Emergenza carceri tra suicidi di detenuti e di agenti di Ettore Di Bartolomeo La Discussione, 28 agosto 2023 Non passa giorno che non ci sia un suicidio o un tentativo in un qualche carcere. Dopo gli ultimi due suicidi nelle carceri torinesi, un altro detenuto di 44 anni, originario di Lamezia Terme è stato trovato morto nella sua cella del carcere di Rossano, in Calabria e una donna è in fin di vita dopo aver ingerito candeggina nel carcere di Lauro, in provincia di Avellino. Nel 2023 sono già 47 le persone che si sono tolte la vita in carcere. Nel 2022 sono state 84. È il numero più alto dal 1990. Avevano mediamente 37,7 anni: in 22 avevano tra 20 e 30 anni, in 31 tra 30 e 40 anni, in 19 tra 40 e 50 anni e 12 più di 50 anni. Due suicidi ogni settimana. Il 6% dei suicidi riguarda le donne, che sono circa il 4% della popolazione carceraria. Il 60% dei suicidi in carcere ha riguardato persone con nazionalità italiana. Peggio dell’Italia, Francia e Portogallo - In rapporto alla popolazione carceraria, di circa 55mila detenuti, in Italia l’indice di suicidio è di 15,2 ogni 10mila detenuti. Nell’Unione Europea solo Francia e Portogallo hanno dati più drammatici: rispettivamente 27,9 e 18,4. Nella popolazione generale, in Italia, i suicidi nel 2022 sono stati 0,71 ogni 10 mila abitanti. Nelle carceri, dunque, le persone si tolgano la vita 20 volte di più. I detenuti e le detenute che si sono tolti la vita erano in 55 carceri su un totale di circa 190 istituti. Il numero maggiore, cinque, lo si è registrato a Foggia, seguita dal carcere di Torino, Milano San Vittore e Firenze Sollicciano. Emergenza suicidi - Confedercontribuenti parla di “emergenza suicidi” nelle carceri italiane. “Bene ha fatto il ministro Nordio a recarsi presso il carcere di Torino”, ha dichiarato Ettore Minniti di Confedercontribuenti, “dove l’11 agosto, a distanza di poche ore, una donna italiana si è impiccata e una nigeriana si è lasciata morire di fame. Come ha detto il ministro questi episodi generano ogni volta angoscia, come dargli torto, ma il ministro Nordio”, aggiunge Minniti, “dimentica che la stessa angoscia dovrebbe provarla anche quando si suicida un agente della polizia penitenziaria”. Il caso dei suicidi in divisa - Sempre Minniti ha continuato ricordando che “sono ben 35 gli agenti di custodia suicidi negli ultimi cinque anni e hanno superato i cento degli ultimi vent’anni: se non è emergenza questa non vedo quali altri eventi potranno esserlo”. Solo lo scorso anno sono stati sessanta i suicidi tra le Forze dell’Ordine. “Una strage”, continua Minniti, eppure “sembra che su di loro debba scendere il silenzio, perché è evidente che non si hanno o non si vogliono dare risposte al fenomeno poco conosciuto”. Una suicida in divisa ogni cinque giorni, rimarca la nota di Confercontribuenti, “è un dato spaventoso”, soprattutto se si considera che la maggioranza sono giovani. Da una classifica formulata dall’Osservatorio Suicidi in Divisa (Osd) nel 2022 risultano 72 suicidi: 16 Carabinieri; 8 della Guardia di finanza; 3 dell’Esercito; 4 della Polizia penitenziaria; 24 della Polizia di Stato; 8 della Polizia locale; 5 Guardie giurate; 2 Vigili del fuoco; 2 dell’Aeronautica militare e marina. Per il 2023 ai primi di agosto, si indica in 31 il numero di agenti e militari che si sono suicidati. Il presidente di Confedercontribuenti, Ettore Minniti, si è augurato che il ministro della Giustizia “oltre a intervenire sulle condizioni di vita dei detenuti, la faccia anche per la vita stressante dei custodi e delle continue aggressioni che subiscono”. La giustizia banalizzata. Così si continua a distorcere il dibattito democratico di Gabriele Segre* Il Domani, 28 agosto 2023 Assistiamo a un fenomeno singolare: governi e opposizioni si scontrano in nome di ideali opposti, ma sventolando tutti la bandiera della democrazia e accusando gli avversari di essere “sovversivi”. Un paradosso figlio del fatto che entrambi rivendicano un pezzo dell’idea di giustizia su cui si fonda la nostra Costituzione. Tra le tante evoluzioni a cui stiamo assistendo nella nostra epoca ce n’è una che merita particolare attenzione, se non altro per la sua originalità. È quel curioso fenomeno che vede due fazioni scontrarsi con veemenza in nome di ideali contrapposti, e al contempo declamare gli stessi valori e esibire sul campo gli stessi simboli e gli stessi slogan. Qualcosa che abbiamo visto di recente in Israele con sostenitori e oppositori del governo che scendono in piazza sventolando la medesima bandiera al grido unanime di “democrazia”, oppure negli Stati Uniti con i sostenitori di Donald Trump contro i suoi accusatori. Contesti in cui ciascuna parte indica l’altra come “sovversiva” e “antidemocratica”, in uno scambio reciproco di accuse che sta diventando caratteristico dei conflitti politici in molte democrazie occidentali. Italia compresa. La confusione non è certo un tratto nuovo della psicologia umana, ma è probabile che oggi questo fenomeno sia il sintomo di un disturbo più profondo che riguarda le fondamenta stesse della nostra democrazia: più precisamente l’idea di giustizia su cui essa si regge. Legittimazione - Sappiamo, infatti, che il diritto, come strumento attraverso il quale una società sceglie di governarsi, da solo non basta per “giustificare” il potere: occorre un’etica chiara e radicata che ne sostenga la legittimità nel tempo. Talvolta questa autoritas superiore è stata incarnata dalle nostre tradizioni (“si fa perché si è sempre fatto”), talvolta dalla ragione (“si fa perché deve essere fatto”), ma nella storia gli esempi sono i più disparati: la razionalità avvalla il governo della Repubblica di Platone, l’unzione divina è alla base delle monarchie assolute, l’assurda supremazia della razza ariana il caposaldo su cui i nazisti hanno edificato le loro atrocità. In modo meno brutale, le nostre democrazie hanno trovato la propria legittimazione in un equilibrio tra storia, necessità e aspirazioni collettive, sintetizzandola in Costituzioni che non definiscono solo un patto sociale condiviso, ma delineano soprattutto l’idea di giustizia in cui la comunità intera si riconosce. Due principi distanti - In passato era usuale definire “sovversivo” chi cercasse di rovesciare il sistema vigente in nome di un’etica contrapposta. Nella visione aberrante di chi ha piazzato esplosivi o impugnato una P38, la legittimazione del potere non passava dalle urne o dalla libertà di espressione. Se con tale termine oggi ci accusiamo a vicenda è perché ciò che rischia di sgretolarsi non è solo un progetto di governo condiviso, bensì la stessa idea di giustizia che appare ormai scissa in due principi sempre più distanti tra loro. Da un lato c’è chi ritiene che debba prevalere la volontà collettiva espressa dalla maggioranza attraverso le urne; la nozione stessa di demokratía per cui chi è scelto dal popolo ha il compito di promuovere e costruire un preciso progetto di società. Dall’altro c’è chi ritiene che l’etica fondante sia quella determinata dallo spirito egualitario della cultura illuministica, sancita in una Costituzione che ci impegna a fare di tutto per tutelare la libertà e l’autodeterminazione individuale di ciascun cittadino. Se è giusto che Giorgia Meloni, in quanto vincitrice delle elezioni, si senta legittimata a dichiarare “non disturbare chi vuole fare”, è altrettanto giusto poter rispondere “non disturbare chi vuole essere”. Il paradosso è che ambedue le affermazioni sono al contempo contestate dalla parte avversa, ma entrambe legittime in base alla nostra idea originaria di giustizia. Non stupisce dunque la confusione nel constatare come la dialettica democratica abbia finito per contorcersi su sé stessa, polarizzandosi fino al parossismo persino dentro un apparato di idee per loro natura complementari e convergenti. È