Nelle nostre celle c’è la misura dell’inadeguatezza di Goffredo Bettini L’Espresso, 27 agosto 2023 Solo il 10% dei 56 mila detenuti nel nostro Paese rappresenta un pericolo sociale o per la sicurezza. È esplosa di nuovo la questione delle carceri italiane. Sovraffollamento, congestione (come la definisce Luigi Manconi), mancanza di servizi, di bidet per le donne, pochi psicologi, poche attività di lavoro e di socializzazione. Grande sofferenza e grande impotenza. Il ministro Carlo Nordio, di ispirazione garantista e liberale, ha promesso di intervenire: trasformiamo le caserme dismesse in prigioni, aumentiamo gli organici. Come spesso gli capita, sembrano sortite irrealizzabili e solitarie. Ma poi: la priorità sono gli spazi ulteriori da reperire o piuttosto una popolazione carceraria abnorme, che potrebbe ricevere trattamenti alternativi alla galera? Quest’ultima mi pare la vera questione. Il ministro Andrea Orlando iniziò a muoversi in questa direzione. Solo il 10% dei 56 mila detenuti nel nostro Paese rappresenta un pericolo sociale o per la sicurezza. Molti sono, invece, reclusi per reati minori, con condanne inferiori ai 3 anni. Altri sono vicini alla conclusione della pena o devono scontare il reato di immigrazione clandestina. Infine, ci sono quelli in attesa di giudizio. Conseguenza di una pratica incivile di arresto, considerata la condizione migliore per far collaborare l’imputato. Uno Stato democratico misura se stesso circa il trattamento che riserva alle minoranze, alle fragilità, alle posizioni di debolezza. L’imputato e il condannato (tranne nel caso siano al centro di un’organizzazione mafiosa o terroristica) si trovano nel punto di massimo squilibrio tra la forza e la debolezza. Sono soli di fronte al giudice che decide sulla loro vita, avendo dietro le spalle tutta la forza dello Stato, della società, dell’opinione pubblica normale, che come una muta si aggrega per colpire l’errore, la devianza, il cattivo esempio. La solitudine, che porta a tanti suicidi, come è accaduto in questi giorni a Torino e ogni anno durante il vuoto nel mese di agosto, non è solo il recinto di mura che separa chi sta dentro dalla vita che si svolge fuori. È la percezione di una condizione indifesa, esposta, manomessa. Sottoposta a decisioni, regole, condizioni imperscrutabili: oggetto inerte in balia della sorte. Tutto ciò che si può fare per evitare questo abisso dell’anima, dando alla pena un carattere rieducativo e più umano, va fatto. Soprattutto quando il reato non consiste nella morte di un’altra persona (fattispecie secondo me nella quale si sono esercitate grandi indulgenze), ma ha procurato un danno economico, alla stessa salute di chi lo ha commesso, alle regole di funzionamento della società. Sono cresciuto in un ambiente di avvocati penalisti. Mio padre, repubblicano, esercitava questa professione. Ho ascoltato magnifiche arringhe in corte d’Assise di De Marsico, Annibale Angelucci, Cassinelli, Vassalli e dei più giovani di allora; appunto mio padre Vittorio, De Cataldo, Gino Trapani, Luciano Revel e Nicola Madia, turbato per tutta la vita dalla condanna di Raul Ghiani, che aveva difeso appassionatamente. Ricordo la lezione di tutti loro: meglio “meglio dieci colpevoli fuori che un innocente ingiustamente in prigione”. Appunto. Il valore della vita e il sacro rispetto della libertà individuale. I fantasmi del carcere di Donatella Stasio La Stampa, 27 agosto 2023 Sacha controllato a vista in cella. Lui e i 334 i detenuti “psichiatrici” nei penitenziari rischiano di peggiorare. Da Cuneo a Torino. Qui - nella patria galera finita sotto i riflettori di ferragosto per i suicidi di Azzurra e Susan paragonati dal ministro Nordio a quelli di due gerarchi nazisti a Norimberga - hanno trasferito Sacha, il ventunenne malato da sempre nella testa, dice la mamma, problemi psichici gravi, li chiama fantasmi, quelli che l’hanno spinto ad accoltellare prima il padre e poi l’amico di famiglia, a Mondovì, e a fuggire nei boschi per due giorni, tenendo tutti barricati in casa per paura di incontrarlo, finché non ce l’ha fatta più, ha perso il fiato, le forze e pure i vestiti, si è addormentato e così l’hanno arrestato il 18 agosto, nudo, sfinito, muto. Un fantasma anche lui, come le 334 persone detenute nelle sezioni dei “rei folli”, quelli con un “disagio psichico accertato” prima o dopo l’ingresso in galera, ma non incapaci di intendere al momento del delitto, quelli sono i “folli rei”, internati nelle Rems, che nel 2017 hanno finalmente archiviato gli OPG, i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, spesso veri e propri lager. Sacha è uno dei tanti “psichiatrici” (la terminologia carceraria tende a categorizzare, finendo per ghettizzare, come nel caso dei “tossici”), di fatto occupanti abusivi del carcere perché, ancorché condannati, indagati o imputati, sono persone malate e il carcere, così com’è, non è un luogo di cura, meno che mai di guarigione. Semmai, è un moltiplicatore del disagio psicofisico, visto che “dentro” il rischio di contrarre malattie è doppio rispetto a “fuori”. E quando accade e vai fuori di testa, finisci nelle “celle lisce” o in quelle “contro il rischio suicidario”, sezioni di transito o di contenimento o di isolamento, chiamatele come volete purché sappiate