Israele. Avete un piano per rendere il Paese più inclusivo? “Guardi noi siamo sotto occupazione. Quando questa guerra sarà finita potete chiederci di occuparci di queste questioni. In questo momento pensiamo a ricostruire le case distrutte e ad aiutare le famiglie”. Il Sahelistan aspetta già i “crociati”. “Se intervengono, un dono divino” di Domenico Quirico La Stampa, 2 agosto 2023 I jihadisti pronti a trasformare la regione nel nuovo Iraq, con i francesi nel ruolo di “infedeli”. Golpe dopo golpe trovano spazi allettanti e arruolano disperati ridotti in miseria dalle sanzioni. C’è eccitazione, attesa fremente nel Sahelistan. Dall’Adrar des Ifoghas, sconfinato teatro dove gli unici ornamenti sono le pietre e i cespugli di quella coriacea, miseranda pianta che è il lentisco, alle piste dell’immenso Teneré, il deserto dei deserti, fino al Lago Ciad e ad Agadez accucciata sotto il suo minareto di sabbia vecchio di 500 anni, in tutti gli innumerevoli santuari del Jihad saheliano, da alcuni giorni si avverte il brivido delle ore decisive. Sì. I terroristi esultano. Ancora una volta Allah ha fatto il miracolo: gli occidentali e i loro servi apostati stanno per commettere l’ennesimo errore, intervenire nelle terre di Dio, aggredire il Niger per metter sulla sedia lo schiavo di Parigi, il traditore dei traditori, il ridicolo presidente Bazoum, appena dissellato dai golpisti. Non imparano davvero mai, i perversi. Solo dio poteva confondere così le menti di Macron e dei suoi accoliti. Negli accampamenti dei mujaheddin le preghiere sono più ferventi del solito, si scambiano le notizie che arrivano da Niamey: i colonialisti si agitano impauriti e furibondi, nessuno dà più loro retta, minacciano a vanvera, i nigerini assaltano l’ambasciata francese, non si parla più dell’Isis o di Al Qaeda come se fossero scomparsi, solo di Putin e della Wagner, il caos avanza a larghi passi. Il caos che è il braccio di dio: sia dunque lode a dio grande e misericordioso. Per i talebani d’Africa che hanno costruito il califfato del grande Sahara, sconfitto due scalcinate offensive francesi, e vogliono ripetere i fasti di Raqqa e di Mosul, nessun scenario poteva essere migliore. I bianchi, i crociati invadono un Paese musulmano che già li odia dal profondo, una grande guerra africana può scoppiare tra le giunte militari di Mali, Burkina Faso e Niger e gli alleati degli occidentali uniti nella Cedeao, con francesi, americani, italiani insabbiati nel Sahel. Ai “garibu”, i bambini che stanno all’uscita delle città per chiedere l’elemosina e sono gli occhi dei ribelli, è stato raccomandato di dar l’avviso subito quando compariranno i soldati stranieri. Negli accampamenti nelle zone “liberate” si preparano le armi. I droni francesi e americani, le nostre fallibili meraviglie, passano alti nel cielo e non vedono niente: solo macchie di arbusto, segni indecifrabili sulla sabbia, tombe semisepolte che coprono pietosamente la saggezza di qualche marabutto, e nel deserto di pietra frustato dal vento e dal sole solo un allucinato alternarsi di luce e ombre. Loro sono lì che aspettano l’annuncio. È il sogno dei jihadisti: gli occidentali che arrivano a Niamey per restaurare la loro democrazia, liberare il loro presidente, e, ovviamente, aiutare le popolazioni derelitte. Come assicurano da decenni. Neanche i più ottimisti potevano sperare in un altro Iraq sulle rive del Niger, nella ripetizione africana dell’Afghanistan. Non c’è stato bisogno di molta propaganda islamista per convincere questi sudditi della Francia per l’eternità che narrano loro bugie. E che gli occidentali sono qui per difendere i loro interessi, le miniere di uranio di Arlit, parcheggiare fuori vista i migranti, tener lontane la Russia e la cina, puntellare obbedienti regimi di ladri. Hanno paura della loro debolezza, hanno