Riforma penitenziaria, associazioni in piazza a Roma per detenuti e agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 agosto 2023 Il prossimo 16 settembre davanti al Ministero della Giustizia. Un appello per il cambiamento a Roma il prossimo 16 settembre, quando Sbarre di Zucchero, Ristretti Orizzonti e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia si uniranno in una manifestazione in forma statica per ribadire l’urgenza di una riforma nel sistema penitenziario italiano. L’evento, previsto nei giardini adiacenti al ministero della Giustizia, in piazza Benedetto Cairoli, rappresenta un richiamo forte e inequivocabile per il rispetto della Costituzione, la dignità dei detenuti e la sicurezza degli operatori penitenziari. La spinta dietro questa iniziativa trova origine nell’allarme costante proveniente dal mondo penitenziario, caratterizzato da suicidi, autolesionismo, proteste e persino tragici episodi di omicidi all’interno degli istituti penitenziari. I rappresentanti delle organizzazioni promotrici sottolineano l’importanza di un “altro carcere possibile”, che non solo tuteli i diritti dei detenuti, ma fornisca anche un ambiente sicuro e dignitoso per gli agenti penitenziari. Questi ultimi, spesso trascurati nel dibattito pubblico, affrontano quotidianamente stress e pericoli nel loro lavoro, ma mancano di formazione adeguata e supporto. Le sfide che devono affrontare includono carenze di personale e la necessità di gestire situazioni con detenuti particolarmente difficili senza le risorse necessarie. La mancanza di una riforma penitenziaria seria e sostenibile costituisce una preoccupazione costante. Nonostante le continue notizie drammatiche provenienti dalle carceri, sembra mancare la volontà di intraprendere azioni significative per migliorare la situazione. La manifestazione promossa da Sbarre di Zucchero, Ristretti Orizzonti e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia mira a sensibilizzare sia l’opinione pubblica che il ministero della Giustizia riguardo alla necessità di affrontare in modo efficace e responsabile le sfide del sistema penitenziario. L’evento è aperto a tutti coloro che condividono la preoccupazione per il sistema penitenziario italiano, comprese associazioni di volontariato, cittadini singoli ma anche e soprattutto i sindacati di Polizia penitenziaria. Le associazioni stesse evidenziano che si verificano frequenti aggressioni nei confronti degli agenti penitenziari e del personale operativo, come segnalato due giorni fa dalla FNS Cisl dell’Emilia Romagna, che ha riportato un attacco subito da due agenti presso il carcere di Ferrara. La partecipazione di questi gruppi rappresenta un segno di sostegno per un cambiamento di rotta, per un sistema penitenziario che rispetti la dignità umana e promuova la sicurezza sia dei detenuti che degli operatori penitenziari. L’obiettivo della manifestazione, che ha già ottenuto numerose adesioni, tra cui il Partito Radicale, i garanti regionali Irene Testa e Francesco Maisto, A Roma Insieme, l’Osservatorio carcere delle Camere Penali e Recidiva zero, è essere il punto di partenza di un dialogo costruttivo finalizzato a una riforma concreta e significativa del sistema penitenziario italiano. Quei diciannove bambini rinchiusi nelle nostre celle di Luigi Manconi La Stampa, 29 agosto 2023 In genere, quando non si sa bene come iniziare un articolo sul carcere, si ricorre alla più consueta delle citazioni, attribuendola un po’ a casaccio a Victor Hugo o a Voltaire o a Cesare Beccaria: “La civiltà di una nazione è scritta sui muri delle sue prigioni”. L’abuso ha reso innocua tale affermazione, che pure conserva un suo robusto tratto di verità e, di più, la forza incontestabile di un dato scientifico. Oggi, quella massima, potrebbe essere aggiornata attraverso l’indicazione di un parametro di inciviltà giuridica e politica e morale dell’ordinamento in quello che è, in apparenza, solo un dettaglio. Ovvero, come il sistema penitenziario italiano tratta i bambini prigionieri. Ma, qualcuno potrebbe eccepire, mica ci sono bambini detenuti in Italia! E invece sì. A fine luglio di quest’anno, nelle carceri italiane si trovavano 19 bambini dai 0 ai 3 anni, reclusi con le proprie madri. Si dirà: è un numero irrisorio. Vero, ma va ricordato che in altri periodi dell’ultimo decennio si è raggiunto il numero di 55 e che, soprattutto, quella cifra esprime simbolicamente il tasso raggiunto dalla ingiustizia assoluta. E proprio perché quei bambini sono gli innocenti assoluti, privi di qualunque colpa e mondi da qualunque responsabilità. Colpevoli solo di essere le vittime della maledizione biblica sulle colpe dei padri. Viene in mente ciò pensando a quanto avvenuto ad Avellino qualche giorno fa, dove una detenuta di 39 anni, ristretta con la figlia di 4, ha tentato di togliersi la vita ingerendo della candeggina. In genere i reati per i quali le donne vengono recluse, anche quando, come in questo caso, in un Istituto a custodia attenuata (Icam), sono di lieve entità. Viene ignorato, così, quel fondamentale principio costituzionale, sempre ribadito dalla giurisprudenza italiana ed europea, del primario interesse del minore e si sottovaluta un dato grande come una casa. Ovvero, che è la stessa relazione di genitorialità che il carcere, per sua stessa natura, nega alla radice. In altre parole, non può darsi rapporto madre-figlio all’interno di una prigione (per quanto attenuata). Ne è presumibile esito il fatto che la frequenza dei suicidi tra le recluse (che rappresentano appena il 5% dell’intera popolazione detenuta) è doppia della frequenza registrata tra i detenuti maschi. Per questa ragione, è stata una occasione drammaticamente persa e un atto politicamente ignobile quello che ha visto l’attuale maggioranza affossare la proposta di legge per far uscire i bambini dagli istituti di pena. Lo scorso marzo, infatti, in Commissione Giustizia della Camera, il PD ha dovuto ritirare il progetto Serracchiani (che riprendeva la proposta dell’ex deputato Siani, frutto di un lavoro con le associazioni del settore): dal momento che Fratelli d’Italia aveva inserito degli emendamenti destinati a peggiorare il testo. Volti cioè a depotenziare l’intero impianto normativo e la sua capacità di “liberare i bambini”. In sostanza, secondo Fratelli d’Italia, in caso di recidiva e senza valutazione da parte del magistrato, sarebbe stata resa automatica la custodia in carcere o negli Icam. Annullando, così, la possibilità di scontare la pena nelle case famiglia previste da una legge del 2011, oggi pressoché inapplicata. Quasi non bastasse, il partito di maggioranza aveva anche prospettato l’ipotesi di allontanamento del figlio dalla madre. Come si vede, una questione apparentemente di dettaglio evoca grandi tematiche giuridiche e morali ed è materia di un conflitto acuto tra una concezione di destra e una di sinistra: quelle stesse categorie che solo gli sciocchi possono considerare obsolete a causa di una fine della storia che lo scenario internazionale si incarica di smentire a ogni piè sospinto. Il fallimento del carcere e l’urgente necessità di superarlo con misure alternative più efficaci di Giulia Crivellini* e Alessandro Capriccioli** Il Dubbio, 29 agosto 2023 Forse, mentre settembre si avvicina, è arrivato il momento di scegliere: prodursi nell’ennesima (e fondatissima) denuncia sull’estate infernale che è puntualmente andata in scena nelle carceri del nostro Paese, magari elencando una serie di (ragionevolissime) misure che sarebbe opportuno adottare per migliorare le condizioni di vita delle persone ristrette nei nostri istituti penitenziari. Oppure spingersi finalmente qualche metro più in là, fino a farsi qualche domanda sulla capacità dell’istituzione carcere, in quanto tale, di corrispondere alla finalità di “rieducazione” - meglio sarebbe dire, utilizzando un lessico più contemporaneo, di “risocializzazione” - che l’articolo 27 della Costituzione repubblicana assegna alle “pene”. L’utilizzo della parola al plurale, a ben guardare, è tutt’altro che un caso, perché rivela un fatto di enorme importanza, troppo spesso sottovalutato: anche nelle intenzioni dei padri costituenti, non soltanto nei vaneggiamenti di qualche estremista, il carcere non rappresenta necessariamente l’unico “trattamento” possibile per il “recupero” degli autori di reato, ossia per (tentare di) fare in modo che chi ha sbagliato una volta non ripeta il proprio errore, garantendo così non soltanto una seconda possibilità a coloro che hanno infranto la legge, ma anche - e questo è il dato che i più accaniti fautori della punizione come unica vocazione della pena si ostinano colpevolmente a ignorare - una maggiore sicurezza alle potenziali vittime delle loro azioni. I dati, raccolti ed elaborati nei decenni da chi, come i Radicali, delle carceri si occupa da sempre, dimostrano in modo inequivocabile che il carcere è uno strumento oggettivamente fallimentare: anche non volendo prendersi la briga di andare a verificare di persona le condizioni disumane che caratterizzano la vita delle persone all’interno di questi luoghi (cosa che, a onor del vero, dovrebbe essere un dovere per tutti coloro che ricoprono una carica istituzionale), sarebbe sufficiente dare un rapido sguardo ai disastrosi dati sulla recidiva, cioè alla percentuale di rei che una volta scontata la pena tornano a delinquere e a quelli sul sovraffollamento per rendersi conto che siamo di fronte a una macchina che produce dolore, sofferenza e morte senza ottenere alcun risultato utile per la comunità. Il carcere è per tutti ma non serve a nessuno. Non serve a chi lo abita, non serve a chi dovrebbe trovare ristoro dalla pena, non serve, nella gran parte dei casi, a prevenire. E allora parlare di abolizione, o di carcere come extrema ratio, per usare un’espressione più “rassicurante”, non appare più come un’istanza visionaria, ma diventa la conseguenza logica dell’osservazione di quello che abbiamo davanti agli occhi e l’assunzione della doverosa responsabilità di affrontarlo in modo efficace, senza abbandonarsi alla logica degli slogan e della retorica a buon mercato. Mettere in discussione il carcere, cioè quella che tra le possibili “pene” di cui parla l’articolo 27 della Costituzione continua a insistere sulla carne delle persone in modo non dissimile, perlomeno sul piano concettuale, dalle punizioni corporali in voga fino a due secoli fa, è dunque la più ragionevole delle istanze: e il tentativo di farla apparire come un’idea folle e irresponsabile, anziché come la conseguenza della realtà, è la cifra di una classe politica che ha da tempo rinunciato ad affrontare il problema dei reati (e dunque della sicurezza pubblica) con qualche speranza di ottenere risultati concreti. Sostituirlo con misure alternative più efficaci e in grado di rispondere alle esigenze di sicurezza diviene allora la strada politica da perseguire. Se a tutto questo si aggiunge ciò che per molti, specie di questi tempi, è diventato quasi un dettaglio, ossia lo Stato di diritto, cui non è possibile abdicare “a pezzi” senza vederlo crollare nella sua interezza, si comprende come il dibattito sull’abolizione del carcere sia ormai improcrastinabile. E come qualsiasi rimedio estemporaneo che non metta in discussione la prigione quale istituzione totale, per questo incapace di qualsiasi “rieducazione” o “recupero”, non possa che rappresentare un pannicello caldo di poca, o nulla utilità concreta. *Tesoriera di Radicali Italiani **Segretario Radicali Roma Giustizia, sprint per la riforma. Sisto: “La modifica del concorso esterno non è in agenda” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 29 agosto 2023 L’ex magistrato Davigo: “La riforma Nordio è il contrario di ciò che serve”. Nessuna accelerata sulla modifica del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, “che non è nell’agenda del Governo ma comunque andrà tipizzato”, ma uno sprint autunnale sulle riforme della giustizia: il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, anticipa dalla kermesse “La Piazza” organizzata a Ceglie Messapica (Brindisi) da Affaritaliani, la volontà del Governo di stringere i tempi su alcune questioni fondamentali. Il 5 settembre si comincerà a discutere in commissione Giustizia del Senato il ddl approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 15 giugno e presentato il 19 luglio a palazzo Madama. Del testo fa parte l’abolizione dell’abuso d’ufficio (“che i sindaci chiedono da tempo, anche quelli dei partiti che lo osteggiano in Parlamento” dice Sisto), la modifica del reato di traffico di influenze (“una norma larghissima che va ristretta”), la possibilità per il pm di appellare le sentenze di assoluzione. E, soprattutto, le intercettazioni: “Il Bronx nella ricerca delle intercettazioni più gossippare deve finire. Chi meglio del giudice può decidere quali sono pertinenti ai fatti reato e quali estranee?”