che non sono luoghi di cura. Fino a giovedì sera, Sacha era lì, in una cella liscia del carcere di Cuneo, dove l’hanno portato dopo l’arresto. Era in stato “mutacico”, hanno diagnosticato i medici, lo stato clinico di chi, a causa di una lesione cerebrale o di un disturbo funzionale, è incapace di avviare una qualunque comunicazione verbale. Sacha non parlava, era agitato, ha tentato di impiccarsi alle sbarre della cella ma chissà se per esibizionismo o per farla finita con i suoi fantasmi interiori. Dopo sette giorni, è scattato il trasferimento alle Vallette di Torino, uno dei 29 istituti circondariali con sezioni per la salute mentale (presenti anche in 4 case di reclusione), una per le donne - e lì si sono suicidate Azzurra e Susan - e due per gli uomini, 38 camere occupate da 23 persone (dati di marzo 2023). Sacha è il ventiquattresimo, ed è in osservazione psichiatrica. Se il suo disagio non verrà accertato dai medici, andrà a fare il detenuto in uno dei tanti reparti delle patrie galere comunque traboccanti di “psichiatrici”, perché il carcere è patogeno e non fa bene alla salute mentale. Parola grossa, salute. “Tutelare la salute in carcere è un paradosso”, dice Ruggero Giuliani, coordinatore sanitario a San Vittore, al momento privo di articolazioni “per la tutela della salute mentale”, ma non di specialisti. “L’obiettivo del medico è la cura, quello del carcere è la sicurezza, e non sempre le due cose coincidono”, spiega. Eppure, la salute è un diritto fondamentale di tutti, liberi e reclusi, bianchi e neri, maschi, femmine, trans, gay, giovani e vecchi, italiani e stranieri, ricchi e poveri, proprio di tutti, insomma, e a tutti, quindi, vanno garantiti gli stessi standard terapeutici. In carcere, però, è un diritto dimezzato. E il prezzo lo pagano anche i poliziotti per quell’”effetto ombra” carico di malessere e di stress psicofisico. Giuliani arriva a San Vittore nel 2019. Bolognese, 51 anni, specializzato in malattie infettive, due figli e una moglie medica che si occupa dei “giovani adulti” reclusi sempre nel carcere milanese di piazza Filangieri. Una vita al servizio degli ultimi, quelli che “vanno aiutati a casa loro”, direbbe qualcuno: e infatti nel 2004 lui lascia l’ospedale di Bologna (e anche i pazienti del carcere), scende prima in Campania e in Sicilia, dove con Medici senza frontiere accoglie e cura i migranti, e poi, dal 2007, ancora più a sud: Malta, Zambia, Etiopia, Sudafrica, Liberia, Mozambico, Kenia, Congo, sempre con Msf, dieci anni di fila, finché nel 2017 gli offrono San Vittore. In fondo, in carcere c’è tutto quello che ha visto e curato nelle parti più disgraziate del mondo. Solo nei primi sei mesi di quest’anno, su 57.521 detenuti (10mila in più dei posti disponibili) si contavano 73 “decessi per cause naturali” e 13 “per cause da accertare”, nonché 40 suicidi (saliti a 43 nei successivi 15 giorni di agosto), 116 tentati suicidi, 7.257 atti di autolesionismo. L’Ufficio del garante dei detenuti registrava, sempre al 31 luglio, 8.189 persone inviate con urgenza in ospedale, con o senza ricovero, e 1.918 in isolamento sanitario. E poi ci sono gli psicofarmaci, croce e delizia del carcere. “Gli psicofarmaci vanno usati per stabilizzare e raggiungere un compenso psichico - spiega Giuliani -. Il grosso problema è che l’80% dei detenuti arriva con un abuso di droga e quindi li devi gestire perché soffrono di insonnia e di ansia per la mancanza improvvisa di sostanze, il che li rende particolarmente aggressivi”. Ci sono tre tipi di “pillole” che suscitano il loro appetito: Seroquel, Lirica, Rivotril. “Fuori li comprano al mercato nero per compensare l’uso di cocaina ma dentro non li trovano perché, almeno a San Vittore, li abbiamo eliminati. E non è stato facile perché tanti detenuti minacciano di tagliarsi se non gli dai quello specifico psicofarmaco”. Anche qui si scontrano le due culture, cura e sicurezza: il carcere tende a considerarli tutti “psichiatrici” da trattare con terapie psichiatriche; i medici fanno diagnosi e distinguono “psichiatrici” e “comportamentali”. “Bisogna per forza mediare. C’è una continua trattativa: con i pazienti, con il carcere, e fra gli stessi medici” dice Giuliani, secondo il quale occorrono protocolli aggiornati che tengano conto delle nuove polidipendenze farmaci/droghe. “Sono tornato dall’Africa con l’idea che il carcere dovesse essere eliminato, ma non si può. Si deve però lavorare per un carcere più riabilitativo dal punto di vista sanitario, investendo soprattutto sui giovani. Quando entrano sono quasi tutti tossicodipendenti e psichiatrici ed è indispensabile avviare subito un percorso di riabilitazione che parta dalla presa in cura del proprio corpo: osteopatia, yoga, alfabetizzazione sanitaria di base, mediatori culturali della sanità (non del carcere)”. Giuliani ci sta lavorando. “Giacinto Siciliano è tra i direttori più illuminati - dice - e, anche con gli educatori, stiamo portando avanti questo progetto con i giovani adulti. Certo - aggiunge - bisogna trovare una sponda fuori, sul territorio, in modo che quando escono dal carcere, perché escono, continuino a prendersi cura di sé e non ricadano nello stesso giro”. Il “fuori” è cruciale. “Purtroppo, però, esistono barriere alle cure” dice Giuliani. Quando escono