paura di perdere. Trovare reclute non è stato difficile, bisognava diventare una parte di questo mondo dei deserti, mimetizzarsi, far proprie le lotte locali, offrire denaro, preghiere e kalashnikov. Perché qui chi comanda non sono le città, comanda chi è padrone del deserto delle sue immensità, delle sue carovaniere, dei pozzi, dell’oro, dei traffici, dei suoi linguaggi. Solo per noi, ignoranti, il deserto è un esotico vuoto silenzioso. Mentre gli aiuti umanitari e per lo sviluppo finivano nei conti in banca dei nostri fedelissimi, ben occultate da ciance facili, predigerite senza bisogno di masticare (la globalizzazione ha salvato milioni di persone…) il jihad ha predicato tra le popolazioni percosse dalla miseria e dalle prepotenze dei presidenti “democratici”: i Tuareg, le “peaux rouges”, i pellerossa come li chiamano con sprezzo sulle rive del Niger, e i pastori nomadi che ignorano le delizie dei confini insormontabili. I colpi di Stato militari sono stati una benedizione per il jihad: ora tutto è chiaro. Di qua i buoni musulmani, di là gli infedeli con i loro accoliti. Il minacciato intervento militare dei Paesi vicini che la Francia vuole utilizzare per africanizzare la guerra è un altro tassello favorevole. Degli eserciti dei “nostri amici d’Africa” non hanno certo paura. Togolesi, beninois, senegalesi, nigeriani son soldati fiacchi, dalle uniformi flosce come le portano i cattivi soldati. Preoccupano solo i ciadiani, come loro guerrieri del deserto; nella battaglia di Timbuctu contro Abu Zeid il Macellaio furono loro a vincere. Da un anno e mezzo, da quando “i crociati” si massacrano tra loro in Ucraina e coltivano il loro spinoso giardino, per il jihad africano sono tempi fausti. Il Burkina Faso è diventato il cuore del califfato, i militari stufi di essere mal pagati e usati come carne da macello hanno preso il potere, e così hanno perso l’aiuto occidentale, la creazione di milizie di autodifesa a base etnica ha scatenato un favorevole guerra parallela fatta di vendette, odi antichi, prepotenze. Le sciagurate sanzioni che ora colpiscono anche la popolazione del Niger moltiplicano le masse di disperati tra cui si possono distribuire kalashnikov e offrire possibilità di vendetta. La nostra “lotta al terrorismo”, che ha martoriato luoghi dove ogni vita è soltanto in prestito, in un mondo che non concede nascondigli, ha creato nel cuore dell’Africa un enorme spazio vuoto e disperato, off limits per noi, aperto a chi avrebbe saputo riempirlo. Le rotte della droga, delle armi, dei profeti dell’islam totalitario hanno continuato intanto ad attraversare il deserto. I sequestri sono diventati una industria, l’unica che rende. Nei caffè del Sahel ti elencavano le tariffe per gli stranieri: “Tu sei italiano, non vali niente come i locali, i francesi sono una miniera, li fanno pagare più degli americani perché li odiano di più”. I jihadisti, straordinari manipolatori di anime e di furori mitici, (il paradiso, la purezza, il martirio), hanno riempito quel vuoto, lo hanno modellato a loro immagine e somiglianza. La materia non è altro che energia compressa, un dito contiene tante piccole Hiroshima. I miti sono insiemi di energia compressa. Nel Sahel il mignolo attende il nostro ennesimo errore. Il risiko africano: Mali e Burkina Faso si schierano con i golpisti del Niger di Danilo Ceccarelli La Stampa, 2 agosto 2023 La regione si spacca in due: ponte aereo da Parigi per rimpatriare gli europei. Documenti, un cellulare carico, acqua, cibo e qualche effetto personale. È lo stretto necessario che l’Ambasciata di Francia consiglia di non dimenticare ai suoi 600 concittadini presenti in Niger nella mail in cui si annuncia l’inizio delle evacuazioni. Dopo qualche giorno di esitazione, ieri Parigi ha approfittato del ritorno della calma a Niamey, mandando i