. Per Sisto una priorità è anche la separazione delle carriere, primo punto di scontro con Piercamillo Davigo, magistrato in pensione e volto storico del pool di Mani pulite. “Credo che la miglior garanzia sia avere pm che ragiona come giudice - spiega - I discorsi sull’uguaglianza delle parti sono una sciocchezza”. E poi sulla discrezionalità che la riforma vuole attribuire all’esercizio dell’azione penale: “Vuol dire rovesciare la Costituzione” e anche, a suo avviso, andare contro la Corte europea dei diritti dell’uomo. Senza contare che “l’abolizione del reato di abuso d’ufficio violerà la Convenzione adottata a Merida dalle Nazioni unite e che anche l’Italia aveva sottoscritto”. Sul punto è intervenuto anche il governatore pugliese Michele Emiliano, che sposa le tesi degli amministratori locali più che quelle della maggior parte dei magistrati (di cui è ancora collega, essendo in aspettativa): “Il reato così com’è va abolito, bisognerebbe individuare un sistema diverso. Gli unici che saranno danneggiati saranno i giornalisti”. “In pochi vogliono lavorare nei Tribunali, ora si cambia strategia”. Parla Rizzo, “capo” di via Arenula di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 29 agosto 2023 Intervista al magistrato che dirige il Gabinetto del guardasigilli Nordio. “I dati parlano chiaro, il posto fisso non attrae più: col primo concorso che abbiamo bandito per il personale giustizia, abbiamo trovato solo 256 funzionari su 540 posti. Abbiamo già avviato, col Veneto, intese in modo da attingere alle graduatorie delle Regioni”. “Non sempre la possibilità di ottenere un contratto di lavoro a tempo indeterminato con lo Stato è una strada appetibile. Bisogna prenderne atto e agire affinché la scelta per i lavoratori sia compatibile con le esigenze di vita delle famiglie”, afferma Alberto Rizzo, già presidente del Tribunale di Vicenza e dallo scorso ottobre capo di gabinetto del guardasigilli Carlo Nordio. Presidente Rizzo, anche il settore giustizia risente dunque dei grandi cambiamenti che hanno interessato il mondo del lavoro in questi anni? Certamente. Il sistema dell’offerta e della richiesta di lavoro ormai non è più quello a cui eravamo abituati in passato. Mi riferisco in particolar modo all’appeal che esercitava fra i giovani il cosiddetto posto fisso. Le nuove generazioni, secondo gli analisti, vogliono muoversi, andare all’estero, cambiare spesso mansioni e incarichi. Da un recente studio della Funzione pubblica è emerso che il profilo tipo del dipendente pubblico è quello di una donna, over 35-40 anni, del Meridione, e che accetta l’incarico se rimane nelle zone di origine... Sono tutti aspetti che ci impongono una riflessione ulteriore. Mi spiego. Noi abbiamo ormai da anni un problema molto forte di scopertura negli uffici. Ci sono contesti territoriali che soffrono poi storicamente di carenza di personale amministrativo. Penso a Venezia, dove manca oltre il 40 per cento del personale previsto dalla pianta organica. I motivi sono noti: al Nord il costo della vita è molto alto e affittare anche un piccolo appartamento è difficile se non impossibile, senza considerare le spese da sostenere se si volesse raggiungere ogni tanto la propria famiglia. Può indicarci qualche dato? Guardi, siano partiti per assumere complessivamente circa 6.000 amministrativi nell’anno 2023. A marzo sui primi 540 posti messi a disposizione per le sedi giudiziarie territoriali ne sono stati coperti meno della metà, 256 per essere precisi. Una risposta quanto mai modesta, che ci ha spinto a individuare delle soluzioni alternative. Quali? Insieme ad alcuni Enti locali, abbiamo cominciato dalla Regione Veneto e da settembre sigleremo accordi con altre Regioni, abbiamo individuato la possibilità di far scorrere le graduatorie dei concorsi che erano stati fatti a livello regionale per poter attingere da lì alcune delle figure necessarie e iniziare a colmare le scoperture di personale negli uffici giudiziari. Si tratta di una soluzione innovativa che ha il doppio vantaggio di velocizzare le assunzioni e insieme attingere a una utenza vicina ai posti da coprire. Avete “regionalizzato” il concorso? No. Servivano risposte immediate vista la situazione di emergenza cronica che abbiamo trovato appena insediati a via Arenula. Non è ovviamente l’unico progetto a cui stiamo lavorando per risolvere il problema della carenza di personale ma è la strada più veloce per iniziare a dare le risposte che gli uffici giudiziari attendono da anni. E quali riscontri avete avuto da chi era nella graduatoria regionale? In Veneto, la prima regione che abbiamo coinvolto, la risposta è stata estremamente positiva. Il 30 giugno abbiamo siglato l’accordo con la Regione e il prossimo 12 settembre 69 persone, che vi hanno aderito, prenderanno servizio nei Tribunali del distretto. Voglio comunque anticipare che rivedremo le piante organiche degli uffici per renderle aderenti ai reali bisogni lavorativi. Ci saranno allora novità? Penso al Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie che partirà a ottobre 2024. Una novità importante che richiederà specializzazione in materie delicate con l’esigenza di particolari professionalità. Avvieremo una mappatura di queste sedi, trattandosi di un ufficio completamente nuovo, e provvederemo ad assegnazioni di magistrati ad hoc e quindi anche di personale amministrativo per garantire la massima efficienza di tali uffici. Altri progetti? L’efficientamento della macchina giudiziaria deve passare anche da una riorganizzazione delle attività degli uffici giudiziari, e per questo abbiamo istituito un Tavolo composto dai dirigenti degli uffici, vale a dire presidenti di Tribunale e procuratori, e dirigenti amministrativi. Stiamo riflettendo sulla ‘doppia dirigenza’ in modo da individuare un sistema che garantisca la migliore efficienza possibile. Il dirigente amministrativo ha competenza specifica nella gestione del personale, e se non c’è ‘sintonia’ con il capo dell’ufficio è inevitabile un rallentamento delle attività. Sul fronte della digitalizzazione? È sicuramente il settore in cui si stanno facendo più investimenti e nel quale magistrati, personale amministrativo e avvocati hanno compiuto i maggiori sforzi. Penso al Tribunale online, alla telematizzazione del processo penale e al progetto Polis, nato insieme a Poste Italiane con l’obiettivo di venire incontro alle esigenze di migliaia di cittadini che risiedono in località periferiche, molto distanti dalle sedi giudiziarie. Io non sono un nativo digitale, comprendo bene alcune difficoltà che si sono incontrate, ma non possiamo non guardare alla tecnologia come a un mezzo per rendere il nostro sistema giudiziario sempre più efficiente e all’altezza dei servizi a cui i cittadini hanno diritto. La riapertura dei piccoli Tribunali? Sono scelte politiche che non spettano al sottoscritto. Nella mia esperienza amministrativa ho sempre ritenuto che il decentramento dei servizi fosse un’opportunità da valutare e valorizzare, specie in determinati contesti territoriali. A Vicenza, ad esempio, ho istituito degli sportelli di prossimità per la volontaria giurisdizione, in gran parte decentrata, con ottimi risultati. Qual è il suo obiettivo principale? Per avere una giustizia che funzioni bisogna cambiare nei cittadini la percezione del sistema stesso, dando loro la consapevolezza che la giustizia italiana è davvero efficiente quando è in grado di garantire i diritti con risposte celeri. Bisogna ribaltare il cosiddetto “fammi causa!”, basato sulla convinzione che i tempi lunghi scoraggeranno qualsiasi iniziativa, nel “ti faccio causa!”: il cittadino che vuole vedere riconosciuti i propri diritti deve avere la certezza che le risposte arriveranno nei tempi giusti. Se questo modello di giustizia funziona allora anche le pendenze sono destinate a diminuire. È uno degli obiettivi che ci siamo dati e sul quale lavoriamo con grande serietà e impegno tutti i giorni a via Arenula. “Mi guarda a destra, ma non può tradire l’Anm sulla separazione” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 29 agosto 2023 Stefano Celli, in quota Magistratura democratica nel parlamentino del “sindacato”, commenta il no dei colleghi moderati all’Odg contro il divorzio tra giudici e pm. Il conto alla rovescia della ripresa dei lavori parlamentari è iniziato. In agenda spicca la discussione fissata per il prossimo 6 settembre, nella commissione Affari costituzionali della Camera presieduta dal forzista Nazario Pagano, dei quattro ddl sulla separazione delle carriere di giudici e pm. Nello stesso giorno è prevista l’audizione del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia. Con lui sono stati convocati il presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco e il coordinatore di Ocf Mario Scialla. Il tema delle carriere separate, destinato a segnare la legislatura e il governo Meloni, ha aperto un dibattito al sesto piano del “Palazzaccio”, dove ha sede il “sindacato” delle toghe. Magistratura democratica ha chiesto di inserire un ordine del giorno sulle riforme costituzionali e quindi sul “divorzio” delle carriere da discutere nel Comitato direttivo centrale, il “parlamentino” Anm. L’appuntamento è fissato per il 9 e il 10 settembre (la convocazione risale al 24 luglio scorso). Fra dieci giorni si potrà ragionare anche sui passaggi nella prima commissione di Montecitorio. Più precisamente “Md” ha avanzato la richiesta di integrazione dell’ordine del giorno (“Ddl costituzionale attualmente all’esame del Parlamento: discussione e iniziative dell’Anm”) per soffermarsi sulle riforme in cantiere e ha registrato l’adesione di tutti i gruppi, tranne che di Magistratura indipendente. “Confido - dice al Dubbio Stefano Celli, pm a Rimini e componente del direttivo Anm in quota “Md” - che questa scelta di “Mi” sia semplicemente una mossa tattica per evidenziare che non segue in tutto e per tutto gli altri gruppi presenti nell’Anm. Non riesco a credere che una parte significativa di Magistratura indipendente sia a favore della separazione delle carriere. Possono esserci 50 magistrati, esagerando anche 100, a favore, ma, secondo me, non si va oltre questo numero. Se facessimo un referendum per conoscere chi è a favore della separazione, forse arriveremmo all’1%”. L’episodio della mancata sottoscrizione dell’ordine del giorno da parte di “Mi” non preoccupa Celli, secondo il quale è esagerato parlare di tensioni e spaccature. “È vero - evidenzia - che “Mi” è tradizionalmente prudente, che non usa, se non rarissimamente, toni accesi o affermazioni radicali. È sempre molto rotonda nelle uscite. Quanto accaduto è il naturale portato della collocazione di questa corrente moderata. A Magistratura indipendente non piace, in effetti, essere definita “di destra”. La moderazione delle idee e nella modalità di esprimerle è una sua caratteristica. Che ci sia una vicinanza alla destra di governo è però un dato di fatto. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, viene proprio da “Mi”. Immagino che esista un dialogo tra questa corrente e il governo, ma non trovo niente di scandaloso, in tutto questo”. Celli si sofferma sul cantiere della riforma dell’ordinamento giudiziario e sulla posizione dell’avvocatura. “Devo ancora capire - spiega - come un sincero difensore dei diritti liberali possa solo pensare che un pm autonomo garantisca i diritti degli imputati più di un pm inserito all’interno di un unico ordine giudiziario. Vorrei capire perché questa cosa del “ce lo chiede l’Europa” non vale più. Prima, l’Europa ci chiedeva le cose che facevano comodo a Berlusconi. Adesso l’Europa ci dice a chiare lettere che, se l’ordinamento lo consente, gli Stati dovrebbero raccomandare e premiare il passaggio dalle funzioni di pubblico ministero a quelle di giudice e da quelle di giudice a quelle di pm con la creazione di ponti tra le carriere che si completano reciprocamente. Questo principio adesso non vale più. Ci sono tanti paesi, come Portogallo e Francia, che guardano con interesse alla nostra esperienza. Lo capisce anche un bambino che se un pubblico ministero non vede più il giudice come un suo collega e viceversa, i rapporti professionali che avrà il pm saranno con le polizie”. Su questo punto l’esponente di “Md” vuole chiarire ulteriormente il proprio ragionamento: “Badiamo bene, un poliziotto ha un’ottica un po’ diversa quando si parla di tutela di diritti, non perché non li rispetti, ma perché è chiamato e spronato con criteri diversi da quelli dell’autorità giudiziaria. Gli avvocati non riescono a prendere in considerazione questo aspetto: un atteggiamento che io ho difficoltà a comprendere. È meglio essere inquisiti da uno che viene valutato, alla fine dell’anno o nel quadriennio, nella sua professionalità da un organo misto, in cui ci sono pure gli avvocati, o è meglio essere valutato sulla base del numero degli arresti che ha fatto e delle condanne ottenute? Questo è il naturale sbocco di un pubblico ministero autonomo...”. Sulla bozza di riforma dell’ordinamento giudiziario, Celli rileva una “criticità importante”. “Riguarda - afferma - la clausola che rischia di tramortire, se non azzoppare, l’evoluzione giurisprudenziale: con una politica debole, come quella che c’è in Italia da almeno venticinque anni, i nuovi diritti nascono e si affermano sotto la spinta di provvedimenti giurisdizionali. La clausola che mi preoccupa collega la valutazione positiva o, al contrario, quella che individua come indice di valutazione negativa, la mancata conferma dei provvedimenti nei gradi superiori”. Infine una riflessione sugli avvocati nei Consigli giudiziari. “Noi - conclude Celli - non siamo mai stati contrari. Anzi, in buona parte siamo favorevoli. Io personalmente qualche perplessità la mantengo, anche se non in linea di principio. In linea di principio gli avvocati nei Consigli giudiziari vanno benissimo. La classe forense ha una tradizione di rigore e professionalità che da questo punto di vista ci deve fare stare tranquilli. Ci potrebbe essere qualche problema in situazioni particolari, che non conosco direttamente, che comunque si verificano in alcuni territori. Rispetto al principio che restituisce una magistratura aperta all’esterno, in grado di confrontarsi con gli altri professionisti, il ragionamento va benissimo, ma va declinato con attenzione rispetto alle situazioni particolari alle quali prima facevo riferimento”. Nell’estate in cui gli italiani si fanno giustizia da soli, il ministro Nordio tace di Ermes Antonucci Il Foglio, 29 agosto 2023 Si moltiplicano gli episodi di “giustizia fai da te” ma dal Guardasigilli non giunge nessun richiamo al rispetto delle regole basilari del vivere civile. Breve rassegna degli ultimi casi di cronaca. A forza di invocare pene certe e rapide, ecco che in questa estate la società italiana sembra essersi trasformata in un Far West. Ciò che rimarrà è la cronaca di una costante giustizia fai da te, passata inosservata soprattutto alle istituzioni (ministro Nordio, non dice niente?). L’ultimo episodio è avvenuto giovedì scorso, a Ostia, dove un ragazzo di sedici anni si è arrampicato al primo piano di un palazzo per rubare in un appartamento. Scoperto dai condomini, il giovane ha tentato la fuga lanciandosi nel cortile, dove però è stato bloccato dagli inquilini, che