dal carcere, dovrebbero essere agganciati dai servizi territoriali, sociali e sanitari, ma se sono senza dimora e senza famiglia questo non accade. A maggior ragione per gli stranieri irregolari, anche se escono con una diagnosi precisa. Sono malati e avrebbero diritto alle cure, ma così non è. E infatti tornano in carcere, con gli stessi problemi. O finiscono internati nelle case lavoro perché definiti socialmente pericolosi, i cosiddetti ergastoli bianchi, in realtà sono soli, senza nessuno che li accolga fuori, vite dimenticate. “C’è un somalo con un disturbo post traumatico dovuto a chissà quali terribili esperienze che entra e esce da San Vittore per piccoli reati e non c’è verso di agganciarlo ai servizi esterni di cura per stabilizzarlo”, racconta mesto Giuliani. Come si fa a mettere il carcere in condizione di curare e di non fare semplicemente il pronto soccorso della “sofferenza urbana”? Anzitutto bisogna svuotarlo dei condannati a pene brevi e brevissime (sono circa 10mila), come ha suggerito il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma nella relazione al Parlamento, trasferendoli in luoghi diversi dal carcere. Bisogna svuotarlo anche degli occupanti abusivi, creando un più stretto raccordo con il territorio. Non c’è bisogno di “bacchette magiche”; c’è bisogno della politica. Che parli anzitutto alla “nazione” con un linguaggio di verità e di civiltà. Che individui la direzione con la bussola della Costituzione. E che faccia applicare leggi e regolamenti esistenti, tanto per riprendere un refrain caro alla premier Meloni. Dunque, no a soluzioni semplicistiche, frettolose, demagogiche, inumane come caserme, aumenti di pena e nuovi reati, rimpatri per motivi di salute, cercerizzazione di minori stranieri non accompagnati. La direzione è l’implementazione di pene e misure alternative (e delle relative risorse); il potenziamento delle comunità terapeutiche; l’accesso per tutti ai servizi territoriali pubblici e una reale prospettiva di housing e di lavoro. Quanto ai “rei folli”, come Sacha, bisogna ridare centralità al percorso terapeutico e alla responsabilità di un’effettiva presa in carico delle strutture sanitarie territoriali. C’è molto da fare, si deve fare e si può fare. Ma guai a mettere in discussione il diritto alla salute affidato al Servizio sanitario pubblico. Guai a rimpiangere la vecchia medicina penitenziaria, avverte Palma. I passi si fanno in avanti, non indietro. Nel nome di Capitini e di Pannella mi iscrivo a Nessuno Tocchi Caino per aiutare i reclusi di Enzo Musolino* L’Unità, 27 agosto 2023 Ho pensato a quelle giovani donne morte alle Vallette nell’indifferenza di tutti, chiuse nel dolore di una prigione/inferno che le ha portate a “vivere” la morte come unico scampo. Tra i presunti “irredimibili”, tra i perduti, i condannati al “fatto” insuperabile, tra i suicidi anche per fame e sete (47 dall’inizio dell’anno), tra le sbarre della morte per pena, nelle spire di uno Stato che riempie le galere di emarginati, immigrati, drogati, malati psichiatrici, insieme al personale dipendente delle prigioni, a quei poliziotti che pure muoiono di “reclusione” e dolore. In mezzo a tutti questi, in aiuto a loro, c’è spazio per un contributo democratico, liberale, di progresso e liberazione? C’è spazio per “qualcosa di diverso dal diritto penale” (Aldo Moro)? Spes contra Spem, ci dice Paolo di Tarso, significa operare e credere contro il dato di fatto disperante, significa mutare la realtà contraddicendone gli automatismi. Significa anche, portando alle conseguenze radicali la fede in “altro” - in qualcosa di “diverso” dal destino di consumo e di morte - che i tanti cristi-crocifissi della nostra Società, anche quelli reclusi, si riverberano nella nostra coscienza e “domandano” una politica più giusta, un impegno “incarnato” che si fa speranza, che realizza speranza contro la sterile e colpevole attesa. Aldo Capitini, il liberalsocialista nonviolento, il “persuaso religioso” dell’apertura infinita e del “potere di tutti” - detenuto più volte dai fascisti alle Murate di Firenze, tra il 1942 e il 1943 - il filosofo che ha tanto ispirato Marco Pannella, non si arrese mai al “fatto”, all’uomo inchiodato al suo passato - alla condanna senza speranza - perché era persuaso dell’infinita possibilità dell’atto di valore da parte di ciascuno, del cambiamento, dell’accrescimento costante dovuto al contributo di tutti nella produzione dei valori, di ciò che conta, di ciò che migliora lo status quo. Questo “spazio di libertà” tra i reclusi, questa boccata d’aria per i sinceri democratici per me esiste ancora, ripropone l’esempio di Capitini e di Pannella per gli ultimi, vivifica la mia fede religiosa: coincide con l’iscrizione a Nessuno tocchi Caino e rappresenta la concretazione - qui e ora - di una “realtà liberata” che vince la violenza, che crede nella “Compresenza”, in una Unità senza omologazione che ci affratella nel comune destino/destinazione. La Compresenza, quindi, è una prassi, una decisione politica che sostanzia lo sforzo di tutti - vivi, morti, sani, forti, umili, diminuiti, folli, carcerati, malati - nella produzione di quella aggiunta di senso e di buon senso, sempre più necessaria contro il becero senso comune della criminalizzazione progressiva di ogni “diversità”, contro il mito nefasto dell’autoritarismo che tutto risolve dimenticando, relegando ai margini, costruendo mura, erigendo filo spinato. Un buon senso praticato che - nel 2023 - non può considerare davvero insostituibile l’Istituto di Pena, che non può credere alla costruzione di nuove carceri, alla trasformazione delle caserme in carceri, come strumento civile per domare il disagio sociale, per addomesticare gli effetti di un’ingiustizia di classe affrontata, appunto, non con il lavoro, l’emancipazione, il riscatto sempre possibile, ma solo con la deriva securitaria del Diritto. Amnistia, indulto, depenalizzazione, misure alternative, lavoro dentro e fuori il carcere, sono un bisogno impellente, una exit strategy indispensabile per evitare la declinazione dello stato italiano come “Stato criminale” e criminogeno; e questo dicono, purtroppo, le tante sentenze della Cedu che, negli anni, hanno condannato l’Italia per le condizioni degradanti e per il sovraffollamento carcerario. Cosa è accaduto nella Sinistra italiana? Perché tutto questo è pressoché assente nel dibattito interno dei suoi quadri dirigenti, dei movimenti e dei partiti? I diritti di libertà e giustizia, il garantismo e l’equità, sono la stessa cosa, indivisibili. Non è questa la lezione storica del socialismo riformista, gradualista, progressista? Ho versato le mie 100 euro annuali a Ntc pensando a Torino, a quelle giovani donne morte alle Vallette nell’indifferenza di tutti, chiuse nel dolore di una prigione/inferno che le ha portate a “vivere” la morte come unico scampo alla morte della “non-vita” tra le sbarre. Perché erano recluse in quelle condizioni psicologiche, perché tanto patire? Per queste domande, perché si continui fortemente a proporle al pubblico dibattito, continuo a essere un iscritto/militante calabrese a Nessuno tocchi Caino - Spes contra Spem. *Responsabile Centro Studi Filosofici “Aldo Capitini”, Associazione Anassilaos di Reggio Calabria La separazione delle carriere è un boomerang per Nordio di Giulia Merlo Il Domani, 27 agosto 2023 Tocca un numero ridotto di casi e in passato il ministro ha scritto che è “un problema secondario”. Rischia di amplificare invece che ridurre il peso dei pm, oltre che di inasprire i rapporti con le toghe. Ciclicamente torna, questa volta con più forza. La separazione delle carriere dei magistrati è uno dei capisaldi del dibattito giudiziario da quando è entrata in vigore la riforma del codice di procedura penale, nel 1989. La riforma, infatti, cambiò modello da inquisitorio ad accusatorio, cambiando completamente il paradigma processuale. Nei sistemi inquisitori, infatti, il giudice e l’accusatore si fondono in un unico soggetto e il processo si svolge su fonti di prova acquisite durante le indagini. In quelli accusatori, tipici della tradizione anglosassone, il processo si svolge in contraddittorio tra le parti e il giudice ha un ruolo terzo di valutazione delle prove che si formano durante il dibattimento. Della tradizione del processo accusatorio, tuttavia, la riforma Vassalli non ha recepito alcuni elementi caratterizzanti, in particolare la separazione tra giudice e pubblico ministero e la discrezionalità dell’azione penale. Il sistema accusatorio ha modificato anche il ruolo degli avvocati, sancito nel 1999 con la riforma costituzionale dell’articolo 111 della Costituzione secondo cui il “giusto processo” si svolge “in contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Dunque, anche per realizzare quelle “condizioni di parità” tra accusa e difesa, l’istanza di separare le carriere tra i giudici e i pubblici ministeri è fondata e illustri giuristi l’hanno sostenuta. Attualmente, infatti, la carriera in magistratura è unica: dopo la laurea in giurisprudenza e la scuola di specializzazione, l’esame di stato è lo stesso per giudici civili, penali e pubblici ministeri. Poi, una volta superato, il neo-magistrato può scegliere - sulla base della disponibilità di sedi vacanti e della graduatoria - in quale città e a quale funzione essere destinato. Attualmente, la riforma Cartabia approvata nel 2022 (di cui mancano i decreti attuativi) ha introdotto la previsione per cui il magistrato può sì passare di funzioni, ma solo una volta nell’arco della sua vita professionale ed entro i primi 10 anni di carriera. La questione della separazione delle carriere - il primo referendum per tentare di introdurla è del 2000 - è probabilmente il tema più politico e politicizzato del dibattito sulla giustizia. Storicamente la posizione è stata portata avanti dal centrodestra e in particolare da Forza Italia, soprattutto nel periodo post-Tangentopoli dello scontro tra Silvio Berlusconi e i magistrati di Milano. La questione, però, è stata sposata anche da chi, più trasversalmente, che si definisce garantista. Dalla galassia radicale che ha promosso i referendum a quella degli avvocati penalisti. Oggi in parlamento l’iniziativa è sostenuta da un arco di forze che non coincide solo con la maggioranza, con Forza Italia che ha presentato formalmente il disegno di legge costituzionale. Anche Italia Viva e Azione sostengono convintamente la separazione ma in ogni schieramento ci sono singoli che, indipendentemente dai partiti di appartenenza, condividono l’ipotesi. Il maggior