evidente dunque che il confronto tra le forze politiche debba evolvere a partire da presupposti differenti. Perché se lottare per idee diverse è un buon modo per farle progredire, dividersi su quelle che uniscono finirà per farle involvere. *Fondazione Vittorio Don Segre Con le carriere separate salta l’autonomia dei pm di Gian Carlo Caselli La Stampa, 28 agosto 2023 La separazione delle carriere fra Pm e giudici è una vera ossessione dell’Unione Camere penali da più di un ventennio: oggi anche del ministro Nordio, auto proclamatosi (senza lasciti testamentari…) erede di Silvio Berlusconi, la cui storia è un’antologia di invettive pesantissime contro i magistrati all’interno di una compulsiva strategia di delegittimazione. Ora la separazione è pronta per decollare e il premier Giorgia Meloni potrebbe cambiare la denominazione del dicastero di via Arenula, chiamandolo “ministero della giustizia e delle bonifiche”, se volesse assecondare quelle che sembrano essere le linee programmatiche di Nordio. Il tema della separazione è strettamente connesso a quello delle garanzie. Il processo infatti è luogo di decisione, ma prima ancora di accertamento. Perciò richiede forme e percorsi garantiti, perché quando si tratta della libertà delle persone e di altri valori fondamentali la prudenza non è mai troppa. E il garantismo è un sistema equilibrato di regole poste a presidio dei diritti e della dignità delle parti coinvolte nel processo. Il sistema processuale varato nel 1989, con le successive modifiche, in astratto appare equilibrato ed egualmente rispettoso delle esigenze della parte pubblica e di quella privata; più difficile dire cosa accade in concreto, soprattutto per la evidente eterogeneità delle situazioni. Esiste certo una significativa forbice tra rinvii a giudizio e condanne: ma la mancata coincidenza tra i due dati, oltre che fisiologica (è nei regimi autoritari che l’accusa ha sempre ragione...), indica infatti, casomai, la capacità del sistema di vagliare in maniera imparziale le ragioni dell’accusa e quelle della difesa, non lasciandosi condizionare dalle prime, ove non emerse in sede dibattimentale. Gli sponsor della separazione modello Nordio-Camere penali (due concorsi, due Csm, due carriere diverse per giudici e Pm) sostengono invece che il sistema è inquinato dallo strapotere dell’accusa, causato dall’attuale colleganza, per l’omogeneità di status, tra giudicanti e requirenti. Si dice che un giudice non controllerebbe con sufficiente rigore l’operato di un Pm che è suo collega, mentre uno status diverso e separato lo libererebbe dai condizionamenti dell'accusa e arginerebbe abusi e strapotere di quest'ultima. Argomenti che la vulgata corrente riassume nel mantra che Pm e giudici (ma non mi dica, signora mia!) prendono il caffè insieme. Tesi tanto suggestiva quanto errata: se nel processo fosse necessaria una eterogeneità di estrazione e di appartenenza tra controllori e controllati, ad essere separate dovrebbero essere anche le carriere dei Gip dai giudici di primo grado e di questi dai giudici di appello e poi di cassazione. Ciò che nessuno ragionevolmente propone - neppure le Camere penali con annesso Nordio - perché in tal caso la separazione comporterebbe non due ma ben cinque concorsi, cinque Csm e cinque carriere diverse. Assurdo, ma al tempo stesso chiara dimostrazione che manca una rigorosa coerenza rispetto ai principi base strillati per giustificare la separazione: si preferisce invece brandire un tabù ideologico buono per regolare i conti coi Pm scomodi in quanto troppo indipendenti. È evidente infatti che l’ancoraggio del Pm alla cultura della giurisdizione è, nel nostro sistema, un elemento di garanzia irrinunciabile (che sarebbe inevitabilmente travolto dall’attrazione in una diversa cultura). Perché un corpo separato di Pm è destinato inevitabilmente a perdere la propria indipendenza dal potere esecutivo: non esiste, infatti, un tertium dotato di autonomia tra ordine giudiziario ed esecutivo e non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto - circa 2.000 unità - altamente specializzato e preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale: questo potere o è compensato dall’ancoraggio dei suoi titolari alla giurisdizione, o viene inesorabilmente risucchiato nella sfera della responsabilità politica. E fa una gran differenza, per esempio di fronte ai misteri dei servizi deviati o ai casi di abusi ad opera di forze di polizia, avere un Pm-giudice o un Pm-ministeriale. Sostiene Nordio che la sola propaganda presente nei suoi programmi sarebbe la “propaganda fide”, intesa come fede nella certezza del diritto. Dimostri che la sua “fede” riguarda anche l’indipendenza della magistratura, non patrimonio di casta ma dei cittadini, in quanto speranza che la legge possa davvero diventare più uguale per tutti. Non c’è Fortuna di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 28 agosto 2023 La realtà va di pari passo alle sue rappresentazioni, ed entrambe vivono in questo mondo. Ciò che sembra difficile da fare è fermare la deriva delle malversazioni nella realtà. Questa è stata la reazione provata alla notizia, o piuttosto all'emersione della vicenda delle due cuginette, una di 13 anni, una forse di 10, violentate per settimane da un branco di ragazzini al Parco Verde, a Caivano. Il pensiero va alla bambina buttata dal balcone dal vicino perché si era stufata di subirne gli abusi, il cui nome è Fortuna. Poi viene in mente il film “Fortuna” di Nicolangelo Gelormini. Un'ispirazione, una dedica? Uno stato d'animo di impotenza e denuncia, sincero certamente. Il dolore che entra nelle viscere e nella mente di molti di noi all'ascolto di questa serie senza fine di femminicidi, di violenze metodiche e taciute nei confronti dei minori e soprattutto delle minori non riesce a sfociare in una reazione organica, metodica, da parte nostra. Per chi scrive, avendo dato molte ore per molti anni al lavoro politico e sociale nei confronti del mondo dell'immigrazione e di quello del carcere, non può sfuggire la necessità di investire nel male che ci circonda, perché ci siamo immersi, come scrive Giovanni Falcone, in una frase facente parte dell'introduzione dell'ottimo “Le vittime dimenticate: la strage di Via Escobar” di Giuseppe Bommarito, Affinità Elettive: Se vogliamo combattere efficacemente la mafia non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia Il male al quale non siamo estranei, che è la soluzione di ripiego che si insinua nelle vicende di povertà estrema, emarginazione, mancanza di servizi, vite vissute in panorami spettrali. L'illusione di “guarire” violentatori, sequestratori, attori di femminicidio, da mali che hanno radici avvitate nella terra come nell'educazione che abbiamo ricevuto, nel paternalismo, nella competizione infinita, nella mancanza di educazione sessuale e nello spegnimento di una grande conquista degli anni 70, cioè i consultori familiari, solo con le leggi e con l'unità delle forze parlamentari, è destinata a fallire e lasciare sul campo i volenterosi che ci hanno provato. Chi riconosce che dentro di sé esistono pulsioni al comando e all'uso distorto dello stesso, ha già iniziato il percorso necessario. Come dicono molte donne, non possiamo sconfiggere i femminicidi senza gli uomini; la parità di diritti all'interno della differenza di genere si conquista fermando le pulsioni di cui sopra sul nascere, con la censura sociale, con atti che mettano gli esecutori sull'avviso, e li costringano a confrontarsi con loro stessi. Sono percorsi lunghi, esistono molte esperienze; allo stesso modo le istituzioni non dovranno più rimuovere le loro responsabilità, nell'avere fomentato le culture all'origine delle disparità, e nell'averle inserite in quartieri, città, località nelle quali non si può pensare al giorno seguente come a un