si sono trasformati in giustizieri fai da te, pestandolo e prendendolo a bastonate. A salvare il ragazzo dal linciaggio sono stati i Carabinieri, avvisati da un collega che abita nello stesso edificio. Il sedicenne, di origine cubana, è stato poi identificato e denunciato per tentato furto. Nel frattempo, sui social network e le chat ha cominciato a circolare, con un’ondata di reazioni positive, il video che ritrae il tentato linciaggio. Poche ore prima, nel centro di Roma, era avvenuta una scena simile. In uno dei tanti ristoranti presi d’assalto dai turisti, una donna è stata sorpresa a rubare lo zaino di un cliente. Anziché avvisare le forze dell’ordine, anche in questo caso la vittima del furto, i suoi amici e - da quanto risulta - persino i camerieri del locale hanno aggredito la donna, prendendola a calci e pugni. Quest’ultima è poi riuscita a darsi alla fuga. L’intera scena è stata filmata, pure stavolta, da uno smartphone e condivisa sui social. Agli inizi di agosto l’istinto forcaiolo si è scatenato in Valpolicella, nel Veronese, contro Davide Begalli, il trentanovenne accusato di aver investito e ucciso con la sua auto un tredicenne, Chris Obeng, senza poi prestargli soccorso. L’8 agosto Begalli è stato stato vittima di una spedizione punitiva organizzata da una trentina di persone - con il volto coperto - nell’abitazione dove sconta gli arresti domiciliari. “Vieni fuori che ti ammazziamo”, ha sentito urlare dalla porta d’ingresso, presa a calci, pugni e bastonate. Gli aggressori hanno fatto diversi video con i telefonini, che poi sono circolati sui social. Pochi giorni prima, un trattamento simile era toccato al diciassettenne che il 28 giugno scorso ha ucciso a coltellate Michelle Maria Causo, sua coetanea, in zona Primavalle a Roma, prima di cercare di occultarne il cadavere. Dopo una messa dove si erano svolti i funerali, un gruppo di circa cento ragazzi, tutti fra i 15 e i 18 anni, ha deciso di recarsi nella casa dell’assassino, di sfondare il portone, forzando i sigilli posti dall’autorità giudiziaria, e distruggere tutto l’arredamento. L’ultima vittima di questo clima di giustizia fai da te è di nuovo un minorenne. Si chiama Cristian Umberto Barone, ha 17 anni e ha la sfortuna di avere lo stesso nome e cognome di uno dei ragazzi arrestati per lo stupro di gruppo avvenuto a Palermo il 7 luglio. Come raccontato da Palermo Today, da giorni il giovane riceve sui suoi profili social insulti e minacce di morte. Che di fronte a tutto ciò i politici tifosi della gogna (e negli ultimi tempi della castrazione chimica) non abbiano detto nulla non sorprende. Ma che un ministro della Giustizia come Carlo Nordio, che ha fatto del pensiero garantista e liberale la sua stella polare, non abbia neanche trovato un minuto per condannare queste gesta, ricordando che sono completamente inaccettabili in un paese civile, ha del clamoroso. Anche al 41 bis si può cucinare senza limiti di orario di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 agosto 2023 La Corte di Cassazione ha emesso una sentenza rilevante riguardante una controversia legale sollevata dal ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, e il detenuto Rosario Grasso, nato il 20 luglio 1982 a Gioia Tauro. Il caso riguarda l’applicazione del regime differenziato del 41 bis previsto dall’Ordinamento penitenziario, in particolare le restrizioni sugli orari di cottura dei cibi. L’ordinanza del Tribunale di sorveglianza de L’Aquila aveva rigettato il reclamo dell’Amministrazione penitenziaria contro l’ordinanza del Magistrato di sorveglianza che aveva concesso a Grasso il permesso di cucinare senza limiti di orario. La Cassazione è intervenuta per chiarire la legittimità di tale limitazione e la sua applicazione ai detenuti sottoposti al regime differenziato. La vicenda ha avuto inizio con l’ordinanza del 17 febbraio 2021, emessa dal Magistrato di sorveglianza de L’Aquila, che aveva accolto il reclamo presentato da Rosario Grasso, detenuto al 41 bis, consentendogli di cucinare senza restrizioni di orario. Tuttavia, l’Amministrazione penitenziaria aveva presentato un ricorso iniziale per Cassazione contro questa decisione. La Corte, con sentenza n. 38403 del 6 maggio 2022, aveva annullato l’ordinanza del Tribunale. In quella sentenza i giudici supremi avevano rilevato che sebbene l’Amministrazione penitenziaria abbia il diritto di regolare gli orari per la preparazione dei pasti all’interno delle celle di detenzione, è importante notare che non era chiaro dalla lettura dell’ordinanza se questa limitazione oraria si applicasse solo ai detenuti sottoposti al regime differenziato o anche a quelli appartenenti ad altri circuiti, come i detenuti comuni assegnati alla sezione “Nuovi Giunti”. LaCassazione aveva sottolineato la necessità di chiarire questo aspetto. L’obiettivo era verificare se l’esercizio del potere organizzativo da parte dell’Amministrazione penitenziaria potesse in realtà nascondere una discriminazione ingiustificata nel sistema penitenziario. Questa possibile disparità ingiustificata potrebbe assumere un carattere sostanzialmente vessatorio nel contesto concreto. Di conseguenza, la Corte aveva stabilito che l’annullamento dell’ordinanza del Tribunale, per quanto riguarda questo particolare aspetto, dovesse essere effettuato con un rinvio. Questo rinvio avrebbe permesso al Tribunale di sorveglianza de L’Aquila di condurre un’ulteriore indagine e valutazione sulla questione specifica sollevata, ossia se la limitazione degli orari di cottura coinvolgesse soltanto i detenuti in regime differenziato o se riguardasse anche i detenuti comuni nella sezione “Nuovi Giunti”. Celebrato il giudizio di rinvio, il Tribunale di sorveglianza d l’Aquila ha nuovamente respinto il reclamo dell’Amministrazione penitenziaria, ritenendo che la limitazione degli orari previsti per la cottura dei cibi determina un’ingiustificata disparità di trattamento tra detenuti comuni e detenuti sottoposti a regime differenziato. Il ministero della Giustizia aveva presentato un nuovo ricorso per cassazione, sostenendo che la limitazione degli orari di cottura per i detenuti sottoposti al regime differenziato fosse giustificata dalle esigenze di sicurezza e controllo. La sentenza recentemente depositata rappresenta il culmine di questa disputa legale. La Cassazione ha respinto tale argomentazione, affermando che la limitazione degli orari può essere giustificata solo se funzionale alla necessità di perseguire e consolidare l’ordine e la sicurezza nel contesto del regime differenziato. La Corte ha sottolineato che l’Amministrazione penitenziaria non ha fornito una giustificazione sufficiente per questa disparità di trattamento tra i detenuti sottoposti al regime differenziato e quelli in regime ordinario. L’argomentazione dell’Amministrazione basata sulle esigenze organizzative non è stata considerata valida per giustificare la limitazione degli orari di cottura. In pratica non è riuscita a fornire una giustificazione adeguata per la disparità di trattamento basata sulla necessità di mantenere l’efficacia preventiva del regime del 41 bis. Si è limitata a delineare le specifiche esigenze organizzative sottostanti alla regolamentazione stabilita, ma queste spiegazioni, come osserva la Corte, non costituiscono da sole un motivo sufficiente per giustificare una discriminazione nei confronti dei detenuti. In altre parole, l’Amministrazione non ha chiarito perché una simile autonomia (garantita per i detenuti di altre sezioni) non sia estesa anche ai detenuti sottoposti al regime differenziato. Ha spiegato il motivo per cui non è possibile limitare gli orari dei detenuti comuni, ma non ha giustificato la necessità di imporre questa limitazione ai detenuti del regime differenziato. La Cassazione ha respinto definitivamente il ricorso dell’Amministrazione penitenziaria. Interdittive antimafia e confische nel mirino dei giudici di Strasburgo di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2023 Tornano nelle aule giudiziarie i problemi di continuità aziendale per le imprese sospettate di infiltrazione mafiosa. Da Strasburgo, la Corte dei diritti dell’uomo chiede ai giudici italiani come possa confiscarsi un patrimonio aziendale, se gli stessi giudici penali abbiano, nel caso specifico, escluso l’esistenza di un’associazione di stampo mafioso (sentenza 28 agosto 2023, Cavallotti). Nello stesso mese, i giudici amministrativi annullano un’interdittiva, restituendo al mercato un’impresa in odore di mafia, ma divenuta immune proprio perché sottoposta a sequestro e quindi a un penetrante controllo pubblico (Tar Latina, il agosto 2023 n. 650, presidente Savoia, relatore Traina). La materia è fluida in quanto innovata a novembre 2021 (Dl 153), con effetti che ora iniziano a emergere. Le interdittive antimafia, qualora non derivino da una sicurezza assoluta di contaminazione, devono infatti essere precedute da un periodo prefettizio di “prevenzione collaborativa” che, per sei o 12 mesi, sottopone le imprese a verifiche contabili e amministrative. Tale controllo prefettizio si affianca a quello che già spetta al giudice penale: ambedue i meccanismi di vigilanza consentono la prosecuzione dell’attività aziendale, rimediando ai rischi di una interdittiva con decapitazione dell’impresa ed espulsione dal mercato dei contratti pubblici. Dal 2021, si è passati così da un severo regime di interdittive, a procedure più articolate di collaborazione, similmente a quanto ci si attende con l’entrata in vigore della riforma tributaria (legge 111/2023), confidando altresì sui controlli mediante intelligenza artificiale. Il contrasto all’infiltrazione mafiosa si allontana quindi (dal 2021) dalla logica degli indizi e dei provvedimenti immediati, affidandosi invece a un controllo sul rischio di contaminazione. Per il passato, i pericoli di infiltrazione e di agevolazione alla mafia hanno già generato confische, che oggi sarebbero possibili dopo un articolato periodo di controllo. Si spiegano così i dubbi estivi della Corte di Strasburgo, cui non è ben chiaro come, nel 2001, possa esservi stata una confisca di patrimoni sulla base di un mero sospetto, tanto più se vi sia stata un’assoluzione dall’accusa di associazione di stampo mafioso. Sul tema la Cassazione (4305/2016) ha tentato di chiarire che, attraverso la misura “di prevenzione”, si possano confiscare i beni che sembrano appartenere a imprenditori collusi; ma quel che oggi non convince la Corte dei diritti dell’uomo (che in proposito appunto interroga le autorità statali), è lo spessore di tale accertamento di pericolosità, con onere della prova a carico dei soggetti inquisiti (anche in caso di loro assoluzione dall’accusa di mafiosità). Dal 2021 le procedure sono diventate più articolate e vi possono essere la confisca dei patrimoni e l’interdittiva, ma dopo un periodo di “prevenzione collaborativa” che modifica il rapporto tra giudice penale e imprenditoria considerata a rischio. Infatti l’eventuale periodo di controllo o di amministrazione giudiziaria (di competenza del giudice penale), così come la collaborazione che si può instaurare con la prefettura, riducono non solo il rischio di una improvvisa espulsione dell’impresa dal mercato, ma anche la difficoltà di spiegare la confisca dei beni ad imputati assolti. Napoli. Un solo infermiere per mille detenuti a Poggioreale cronachedellacampania.it, 29 agosto 2023 Il Garante dei detenuti della Campania visita Poggioreale. “Sovraffollamento incredibile”. Simone Isaia, il giovane clochard accusato di aver dato alle fiamme la Venere degli stracci dell’artista Michelangelo Pistoletto, è rinchiuso nel carcere di Poggioreale sin dal 13 luglio 2023, dove sta vivendo il dramma delle carceri in tutta la sua complessità. Simone è in una cella con altri sette detenuti. Una cella destinata per quattro. In una condizione psichica molto provata. La stagione estiva è diventata in carcere insopportabile perché acuisce le problematiche di salute dei cardiopatici e anziani, e soprattutto dei soggetti con gravi patologie psichiche, come Simone Isaia. Simone Isaia è all’interno di questa realtà. E come lui ci sono tantissimi altri giovani e persone adulte in gravi difficoltà. Ecco cosa denuncia Luigi Castaldo, segretario regionale del Consipe - “Il carcere napoletano conta 2000 detenuti, 500 oltre la capienza tollerabile, è dotato di un esiguo personale sanitario, e le difficoltà operative per il già risicato personale di Polizia Penitenziaria, costretto in molte occasioni ad operare in urgenza per ricoveri ospedalieri fuori sede, mettendo in discussione la sicurezza interna del penitenziario partenopeo. La grave carenza di organico sanitario e penitenziario, genera un mix esplosivo. Auspichiamo che i vertici della Sanità campana si rendano conto di cosa stiano gestendo e in quale struttura stanno operando: questa totale mancanza di preoccupazione è molto rischiosa per tutti”. È necessario che tutti noi facciamo una seria riflessione sulle condizioni di vita dei detenuti con gravi patologie di salute, tra queste i malati psichici che sono sempre i più abbandonati dalle istituzioni. Continuiamo a chiedere il vostro sostegno e quello dei giornalisti affinché Simone Isaia sia tolto dal carcere e venga curato e rigenerato alla vita presso la Casa di Accoglienza della Pastorale carceraria di Napoli o in quella di Salerno. Continuiamo a firmare e a condividere la petizione. Clicca e firma: https://chng.it/MMdnQQn6 Promotori - Iod edizioni, Pastorale Carceraria della Chiesa di Napoli, Associazione Liberi di volare, Chiesa Cristiana Evangelica Libera di Casalnuovo, United Colors of Naples, tribunali 138, Francesco Testa, Don Franco Esposito, Pasquale Testa, Salvatore Manzi, Gix Musella, Francesco Dandolo, Luciana Esposito, Vincenzo Sbrizzi, Ciro Pellegrino, Raffaella R. Ferré, Sergio D’Angelo, Gianlivio Fasciano, Martina Antoci, Nino Daniele, Luciano Ferrara, Silvia Camerino, Franco Mennitto, Ida Biglietto, Piero Antonio Toma, Maria Rizzi, Dacia Maraini, Giulio Cavalli. Salerno. Il Garante dei detenuti a Fuorni: “Sovraffollamento e organico