sostenitore, tuttavia, è il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nonostante sia stato lui stesso pubblico ministero. “In un sistema accusatorio non è concepibile che il magistrato accusatore possa diventare magistrato giudicante”, ha scritto nel libro di Guerini “In attesa di giustizia”, a quattro mani con l’avvocato Giuliano Pisapia. Sul piano prettamente giuridico esistono quindi fondate ragioni per proporre la separazione delle carriere. A queste si aggiunge quella canonica portata dagli avvocati, che hanno sempre lamentato come l’interscambiabilità di funzioni tra giudice e pm faccia plasticamente venir meno la terzietà di chi è chiamato a giudicare. Soprattutto nei piccoli fori, dove è stretta la prossimità anche fisica nella stessa struttura degli uffici di procura e delle sedi giudicanti. Secondo i penalisti, infatti, la separazione gioverebbe a ripristinare la fiducia dei cittadini nella magistratura: “Ai cittadini interessa solo che il giudice sia indipendente”, è l’argomento del presidente dell’Ucpi, Giandomenico Caiazza. Tuttavia, forse la maggiore obiezione alla separazione delle carriere è rinvenibile proprio nel libro di Nordio e Pisapia. “Su argomenti così delicati, si deve dialogare in punta di fioretto e non entrare con la dava nella cristalleria”, scrive chi poi diventerà ministro, aggiungendo che “oggi la separazione delle carriere è in realtà un problema secondario, che non merita di invelenire ulteriormente i rapporti tra parlamento, avvocati e magistrati. Questo perché l’urgenza più immediata è ridare alla giustizia un minimo di efficienza”. Parole di buonsenso scritte nel 2010, ma a cui il ministero non sta dando seguito. La proposta di legge costituzionale che inizierà il suo iter il 6 settembre in commissione Affari costituzionali alla Camera, infatti, arriva in un autunno che si anticipa caldissimo nei rapporti tra governo e magistratura. È attesa la discussione sulla cancellazione del reato di abuso d’ufficio e andranno approvati i decreti delegati della riforma Cartabia per portare a termine le previsioni del Pnrr, tra i quali quello sull’ordinamento giudiziario (al cui interno è contenuto il cosiddetto “fascicolo del magistrato” per le valutazioni sulle performance, fortemente criticato dalla categoria e ammorbidito nella portata nella prima bozza di decreto). Nel corso di questi mesi, inoltre, i rapporti tra il ministro Nordio e la magistratura sono stati tesi: dallo scontro sul caso Cospito a quelli di merito su intercettazioni e inchieste a carico di membri del governo, fino alle iniziative disciplinari promosse da via Arenula. Tuttavia, questo può essere considerato un dato contingente e cedevole davanti alla ragion politica di una riforma. Esistono però anche ragioni pratiche, giuridiche e valutazioni di opportunità che suggeriscono come la separazione rischi di sfociare nell’eterogenesi dei fini. Il primo è un elemento numerico: secondo gli ultimi dati ministeriali, ogni anno sono in media 19,5 i magistrati che passano da giudice a pm e 28,5 quelli che da pm passano alla funzione giudicante. Su una platea di oltre novemila togati. Numeri irrisori, a cui si associa anche un ulteriore elemento: la prima scelta di ruolo avviene con graduatoria e non sempre rispetto alla sede di lavoro prevale il criterio di gradimento di funzioni. Per questo la riforma Cartabia ha consentito l’unico passaggio da una carriera all’altra entro i 10 anni. Esiste poi una contraddizione rispetto alla volontà di considerare omogenei e speculari il ruolo del pm e dell’avvocato. Certamente così deve essere da previsione costituzionale nella fase del dibattimento in cui il giudice è - e deve essere percepito - come imparziale. Non però nella fase delle indagini preliminari: in questa il pm svolge funzione pubblica di ricerca della prova anche a discarico dell’imputato, solo nella fase successiva assume la veste dell’accusa. Ragionando per principi, il pm risponde a quello di verità processuale, l’avvocato alla difesa di una parte. L’elemento che politicamente rischia di generare maggiore cortocircuito, tuttavia, riguarda gli effetti concreti e costituzionali della separazione. Isolando la carriera del pm non la si ridimensionerebbe (“i pm hanno troppo potere” è un’altra citazione di Nordio) ma se ne amplificherebbe la portata: ai magistrati inquirenti, un gruppo composto da circa 2000 togati, farebbe capo un Csm autonomo, oltre a correnti e un’associazione nazionale di riferimento. Oggi, invece, le posizioni della magistratura associata sono il frutto della mediazione e del confronto tra requirenti e giudicanti (a partire dal Csm, dove i pm sono cinque sui 20 togati). Con la duplicazione il rischio è di radicalizzare ancora di più il conflitto con la politica e non certo di risolverlo. Isolare una categoria ridotta ma già oggi la più esposta sul fronte della politica giudiziaria, schiacciandola sulla polizia giudiziaria, avrebbe infatti l’effetto di amplificare istanze già molto polarizzate. Se l’obiettivo politico della separazione è quella del dividi et impera, dividendo giudici e pm si otterrebbe il contrario. Trasformando in panacea di tutti i mali una riforma che, nei prossimi mesi, inasprirà ulteriormente il dibattito pubblico e che, se anche approvata, non