altro giorno di terrore e di oppressione. Torino. “Rischio suicidi, il carcere torinese tra i peggiori d’Italia” di Ludovica Lopetti Corriere di Torino, 28 agosto 2023 Per i Radicali che ieri mattina hanno visitato il carcere Lorusso e Cutugno, “il penitenziario delle Vallette è tra i peggiori d’Italia”. Un giudizio lapidario espresso da Sergio Rovasio, consigliere generale del Partito radicale e presidente dell’associazione Marco Pannella, che poggia sui racconti dei detenuti, sui colloqui con lo staff e su ciò che la delegazione ha visto con i propri occhi. Oltre a Rovasio, erano presenti anche l’ex parlamentare Alberto Nigra, Mario Barbaro, Ezio Dore e l’avvocato Roberto Capra. “Da quando siamo venuti a Pasqua non è cambiato nulla - ha aggiunto Rovasio - ci aspettiamo di assistere ad altri suicidi, la situazione è disperata”. Il consigliere ha poi snocciolato una lista di problemi: dalla mancanza di acqua calda nelle docce, “tre per 40 detenuti e piene di muffa”, agli scarafaggi, oltre al sovraffollamento cronico (la media è del 136%) e alla grave carenza di personale (un agente ogni 46 detenuti). La delegazione ha visitato anche l’ex Sestante, ora Articolazione per la tutela della salute mentale, e incontrato i 48 detenuti. “Le celle sono state ristrutturate, ma alcune sono già distrutte - ha proseguito Rovasio - ci sono anche arredi che pesano fino a 18 chili e non ben saldati al pavimento. Inoltre mancano i medici specialisti, soprattutto gli psichiatri, non si sta facendo nulla per la prevenzione dei suicidi”. Un impegno a cui anche il Dap ha aderito con diverse circolari, per ora rimaste lettera morta. Almeno a giudicare dagli episodi degli ultimi mesi, che hanno acceso i riflettori sul reparto femminile. “Qui coabitano donne con gravi problemi mentali e detenute comuni, un mix che crea tensioni, paura e situazioni di pericolo”, ha segnalato Mario Barbaro, membro della segreteria del Partito Radicale. E ancora: infiltrazioni d’acqua nelle celle, contatti sempre più rari con i magistrati di sorveglianza e la difficoltà di ottenere visite esterne e prestazioni sanitarie. Ma anche problemi con il vitto, per esempio una scodella di minestrina calda quando fuori ci sono 40 gradi. Sotto accusa anche i beni extra che i detenuti pagano di tasca loro: “Faremo partire delle segnalazioni al Provveditorato e al Ministero che riguardano il sopravvitto - ha concluso Barbaro -molti ci hanno detto di non aver mai ricevuto i prodotti che avevano ordinato e pagato a caro prezzo”. Aosta. Radicali Italiani: “Nel carcere di Brissogne manca personale” aostasera.it, 28 agosto 2023 Una delegazione del gruppo, in visita alla casa circondariale, ha peraltro constatato la bontà di progetti lavorativi e attività interne finalizzati all’inserimento professionale e sociale dei giovani detenuti. “Nonostante dimensioni e spazi privati adeguati al benessere dei detenuti, il carcere di Brissogne soffre di una mancanza di personale particolarmente evidente nel comparto della rieducazione, che è poi la finalità ultima di questa tipologia di struttura”. È questa l’impressione del vicepresidente di Radicali Italiani, Filippo Blengino, circa la casa circondariale valdostana cui egli, assieme a una delegazione del comitato nazionale, ha fatto visita durante la mattinata di oggi, domenica 27 agosto. Come spiegato dalla giovane Alice Depetro, il sopralluogo odierno è stato parte del più ampio progetto “Devi vedere”, finalizzato a entrare e a osservare con i propri occhi una realtà come quella carceraria spesse volte chiuse e sconosciute ai più. “Oltre alla criticità legata agli educatori, che dovrebbero essere tre ma si riducono a uno soltanto peraltro prossimo alla pensione, ci ha colpiti la forte componente di ragazzi affetti da problematiche psichiatriche per i quali forse il carcere non è il luogo più adatto - ha constatato ancora Blengino, senza mancare di ringraziare per la loro disponibilità la direttrice e la vicecomandante del plesso -. Trovo davvero ottime le attività esterne che vengono svolte assieme ai detenuti, tra cui la gestione di un panificio e di una lavanderia oltre che laboratori e corsi di lingua per l’inserimento professionale e sociale”. Dopo aver esplorato alcuni poli di detenzione della provincia di Cuneo e Alessandria, i Radicali italiani approderanno prossimamente a Sanremo e a Imperia. “È necessario immaginare per i carcerati eventuali forme di collaborazione con società ed esperienze lavorative capaci di dare corso alla funzione educativa della prigionia stabilita dalla Costituzione - ha osservato il presidente del Consiglio comunale di Aosta, Luca Tonino, anch’egli presente alla visita mattutina. Il nostro appello va alle istituzioni e agli imprenditori locali affinché essi attenzionino maggiormente tale realtà che già di per sé rappresenta un esempio virtuoso in termini di progettualità lavorative”. La parziale carenza di personale interno - tra cui non soltanto educatori bensì anche agenti di polizia penitenziaria, psichiatri, psicologi e un medico operativo durante il fine settimana - potrebbe essere compensata, secondo i Radicali italiani, da appositi bandi per l’assunzione di impiegati con funzione contabile. “Pur trovandosi alle porte di Aosta, il carcere di Brissogne è come un mondo a parte che la comunità conosce e le istituzioni considerano troppo poco - ha commentato Daria Pulz, in visita in rappresentanza di Adu VdA -. Sono però contenta di avere notato un miglioramento in alcuni aspetti tra cui la presenza di un detenuto per ogni stanza, un maggiore spazio personale, l’organizzazione di attività tra cui la coltivazione di orti esterni e la lavorazione di miele e zafferano e una presenza volontaria molto forte che spero capace di stimolare i più giovani invogliandoli a integrarsi lasciandosi alle spalle il proprio difficile passato”. Pesaro. “Detenuti, svolta con la nuova dirigente. Villa Fastiggi apre ai percorsi di lavoro” di Milena Bonaparte Il Messaggero, 28 agosto 2023 “Ogni volta che incontra una detenuta della sezione femminile, la chiama per nome e la saluta. Un gesto umano quasi scontato che prima non esisteva. Il rispetto della dignità della persona, un segnale di cambiamento”. Con l’arrivo della nuova dirigente Palma Liliana Mercurio, napoletana di nascita ma romagnola d’adozione, 70 anni a settembre, che si divide fra Rimini, dove è titolare, e la reggenza a Villa Fastiggi, si affaccia un barlume di speranza nel dramma delle carceri pesaresi, dove le celle sono affollate, poco accoglienti e in degrado, tra problemi di violenza e disturbi di tipo psichiatrico, scarso personale di polizia penitenziaria, operatori e assistenti sociali, ma soprattutto carenza di occasioni di dialogo, riabilitazione, attività lavorative e di studio nella prospettiva dell’uscita dalle sbarre. La seconda opportunità - “Una seconda opportunità per i detenuti come obiettivo principale da raggiungere”. A compiacersi per il vento di novità portato sono i volontari di Villa Fastiggi impegnati nella sezione femminile, nel terzo braccio dei protetti, il reparto maschile dei crimini più gravi, e nei cosiddetti comuni che hanno condanne brevi. Coordinatore del gruppo è il cappellano, padre Francesco Acquabona. A Pesaro i carcerati sono circa 220, numero che varia di giorno in giorno, di cui una ventina di donne, mentre a Fossombrone il carcere di massima sicurezza maschile accoglie circa 110 reclusi, per lo più ergastolani. Da qualche mese a Villa Fastiggi, ha preso in mano la situazione come reggente Palma Mercurio. Un’impresa a dir poco ciclopica, la sua, viste le condizioni definite “spaventose” del luogo di detenzione, dove si comincerebbero però a vedere i primi risultati per quanto riguarda in particolare l’ascolto, le attività di recupero, la pulizia e il decoro. La rinascita - “Ci