primi tre aerei militari (non armati) per prelevare i connazionali che, su base volontaria, hanno scelto di lasciare il Paese dopo il recente colpo di Stato guidato dal generale Abdourahamane Tiani. I 1.500 soldati francesi, invece, resteranno sul posto. Una decisione presa in seguito alle “violenze” contro l’ambasciata francese nel Niger avvenute domenica e “la chiusura dello spazio aereo” imposta dai golpisti, ha spiegato il Quai d’Orsay, che ha messo a disposizione i suoi mezzi anche con gli altri europei. Un invito subito raccolto dalla Germania, che ha raccomandato ai circa 100 tedeschi presenti in Niger di “accettare l’offerta”, mentre secondo BfmTv già nel primo aereo di ieri erano presenti degli italiani. Roma si è inoltre mossa con un “volo speciale” annunciato dal ministro Antonio Tajani. Madrid, invece, punta far rientrare una settantina di spagnoli, mentre gli Stati Uniti chiedono la collaborazione delle autorità nigerine per evacuare gli americani. Il Regno Unito, invece, si mostra più serafico, limitandosi ad invitare i suoi cittadini a rimanere a casa. Ormai, però, sembra essere cominciato un fuggi fuggi generale da un Paese che non è in guerra e che, al momento, non ha ancora visto scontri finiti nel sangue dopo il putsch. Ma l’Occidente preferisce evitare rischi. L’ombra russa dietro il golpe preoccupa Stati Uniti e Unione europea, nonostante Mosca lunedì abbia preso le distanze dai Yevgeny Prigozhin, leader della Wagner, che ha espresso sostegno nei confronti di Tiani. Una posizione che di certo non convince Kiev, secondo il quale “è ormai assolutamente chiaro” l’impegno del Cremlino nel colpo di Stato, anche se gli americani riconoscono di non avere “nessuna indicazione” sul coinvolgimento russo. Intanto, si cerca di aumentare la pressione sulla giunta militare di Niamey che ha deposto il presidente eletto Mohamed Bazoum, sotto sequestro nella sua residenza ma “in buona salute” secondo quanto riferito da Bruxelles, in stretto contatto con il capo dello Stato. Gli strumenti sono i soliti: sanzioni, tagli agli aiuti e una velata minaccia di ricorso alla forza contro un Paese dove lo scorso anno il 43% dei cittadini viveva con meno di 2 dollari al giorno nonostante le ricchezze minerarie. Prima fra tutte l’uranio, che rappresenta un quarto delle forniture all’Europa, anche se secondo Bruxelles al momento non ci sono rischi nell’approvvigionamento. L’obiettivo è quello di mettere alle corde i golpisti. Bruxelles e Washington contano molto sulla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas), che lo scorso fine settimana ha dato un ultimatum di 7 giorni ai militari al potere ventilando la possibilità di un “ricorso alla forza” se necessario. Un’eventualità che rappresenterebbe “una dichiarazione di guerra contro il Burkina Faso e il Mali”, hanno tuonato lunedì sera gli altri due Paesi del Sahel guidati da giunte salite al potere con la forza e considerate vicine a Mosca. L’endorsement conferma i più cupi timori dell’Occidente, sempre più preoccupato dalla frattura in corso nel Sahel: da una parte il gruppo dei 15 membri dell’Ecowas, dall’altro il trio dei dissidenti. Al centro il terrorismo jihadista e la precarietà economica e sociale dell’intera regione, sempre più sull’orlo del baratro. A spingerla verso l’abisso c’è il pericolo che la tentazione insurrezionale prenda piede in altri Paesi, allargandosi a macchia d’olio nella zona, dove l’instabilità politica rappresenta un terreno fertile per le rivolte. Uno scenario da incubo, che potrebbe essere aggravato da uno scontro frontale. Per questo l’Algeria, pur ribadendo il suo “sostegno a Bazoum”, chiede un ritorno “all’ordine costituzionale” con “mezzi pacifici”. Una crisi su ampia scala potrebbe innescare una nuova bomba migratoria pronta ad esplodere proprio nel Mediterraneo.