risolverà nessuno dei problemi della giustizia. Pm e giudici sotto schiaffo per il fascicolo delle performance di Liana Milella La Repubblica, 27 agosto 2023 Già la parola stessa suona male, “fascicolo del magistrato”. Sa di schedatura e Repubblica lo ha scritto più volte. Ve lo immaginate se fosse varato il “fascicolo” del deputato e del senatore? Per metterci dentro tutto quello che ha fatto (o non ha fatto) nell’arco di una legislatura? Si griderebbe allo scandalo. Sarebbe antidemocratico. E invece il deputato di Azione Enrico Costa, responsabile Giustizia del suo partito, nonché vice segretario di Carlo Calenda, ha inventato proprio questo, nella scorsa legislatura, lanciando la proposta del fascicolo della toga, che la Guardasigilli Marta Cartabia ha accolto nella sua legge sul Csm. E ha previsto che per ogni magistrato esista un fascicolo delle cosiddette performance, tutto quello che ha fatto nella sua carriera, compresi i processi riusciti e quelli persi. Una legge che ovviamente i magistrati hanno contestato, proprio perché si tratta di una schedatura. Contestandola anche con uno sciopero, quello del maggio 2022. Tant’è. Ormai la norma c’è. E Costa la perimetra minuto per minuto, contestando i magistrati che lavorano al ministero della Giustizia e che fanno parte della commissione che sta trasformando la delega in una legge operativa. Al Dubbio, il quotidiano del Consiglio nazionale forense, Costa dice che Nordio e la sua commissione hanno snaturato la proposta Cartabia, annacquando con misure troppo blande quelle previste per controllare il lavoro dei giudici. Lui pretende che sia verificato minuto per minuto cosa fa una toga, che risultati porta a casa, quanti processi imbastisce e quanti ne perde e perché è finita con un’assoluzione. Naturalmente gli avvocati - ça va sans dire - sono dalla sua parte. Del resto anche Costa è un avvocato, pur se civilista. E accusa Nordio di aver stravolto la legge Cartabia, anche per colpa di via Arenula e di quella commissione istituita da lui in cui ci sono troppi magistrati, 18 su 26. Se ci fossero degli avvocati in maggior quantità - secondo Costa - il risultato sarebbe stato diverso. Ovvio anche questo. Ma c’è una domanda obbligatoria in questo ragionamento. Sarebbe davvero utile alla democrazia di questo Paese, alla sua convivenza civile, al contrasto alla criminalità grande e piccola, un magistrato che bada soltanto al suo “fascicolo”? Che tiene a bada solo le sue performance, in vista di un carrierismo sfrenato? E questa la toga che vuole Costa? Una che guarda solo ai suoi risultati personali, ed evita di conseguenza scelte che potrebbero danneggiare la sua carriera. Un pm non ha la palla di vetro quando conduce un’indagine, come non ce l’hanno le polizie. Si procede per tentativi. E si può anche sbagliare. Ma se questo errore diventa una macchia che segna per sempre la carriera allora assisteremo a magistrati codardi che preferiranno il loro destino personale a quello degli italiani. E questo, non c’è neppure bisogno di dirlo, sarebbe un grandissimo disastro per il nostro Paese. Giudici e pm rischieranno il posto in base all’esito dei provvedimenti di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2023 La bozza di Nordio realizza i piani “punitivi” di Cartabia e Costa. Valutazione dei magistrati basata sulla conferma (o meno) dei loro provvedimenti, voto degli avvocati sulla loro professionalità, stretta sui fuori ruolo collocati nei ministeri e negli altri enti pubblici. La bozza di decreto attuativo della riforma dell’ordinamento giudiziario, partorita da un gruppo di lavoro di 26 esperti nominato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, conferma l’impianto “punitivo” della delega approvata dal Parlamento a giugno 2022, su input dell’ex Guardasigilli Marta Cartabia. In particolare per quanto riguarda il “fascicolo per la valutazione del magistrato”, una nuova sezione del fascicolo personale di giudici e pm istituito presso il Consiglio superiore della magistratura, nella quale saranno inseriti dati e documenti necessari per valutare “il complesso dell’attività svolta, compresa quella di natura cautelare”, “la tempestività nell’adozione dei provvedimenti”, “la sussistenza di gravi anomalie in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi”. Il documento dovrà essere tenuto in considerazione dal Csm nel compilare le valutazioni di professionalità, a cui tutti i magistrati sono sottoposti a intervalli regolari per garantirne l’idoneità lavorativa: con due valutazioni negative di fila, infatti, la radiazione è automatica. L’introduzione del fascicolo nel disegno di legge delega è frutto dell’approvazione di un emendamento presentato da Enrico Costa, deputato di Azione noto per le sue iniziative anti-pm, ed è una delle principali ragioni che spinsero l’Anm (il sindacato dei magistrati) a indire una giornata di sciopero. Secondo le toghe, infatti, l’effetto sarà quello di “burocratizzare la magistratura, di gerarchizzare i singoli magistrati, di renderli attenti soltanto ai numeri e alle statistiche piuttosto che a rendere giustizia”, come diceva in un’intervista al Fatto il pm antimafia Nino Di Matteo. Avvertendo sui rischi: “Il pm sarà disincentivato a condurre indagini che portano alla celebrazione di processi