sembra di aver colto il segno di una rinascita - affermano i volontari -, abbiamo presentato le nostre richieste, un programma di iniziative per le quali siamo disposti a offrire ancora più tempo libero. Intanto la direttrice ha autorizzato un laboratorio di parrucchieria, sembra che ci sia la possibilità di svolgere il giardinaggio e sono in programma corsi di cucina”. Tre grandi conquiste perché in precedenza tutto era stato impedito, comprese la sartoria e la falegnameria. “Mentre a Fossombrone - raccontano i volontari - abbiamo realizzato un corso per il progetto “Il viaggio del prigioniero - Prison Fellowship Italia”, nato nel 1976 negli Usa e arrivato anche nelle Marche, la cui sezione è stata affidata a Maria Teresa Toni. Si tratta della più grande organizzazione cristiana per prigionieri, ex detenuti e famiglie, che si batte anche per la riforma della giustizia”. A ottobre si svolgerà nella Villa Borromeo dell’Arcidiocesi, il primo congresso nazionale di Prison Italia. Una sede locale è stata richiesta anche per Villa Fastiggi. La funzione del volontario è improntata sul dialogo. “Vogliamo portare una testimonianza di quel che si può fare per la riabilitazione e dei problemi che ci sono una volta fuori dalle sbarre. I carcerati devono essere messi nelle condizioni di reinserirsi nella società per non ricadere nel crimine. Vogliamo aiutarli a trovare una prospettiva, il nostro impegno è individuare insieme un posto dove vivere e un’occupazione sulla quale contare”. Un clima diverso, paradossalmente, si respirerebbe a Fossombrone dove i “carcerati hanno la possibilità di lavorare, studiare e anche laurearsi, l’ambiente è più luminoso, positivo e accogliente, anche se si tratta per lo più di ergastolani”. Ivrea (To). Garante dei detenuti, il bando in Comune primailcanavese.it, 28 agosto 2023 Le domande possono essere presentate fino al prossimo 8 settembre. È stato pubblicato l’avviso per la presentazione delle candidature per ricoprire la carica di Garante dei detenuti del Comune di Ivrea. “Un incarico di grande importanza a tutela della dignità delle persone e, allo stesso tempo, a servizio della collettività tutta - afferma l’Assessora Gabriella Colosso con delega alle Politiche per l’integrazione - un prezioso anello di congiunzione tra la Casa Circondariale e la Città”. La figura del Garante, istituita dal Consiglio Comunale al fine di contribuire proficuamente alla salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone private della libertà personale, garantisce il rispetto della dignità, migliori condizioni di vita e sociali, la tutela del diritto alla salute, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’affettività e l’opportunità di partecipazione alla vita civile facilitando la fruizione dei servizi comunali. “Si tratta di una figura fondamentale che mira a valorizzare la collaborazione e il confronto con tutte le realtà, istituzionali e non, che si occupano di problemi legati alle carceri e ai luoghi di privazione della libertà personale e, in sintonia con la nostra idea di Comunità, - continua Gabriella Colosso - consapevole della funzione che svolge nella vita di coloro che vivono il dramma della detenzione, possibilmente, cominciare a porre le basi per avviare il percorso di reinserimento comunitario del detenuto-cittadino, una volta scontata la pena”. Le caratteristiche della figura - Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Ivrea deve essere scelto tra persone d’indiscusso prestigio, residenti nella provincia di Torino, di comprovata esperienza che abbiano ricoperto incarichi istituzionali di responsabilità e rilievo nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, ovvero delle attività sociali negli istituti di prevenzione e pena e negli uffici di esecuzione penale esterna o che si siano comunque distinte in attività di impegno sociale. Come partecipare al bando - Termine ultimo per la presentazione della domanda: venerdì 8 settembre 2023 alle ore 12.00. Il Servizio della Segreteria Generale è a disposizione per eventuali chiarimenti (Responsabile del procedimento Dott. Franco Bertolino tel. 0125 4101). Copia del bando è pubblicata sull’Albo Pretorio on line del Comune di Ivrea ed è disponibile presso la sede della Segreteria Generale Comune di Ivrea - Piazza Vittorio Emanuele I, n. 1. Catanzaro. Convegno: “La condizione delle detenute e dei detenuti nelle carceri italiane: quale rieducazione?” ildispaccio.it, 28 agosto 2023 Lunedì 28 agosto ore 21:30 presso la pineta sita sul Lungomare Europa di Soverato un nuovo importantissimo appuntamento della rassegna culturale “Kalibri d’auore”: “La condizione delle detenute e dei detenuti nelle carceri italiane: quale rieducazione?” La Kalibreria presenta un incontro volto a sensibilizzare il pubblico sulle condizioni di vita nelle carceri e sulla finalità della pena che deve avere, come previsto dalla nostra Costituzione, quella di rieducare il soggetto al fine del suo reinserimento sociale. Rieducazione che, come tutto il trattamento penitenziario, dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, svolgersi alla luce del principio di umanità e del rispetto della dignità della persona (art.1 legge 354/1975). La strada verso un sistema che effettivamente miri alla rieducazione e che sia improntato all’effettivo rispetto della persona è ancora lunga a tortuosa. Sono diversi i livelli che necessitano di interventi e strumenti sociali e legislativi. Le cronache recenti raccontano di suicidi in carcere, di situazioni non degne di un paese civile e di violenze subite come denunciato dall’organo anti tortura del Consiglio d’Europa (Cpt). Il noto problema del sovraffollamento delle nostre carceri determina condizioni limite sia riguardo la vivibilità degli spazi, sia delle relazioni fra le persone. Detenute e detenuti spesso stremati dal caldo e da condizioni che non tutelano la dignità della persona. Le associazioni che si occupano dei diritti delle detenute e dei detenuti denunciano un forte incremento dell’uso di psicofarmaci determinato proprio dalle condizioni delle carceri. Siamo sicuri non aver trasformato una pena, giustamente, da scontare in una forma di tortura? Siamo sicuri che sia un modello-sistema utile nel raggiungere il proprio scopo o rischia, invece, di diventare una pericolosa ghettizzazione? Come si pensa di poter ottenere un reinserimento a fine pena? Quale percorso di rieducazione può essere avviato in un contesto del genere? Di questo e altro si parlerà con Sefora Spinzo dell’associazione Voci di dentro; Franca Garreffa referente in Calabria di Sbarre di zucchero; Maria Grazia Bisurgi e Sofia Battisti di ConimieiOcchi. Teatro idee movimento. Modererà la serata Raimonda Bruno insegnante del liceo Siciliani di Catanzaro. Parma. Il Parco Tortora voluto dagli avvocati di Tiziana Roselli Il Dubbio, 28 agosto 2023 A quarant’anni anni esatti dal suo arresto, l’intitolazione del “Parco Enzo Tortora” a Parma ha suscitato un vivace dibattito, con riflessioni profonde e toccanti da parte di esperti legali e personalità vicine al conduttore tv, vittima di un clamoroso errore giudiziario. Michele Cammarata, Presidente della Camera Penale di Parma, ha condiviso le sue considerazioni sulla questione, mentre Francesca Scopelliti, la compagna di Tortora, ha espresso il suo punto di vista con Il Dubbio. L’intitolazione del Parco a Enzo Tortora non è stata solo il risultato di un’azione contemporanea, ma il frutto di un lungo processo avviato anni fa. Cammarata sottolinea che l’idea di intitolare luoghi pubblici a Enzo Tortora ha origini lontane, risalenti al Congresso Ordinario di Venezia nel settembre 2014. La mozione votata in quel contesto invitava le Camere penali territoriali a promuovere intitolazioni a Tortora in tutto il paese. L’attenzione sulla figura di Enzo Tortora, quindi, è