ridotto” Il Mattino, 29 agosto 2023 La visita di Ciambriello in carcere: la forte carenza di organico si evince anche dalle tante criticità denunciate in diverse occasioni. Il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello e due componenti dello staff dell’Ufficio, hanno visitato oggi la casa circondariale di Salerno. “La direttrice Rita Romano è stata disponibile a fornire dati e ad interloquire con il Garante nel pieno spirito di collaborazione teso al miglioramento della condizione dei detenuti”, si legge in una nota. “I dati che ci ha fornito oggi la direzione del carcere di Fuorni segnalano in modo allarmante il sovraffollamento, poiché ad oggi sono presenti 509 detenuti, di cui 46 donne e 290 definitivi, con una capienza regolamentare di 395 detenuti. Il dato più preoccupante è della prima sezione dove sono allocati i ristretti di media sicurezza che sono ad oggi 342, con una capienza regolamentare di 210”, ha detto all’uscita il Garante. “Un altro dato allarmante è la sesta sezione dove ci sono 32 ristretti, tra protetti e maltrattanti, a fronte di una capienza regolare di 16 detenuti. Oltre al sovraffollamento c’è una forte carenza di organico di polizia penitenziaria, visto che nella pianta organica mancano 59 unità. La forte carenza di organico, in particolare nelle ore pomeridiane e notturne, si evince anche dalle tante criticità, che sono state denunciate in diverse occasioni e da diverse personalità nelle ultime settimane: aggressioni alla polizia, rinvenimento di cellulari e droga, il non utilizzo di tutti gli spazi a disposizione per le attività ricreative, compreso il campo sportivo. Credo altresì che anche a livello sanitario vada incrementata la presenza di medici, in particolare nel reparto femminile, con infermiere professionali”, ha proseguito Ciambriello che ha anche incontrato i detenuti che hanno lavorato al progetto avviato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, “finalizzato alla produzione di mascherine di protezione con certificazione CE, e al cambiamento di destinazione agli ospedali e ai centri per la prevenzione di tutti gli operatori sanitari. Mi auguro che il Dap possa rispondere positivamente a questa riqualificazione di questa attività”. Torino. Soumahoro visita il carcere delle Vallette: “Condizioni che non fanno onore all’Italia” torinoggi.it, 29 agosto 2023 Il deputato è stato accompagnato dal Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano: “Presenterò un’interrogazione al Ministro della Giustizia Nordio”. “Questa mattina, accompagnato dal Garante regionale delle persone private della libertà personale il dott. Bruno Mellano, ho visitato il carcere di Torino. Siamo stati accolti dalla direttrice Elena Lombardi Vallauri, dalla vice direttrice Assuntina Di Rienzo, dal capo area educativa Arianna Balma Tivola e dal vice comandante Maurizio Contu che ci hanno fatto strada nella visita di una struttura che presenta diverse complessità” lo dichiara il deputato e attivista per i diritti umani Aboubakar Soumahoro. “Quello di Torino - spiega Soumahoro - è uno degli istituti più grandi del Piemonte, si compone di diversi padiglioni e numerose sezioni, e ospita al proprio interno tutti i circuiti detentivi ad eccezione del 41 bis. Nelle celle visitate - continua il parlamentare - non sempre sono garantiti 3 mq calpestabili, inoltre manca la separazione dei giovani al di sotto dei 25 anni dagli adulti. Da un punto di vista strutturale è necessario segnalare problemi come infiltrazioni di acqua e la presenza massiccia di muffe alle pareti. Altra criticità riscontrata è quella relativa al sovraffollamento che costituisce un grande problema per i detenuti ma anche per il personale che opera all’interno dello stesso istituto. La capienza regolamentare infatti è di 1.118 posti mentre attualmente all’interno le presenze sono 1.434. La metà sono stranieri e attualmente possono contare su un solo mediatore culturale. In generale non vi è sufficiente personale per far fronte alle molteplici necessità, servirebbe infatti un presidio sanitario ben strutturato per monitorare le numerose persone con problemi fisici - fra di loro anche una persona con un tumore al terzo stadio e molti detenuti con problemi psichiatrici - e mediatori culturali a sufficienza. Inoltre - continua Soumahoro - ai detenuti con problemi psichiatrici mancano addirittura i beni di prima necessità come il vestiario, e le persone con difficoltà a deambulare non vivono in strutture adatte alle loro esigenze. Nella struttura vi sono anche tre madri con minori. È urgente ridurre i circuiti penitenziari presenti, andrebbero trasferiti subito i circa 50 detenuti in regime Alta Sicurezza, in Piemonte infatti vi sono due istituti dedicati: uno ad Asti e uno a Saluzzo, come anche i 16 collaboratori di giustizia che dovrebbero essere spostati in strutture più adeguate. Questo aiuterebbe, almeno in parte, a risolvere la piaga del sovraffollamento che rende particolarmente complessa la vita in carcere. Presenterò in questi giorni un’interrogazione al Ministro della Giustizia Carlo Nordio perché lo stato in cui versano le persone detenute nel carcere di Torino e le condizioni nelle quali sono costretti a lavorare gli operatori e la polizia penitenziaria non fanno onore al nostro Paese. Non dimentichiamo che l’obiettivo della pena è la rieducazione e il reinserimento in società e questo non può certamente avvenire in una struttura fatiscente e in un ambiente che presenta tali gravi criticità”, conclude il parlamentare. Livorno. Le Sughere sono invase dai topi. “Trovati anche nei letti delle celle” di Stefano Taglione Il Tirreno, 29 agosto 2023 Ratti fra le lenzuola, con le feci dei roditori che accolgono i visitatori sui fasciatoi per neonati pure nel corridoio per raggiungere la sala colloqui: “C’è un’emergenza igienico-sanitaria, bisogna intervenire subito”. È la viareggina Enza Russo, nuora di un detenuto che sta scontando la sua pena nella sezione verde, che protesta per la situazione di degrado del carcere delle Sughere. “Mio suocero - racconta - è ospite del penitenziario da quasi un anno e negli ultimi mesi la situazione è peggiorata. Ha 50 anni, ha avuto due infarti, ha paura di ammalarsi e pure di dormire”. Già, perché proprio qualche settimana fa il familiare “alle 4.30 della notte ha trovato un topo fra le lenzuola del letto, svegliandosi di soprassalto, e chiaramente ora non può certo addormentarsi sereno”. Ma c’è di più. Perché oltre al racconto del suocero, la donna ha visto il degrado con i suoi occhi. “Io vado a trovarlo spesso - racconta - e nel corridoio subito dopo i controlli con il metal detector, prima della sala colloqui, c’era un fasciatoio per neonati pieno di feci di ratti. Era spaventoso, c’è troppa sporcizia nel carcere e anche il carrello per il cibo non è certo pulito”. La situazione di emergenza, nei mesi scorsi, era stata segnalata alla direzione anche da alcune sigle sindacali della polizia penitenziaria. Direzione che fra l’altro per molto tempo è stata vacante, complice il pensionamento del dirigente Carlo Mazzerbo, e solo ultimamente è stato nominato un nuovo responsabile. Lo scorso inverno, ad esempio, proprio nell’ex sezione femminile (quella verde) un topo fu ucciso da un detenuto che se l’era trovato in cella, con i ratti avvistati pure nei corridoi dell’infermeria. Nella struttura di via delle Macchie pure piattole e gabbiani, con questi ultimi che in effetti una mano proverebbero anche a darla, cacciando saltuariamente i ratti. “Da quel che ho capito - prosegue Russo - nelle celle i topi entrano dalle finestrine, per cui succede che la notte “cadano” dall’alto direttamente sui letti. Mio suocero lo ha appunto trovato fra le lenzuola. Lui è nella sezione verde, ma anche dove era prima, nell’area di transito, c’era questa criticità. Anzi, forse era pure peggio, perché da quel che mi dice tutto era partito da lì. È un incubo, come se lo seguissero”. Un degrado che, quindi, investe anche chi va a visitare i parenti che stanno scontando la pena di reclusione. “La situazione, dal punto di vista igienico-sanitario - conclude Russo - è terribile, non solo per chi è ospite della struttura, ma anche per noi familiari che la frequentiamo. Io i bambini lì non ce li porto, perché non mi sembra minimamente il caso”. Pavia. L’ex detenuto ritenuto pericoloso e il paradosso: “Va espulso”, “No, va difeso” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 agosto 2023 Alla fine resta libero e sparisce. Revocata dopo ricorso l’espulsione, spostato in un Cpr, poi le carte bollate in ritardo. Trentenne ghanese affetto da schizofrenia a causa della burocrazia finisce col tornare in strada a dispetto del “giudizio di pericolosità sociale”. Espellerlo in Ghana? Curarne in una Rems il parziale vizio di mente? Alla fine né l’uno né l’altro: perché poi i paraocchi della burocrazia lo rimettono in strada a dispetto del processuale “giudizio di pericolosità sociale in ragione della grave patologia psichiatrica, connotata da ideazioni deliranti e persecutorie, e da assenza di consapevolezza di malattia con concreto pericolo di ricaduta in atti eteroaggressivi, aggravato dall’assenza di una rete familiare e terapeutica”. A Pavia il 24 luglio il monocratico magistrato di sorveglianza aveva ribadito l’espulsione del 30enne una volta che il 24 agosto avesse finito di espiare in carcere i 2 anni inflittigli nel 2021 per rapina del telefonino di un clochard. Ma su ricorso difensivo il 23 agosto il collegiale Tribunale di sorveglianza di Milano ha revocato l’espulsione perché in Ghana quelli con la sua schizofrenia rischiano “trattamenti disumani” contrastanti l’articolo 3 della “Convenzione europea dei diritti dell’uomo”; e per contenerne la pericolosità sociale ne ha ordinato il ricovero in una “Rems-Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza”. In vista dell’espulsione l’uomo era però intanto stato già trasferito dal carcere di Pavia nel romano “Cpr-Centro di permanenza per il rimpatrio” di Ponte Galeria, dove la polizia, una volta revocata l’espulsione, venerdì 25 agosto scrive alla Procura di Milano di indicare allora la Rems: “Urgente, in quanto questo Cpr procederà in data odierna alle dimissioni dello straniero dalla struttura”. Solo che la Procura da interpellare non è Milano, è Pavia. Ma la polizia del Cpr di Roma non aspetta: e già l’indomani, sabato 26 agosto, “conferma le dimissioni da questo Cpr” dell’uomo (di cui è scordata o non preoccupa la pericolosità sociale), e aggiunge solo che l’ex detenuto “dichiarava domicilio presso una onlus” di Milano. Dove però sino a ieri nessuno l’aveva visto o sentito. Palermo. Carcere minorile Malaspina, percorsi di consapevolezza per i ragazzi detenuti palermotoday.it, 29 agosto 2023 Grazie all’8xmille di Unione Buddhista. Lara Gatto, presidente di Liberation Prison Project Italia: “Gli operatori devono addestrarsi molto ed essere motivati, perché non è un confronto facile; devono essere prima di tutto ‘autentici’ ed esercitare una forma di comprensione ma senza dimenticare le vittime dei reati”. Sviluppo personale e di conoscenza di sé: l’associazione Liberation Prison Project (LPP) Italia offre percorsi di consapevolezza all’interno delle carceri principalmente alle persone detenute, ma anche al personale (come educatori e agenti di polizia penitenziaria), a ex-detenuti e familiari. Un’attività realizzata grazie ai fondi 8xmille dell’Unione Buddhista Italiana e basata sulla convinzione che anche nei luoghi di detenzione è possibile lavorare sul piano dell’introspezione e della trasformazione di sé, sul proprio “essere umano”. LPP nasce nel 1996 negli Stati Uniti per iniziativa di una monaca buddhista e si ispira alla filosofia buddhista quale straordinario mezzo di studio della mente, ma i percorsi - di gruppo e individuali - sono del tutto laici e riguardano l’allenamento alla consapevolezza, ovvero la centratura della mente nel “qui e ora”, l’ascolto di sé stessi, con presenza non giudicante. I percorsi di LPP sono attivi in Italia dal 2009 e oggi sono presenti in 15 istituti penitenziari, all’Istituto Penale per Minorenni Malaspina di Palermo in Sicilia e poi a Milano-Bollate, Monza, Torino, Pavia, Lodi, Padova, Modena, Pisa, Volterra, Livorno, Velletri, Trani, Alghero, Treviso). La diffusione del progetto è in continua crescita anche per l’anno 2023. LPP cura con attenzione il contatto con ogni nuovo carcere per conoscere caratteristiche ed esigenze contingenti, e stabilisce una relazione forte con i funzionari giuridico-pedagogici. Gli operatori che entrano in carcere e conducono i percorsi di consapevolezza devono seguire un iter formativo che favorisce l’acquisizione di elementi teorici e pratici per operare in carcere (in relazione con la direzione penitenziaria, la popolazione detenuta, i funzionari e gli agenti di polizia penitenziaria). Oggi gli operatori attivi sono in tutto 22, e tengono gruppi settimanali composti da 10-15 persone. “Gli operatori devono addestrarsi molto ed essere motivati, perché non è un confronto facile; devono essere prima di tutto ‘autentici’ ed esercitare una forma di comprensione ma senza dimenticare le vittime dei reati. Gli operatori, insomma, sono dei guerrieri di compassione” commenta Lara Gatto, presidente di Liberation Prison Project Italia, che continua spiegando come LPP accolga qualunque persona detenuta mostri interesse per il percorso: “È una proposta adatta a tutti perché fondata su aspetti che caratterizzano ogni essere umano; non importa l’estrazione sociale, la provenienza geografica, culturale o religiosa”. Il percorso va inoltre nella direzione dell’articolo 27 della Costituzione: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” e ha tra gli obiettivi quello di contribuire a generare ambienti più pacifici, dentro e fuori dal carcere. È dal 2016 che l’Unione Buddhista Italiana sostiene progetti umanitari e sociali in Italia e all’estero, grazie ai fondi 8xmille che, attraverso la dichiarazione dei redditi, si può destinare a una confessione religiosa o allo Stato. Nel 2022 sono stati più di 150 i progetti umanitari