il cui esito non è scontato. Il pm perfetto sarà quello che si limiterà a esercitare l’azione penale nei casi di assoluta evidenza della prova, magari solo nei casi di flagranza del reato o confessione del reo”. Il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, pronosticava che la riforma avrebbe prodotto “una coltre di conformismo giudiziario: giurisprudenza sclerotizzata, magistrati impauriti per evitare guai di carriera. Sai qual è l’orientamento della corte d’Appello? Fai una sentenza che piacerà. Conosci la giurisprudenza della Cassazione? Ti adegui. E ti costruisci un fascicolo immacolato”. Su questo aspetto per la verità la bozza prova a scongiurare il rischio, precisando che il rigetto delle richieste di un pm o la riforma delle decisioni di un giudice sono “indice di grave anomalia” soltanto “ove assumano (…) carattere di marcata preponderanza e di frequenza rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”; e che in ogni caso non costituiscono gravi anomalie “la riforma del provvedimento o il rigetto della richiesta determinata dalla decisione del magistrato motivata in difformità dal consolidato orientamento giurisprudenziale, che pure abbia dimostrato di conoscere e col quale si sia confrontato”. Una postilla che fa imbestialire Costa: “Bisognerà sballare almeno sessanta processi su cento”, si sfoga col Dubbio, denunciando un tentativo di “neutralizzare gli effetti della riforma”. Per il resto, la bozza dello schema di decreto legislativo introduce - confermando il contenuto della delega - il voto degli avvocati nei Consigli giudiziari, gli organi ausiliari locali nel Csm, sui pareri che vengono trasmessi a Roma per fondare le valutazioni di professionalità dei magistrati: per esprimerlo basterà che il Consiglio dell’Ordine del foro locale abbia fatto una segnalazione formale di “fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione”. Anche su questo aspetto le toghe avevano lanciato l’allarme: quello stesso avvocato che al mattino ha “difeso il suo assistito in un processo di omicidio o strage, il pomeriggio, al Consiglio giudiziario” verrebbe chiamato “a rendere il parere per la valutazione di professionalità di chi ha rappresentato l’accusa in quel processo o di chi ha emesso la sentenza”, avvertiva Di Matteo in audizione di fronte alla Commissione Giustizia del Senato. Infine, il testo riduce da 200 a 180 il numero massimo dei magistrati ordinari che possono ricoprire incarichi fuori ruolo nello stesso momento e porta da dieci a sette anni il periodo di tempo massimo in cui è possibile essere collocati fuori ruolo. Lo schema di decreto legislativo ora dovrà essere approvato da uno dei prossimi Consigli dei ministri, dopodiché dovrà essere trasmesso alle Camere per il parere obbligatorio prima dell’approvazione definitiva. La delega dovrà essere esercitata entro il 31 dicembre 2023: la scadenza originaria, fissata al 30 giugno, era stata posticipata di sei mesi su richiesta di Nordio. “Liberi di scegliere”, un futuro diverso per madri e figli che dicono no alla mafia di Francesca Barra L’Espresso, 27 agosto 2023 Le donne sono centrali nelle organizzazioni criminali. Quelle che decidono di allontanarsene spesso non sanno a chi rivolgersi. Perciò esiste un protocollo per proteggerle e sostenerle, senza necessità che collaborino. La testimonianza della magistrata Alessandra Cerreti. La mafia non è stata sconfitta. Le donne continuano a rivestire ruoli centrali nelle organizzazioni criminali e chi decide di non farne parte o di voler abbandonare la famiglia mafiosa, di smettere di essere schiava, di essere minacciata e obbligata a far rispettare i codici malavitosi e spesso a compiere reati a sua volta, non sempre sa a chi rivolgersi. Alessandra Cerreti, sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, è una donna impegnata in prima linea da anni anche con il protocollo “Liberi di scegliere”, un progetto che assicura alle donne e ai minori abusati una concreta e diversa scelta di vita. “Funziona: il protocollo è operativo dal 2013 e sinora al Sud si sono verificati più di ottanta casi in cui è stato adottato con esiti prevalentemente positivi. È meno noto al Nord, anche se a Milano lo abbiamo già applicato a una donna coniugata con un appartenente a Cosa Nostra siciliana. Se ne parla poco, perché, in generale, si parla meno di mafia, soprattutto al Nord. Il binomio donne e mafia è considerato un sub-tema. Tuttavia, queste ultime non sono sparite: anche nel Milanese, le nostre indagini rilevano vari ruoli delle donne che possono anche essere apicali”. Sono spietate, vendicatrici, vengono reclutate da altri settori criminali, diventano prestanomi e, una volta accertata la loro fedeltà, ambiscono a ottenere un upgrade: diventare un capo mafia. Al Nord le associazioni mafiose operano con modalità a volte differenti: la cellula mafiosa può essere composta da non appartenenti alla famiglia naturale, cosa più insolita nel meridione d’Italia. Hanno più bisogno di trovare soggetti esterni e li individuano in donne dedite al narcotraffico, all’estorsione, alla raccolta dei soldi, con un ruolo di controllo e di disciplina degli adepti. Vengono informalmente affiliate senza bisogno di rituali, con un’investitura di fatto”. Molte donne che hanno deciso di