emersa grazie a un impegno che ha coinvolto firme autorevoli all’interno dell’Unione Camere penali, rendendo la scelta ancor più significativa. Cammarata evidenzia come in un sistema a carriere separate, il caso Tortora sarebbe stato meno probabile. “Come è noto uno dei nostri marchi distintivi è rappresentato dalla separazione delle carriere - spiega -. Da qui la domanda: in un sistema a carriere separate si sarebbe potuto verificare quello che fu definito uno dei più grandi casi di ingiustizia italiana? Credo proprio di no”. Tuttavia, l’impegno per la giustizia non si esaurisce nella struttura stessa del sistema giudiziario. Cammarata solleva una questione cruciale riguardante la comunicazione di massa, in un’epoca in cui spesso i magistrati dell’accusa sono presentati senza contraddittorio nei talk show, creando una percezione distorta nella pubblica opinione. L’importanza di una copertura equilibrata e informata è cruciale per mantenere l’equilibrio e la fiducia nella giustizia. In questo contesto, l’intervista a Francesca Scopelliti aggiunge un punto di vista personale e un approfondimento sull’eredità di Enzo Tortora: “Bisognerebbe intitolare “Italia Tortora” - dice per dare onore alla sua storia e al crimine che ha subito da parte della procura”. Scopelliti sottolinea che l’importanza non risiede solo nel numero di vie e parchi intitolati a Tortora, ma nell’impatto che questi hanno sulla memoria. Una delle critiche più forti è rivolta ai media. Scopelliti mette in evidenza un paradosso: Enzo Tortora ha contribuito alla crescita della televisione pubblica, ma questa è stata la prima a trascurare di onorarne la memoria. E condivide la sua speranza che il ricordo di Enzo possa spingere a comprendere che la riforma della giustizia non è un affronto ai magistrati, ma un servizio al diritto dello Stato e dei cittadini. La voce di Scopelliti risuona con forza quando parla del significato di giustizia: “Nel caso di Enzo, più che di errore giudiziario è corretto parlare di crimine giudiziario. In quella situazione la giustizia rimane irraggiungibile poiché l’orologio della vita di quella persona, insieme a tutte le conseguenze scaturite da quell’errore, inclusi danni alla credibilità, reputazione e integrità, non potrà essere mai restaurato. Inoltre - conclude Scopelliti - l'affermazione “giustizia è stata fatta” acquisisce autentico significato solo quando non solo un innocente viene liberato, ma anche quando i veri colpevoli, in altre parole quei magistrati negligenti e incompetenti, sono chiamati a risponderne, coloro che hanno privato della libertà senza condurre le indagini necessarie”. Il suicidio e la Chiesa: il mistero di chi si toglie la vita di Enzo Bianchi La Repubblica, 28 agosto 2023 Mentre per molti le settimane scorse erano tempo di vacanza, per altri ci sono stati momenti difficili. In Piemonte la notizia di due suicidi nelle carceri di Torino e di alcuni altri in situazioni diverse hanno destato domande intorno a questo tema sul quale si preferisce far regnare un silenzio di riprovazione. Il suicidio, nella tradizione occidentale ebraico-cristiana, è il peccatum magnum, uno dei pochi peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio. Non dimentico che, quando ero piccolo, durante le mie visite al cimitero presso la tomba di mia madre, mi spingevano ad andare anche nel quadrato di terra fuori dalla cinta, terra non benedetta anzi sconsacrata riservata al seppellimento dei suicidi, che, essendo scomunicati, non erano ritenuti degni neppure del funerale. Testardamente andavo sempre a pregare per loro anche se mi avevano detto che il Concilio di Braga (563 d.C.) vietava ogni forma di suffragio. Il cristiano che conosce la Bibbia sa che in essa regna il silenzio riguardo al suicidio, c’è la sospensione del giudizio. Solo Agostino d’Ippona, Tommaso d’Aquino e Dante sigilleranno la condanna del suicidio con la motivazione che la vita non è proprietà della persona: è solo destinataria di un dono che con la morte deve essere restituito al Creatore. Questo spiega la severità della Chiesa nei secoli fino a oggi, con la vicenda di Piergiorgio Welby. Ma ora in verità si sollevano interrogativi, e uno spirito di compassione e di misericordia illumina l’atteggiamento di fronte a chi si è tolto la vita. Anche in ambito teologico si discute sul suicidio medicalmente assistito perché si è sviluppato un dibattito se la vita vada vissuta ad ogni costo fino alla fine, o se la si possa abbandonare quando non sono più garantite al malato cure adeguate, palliative e umane. Il fatto che una persona si chieda se la vita merita di essere vissuta o no significa che l’essere umano può uccidersi perché sta nella sua natura poterlo fare. E non si dimentichi: il dono della libertà dato da Dio è più grande del dono della vita. Chi si suicida porta con sé le ragioni di quest’atto e queste restano il suo “mistero”. Quando mi è capitato di ascoltare persone vicine al gesto del suicidio non ho mai giudicato: mi sono ritratto di fronte al mistero, ho preferito non dire nulla, solo mostrare che amavo e avrei voluto amare di più chi aveva deciso di lasciarci. E non si dimentichi che il suicidio diventa eloquente quando sa far gridare il suo sangue. Per la mia generazione Jan Palach, i bonzi buddisti, Frei Tito de Alencar Lima, con il loro suicidio hanno lasciato un messaggio: la libertà è più grande della vita. Del resto il suicidio non abita forse in ciascuno di noi come un veleno sotterraneo che a volte si manifesta come pulsione, quando ci rendiamo conto che il mondo non è vivibile? Non saremo tra quelli che, come si legge nell’Apocalisse, invocano il suicidio con una preghiera: “O monti, cadeteci addosso, colline copriteci!” (Ap 6, 16)? Perché i suicidi che avvengono sono più di quelli che sono attestati. Lo Stato deve entrare nelle terre di nessuno che ha abbandonato di Fabrizia Giuliani La Stampa, 28 agosto 2023 La storia di Fortuna non doveva passare invano. Non doveva passare la normalità di bambine che cadono giù dai balconi di palazzi dove avviene l’indicibile, dove la violenza - quella violenza - è prevista, tollerata, accettata. Dove la paura prevale e lo Stato non arriva, o arriva dopo, troppo tardi. La storia di Fortuna non doveva passare invano perché allora la catena si era spezzata, grazie al coraggio delle ragazze capaci di rompere la legge dell’omertà. Ricordiamo i fatti, che rischiano di essere travolti per l’ennesima volta dalla spettacolarizzazione senza insegnarci nulla. Quando Fortuna vola giù dall’ottavo piano, nel 2014, il fatto viene rubricato come incidente domestico. L’autopsia rovescia il racconto: il medico legale nel corso del processo parlerà di abusi cronici, di “uno scempio mai visto in decine di anni di attività”. Ma la catena delle responsabilità, la ricostruzione dei fatti è resa possibile solo grazie alle testimonianze delle ragazze - allora bambine - che portate in luogo protetto raccontano cosa davvero avveniva in quei palazzi, la normalità degli abusi continui, il divieto di parlarne. Difficile dimenticare le intercettazioni dove le donne più adulte - madri, zie - intimavano il silenzio “poi ti ci abitui, il dolore passa”. Loro non hanno ubbidito, non si sono volute abituare al dolore - quel dolore - e hanno consentito allo Stato di vincere dove quasi nessuno pensava fosse possibile. E poi? Perché la catena non si è spezzata, perché Caivano - come l’Arenella a Palermo - tornano terre di nessuno dove del “superiore interesse del minore” si fa scempio? Perché lo Stato si ritira? Non è facile restare all’altezza del coraggio di quelle bambine e delle tante ragazze che oggi scelgono di denunciare, ma è necessario, non ci sono altre opzioni. Nessun luogo è un destino, nemmeno Caivano se le istituzioni scelgono, a loro volta, di fare la propria parte. Lo