sostenuti dall’Unione Buddhista e 40mila i beneficiari raggiunti. Ciascun progetto è selezionato in coerenza con l’idea, che sta alla base del pensiero buddhista, dell’interdipendenza e del prendersi cura, perché ogni essere senziente, umano o animale che sia, è interconnesso e quando ci si prende cura di qualcuno si agisce a favore dell’intera collettività. Porto Azzurro (Li). Ricordando don Sebastiano a 20 anni dalla morte di Licia Baldi* elbareport.it, 29 agosto 2023 La tua foto ci sorride nel nostro cosiddetto ufficio. Sei lì con noi, con l’associazione “Dialogo”, di cui sei stato l’anima e l’ispiratore. A favore dei detenuti, fra quegli “ultimi” da te sempre prediletti, anche andando contro corrente. Sono tanti i ricordi, tante le storie da raccontare, con le quali vorrei seppure in piccola parte tratteggiare la tua immagine e non so quali scegliere e condividere con chi ti ha conosciuto e con chi invece ha soltanto sentito parlare di te, comunque tuoi eredi. Ricorderò brevemente il nostro primo incontro. Giovane sacerdote mi telefonasti e mi dicesti che ti avrebbe fatto piacere conoscermi per parlare con me del Carcere di Porto Azzurro. Presi il traghetto un pomeriggio e ci trovammo in un piccolo bar presso il porto di Piombino (quel locale ora non c’è più) e ci trattenemmo a lungo. Ti raccontai del volontariato mio e di altri amici e colleghi che facevamo scuola in carcere a un bel gruppo di detenuti. Da quel giorno non ci hai più lasciato e così dai primi anni novanta hai seguito le nostre attività, che si sono andate via via ampliando. Ci hai incoraggiato a costituirci in associazione, quell’associazione di volontariato “Dialogo”, che è tuttora attiva, invitandoci a restare sempre uniti e nello stesso tempo aperti alla collaborazione e... al dialogo. Mi soffermo su due temi che ti stavano tanto a cuore: il lavoro interno e specie esterno per i detenuti. Conservo le cartoline da te fatte stampare e diffuse con la scritta “ Adotta un posto di lavoro” e con sottoscritto” Per una solidarietà che oltre ad indignarsi faccia qualcosa di concreto”. Altra tua cura l’ospitalità alle famiglie dei detenuti e per gli stessi in permesso-premio. E così in vista del Giubileo del 2000 il cardinale Gualtiero Bassetti, allora Vescovo della nostra Diocesi, volle che un’opera segno di carità del Giubileo fosse il restauro di alcuni locali a Portoferraio per realizzare appunto una casa di accoglienza per familiari e detenuti, per favorire il legame degli affetti più cari. Questi locali, benedetti nel marzo 2003 dal Vescovo Giovanni Santucci, quando furono inaugurati con taglio del nastro da parte del sindaco Ageno, in oltre venti anni sono sempre stati vissuti e animati da ospiti che vengono da ogni parte d’Italia e anche dall’estero. Grazie a don Sebastiano, grazie al cardinale Bassetti, al vescovo Santucci, al Parroco del Duomo. Mi permetto un ricordo personale. In una bella giornata del 1998 il Vescovo Gualtiero con don Sebastiano mi vennero a prelevare a Piombino e andammo insieme a Firenze dove alla fortezza Da Basso visitammo una mostra di pittura; fra le opere esposte c’erano anche i quadri di un giovane detenuto a Porto Azzurro. Il breve viaggio per Firenze fu preceduto dalla messa celebrata da don Sebastiano nella parrocchia di Valpiana. Fu una giornata indimenticabile. Qui mi fermo per ringraziare ancora una volta don Sebastiano, e prima il Signore che ce l’ha donato, per un periodo breve ma intenso e ricco di frutti sia per la nostra realtà isolana che per la Caritas diocesana da lui diretta con fraterna condivisione e per tante altre opere e iniziative ispirate a spirito di concreta solidarietà. *Presidente Associazione “Dialogo” Bologna. “Estate Dozza”: dal 28 agosto al 2 settembre una settimana di laboratori in carcere Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2023 Dopo la ripresa accolta con grande entusiasmo dello scorso anno, dal 28 agosto al 2 settembre tornerà, nel carcere di Bologna, il progetto “Estate Dozza” a cura dell’associazione di volontariato penitenziario “Il Poggeschi per il carcere”. Grazie a questo tradizionale progetto (attivo da più di 30 anni), tra il 28 agosto e il 2 settembre tutti i reparti (penale, giudiziario, femminile ed alta sicurezza) del carcere di Bologna avranno garantiti laboratori sia giornalieri che settimanali di vario tipo. Uno sforzo straordinario, considerato il periodo di ferie notoriamente difficile e il momento delicato che si sta vivendo nelle carceri, possibile solo grazie al rinnovato slancio della direzione dell’istituto (la dott.ssa Rosalba Casella che ha fortemente sostenuto l’iniziativa), alla collaborazione con tutta l’area educativa dell’istituto, all’istituzione di una rete con altre associazioni e singoli volontari che hanno dato la disponibilità a tenere i laboratori in varie giornate della settimana. I laboratori attivati riguarderanno diversi ambiti: da quello sportivo (alle conferme del nordic walking e dello yoga si sono aggiunti tornei di calcio e pallavolo e una lezione di fit-boxe), a quello informativo (incontri con giornalisti professionisti e operatori in genere della comunicazione), dall’arte in varie forme (mail art, disegno, musica e poesia) alla recitazione, dall’estetica (al femminile ci saranno acconciature per un giorno) alla cucina molecolare, dalle conversazioni filosofiche ai cineforum, passando per gruppi di lettura e un laboratorio sulle emozioni. Non mancheranno, infine, momenti di aggregazione come il pranzo offerto dai volontari delle Cucine Popolari mercoledì 30 agosto e la festa conclusiva di sabato 2 settembre con intrattenimento musicale. Chi era Franco Basaglia, il riformista irregolare che ha curato i “matti” con i diritti di Andrea Pugiotto L’Unità, 29 agosto 2023 Rimosso in morte come in vita, a Venezia e a Trieste nessuna via porta il suo nome. Eppure è stato il protagonista di un evento fino ad allora inedito al mondo: la chiusura dei manicomi. Ha insegnato che la malattia psichica è anche malattia sociale. E che responsabilità e dignità sono terapeutiche. 1. Quando Franco Basaglia muore il 29 agosto 1980, a soli 56 anni, Il Gazzettino di Venezia relega la notizia in cronaca, mentre Il Piccolo di Trieste la tratta con distacco. Eppure, Basaglia è veneziano di nascita ed è stato primario del manicomio triestino. È un oblio che persiste: ancora oggi, Venezia e Trieste non hanno una piazza o una via intestata a suo nome; ce n’è una, invece, a Rio de Janeiro, città che ospitò le sue famose conferenze brasiliane. Nemo profeta in patria. È il destino degli irregolari che non appartengono ad alcuna chiesa ufficiale. Non è un caso, semmai la manifestazione di quell’ignoranza razionale che ci spinge a decidere di non sapere: solo così, infatti, possiamo rinsaldare i nostri pregiudizi evitando le fatiche del dubbio e del confronto. Ignorare biografie come quella di Franco Basaglia non è, allora, solo un problema culturale. È soprattutto un problema politico, perché il vuoto (di memoria) chiede di essere riempito con un pieno, travasato da un presente che non offre storie di eguale spessore. 2. Già in vita, Franco Basaglia fu oggetto di rimozione da parte del mondo accademico, a suo modo un’istituzione totale: “Io sono entrato nell’università tre volte e per tre volte sono stato cacciato”. Prima dall’Ateneo di Padova, per andare a dirigere il manicomio di Gorizia. Poi dall’Ateneo di Parma, dove insegna igiene mentale per otto anni “durante i quali sono stato isolato come un appestato”. Infine quando, da neo-ordinario, declina la cattedra di neuropsichiatria geriatrica che gli fu proposta per emarginarlo: “ho preferito rifiutare e tornare in manicomio”. Il suo è stato il destino dell’uomo di confine. Lavora a Gorizia, città a metà tra Italia e Jugoslavia. Lavora nei manicomi, i cui muri separano - per convenzione - follia e normalità. Da quando non c’è più, Basaglia paga quel suo destino con una sorta di confino, politico e culturale. Eppure, con Franca Ongaro Basaglia, è stato il protagonista di un evento fino ad allora inedito al mondo: la chiusura dei manicomi, a dimostrazione che l’impossibile è possibile. 3. C’è un proverbio calabrese che sintetizza al meglio il lavoro di Franco Basaglia: “Chi non ha, non è”. Riassume efficacemente i due capisaldi del suo agire: la malattia psichica come malattia (anche) sociale; il valore terapeutico della responsabilità individuale, attraverso la restituzione dei diritti negati al malato. Vengono in mente le foto dell’occupazione del manicomio di Colorno, coperto da striscioni studenteschi che recitano: “Il figlio del ricco è esaurito, il figlio del povero è matto”, oppure “Se l’ospedale psichiatrico serve a curare le malattie mentali, i malati ricchi dove sono?”. È la miseria a produrre orrori. Basaglia ne è convinto. Non per ideologia. Non perché neghi le cause biologiche della malattia mentale. Semplicemente perché, interessato più al malato che alla malattia, lo considera nella sua unità di soma, psiche, civitas. È lui stesso a spiegarlo, con un esempio lampante: “Un conto è se io chiamo pellagra la malattia di chi vive solo di polenta, un conto se la chiamo miseria […]. Che cos’è, infatti, la pellagra? Dopo i primi sintomi (eritema, diarrea, tremori), intervengono disturbi psichici che iniziano con ipocondria, depressione e portano a gravi stati confusionali con allucinazioni visive, agitazione e delirio: la vera demenza pellagrosa. Malattia mentale, infine, da fame antica, però”. Le cause (anche) sociali della malattia mentale obbligano a spostare il baricentro della cura: centrale diventa una politica di prevenzione, capace di intervenire sugli ambienti di vita e di lavoro delle persone. Nel linguaggio giuridico si chiama libertà dal bisogno, attraverso l’affermazione dei diritti sociali riconosciuti in Costituzione. Infatti, chi non ha (diritti) non è, perché a chi tutto ha perso capita più facilmente di perdere, alla fine, anche sé stesso. Per queste ragioni, secondo Basaglia, curare il malato mentale significa “restituirgli le sue integre possibilità esistenziali”. Non calmarlo, sedarlo, addomesticarlo, ma riconoscergli dignità e responsabilità, diritti e doveri. Cosa impossibile in manicomio, perché si danno persone dotate di senso solo in un contesto dotato di senso. Da qui la sua lotta: prima per trasformare l’ospedale psichiatrico in una comunità terapeutica (a Gorizia); poi per la sua definitiva chiusura (a Trieste). 4. L’aspetto più interessante, nel rileggere l’esperienza basagliana, è l’originalità della sua pratica psichiatrica. Alla domanda (leninista) “Che fare?”, Basaglia risponde: “Fare!”. Secondo l’insegnamento di Sartre, sa bene che “le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte”. Preferisce per questo misurarsi con la realtà delle cose, convinto che la praxis sia sempre una teoria ancora non detta. Questo comandamento traspare, ad esempio, nel lavoro all’interno del manicomio di Trieste (cfr. Aa.Vv., La libertà è terapeutica?, 1983). Reparti aperti. Eliminazione dei camici e della contenzione. Lavoro dei pazienti organizzato in cooperative e regolarmente retribuito. Assemblee di malati e di medici, e tra malati e medici. Trasformazione dell’area dell’ospedale psichiatrico in spazio aperto al pubblico per mostre, concerti, eventi teatrali, convegni anche internazionali. Sarà, questa, una storia comune a molte altre città. Nel 1969, infatti, la sua equipe di Gorizia dà vita ad una feconda diaspora che esporterà la praxis basagliana altrove: Pirella si insedia ad Arezzo, Jervis e Letizia Comba a Reggio Emilia, Schittar a Pordenone, Casagrande a Venezia, Slavich a Ferrara. Inquadrate in campo lungo (cfr. John Foot, La “Repubblica dei matti”, 2014), tutte queste esperienze di de-istituzionalizzazione manicomiale seguono un metodo di lavoro comune, efficace, preciso, lontano da quell’antipsichiatria scellerata di cui Indro Montanelli accusa Basaglia (cfr. Pier Maria Furlan, Sbatti il matto in prima pagina, 2016). 5. Accanto al lavoro clinico, l’esperienza basagliana scorre lungo il binario parallelo del lavoro politico-istituzionale. Basaglia non è un extraparlamentare antagonista alla Repubblica dei partiti, con i quali semmai stringe alleanze. Nella loro diaspora, i basagliani cercano e trovano l’appoggio di assessori provinciali “illuminati” dallo choc che segue la visita al manicomio cittadino, di cui sono amministrativamente responsabili. Meritano un ricordo riconoscente: ad Arezzo, Bruno Benigni e Italo Galastri; a Colorno, Mario Tommasini; a Trieste, Michele Zanetti; a Ferrara, Carmen Capatti; a Perugia, Ilvano Rasimelli. Sono comunisti, socialisti, democristiani, espressione di una nuova classe dirigente che si affaccia alla politica nel dopoguerra, con la Costituzione repubblicana alle spalle. La stessa legge n. 180 sarà approvata, nel 1978, con un voto parlamentare quasi unanime (con l’eccezione del Partito Radicale che la giudica un escamotage per evitare il referendum abrogativo della legge manicomiale del 1904, già convocato). Con grande intelligenza, dunque, Basaglia ha sempre usato il potere politico come un mezzo, forte di una convinzione: “È quello che ho già detto mille volte. Noi nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere. E nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo”. Ciò ne fa un intellettuale sui generis, capace di unire gradualismo (nel metodo) e radicalismo (negli obiettivi): un riformista massimalista, un concreto utopista, un legalitario rivoluzionario. Basaglia, insomma, incarna un ossimoro. 