ripetiamo, la violenza contro le donne - le ragazze e le bambine, come ci ricorda la Convenzione d’Istanbul - non è questione locale: supera i confini della geografia, delle classi sociali, delle età. Per sconfiggere un senso comune che ancora la legittima e la tollera, occorre che lo Stato dica con chiarezza da che parte sta, assumendo il contrasto come priorità. A dispetto dei fatti di questi giorni, del clamore suscitato, dell’indignazione, non è avvenuto: la violenza resta in cronaca, non riesce ad uscire da una secondarietà a cui la condanna una cultura vecchia, segnata da retaggi patriarcali. È stata necessaria una carta ad hoc in Europa, la Convenzione d’Istanbul appunto, per chiarire che la violenza contro le donne è una lesione dei diritti umani. L’Italia ha firmato il trattato nel 2013; è ora di assumerlo fino in fondo, oggi che abbiamo donne alla guida del governo e delle opposizioni. Farlo vuol dire sottrarre le azioni necessarie al contrasto alla strumentalità della lotta politica, facendone un punto di civiltà al quale tutti devono concorrere perché ne va della dignità di un paese; approvare rapidamente le norme che aspettano da troppo tempo e metterne in cantiere altre per la formazione e per la prevenzione. Dire: ci dispiace, non ci sono altre priorità, ce lo hanno insegnato quelle bambine. Migranti. Il cardinal Zuppi: “Non chiamiamola più emergenza. I muri sono una soluzione ingannevole” di Domenico Agasso La Stampa, 28 agosto 2023 Il presidente della Cei: “Servono risposte strutturali e l’Europa deve fare la sua parte. Siamo davanti a una sfida epocale: l’accoglienza non è un pericolo, ma il futuro”. “Come si fa a definire “emergenziale” la questione migratoria? Fa parte della storia recente e dell’attualità d’Italia ormai da lungo tempo. E sarà così per anni. Bisogna predisporre prima possibile un sistema strutturato di assistenza e integrazione per affrontare finalmente le criticità con lucidità ed efficacia. Rendendole un’opportunità”. Ricordandosi sempre che “l’accoglienza non è un pericolo: è aprirsi al futuro”. Parola del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei e arcivescovo di Bologna. Il porporato sottoscrive le riflessioni espresse dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Meeting di Cl a Rimini: “I muri sono solo uno strumento ingannevole per cercare di nascondere i problemi”. Eminenza, il Capo dello Stato ha rivelato che nel suo studio tiene “il disegno del ragazzino annegato con la pagella nella giacca”… “Innanzitutto vorrei ringraziare il Presidente, perché ha pronunciato un discorso di grande respiro e umanità. Mattarella ci ricorda le nobili prospettive che devono orientare l’azione politica e sociale, oltre che il pensiero comune. Per quanto riguarda la realtà migratoria, è necessario puntualizzare un concetto cruciale: ci sono momenti di maggiore pressione, ma questo è un fenomeno che non è emergenziale. Come si fa a definirlo emergenziale?”. Per quale motivo? “Perché non lo è da anni, decenni ormai. E non lo sarà per anni, considerando i disequilibri, la demografia, le scarse ed episodiche risposte messe in campo finora. Non sono liberi di restare e nemmeno di partire! La migrazione fa parte della storia e dell’attualità d’Italia, ormai da lungo tempo. Se si continua a tentare di gestirla con la concezione dell’emergenza e basta, saremo sempre in balia e vittime dell’agitazione e della paura, oltre che spettatori di tragedie del mare inaccettabili”. Qual è la via da seguire? “Momenti drammatici e dinamiche complesse saranno sempre da mettere in conto, purtroppo, ma se noi riusciamo presto a impostare un piano strutturale che parta dal governo e coinvolga tutti gli interlocutori attivi nell’accoglienza e nell’integrazione di quanti arrivano in Italia - chiedendo all’Ue di assumersi le proprie responsabilità - potremo essere più pronti ad affrontarli in modo costruttivo. Altrimenti avremo l’impressione di svuotare l’oceano con le mani. Certo, è una sfida enorme, epocale, ma proprio per questo non possiamo più “derubricarla” a emergenza, altrimenti non ci avvicineremo mai a una soluzione. È urgente trasformare l’emergenza in piano d’azione, per predisporre finalmente meccanismi strutturati, a livello italiano e anche europeo”. Suggerimenti concreti? “Dobbiamo uscire dalla logica limitata ai Cas (Centri di accoglienza straordinaria), occorre investire analogamente tanto anche sui Sai (Sistema accoglienza integrazione). E serve anche garantire all’interno dei Cas vari servizi fondamentali - come l’informazione legale e il sostegno psicologico - perché altrimenti diventano solo tremendi parcheggi, peraltro già pieni. In più in questo modo si continua a creare clandestinità, perché non si sa più dove e come collocare queste persone, che invece potrebbero intraprendere percorsi di integrazione con i Sai. Così potremo rendere le emergenze in opportunità. E guidare meglio i flussi, che non sono solo una complicazione numerica, cioè di “quanti ce ne servono”“. Quali sono gli altri aspetti? “Si pongono i temi della casa, del lavoro, della scuola. Questi percorsi devono funzionare in modo efficace, e non con tempi eterni e procedure che diventano dei labirinti che aumentano l’incertezza, e quindi la clandestinità. E la litigiosità, come quella tra alcuni sindaci. E anche la paura da parte dei cittadini, che avvertono come una presenza ulteriormente minacciosa tutte quelle persone proprio perché “parcheggiate” malamente. Poi, siamo chiamati a passare da un’idea di sicurezza a un’idea di sviluppo”. Che cosa intende? “Rispondere alla richiesta di manodopera. Il governo con saggezza ha aumentato il numero di ingressi di lavoratori consentiti, e probabilmente ne serviranno ancora di più, se vogliamo guardare a un avvenire all’altezza dei problemi. Le tante pratiche di permessi devono essere snellite. Bisogna garantire di più il passaggio ai permessi di lavoro per evitare che poi si cerchi la clandestinità. Su alcuni aspetti si può ricorrere ai patronati, o ad altre forme che possono aiutare a velocizzare gli iter. E che cosa dire dei minori non accompagnati?”. Ci spieghi… “Aumentano, si rischia di non avere più strutture in cui ospitarli. Che fanno? Vanno per strada? L’applicazione della legge sui minori richiede strumenti chiari perché i diritti vengano garantiti. Anche perché altrimenti li si lascia interamente all’amministrazione dei Comuni, già sofferenti, a cominciare dai più piccoli. Occorre creare collaborazione tra più enti, per offrire percorsi di integrazione a chi raggiunge la maggiore età”. Mattarella ha messo in guardia da “anacronistici nazionalismi”… “Il Presidente custodisce e promuove i valori delle nostre radici e ci aiuta a guardare il tempo nuovo. Ci incoraggia a non vivere e usare le radici con slogan o semplificazioni. Le radici servono a dare frutti, al futuro: dunque non basta conservare. Per cui quando Mattarella dice che i muri non servono, esprime una constatazione di grande realismo: ci chiede di sfuggire alla tentazione di alzare muri o di renderli ancora più alti e spessi. I muri non sono una risposta, sono solo un modo ingannevole per cercare di nascondere i problemi. Il contrario dei muri non è il Colosseo ma una porta intelligente, umana, capace di gestire. Il futuro passa dall’integrazione”. Oltre all’impegno costante della Caritas, della Comunità di Sant’Egidio - in particolare per i corridoi umanitari - e di altre numerose associazioni cattoliche di volontariato, la Chiesa sta cercando di trasmettere qualche messaggio al governo? “Cambiare l’approccio emergenziale in un intervento sistemico, organizzato e articolato. La Chiesa è in campo anche per questo. Siamo sempre stati interlocutori attenti, mai strumentali, sempre leali, con tutti i governi. E anche con l’attuale esecutivo c’è stata un’interlocuzione