6. Il frutto più maturo dell’esperienza basagliana sarà la chiusura dei manicomi. In origine, era la legge Giolitti (n. 36 del 1904) a disciplinare la custodia e la cura dei “mentecatti”. Questo, infatti, era il nomen iuris dell’internato: “mente captus” cioè “preso alla mente”, e per questo “pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo”. Incatenato due volte, alla malattia mentale e al manicomio dov’è rinchiuso e oggettivato secondo categorie corrispondenti ai reparti di cura e custodia coatte: tranquilli, semiagitati, agitati, sudici, paralitici, epilettici, infettivi, suicidi. Sono discariche sociali, i manicomi, per l’appartenenza di classe dei malati e per le condizioni in cui sono tenuti in cattività. Quando nel 1961 varca l’uscio di quello di Gorizia, Basaglia vive il suo personalissimo déjà-vu, percependo il nauseante puzzo di morte che aveva già conosciuto nel carcere in cui, da giovane antifascista, era stato rinchiuso: “Quando vi sono entrato per la prima volta ho avuto quella stessa sensazione. Non c’era l’odore di merda, ma c’era come un odore simbolico di merda. Ho avuto la certezza che quella era un’istituzione completamente assurda, che serviva solo allo psichiatra che ci lavorava per avere lo stipendio a fine mese”. Il primo intervento di riforma risale alla legge del ministro socialista Mariotti (n. 431 del 1968). Cambia il nome in ospedale psichiatrico. Cancella gli internati dal casellario giudiziario. Prevede i centri d’igiene mentale territoriale. Introduce, accanto all’internato coatto, la figura dell’internato volontario che può dimettersi sotto la propria responsabilità in qualsiasi momento. È una prima crepa che Basaglia cercherà di allargare, propiziando il crollo di un’istituzione sclerotizzata: all’epoca, i “matti” internati si contano in 100.000, sottoposti ancora alle pratiche dell’elettrochoc e della contenzione, nonostante i progressi nella farmacopea. È in questo quadro ordinamentale che interviene il dispositivo abolizionista della legge n. 180 del 1978, assorbita pochi mesi dopo nella legge-quadro sul Servizio Sanitario Nazionale. Giuridicamente, un ricovero contro la volontà dell’individuo va considerato eccezionale, residuale, sempre reversibile, di durata breve e predeterminata dalla legge, assistito da garanzie procedurali tali da scoraggiarne l’abuso. Per la prima volta, si scinde la tutela della salute mentale dalla difesa dell’ordine pubblico perché l’infermo di mente, in quanto tale, non è più presunto pericoloso a sé e agli altri (cfr. Daniele Piccione, Il pensiero lungo. Franco Basaglia e la Costituzione, 2013). Le raffiche di critiche mosse alla c.d. legge Basaglia partono fin dalla sua entrata in vigore. Provengono da parenti dei malati dismessi, primari, politici di destra (e di sinistra, come Antonello Trombadori), psichiatri (come Giovanni Jervis, già basagliano della prima ora, o Mario Tobino, divenuto scrittore di fama). Critiche che sbagliano bersaglio, mirando a un’opzione legislativa costituzionalmente orientata, e non alla sua lenta, faticosa, osteggiata attuazione. Critiche che ritornano insidiose, trovando sponde solide nell’attuale governo: oggi, “numeri alla mano, quell’assalto potrebbe concretizzarsi” (cfr., in Domani, 6 maggio 2023, la conversazione triestina tra Gianni Cuperlo e lo psichiatra basagliano Peppe Dell’Acqua). 7. Lo racconta molto bene la biografia scritta da Oreste Pivetta (Franco Basaglia, il dottore dei matti, 2012): l’esperienza basagliana attraversa il ‘68 di cui è, a un tempo, causa ed effetto. Gorizia prima, Trieste poi, dimostravano la praticabilità di un cambio di paradigma che, dal manicomio, poteva estendersi alle altre istituzioni totali ancora esistenti: famiglia, scuola, università, ospedale, caserma, carcere. L’antiautoritarismo delle pagine di Goffman, Foucault, Cooper si traduceva in un agìto possibile in cui teoria e prassi avanzavano affiancate. È lo Zeitgeist, lo spirito del tempo che Franco Basaglia incarna al meglio. Un volume collettivo, anomalo e di difficile lettura qual è l’Istituzione negata (1968), racconto dell’esperienza goriziana nel suo farsi, vende come il pane e diventa un bestseller. In quegli anni sorprendenti, i libri si scrivevano (e si leggevano) per rovesciare il mondo, non come oggi sul mondo alla rovescia. Anche in ciò si misura tutta la difficoltà nel superare il nostro deludente e regressivo presente. Migranti. La premier scavalca i ministri: a Mantovano la gestione dell’emergenza di Flavia Amabile La Stampa, 29 agosto 2023 Il tavolo permanente sarà guidato dal sottosegretario alla Presidenza. Piantedosi: “La collaborazione con la Turchia ancora insufficiente”. L’estate da record per gli sbarchi porta un primo cambiamento di rotta da parte del governo nella gestione degli arrivi dei migranti. Ad ammettere le difficoltà è Giorgia Meloni, presidente del Consiglio: “L’Italia sta subendo una pressione migratoria come non si vedeva da molti anni a questa parte, anche a seguito degli avvenimenti, recenti e meno recenti, nel Sahel, con quantità di arrivi imponenti. È difficile spiegare all’opinione pubblica quello a cui assiste e lo capisco bene”, ha avvertito. E, aprendo il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva, ha annunciato la novità in arrivo, un accentramento dei poteri sulla gestione dei migranti da parte di un organo diverso, in pratica un ridimensionamento dei ministri Piantedosi, Salvini e Tajani. “Nell’insieme - ha sottolineato Meloni - facciamo tanto, ma è essenziale che ciascun ministro che ha competenza in materia sia al corrente reale sul lavoro che svolge il suo collega per evitare duplicazioni, dispersione di risorse, ma anche che il nostro interlocutore di turno si rivolga a più d’uno di noi, sollecitando i medesimi interventi, senza poi dare conto dell’utilizzo degli aiuti che riceve. Per questo, già alla fine di questo Consiglio dei Ministri, è convocata una riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr), che ben si presta a essere la sede di questo raccordo. E da oggi è convocato permanentemente, composto da tutti i ministri competenti. Il nostro obiettivo è affrontare il problema in maniera pragmatica, con decisioni rapide e coordinate”. Ad avere la delega per gestire le attività del Comitato è il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano che, infatti, ha appoggiato in pieno la linea della presidente del Consiglio. “Un incremento del 103% degli arrivi dei migranti “è un dato innegabile” e “oggettivamente preoccupante”, ha spiegato. Dipende in gran parte dalle crisi in Paesi come il Sudan e “ci auguriamo non accada lo stesso a seguito del golpe in Niger”. Il ministro Piantedosi ha provato a difendersi durante la conferenza stampa di ieri sera. Ci sono “segnali di incoraggiamento”, ha sostenuto. “Abbiamo avuto nel corso dell’anno un trend che segnava il 300 per cento, oggi la curva si è abbassata: questo segnala un calo della curva di crescita che ci incoraggia. La collaborazione della Tunisia ancora non è sufficiente a fermare il trend, ma Tunisi ha fermato il 171% in più dei partenti: 43.126 fino al 22 agosto scorso rispetto ai 15.925 dello scorso anno, anche in base a una collaborazione che è nostra intenzione implementare”. In quest’estate da record per gli sbarchi sono in aumento costante i minori non accompagnati. Ieri è arrivata anche una bambina di 7 anni senza genitori e senza altri adulti ad accompagnarla. Arriva dalla Nigeria e, in base a quello che ha raccontato un ragazzo che era con lei, ha compiuto la prima parte del viaggio con la madre, il padre e la sorella di 4 anni. La famiglia, però, è rimasta bloccata in Libia. Lei, invece, è riuscita a trovare posto su un’imbarcazione insieme con un ragazzo che ha raccontato di essere lo zio. Durante la traversata sono stati soccorsi dalla Ocean Viking e sono sbarcati ieri a Napoli insieme ad altri 252 migranti (37 erano i minori non accompagnati). “La bimba sarà subito collocata in una delle nostre comunità d’accoglienza. Come amministrazione siamo sempre in prima linea e ci prenderemo cura dei minori non accompagnati che saranno ora collocati prima presso l’Ospedale del Mare e piano piano smistati” ha assicurato l’assessore alle Politiche Sociali del comune di Napoli, Luca Trapanese. Governo, la sfida tra duri sulla pelle dei migranti di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 29 agosto 2023 Terminato sostanzialmente a vuoto il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva, il governo annuncia adesso che il decreto sicurezza arriverà a settembre. Confermando però l’intenzione di varare misure di stampo esclusivamente repressivo che già in passato hanno dimostrato un totale fallimento. Gli annunci sembrano mirati ad esigenze elettorali ed al riaggiustamento dei rapporti di forza all’interno del governo, piuttosto che alla soluzione di problemi che vengono definiti “epocali”. La proliferazione dei centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) in ogni regione, di fatto con un raddoppio dei posti disponibili (oggi meno di 1.200), e ulteriori strutture di detenzione amministrativa per le procedure accelerate in frontiera, da riservare ai richiedenti asilo che provengono da paesi terzi ritenuti sicuri, come la sezione detentiva del nuovo hotspot di Pozzallo-Modica, che dovrebbe aprire il primo settembre, come la stretta sulle procedure di rimpatrio e sui criteri per l’accertamento dell’età dei minori non accompagnati, con una modifica di quanto previsto dalla legge Zampa del 2017, sono tutte misure che, al di là dei gravi problemi di legittimità costituzionale e di conformità con la normativa europea ed internazionale, sono destinate, non solo a “deludere sul piano dell’efficacia”, come sostiene una parte dell’opposizione, ma a produrre in pochi mesi una emergenza umanitaria senza precedenti. Sulla pelle delle persone più deboli che comunque arriveranno sulle nostre coste, e comunque resteranno nel nostro paese, in condizioni di assoluta incertezza, anche se si può dare come scontato un leggero calo delle partenze dalla Libia e dalla Tunisia per il peggioramento delle condizioni atmosferiche in autunno. Calo che però potrebbe essere compensato da un aumento dei migranti, forzati a lasciare quei due paesi, per una nuova deflagrazione militare della crisi libica, e per l’inasprimento della persecuzione nei confronti dei migranti subsahariani, da parte della Tunisia di Saied, principale partner della politica estera e migratoria italiana in nordafrica. Con i risultati che stiamo vedendo in questi giorni a Lampedusa, a Porto Empedocle ed in tanti centri di prima accoglienza in Italia. E con gli effetti a catena in Libia, ancora spezzata in due tra il governo “provvisorio” di Dbeibah a Tripoli, ed il Parlamento di Tobruk sostenuto dal generale Haftar a Bengasi. Intanto la legittimazione internazionale strappata da Dbeibah con la firma del Memorandum d’intesa Ue-Tunisia, fortemente voluto da Meloni, è servita per rigettare nel deserto al confine con la Libia centinaia di persone rastrellate nelle aree urbane della Tunisia sud-orientale (soprattutto a Sfax). E proprio da quei territori si sono moltiplicate le partenze verso l’Italia, a cui ha fatto seguito il congestionamento totale dell’hotspot di Contrada Imbriacola a Lampedusa. Altra crisi umanitaria innescata dal governo Meloni, e dal ministro dell’interno Piantedosi, perché allontanando con l’assegnazione di “porti vessatori” e con “fermi amministrativi” le navi del soccorso civile che potevano sbarcare i naufraghi soccorsi in acque internazionali in diversi porti di destinazione in Sicilia e Calabria, se non con trasbordi su unità della Guardia costiera italiana, è saltata qualsiasi possibilità di programmare gli sbarchi, dopo i salvataggi in mare, ed i trasferimenti via terra, come si verificava nel 2017, prima del Memorandum Gentiloni con la Libia, e prima del Codice di condotta per le Ong imposto da Minniti. Ormai, su oltre 76.000 persone sbarcate quest’anno, soltanto poco più di 4.700 persone sono state recuperate da navi del soccorso civile. Nel 2016, a fronte di oltre 178.000 persone soccorse in mare, le navi delle Ong ne avevano salvate direttamente 46.796, secondo i dati ufficiali della Guardia costiera, adesso oscurati. Il cosiddetto pull factor, fattore di attrazione operato dal soccorso civile, su cui hanno costruito campagne elettorali e processi penali non è mai esistito. Lo hanno accertato anche i giudici, lo confermano i fatti. La maggior parte degli “sbarchi” sono ormai “autonomi”, magari con l’assistenza a distanza di unità della Guardia costiera o della Guardia di finanza in acque internazionali, e poi con veri e propri interventi di salvataggio nelle acque Sar di competenza italiana. Mentre continua la sostanziale delega alla sedicente guardia costiera libica quando le chiamate di soccorso arrivano dalla zona Sar assegnata al governo di Tripoli. Rimane il grande buco nero della zona Sar maltese, nella quale La Valletta non invia mezzi di soccorso, e possono arrivare anche i libici a sparare sulle navi delle Ong. Ma tutto questo viene ignorato da chi sventola come unica soluzione un nuovo Decreto sicurezza. Vediamo così che mentre una parte dell’opposizione attacca il governo lamentando la scarsa efficacia degli interventi e degli accordi che dovrebbero garantire una riduzione degli arrivi, le scelte del governo non divergono troppo da quelle inaugurate con il secreto Minniti-Orlando del 2016, sul terreno delle procedure di asilo e della detenzione amministrativa, e poi rafforzate con i due decreti sicurezza Salvini che nel 2018 destrutturavano i sistemi di accoglienza, e nel 2019 criminalizzavano i soccorsi umanitari. Non è facile fare proposte, che pure ci sarebbero, con una opposizione tanto divisa e incapace di autocritica, ed un governo che, attraverso la maggioranza assoluta in parlamento riesce a fare passare norme in aperto contrasto con la Costituzione e con gli obblighi internazionali. Il ruolo del parlamento è sempre più marginale a vantaggio delle iniziative dei ministri. Ci si lamenta del mancato supporto europeo, ma poi, anche sul piano energetico, si opera secondo una linea politica marcatamente nazionalista, come emerge nei rapporti con la Tunisia e con il governo di Tripoli, fino al disastro diplomatico del recente incontro a Roma, organizzato da Tajani, tra il ministro degli esteri israeliano e la ministra degli esteri del governo Dbeibah, costretta alla fuga in Turchia per gli scontri che ne sono scaturiti in tutta la Libia. Ed anche su questo si comprime il diritto all’informazione. In ogni caso dovrà ripartire una