e continuerà a esserci, per fronteggiare insieme le problematiche, e anche per manifestare il nostro punto di osservazione”. Come dovrebbe essere intesa l’accoglienza? “È un valore cristiano e un valore umano. Coincidono pienamente. L’accoglienza non è un pericolo: apre al futuro. Non lo limita, lo permette. E ci consente anche di vivere il presente: se non avessimo accolto migliaia di donne che oggi lavorano come badanti nelle nostre case, per la gran parte delle famiglie italiane la vita sarebbe insostenibile. E questo avviene anche in tante aziende”. Migranti. Il sindaco di Trieste Dipiazza: “Troppi? C’è chi, in Europa, vuole colpire Meloni” di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 28 agosto 2023 Bivacchi e condizioni igieniche precarie dopo gli ultimi arrivi in città dalla rotta balcanica. II primo cittadino (FI): “Siccome il governo di centrodestra funziona, l’obiettivo è minarlo”. “Mai vista un’invasione di migranti come questa a Trieste, e se è così, se si permette tutto questo, la spiegazione è politica: vogliono colpire Giorgia Meloni e tutto il centrodestra al governo”. Roberto Dipiazza, imprenditore, sindaco per 23 anni, Forza Italia, dal 2021 alla sua quinta amministrazione della città giuliana, guida una giunta che insieme al suo partito raccoglie Lega e FdI. In questi giorni Trieste ha visto acuirsi l’emergenza migranti proveniente dalla rotta balcanica, con tanta gente - soprattutto pakistana e afghana - che ormai dorme in strada in condizioni di degrado e grave rischio igienico-sanitario, associazioni umanitarie in affanno, accuse del centrosinistra. Da gennaio a luglio circa 8 mila arrivi, solo in parte affrontati con l’accoglienza. Le tensioni sociali e politiche sono alle stelle. Qual è la situazione? “Brutta, bruttissima. È dagli anni Novanta che mi occupo di problemi legati ai migranti, ho visto di tutto e di più, ma una cosa simile non potevo immaginarmela. La città è in emergenza. Come Comune non possiamo fare granché. Nell’urgenza, di quanto sta accadendo se ne deve occupare la Prefettura”. E invece? “Mi chiedono di mettere un po’ di gente negli alberghi, ma io voglio fare le cose perbene e serve seguire dei percorsi secondo la legge, e inoltre mancano le risorse. Dai Comuni più piccoli della provincia i sindaci mi chiamano per chiedermi aiuto, per sapere se posso accogliere altra gente, specie i minori. A mia volta, io non riesco a interloquire con Lampedusa, per chiedere di gestire in modo diverso i flussi, poiché là hanno problemi enormi, con 4 mila migranti. Ma Trieste così non può andare avanti”. Lei che cosa suggerisce... “In Friuli-Venezia Giulia disponiamo di centinaia di caserme militari vuote, in disuso. Si potrebbero utilizzare”. Il governo come sta affrontando questa crisi? “Il governo non ha colpe, anzi. La mia opinione è che quanto sta accadendo, con i famosi 100 mila sbarchi in Italia previsti nel 2023, abbia una motivazione politica avversa a Meloni. La premier in generale sta infatti facendo bene, è in gamba, l’esecutivo anche, ed ecco che con i migranti si trova il modo per metterli in difficoltà. Perché?”. Perché? “Per colpire il centrodestra, dimostrare che non è in grado di affrontare la questione, mandarlo a casa”. E chi lo vorrebbe? “L’Unione europea. Paesi come Malta o Grecia respingono i migranti. Altre nazioni ci criticano. Intanto siamo noi che paghiamo lo scotto. Personalmente, l’aspetto che più mi preoccupa sono i minori non accompagnati, ormai più di 500 in città”. Poi c’è l’aspetto economico... “Da parte di chi interviene sul fronte associativo. È un business, un tot di entrate a testa per ciascun migrante. Per queste realtà, in certi casi, più ne arrivano e meglio è”. Gran Bretagna. Migranti adolescenti nel carcere degli adulti di Enrico Franceschini La Repubblica, 28 agosto 2023 La denuncia della Ong Human for Rights Network riportata dall’Observer: sommari gli esami per determinare l’età al momento degli sbarchi. Bambini e adolescenti vulnerabili, entrati da soli illegalmente nel Regno Unito con barconi di migranti, vengono rinchiusi in carceri per adulti tra i cui detenuti ci sono individui condannati per abusi sessuali. Lo afferma un’indagine compiuta da Human for Rights Network, un’associazione umanitaria britannica, pubblicata oggi dall’Observer. La maggior parte dei casi riguarda ragazzi sudanesi o del Sud Sudan, generalmente partiti dalla Libia e arrivati in Gran Bretagna non accompagnati da un genitore. Molti di loro sembrano vittime di traffico di esseri umani o di sfruttamento sessuale. Ciononostante, le autorità britanniche, dopo averli esaminati all’arrivo, li inviano sempre più spesso in prigioni per adulti. Una di queste è il penitenziario maschile di Elmley, nel Kent, dove i detenuti stranieri sono tenuti insieme ad alcuni prigionieri condannati per reati sessuali, esponendo così i ragazzi al rischio di nuove violenze. Sebbene la prigione di Elmley non sia più ufficialmente designata per ospitare autori di violenze sessuali, 70 detenuti di questo genere sono tuttora dietro le sbarre in quel carcere. L’associazione per i diritti umani autrice della denuncia chiede al ministero degli Interni di aprire immediatamente un’inchiesta e di rilasciare urgentemente qualunque migrante minorenne che si trovi anche solo temporaneamente dentro a un carcere per adulti. “È sbagliato criminalizzare questi bambini e pericoloso chiuderli in prigioni per adulti”, commenta Anita Hurrel, direttrice di Coram, un’associazione di beneficenza per minorenni, riporta il giornale domenicale britannico. Allo sbarco nel Regno Unito, assistenti sociali in coordinamento con la polizia sottopongono i migranti a uno sbrigativo esame per determinarne l’età, affermano le organizzazioni umanitarie. Frequentemente migranti minorenni vengono classificati come adulti e per questo inviati a carceri per detenuti dai 18 anni in su. Il governo replica che l’esame per accertare l’età di persone senza documenti viene effettuato in modo coscienzioso. Le ong umanitarie sostengono invece che c’è da parte governativa un chiaro intento a classificare gli adolescenti come adulti.Lo scopo sarebbe sempre quello di reprimere l’immigrazione illegale, aumentata progressivamente negli ultimi anni, in particolare con gli sbarchi attraverso la Manica. L’imprigionamento dei minori, accusano i difensori dei diritti umani, è un aspetto di un sistema di richieste di asilo che non funziona, arrivato nel 2023 a quota 175 mila, il 44 per cento in più rispetto allo scorso anno. Stati Uniti. Martin Luther King e l’anniversario del sogno: “Ma dopo 60 anni la marcia non è finita” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 28 agosto 2023 Il 28 agosto 1963 duecentocinquantamila persone parteciparono alla Marcia su Washington, che contribuì al passaggio di leggi storiche: il Civil Rights Act nel 1964 contro la segregazione razziale e il Voting Rights Act del 1965 che rimosse ostacoli al voto per gli afroamericani. C’è una iscrizione nel punto in cui il reverendo Martin Luther King pronunciò il famoso discorso “I Have a Dream” sui gradini del Lincoln Memorial. Alla vigilia dell’anniversario, sabato scorso una manifestazione ha sottolineato che bisogna “continuare la ricerca del sogno” di King. “Stiamo tornando indietro” - Oggi il presidente Biden e Kamala Harris incontreranno alla Casa Bianca gli organizzatori ancora in vita della manifestazione del 1963 e i familiari del reverendo assassinato nel 1968. Ma l’anniversario cade in un momento difficile, tra denunce di soppressione del voto delle minoranze negli Stati repubblicani del Sud (ad esempio, rendendo difficile il voto per posta o modificando la mappa elettorale in modo che i distretti a maggioranza nera abbiano meno peso) e dopo la recente abolizione da parte della Corte Suprema dell’”affirmative