forte mobilitazione per una regolarizzazione permanente di tutti quanti sono tagliati fuori dalle procedure di ingresso legale per lavoro, per il superamento dei centri di detenzione amministrativa, comunque denominati, per garantire i diritti fondamentali, a partire dai diritti di difesa e dal diritto di chiedere protezione (nelle varie forme di asilo costituzionale) a tutte le persone “comunque presenti” in Italia, dopo il loro ingresso nel territorio nazionale, dunque anche nelle procedure di identificazione e di protezione “in frontiera” come impone anche l’articolo 2 del Testo Unico sull’immigrazione 286/98. E quindi sarà necessaria la sospensione immediata della lista dei paesi terzi ritenuti, spesso a torto, “sicuri” con la revisione di tutti gli accordi di riammissione o di cooperazione di polizia con quei governi che non rispettano effettivamente i diritti umani. La lotta ai trafficanti si può fare ripristinando davvero la cooperazione giudiziaria, non certo patteggiando con le milizie colluse con i criminali. Non si potranno creare per decreto legge zone franche escluse dal rispetto delle garanzie dello stato di diritto, in Nordafrica, ma anche in Italia. Oggi questo vale per le persone di origine straniera, domani potrebbe valere anche per i cittadini italiani. Migranti. Non sono un’emergenza, sono esseri umani di Luca Casarini L’Unità, 29 agosto 2023 Anche il governo Meloni, come quelli che l’hanno preceduto, registra il suo fallimento nelle politiche di gestione della migrazione. Perché la sua visione non si basa sui numeri, ma sull’idea che un uomo possa stare fermo dentro i propri confini. Il governo Meloni registra il suo fallimento nelle politiche di gestione della migrazione. Ma qualsiasi governo che si è succeduto in questi anni ha fallito. Sembra che la politica in realtà insegua il vecchio adagio “mal comune mezzo gaudio” quando si tratta di condividere i fallimenti sui migranti. Che, come ricorda Papa Francesco ogni volta che può, e recentemente anche il Presidente Sergio Mattarella (non a caso dal meeting di CL dove stanno i cattolici ammiratori della destra e denigratori del Papa), sono innanzitutto un paradigma di come pensiamo il mondo e il rapporto con il nostro prossimo. Il fallimento è prima di tutto questo: di visione. Si continua a definire, governo dopo governo, estate dopo estate, l’immigrazione una “emergenza”. Eppure, a parte il fatto logico che nessuna cosa che si ripete da anni, puntuale come un orologio svizzero, può essere definita una “emergenza”, non è dai numeri che si deve partire per capire i motivi di questa incapacità. Questi ultimi infatti, descrivono i tratti di un fenomeno del tutto gestibile. Se non fosse per la violenza e le tragedie che spingono le persone a muoversi in questo quadrante di mondo, si potrebbero definire “fisiologici”. I numeri della migrazione verso l’Italia e l’Europa, sono persino contenuti, se si rapportano alla negazione del “diritto a restare” alla quale vengono sottoposte le popolazioni protagoniste loro malgrado delle migrazioni. Non abbiamo niente a che fare, noi occidentali, con i disastri causati dalle guerre e dalla devastazione ambientale che spingono donne, uomini e bambini a diventare erranti, a muoversi da sud e da est verso l’Europa? Basterebbe solo mettere in rapporto altri numeri, ad esempio quelli relativi all’esportazione di armi che vedono quei paesi proprio come principali mercati, per fare due più due. O i numeri relativi ai barili di petrolio che grazie alle concessioni, vengono pompati nelle pipeline a gestione delle compagnie europee. O i numeri delle estrazioni di minerali e terre rare, che di locale, in quei paesi, hanno solo la manodopera infantile spinta nei buchi delle miniere a scavare per noi. Oppure, per gli appassionati di numeri, basterebbe incrociare quelli che descrivono la desertificazione e la rarefazione di suoli coltivabili e irrigabili, con lo spostamento di persone verso nord. Ma non si basa sui numeri, e su nessun raziocinio, la visione distorta, e fallimentare, che il Governo Meloni e i suoi predecessori di segno opposto, hanno sulla migrazione. Bisogna partire da un livello più profondo per comprendere perché continuino tutti a sbagliare e ad infilarsi in questi “cul de sac” che tante sofferenze evitabili creano alle persone in movimento, e tanto male fanno alla politica, che si riduce a battibecco propagandistico continuo che alla fine è capace di esprimere solo un “pensiero unico”. Che idea di mondo hanno i governanti dunque? Nell’epoca della globalizzazione di ogni aspetto della vita, e la pandemia recente avrebbe dovuto farci capire quanto si debba intendere immediatamente connessa la nostra vita con quella di tutti gli altri esseri umani, sembra prevalga l’immagine di un mondo circoscrivibile e rinchiudibile in “settori”. Il continuo richiamo ai “confini”, intesi come muri capaci di delimitare, impermeabilizzare, pezzi di pianeta isolandoli dagli altri, forse poteva avere un senso fino a prima dell’epoca dei conquistadores, nel 1500. L’idea di un uomo che sta fermo dentro i suoi confini, non è mai stata credibile. La ricerca di poter “abitare il mondo”, di scoprirlo fino all’ultimo angolo, non può essere sequestrata da qualche ricco e potente, perché appunto, è un’idea, e dunque, non imprigionabile. La libertà di movimento appartiene a tutti e tutte, e nessun sovrano la impedirà per sempre. La teologia ci aiuta di più della politica, da questo punto di vista. La ricerca della “terra promessa”, il bisogno di un esodo, può essere dunque solo un privilegio di pochi? La visione dunque di un mondo rinchiuso a settori, rimanda a moderne profezie come Blade Runner, e la costruzione di un immaginario capace di “imprigionare” il desiderio di scoperta del mondo a Matrix. Ma i governi se la prendono con gli “illegali”, i “clandestini”. E allora vediamo ciò che provoca l’illegalità: con il nostro passaporto noi abbiamo accesso a 124 paesi senza nemmeno passare per il visto. Un cittadino statunitense 115. Un uomo o donna afghana in possesso di passaporto, può recarsi in 6 paesi. Un siriano in 9. Un irakeno 10, chi viene dalla Somalia 11. Dalla Libia un cittadino con il suo passaporto può raggiungere 15 altri paesi. Il “passport index” sarebbe un buon metodo per capire il perché le persone debbano spesso affidarsi ai passeur, ai trafficanti per potersi muovere. Dunque se ci fossero governanti desiderosi di capire perché falliscono, dovrebbero intanto prendere coscienza che il mondo è stato organizzato così, cioè per avere la stragrande maggioranza dell’umanità costretta ad affidarsi a viaggi illegali, lunghissimi, pericolosi, per poter migrare. L’illegalità delle migrazioni, è un prodotto del sistema mondo, non una scelta degli esseri umani. Gli otto miliardi di abitanti del pianeta, per il 99% non vogliono lasciare la loro terra, i luoghi che conoscono e dove sono nati. Ma per quei cento milioni che si stanno spostando, in maggioranza “forzatamente” a causa di condizioni nelle quali non è possibile vivere, la “punizione” è l’inferno. La morte. Le torture, la sofferenza, gli stupri. La violenza. I migranti e i profughi poi, sono poveri. Vanno bene se vengono messi al lavoro, e questo governo di destra ha fatto in termini di quote di ingresso, quello che vergognosamente i governi “democratici” non hanno mai osato fare, e cioè portare a 500.000 ingressi in tre anni il flusso programmato. Ma se vengono solo in quanto esseri umani, siano adulti o bambini, diventano sempre un’emergenza. Ma com’è che ciò che vive può diventare “emergenza”? E’ forse legato al fatto che siamo un paese di anziani e con più morti che nascite? Di sicuro c’è che quella vita che non viene riconosciuta come un dono ma come un problema, è racchiusa da pelle scura e non bianca. Storia antica questa, capace di trasformare il sacro “hospis” in “hostis”, nemico. Ma storia molto più recente è anche quella del “capro espiatorio”, come insegnavano i manuali di Goebbels. Se non c’è il nemico bisogna crearlo. Perché occuparci dell’aumento della povertà in Italia, quando la “risposta” è facile e a portata di mano? Perché dover rendere conto ai cittadini dell’aumento delle bollette dell’energia e del prezzo dei carburanti, quando c’è un’invasione di poveri e neri alle porte? L’unica vera emergenza in Italia, è il sistema di accoglienza. La legge Bossi-Fini, ancora in vigore (incredibile che nessun governo di centrosinistra abbia mai davvero pensato di abolirla), è una legge che produce “clandestinizzazione”. Crea illegali, spinge i nuovi arrivati ai margini, rende impossibile percorsi di integrazione nella vita sociale del nostro paese. D’altronde siamo sempre quel paese nel quale ancora più di un milione di giovani nati e cresciuti qui, non ha la cittadinanza. Il successo elettorale di uno che vuole farsi ricordare dai posteri costruendo un ponte gigantesco come i faraoni si facevano costruire le piramidi, corrisponde al fallimento umano di una persona convinta che l’aver smantellato il sistema di accoglienza degli Sprar e dell’ospitalità diffusa, sia una cosa di cui andar fiero. Miserabili fortune in questa terra che descrivono l’idea del prossimo, dell’altro, che può avere chi del mondo, e degli esseri umani, ha una considerazione pari allo zero. Una “castrazione chimica dello Spirito” che purtroppo deve aver funzionato bene in questo soggetto, temporaneamente affidatario dei poteri pubblici di governo. Ma in concreto, se volessimo affrontare l’emergenza accoglienza, smettendo di chiamare emergenza la migrazione, bisognerebbe sedersi ad un tavolo con sindaci e società civile, e approntare ciò che va fatto per rendere dignitoso ed efficace ciò che oggi non lo è. La “bussola” dovrebbe essere il fatto che sono esseri umani, che ci rende orgogliosi ospitarli, che per un paese civile è la base non solo della sua Costituzione, ma del suo futuro. Perché è ovvio, ma non per i governanti, che tutto ciò che faremo agli altri, poi tornerà su di noi. Se tratteremo da fratelli e sorelle, saremo trattati come tali. Se li faremo soffrire, questa sofferenza ci sommergerà. Dovremmo dunque pensarci come “comunità dell’accoglienza”, istituzionale, laica, religiosa. Come dovremmo pensare ad una “comunità del soccorso” quando parliamo di Mediterraneo, con i suoi duemila morti l’anno che gridano dal fondo i loro nomi, per sempre. E invece di fare la guerra alle Ong, altro capro espiatorio, aiutare chi si impegna a soccorrere, ricordandoci che nessuno si salva da solo. E nessuno fallisce da solo. Anche se governa la Meloni. Migranti. Lettera delle Ong all’Ue: “Il fermo delle navi è illegittimo” di Alfredo Marsala Il Manifesto, 29 agosto 2023 La protesta. 56 organizzazioni scrivono una nota ufficiale contro il governo italiano. Intanto, il maltempo ferma momentaneamente gli sbarchi. Navi e aerei militari per cercare di svuotare l’hotspot di Lampedusa ma il problema si sposta a Porto Empedocle. Mentre il vento di maestrale nelle ultime 48 ore ha impedito nuovi sbarchi a Lampedusa dove l’hotspot rimane al collasso, arriva la richiesta di 56 Ong all’Ue di intervenire contro “l’illegittima ostruzione” della flotta umanitaria da parte del governo Meloni, che ha fermato nei giorni scorsi la nave Aurora della Sea Watch per avere “disobbedito” senza attraccare a Trapani, la Open Arms che dovrà restare ferma nel porto di Carrara per 20 giorni, e la Sea-Eye 4 che non potrà lasciare il porto di Salerno per oltre due settimane. Quello all’Europa è un appello accorato: “Tutte le navi civili di ricerca e salvataggio devono essere rilasciate immediatamente e qualsiasi multa derivante dalla nuova legge italiana deve essere eliminata; il diritto marittimo internazionale e i diritti umani devono costituire il quadro di riferimento per tutti coloro che operano in mare: altrimenti ci saranno altri morti in mare”. L’appello delle Ong, diventato virale sui social, è stato scritto nel giorno in cui la Ocean Viking, di Sos Mediterranée, è arrivata nel porto di Napoli con 254 migranti dopo averne sbarcati una parte a Vibo Valentia. Nel porto di Livorno ha invece già attraccato la Humanty 1 dell’Ong tedesca con 57 persone salvate da un barcone in difficoltà al largo delle coste libiche. A Brindisi due giorni fa lo sbarco dei 168 migranti arrivati con la Geo Barents di Medici senza frontiere, mentre il 23 agosto la Life Support aveva fatto sbarcare in Abruzzo 40 persone soccorse in zona Sar maltese. Nelle coste nordafricane ci sarebbero almeno 4 mila persone pronte a partire non appena le condizioni meteomarine lo consentiranno. Fino a ieri mattina nell’hotspot di Lampedusa c’erano 3.593 migranti, fra cui 211 minori non accompagnati. Col mare piatto, prima dell’arrivo del maestrale, erano sbarcate nell’isola 325 persone mentre ne venivano trasferite 947 con traghetti e voli militari. Su disposizione della prefettura di Agrigento, ieri, hanno lasciato l’isola 790 migranti: 70 sono saliti su un volo militare con destinazione Palermo, altri due contingenti di 140 naufraghi sono partiti per Venezia e Genova. Su un cacciatorpediniere della marina militare sono stati imbarcati in serata 650 persone, destinazione Augusta. Se le condizioni del mare lo permetteranno, oggi dovrebbe arrivare la nave militare Dattilo che sposterà verso Augusta, Pozzallo e Catania altre 750 persone, mentre la nave “Lampedusa” dovrebbe essere autorizzata a imbarcare 600 persone per andare a Trapani. “Siamo consapevoli e lo eravamo sin dall’inizio che gestire l’hotspot di Lampedusa fosse una sfida complessa. La Croce Rossa Italiana è stata e continua a essere un avamposto di umanità in un fenomeno, quello migratorio, che spesso rischia di dare numeri al posto di volti umani a chi approda disperatamente alle porte dell’Europa”, dice Rosario Valastro, presidente della Cri. “Non cederemo mai di fronte alle emergenze - avverte - ma ogni operazione umanitaria ha bisogno di una macchina che funzioni perché fa parte di un ingranaggio complesso di cui sono parte essenziale la sicurezza, l’integrazione, la gestione dei flussi, la lotta ai trafficanti di esseri umani, le politiche tra gli Stati e la cooperazione internazionale”. Per il sindacato di polizia Siap “a Lampedusa, con un flusso di centinaia di migranti che sbarcano quotidianamente, non solo non si riesce a svuotare l’hotspot, ma diventa impossibile contenere le presenze entro limiti accettabili”. Complicata la situazione anche a Porto Empedocle, dove nell’area sbarchi e preidentificazioni c’erano fino a ieri mattina 818 persone. La prefettura ha recuperato alcuni pullman per i primi trasferimenti: 50 nelle Marche e 200 in Lombardia. Ma il piano prevede in totale 560 trasferimenti. Migranti. Livia Cecconetto: “Volontaria a Lampedusa parlo la lingua del sorriso” di Rossella Verga Corriere della Sera, 29 agosto 2023 L’infermiera, 78 anni, è impegnata dal 1990 al fianco della Croce Rossa Italiana. Sull’isola assiste le mamme e i bambini arrivati sui barconi: “Con la mia corazza contrasto il dolore”. La frequenza di radio Lampedusa irrompe sulla barca dei turisti: “Three babies and five women, no children”. L’imbarcazione sta rientrando in porto dopo aver portato il gruppo a fare il bagno nelle acque abbaglianti dell’isola siciliana più vicina all’Africa che all’Italia. Ma questa voce, improvvisa, è un pugno nello stomaco che richiama a una realtà di sofferenza. L’altra faccia dell’isola delle meraviglie cristalline è al largo della costa, s’insinua sul canale della radio di bordo e chiede aiuto in inglese. Gli scafisti snocciolano coordinate per consentire ai soccorritori di raggiungere l’ennesimo barchino in ferro, abbandonato all’orizzonte con il suo carico di migranti in fuga dalle guerre e dalla fame. Arrivano da Sfax, sulla costa orientale della Tunisia, facendo rotta verso il cuore grande dell’isola e lontano dai trafficanti. Operatori e volontari sono pronti ad accoglierli, come l’infermiera della Croce Rossa Italiana Livia Cecconetto, che con i suoi 78 anni superbamente portati dedica le giornate a medicare, preparare biberon e cambiare pannolini. Mentre in mare i migranti cercano salvezza, a terra la macchina della solidarietà è in moto. Sorella Livia, volontaria dal ‘90, non parla le lingue, ma ne conosce bene una che si comprende in tutto il mondo. È stata anche lei, durante l’estate rovente, ad occuparsi dell’accoglienza di mamme e bambini nell’hotspot di Contrada Imbriacola, luogo di prima assistenza sempre sul filo del collasso, con una capienza di 400 persone e punte di presenze di oltre 4000. Finiranno tra le sue braccia quei tre bebè e le cinque donne in arrivo dal mare. “Non parlo le lingue - dice - ma il mio linguaggio universale è il sorriso, la presenza che fa capire che ci sono per loro e questo i migranti lo percepiscono. Una signora prima di ripartire per Porto Empedocle mi è venuta a toccare le mani e poi l’interprete mi ha spiegato che voleva ringraziami perché le avevo trasmesso pace e serenità. Il linguaggio del corpo a volte vale più delle parole”. La Porta più a sud d’Europa si apre quotidianamente per i migranti in arrivo da Tunisia e Libia. Dal primo giugno la Croce Rossa Italiana ha preso in gestione, su disposizione del governo, l’hotspot al centro dell’isola, con un’organizzazione che impegna 120 operatori ogni giorno. Grazie a loro, ciascuno allo sbarco - in attesa di essere fotosegnalato - troverà sostegno: acqua, cibo, vestiti, un letto e soprattutto mani tese. Livia Cecconetto, di Novi Ligure, è una veterana degli aiuti umanitari. Al fianco della Cri si è prodigata in tutte le emergenze italiane, dai terremoti alle alluvioni, ed è partita per numerose missioni all’estero. Bagdad, Nassiria in Iraq, Libia, Pakistan, Haiti. Catastrofi e guerre l’hanno vista sempre in prima linea, richiamata dal bisogno e dal dolore. “Mi sono sempre sentita spinta come da una vocazione - racconta - e non ho mai smesso di praticare i principi della Croce Rossa e di onorare il motto di noi infermiere volontarie: ama, lavora, conforta, salva”. Livia il dolore lo sa riconoscere e affrontare. “L’ho vissuto sulla mia pelle - spiega - con la perdita di una figlia, poi del marito. Forse anche per questo non ho più paura di nulla. Sono una resiliente e so che qualunque cosa mi succeda sono divisa al 50 per cento: se muoio vedo una figlia, se vivo resto con l’altra e con i miei due fantastici nipoti. Ma una cosa mi è ben chiara: bisogna saper lottare, accettare con dignità ciò che la vita ci riserva. Il mio posto è accanto a chi ha bisogno e questa croce che porto addosso non è un simbolo, io ce l’ho nel cuore”. A Lampedusa la volontaria quasi ottantenne fa turni di 12 ore, dalle 8 alle 20. Conforta, abbraccia, cura le ferite fisiche e dell’anima: “Come quella ragazzina di 16 anni che è arrivata sul barchino con la figlia di appena 15 giorni. O come l’altra giovane che ci ha chiesto subito di poter fare il test di gravidanza perché era stata violentata prima di partire, o ancora quella bimba di 5 anni trovata sola nel deserto e caricata su una barca da un uomo sconosciuto”. Il carico umano a Lampedusa è pesantissimo. Nel centro di accoglienza i numeri sono sempre molto alti, “ma la situazione - assicura Ignazio Schintu, vicesegretario generale della Croce Rossa Italiana, presente all’hotspot sull’isola - è sotto controllo. Ci sono medici, infermieri, psicologi e volontari che si occupano delle persone appena sbarcate, prima del loro trasferimento che avviene entro 72 ore”. Dal primo giugno, sotto la gestione Cri, sono arrivati a Lampedusa oltre 48mila migranti e 45mila sono stati trasferiti (dati aggiornati a domenica 27, quando anche il ministro Adolfo Urso è arrivato in visita all’hotspot). La settimana scorsa si sono registrati picchi fino a 2000 arrivi al giorno, con una media degli ultimi otto giorni di 794 persone. Sorella Livia sull’isola non deve indossare il giubbotto antiproiettile o la maschera anti-gas, come a Nassiria. Ma anche qui, per lei come per tutti, ci vuole una corazza bella resistente. Russia-Ucraina, il fantasma della soluzione diplomatica si aggira senza coraggio né sostanza di Domenico Quirico La Stampa, 29 agosto 2023 Per dar corpo all’iniziativa bisognerebbe attribuire a Putin il ruolo di controparte. Un fantasma, l’ennesimo, si aggira per l’Europa: la soluzione diplomatica. Come purtroppo accade per i fantasmi tutti sostengono di averli visti, li descrivono perfino nella incorporea materialità, li invitano a farsi sostanza e voce per poter dialogare con loro, evocare, ricevere vaticini e suggerimenti, esplorare il futuro, cambiare il fato. Godono la vertigine di una stupefacente esistenza. Poi, nel momento in cui la luce della realtà fa svanire l’ombra dei sogni, tutto si conferma per ciò che era: nulla. I fantasmi d’Ucraina si declinano sotto molte specie: la sospirata “iniziativa diplomatica” in cui incliti e colti, generali e pacifisti, progressisti, populisti e perfino i nicodemiti del putinismo scorgono il principio del lieto fine. Proprio perché non vuol dir nulla, non impegna a niente. Poi c’è l’invocazione “è ora di dar spazio alla diplomazia”, una specie di “ita missa est” che incuba con loquela furba e tortuosa ogni comizio, intervista e senatoconsulto. E da rinviare cronologicamente a calende greche. Si aggiunga all’elenco l’obbligatorio “una diplomazia che “naturalmente” porti a una pace giusta”. Bello, ma quale? E c’è chi, volpe machiavellica di buona pelliccia, suggerisce senza batter ciglio di “affiancare la guerra e la diplomazia”. I fantasmi purtroppo son rimasti finora fantasmi. Per dar corpo alla iniziativa diplomatica occorrerebbero furberie, cavilli, tattiche anche impudenti, e soprattutto tanto coraggio politico. Per fare un esempio: poiché la diplomazia non è teratologia, ovvero la scienza dei mostri, si dovrebbe attribuire al mostro Putin, internazionalmente ricercato per furto di bambini, la qualifica di controparte. Altrimenti, in attesa della reincarnazione di Prigozhin o della mano dell’Onnipotente, senza questa opportunistica riabilitazione con chi la si esercita, la diplomazia? Anatema, tradimento, condanna, punizione! La resa incondizionata non ha bisogno di nessuna diplomazia. Si dettano ordini. Il vinto obbedisce. Non ha scelta. Anche gli orbi vedono dove si miri. Se questo è lo scopo si lascino i fantasmi diplomatici nel loro inutile limbo. Ma siamo in grado di imporre alla Russia la resa senza condizioni? E come? E la vittoria totale non rischia di diventare un incubo? La soluzione si aggroviglia. Intanto la guerra accumula il suo arsenale di orribili fatti. I soliti: morti bombardamenti avanzate minuscole e ritirate minuscole, ci si consola con la conquista di un villaggio “fondamentale perché si vedono le posizioni russe dall’alto”, come se fossimo ai tempi di Borodino. Intanto la guerra cresce con i suoi lieviti cattivi, non perde tempo in cineserie verbali, punta al pratico. Prendiamo questa notizia come circola. Gli alti comandi ucraini nella persona del capo di stato maggiore Valeriy Zaluzhnyi con tutti suoi generali sono stati convocati al confine polacco dagli alti comandi della Nato. Si è scomodato per trasmettere loro ordini il pensatoio dell’Alleanza con il capo di stato maggiore Christopher Cavoli e il capo dell’esercito britannico. Attenzione alla forma, è fondamentale. Non il solito incontro per discutere quanti missili e quante munizioni mancano, eternamente, agli ucraini per vincere. È stata la convocazione di un esercito vassallo per dare ordini, in particolare, pare, l’ingiunzione a cambiare radicalmente la strategia, non più perder tempo a Est ma provare a colpire a Sud per spaccare in due le linee, peraltro assi munite, dei russi. La risposta degli scolaretti ucraini di alto grado è stata ovviamente: Geniale! Obbedisco. Che sia una buona idea tattica si vedrà. Quello che è verificabile subito è che la non belligeranza, peraltro assai ipocrita e puntellata su acrobazie definitorie con cui si copriva la attività della coalizione occidentale, è caduta. La guerra è nuda. Si può bere la favola che fornire armi all’aggredito non significhi essere in guerra con la Russia. Anche la fornitura di informazioni fondamentali agli ucraini usando lo sbalorditivo apparato di satelliti e droni sui movimenti russi, la dislocazione delle truppe, i depositi di Putin, può esser difeso da plauditori e servidorame della guerra a tutti i costi come legittimo. In fondo le spie, che siano elettroniche, spaziali o antropomorfe, sono al di là dell’etica e del diritto. Fanno il loro mestiere. Ma se l’esercito ucraino prende ordini dai comandi occidentali su come operare sul campo allora cade il tabù: da tredici giorni siamo in guerra con la Russia. E non ce ne siamo accorti. Che Kiev faccia parte formalmente dell’Alleanza diventa cosa giuridicamente irrilevante. E sull’argomento non può calare l’oblio. Forse di fronte alla evidente paralisi della guerra americani e caudatari hanno dovuto rendere chiaro ciò che hanno sempre negato: fanno la guerra ai russi usando i poveri ucraini come fanterie molto eroiche; e, sogno di tutti i generali da Agamennone in poi, sacrificabili senza troppi problemi interni o rimorsi. Le eccellenze della Nato hanno, al confine polacco, impartito ordini alle “truppe coloniali” ucraine che hanno umilmente ubbidito. L’ordigno ipocrita vale tanto quanto viene comodo. Poi capitola. Di quanto è accaduto così silenziosamente si è accorto Zelensky. Che per la prima volta, dopo i mesi in cui fustigava in forme egomaniache i suggerimenti diplomatici come subdolo tradimento delle vittime e resa al prepotente di Mosca, ha ammesso che la trattativa sarebbe meglio della soluzione militare, e che sulla Crimea chissà... Zelensky dal febbraio del 2022 è consapevole che il suo Paese dipende totalmente dall’aiuto occidentale per esistere e che non è la compassione a muovere alcuni dei suoi alleati, semmai l’idea di ottenere la seconda disintegrazione della Russia, usandolo come un mujahedin europeo contro i sovietici nel Novecento. In questo anno e mezzo di guerra ha tentato di rovesciare questo rapporto di dipendenza assoluta per imporre agli occidentali la sua strategia e i suoi programmi. In parte ci è riuscito, i donatori sono stati accuratamente avviluppati nelle loro sconsiderate promesse, nei loro sensi di colpa per le non troppo antiche amicizie con l’orco russo, nella “Ucraina baluardo occidentale”, fino all’assioma: sarà l’Ucraina a decidere quale pace vorrà. Bisogna scappellarsi di fronte a questo acrobatico gioco. Ma la guerra non si fa ingannare. Pendono equazioni insolubili. Che sono la guerra di usura, le trincee che diventano eterne, i miliardi che scivolano via. Gli americani hanno ricordato agli ucraini in modo anche formalmente sgarbato la realtà: noi vi teniamo in vita, noi comandiamo. Voi fate la guerra come la decidiamo noi. Medio Oriente. Stragi saudite di etiopi, Usa e Ue sapevano di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 agosto 2023 Lo scorso autunno le prime notizie di uccisioni sistematiche di migranti al confine con lo Yemen. Poi la conferma dell’Onu. Ma nessuno ha parlato. Gli Stati uniti sapevano del massacro di etiopi al confine tra Yemen e Arabia saudita. A rivelarlo è il New York Times che cita fonti del governo Biden: un anno fa, quindi quasi un anno fa, il Dipartimento di Stato ha ricevuto le prime notizie di uccisioni sistematiche da parte delle guardie saudite. A dicembre aveva ricevuto nuovi dettagli da funzionari delle Nazioni unite, ma non ne ha parlato pubblicamente facendo un riferimento vago lo scorso gennaio a una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Diplomatici statunitensi però - aggiungono le fonti - avevano sollevato la questione con l’alleato saudita chiedendogli di indagare le accuse. In apparenza senza ottenere molto visto quanto rivelato la settimana scorsa da Human Rights Watch: centinaia, forse migliaia, di etiopi uccisi da fucili e colpi di artiglieria tra marzo 2022 e giugno 2023. Su richiesta del Nyt, il Dipartimento di Stato ha ammesso di aver saputo delle stragi alla fine del 2022 dall’Onu. Le stesse informazioni sarebbero state condivise con Francia, Germania, Svezia, Olanda e Unione europea.