action”, la politica di inclusione delle minoranze svantaggiate nell’accesso alle università. Cade mentre molti, tra le minoranze e la sinistra, denunciano il clima di odio, la brutalità della polizia, il diverso trattamento nel sistema carcerario, la crescente violenza non solo contro gli afroamericani, ma anche contro comunità ebree, asiatico-americane, Lgbtq+. Proprio sabato un suprematista bianco ha ucciso tre persone nere in Florida con una pistola con una svastica. Martin Luther King III, il figlio maggiore del reverendo, si è detto “molto preoccupato” che gli Stati Uniti stiano “andando indietro invece che in avanti”. E Yolanda King, la nipote quindicenne: “Se potessi parlare a mio nonno oggi, gli direi che mi dispiace che siamo ancora qui, a dover promettere di dedicarci di nuovo a realizzare il tuo sogno. Il razzismo è ancora con noi, la povertà è ancora con noi e la violenza armata è entrata nei nostri luoghi di preghiera, nelle nostre scuole e nei nostri supermercati”. Il discorso del sogno - “Ho un sogno: un giorno i miei quattro figli vivranno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma per il loro carattere”. Alla manifestazione di sabato c’erano persone che ascoltarono dal vivo quelle parole, come Rosetta Manns-Baugh, 92 anni. È così delusa dai risultati raggiunti che ha smesso di cantare “We Shall Overcome”, ma si è presentata lo stesso, con figli e nipoti, alla manifestazione di sabato, dove c’erano solo alcune migliaia di persone, assai meno rispetto a 60 anni fa. Un sondaggio su 5.000 americani, condotto ad aprile dal “Pew Research Center”, rivela che gli americani più giovani e poco istruiti conoscono sempre meno la storia della Marcia su Washington e che sono soprattutto i bianchi (il 58%), e specialmente i repubblicani (il 67%), rispetto ai neri (solo il 30%) a ritenere che siano stati fatti “grandi progressi” nel superamento delle discriminazioni razziali dal 1963 a oggi. Il 32% dei neri (più che i latinos e gli asiatici) afferma che non sono stati fatti molti progressi. C’è un 37% dei repubblicani che sostiene che gli sforzi per l’uguaglianza siano andati “troppo oltre”, mentre tra coloro che credono che non sia fatto abbastanza, c’è pessimismo e la sensazione che il sistema dovrebbe essere completamente rivoluzionato. “Stiamo tornando indietro” - Kamala Harris, la prima vicepresidente nera, ha denunciato i tentativi degli “estremisti” di riscrivere la Storia, inclusa l’approvazione in Florida di un programma scolastico, in linea con le leggi del governatore repubblicano e candidato alla presidenza Ron DeSantis, che ha suscitato polemiche per il modo di affrontare la schiavitù. Biden ha designato un monumento nazionale in onore dell’adolescente nero Emmett Till, ucciso nel 1955, ha nominato la prima donna nera alla Corte suprema, Ketanji Brown Jackson, e la prima portavoce nera e gay, Karine Jean-Pierre. Ma non è riuscito a far passare leggi per promuovere i diritti di voto a nel Congresso diviso. Stati Uniti. Le torture a Guantánamo bloccano i processi agli uomini di Al Qaida di Valerio Fioravanti L'Unità, 28 agosto 2023 I prigionieri che lo Stato considera importanti sono 14 ma i processi contro di loro sembrano destinati ad arenarsi. Il colonnello Acosta, giudice militare, stabilisce che le prolungate torture a cui sono stati sottoposti gli uomini di al Qaida rendono nulle tutte le loro confessioni, e senza quelle confessioni i pubblici ministeri militari avranno grosse difficoltà a ottenere quelle “condanne esemplari” (ossia condanne a morte) che la nazione avrebbe voluto. Il tentativo degli statunitensi di processare i dirigenti “logistici” di al Qaida (gli “operativi” sono tutti morti negli attentati suicidi) è più interessante di quanto sembri. Il 90% degli uomini di Bin Laden sono stati uccisi, alcuni con operazioni delle squadre speciali, la maggior parte con i missili Hellfire (fuoco dell’inferno) lanciati dai droni. Per motivi, diciamo così, “teatrali”, una parte è stata catturata viva, ed era destinata a essere processata in diretta televisiva, e rapidamente giustiziata. Gli statunitensi credono fermamente che l’esecuzione di un assassino restituisca la pace alle vittime, e ai loro parenti. Attualmente, dopo che nel corso di 20 anni oltre 780 prigionieri si sono alternati nelle celle di Guantanamo, i prigionieri che lo stato considera particolarmente importanti sono “solo” 14. Ma i processi “di alto profilo” contro di loro sembrano destinati ad arenarsi defnitivamente. Come Nessuno tocchi Caino aveva previsto, il giudice Lanny Acosta ha deciso che le confessioni ottenute sotto tortura non sono utilizzabili. E, per essere più precisi, non sono utilizzabili quelle ottenute direttamente dai torturatori, ma nemmeno quelle ottenute da altri agenti della Cia che avevano usato metodi meno drastici. Acosta sostanzialmente ha deciso che lo schema “poliziotto buono-poliziotto cattivo” non può essere accettato se il “poliziotto cattivo” è stato troppo duro. Che ne sa l’uomo sotto interrogatorio che il poliziotto buono da un momento all’altro non esce dalla stanza e si ripresenta quello cattivo? Perché ci sono voluti 20 anni per arrivare a questa sentenza? Perché le confessioni erano l’unica carta che i pubblici ministeri potevano spendere in un processo, se non volevano rivelare come la Cia aveva ottenuto le informazioni sui sospettati, e se il governo non voleva che si parlasse in un processo pubblico di quanti servizi segreti di altri stati avevano passato informazioni alla Cia nella “guerra al terrorismo”. Sostanzialmente contro gli imputati c’erano solo “informazioni riservate”. Però, se avevano confessato qualcosa (alcuni hanno ammesso di aver conosciuto Bin Laden o di aver fatto operazioni finanziare su sua indicazione), i processi si potevano fare. Ma qui Guantanamo si fa interessante perché pur di non riconoscere agli imputati lo status di “militari belligeranti” (che li avrebbe posti sotto l’ombrello protettivo della Croce Rossa e della Convenzione di Ginevra), è stato creato un ibrido: giudici e pubblici ministeri militari, ma avvocati difensori (tutti cio) “civili”. E gli avvocati civili sono stati bravissimi, e hanno messo seriamente in crisi lo strano tentativo congegnato dall’amministrazione Bush, e continuato dai suoi successori, di avviare una procedura dando all’inizio carta bianca ai servizi segreti, e poi, in corsa, rientrare nell’alveo dello stato di diritto. Questa operazione spericolata, con la sentenza di Acosta del 18 agosto, ci fa tornare in mente una delle frasi tanto care a Pannella, una frase contro l’assunto di Machiavelli per cui il fine giustificherebbe i mezzi. Pannella amava dire invece che i mezzi prefigurano il fine. Ora cosa succederà? La Procura potrebbe fare ricorso, ma non è detto, perché il tema della tortura, ora che è stato così ben sviscerato, ha creato molto imbarazzo nell’Amministrazione. Da 18 mesi sono in corso trattative di cui, pochi giorni fa, sono stati avvertiti i parenti delle vittime perché forniscano “opinioni e commenti”: agli imputati verrebbe chiesto di dichiararsi colpevoli (in modo da aggirare il problema delle confessioni non utilizzabili) e in cambio non sarebbero condannati a morte, e in più sconterebbero l’ergastolo in un “normale” supercarcere federale, non in isolamento. Se l’inutilizzabilità delle confessioni venisse confermata, i difensori, a questo punto, potrebbero riuscire a ottenere condizioni ancora migliori. Ma già la mancata condanna a morte per gli imputati del più grave attentato della storia degli Stati Uniti, con oltre 3.000 morti, creerebbe un precedente clamoroso, consentendo a tutti gli altri condannati a morte nel sistema federale di contestare la “sproporzione” delle proprie condanne. Ci vorrà ancora tempo, ma la sentenza contro la tortura cambierà molte cose.