pentirsi o di diventare testimoni di giustizia lo fanno per proteggere i propri figli da un destino già scritto, ma i figli vengono anche utilizzati come ricatto da parte della famiglia per impedire alle madri di allontanarsi, di testimoniare. È l’aspetto più debole, ma al contempo può diventare una forza “perché genera quel desiderio di staccarsi per dare loro un futuro di libertà. Proprio a questo mira il protocollo: un passo in avanti rispetto all’ordinaria protezione dello Stato prevista per collaboratrici e testimoni di giustizia. Aiuta una donna ad andare via anche senza dover dichiarare nulla. Questa è la differenza eccezionale: la proteggeremo anche se non sa nulla o se non vuole parlare. La donna e il minore verranno protetti in una struttura, che li accoglierà con il prezioso supporto di “Libera contro le mafie”, con i medici, gli psicologi, gli insegnanti”. I minori spesso sono in pericolo: subiscono un indottrinamento sui valori mafiosi, vengono utilizzati per recapitare ambasciate al papà latitante e ricevono una contro-educazione senza conoscere un’alternativa. I rapporti tra la famiglia d’origine e il minore saranno ugualmente garantiti, ma protetti, come con i genitori che abusano o maltrattano e, a diciotto anni, una volta acquisiti strumenti culturali adeguati e non più crescendo in una bolla, potranno scegliere con libertà e maggiore consapevolezza. Liberi di scegliere diversamente. “Moderna, imprenditoriale, militare: vi racconto che cos’è la quarta mafia” di Vito Salinaro Avvenire, 27 agosto 2023 “La provincia di Foggia per troppi anni è stata avvolta in un cono d’ombra che ha investito ogni livello, a partire da quello mediatico. Una condizione ideale perché una nuova mafia, una quarta mafia, potesse crescere e affermarsi”. Preferisce la concretezza alla diplomazia il colonnello Michele Miulli, pugliese di Gioia del Colle, da 11 mesi comandante provinciale dei Carabinieri di una provincia, la Capitanata, tra le più difficili d’Italia. Non una scelta casuale, quella del comando generale dell’Arma, che ha inviato a Foggia, Comune tuttora commissariato per mafia, l’ex comandante del Reparto operativo di Milano. E che, pochi mesi dopo l’insediamento, con i suoi uomini, e sotto il coordinamento della Dda di Bari, ha perfezionato la più imponente operazione antimafia nella storia di questo territorio, denominata “Game over”, conclusa, poche settimane fa, con l’arresto di 82 persone: vertici, soldati e vedette della “Società foggiana”, la quarta mafia appunto. Colonnello, cosa intende per “cono d’ombra”? Nella conferenza stampa dell’operazione “Game over”, il procuratore distrettuale Antimafia di Bari, Roberto Rossi, ha parlato di una colpevole sottovalutazione del fenomeno mafioso, in questo territorio, da parte dello Stato. Credo siano parole condivisibili alle quali mi permetto di aggiungere un’altra considerazione. Anche i media nazionali non hanno dato al problema il giusto rilievo. Questa “assenza” non ci semplifica le cose. Che cos’è la Società foggiana? È un’organizzazione mafiosa priva di un vertice aggregante ma che ha una struttura interna compatta, basata sul familismo. Funziona su un modello federale, ha equilibri fluidi, utili a tessere alleanze con le altre mafie presenti nel Foggiano, a Cerignola come a Vieste, o a San Severo. È una mafia relativamente giovane, il suo primo riconoscimento risale al 1994 con il famoso maxi-processo Panunzio a 67 imputati. Ma, pur se giovane, è un’organizzazione evoluta, con spiccate capacità imprenditoriali, che fa un uso della forza spregiudicato, persino spettacolare. E che reinveste i profitti in attività imprenditoriali. Perché “Game over” è una pietra miliare contro la quarta mafia? Intanto per il numero delle persone coinvolte, poi perché abbiamo preso i capi dell’organizzazione delle tre storiche “batterie” che costituiscono la Società foggiana. Inoltre, perché è stato disvelato un sistema per la gestione monopolistica del traffico di cocaina, in analogia con quanto accade per le estorsioni, i due pilastri della Società foggiana. Ma il curriculum è ricco anche di omicidi, rapine, furti di autovetture finalizzati al riciclaggio, fino agli assalti ai furgoni portavalori che hanno un impatto quasi scenografico. Cioè? Sono vere e proprie azioni militari condotte da commando organizzati, esportate pure fuori dalla Puglia. Perché si arriva a uccidere? Si arriva ad uccidere quando saltano gli equilibri tra organizzazioni criminali diverse. A proposito di equilibri, l’operazione “Game over” dimostra proprio che prima delle ambizioni personali vengono gli affari. Non è così? Confermo. Queste tre batterie della Società foggiana, nonostante fossero in conflitto, hanno raggiunto un accordo con cui è stato costituito un “assetto multipartecipativo” del traffico di droga per condividere e spartire i profitti. È un’assoluta novità rispetto alle altre mafie, perché nessun’altra organizzazione mafiosa gestisce il traffico di stupefacenti in modo unitario. Il controllo del territorio passa quasi in secondo piano a vantaggio di equilibri economici. Che fine fanno questi sudati “proventi”? Oltre ai reinvestimenti imprenditoriali, i soldi della cassa comune servono a pagare stipendi e spese legali, e per sostenere le famiglie dei detenuti. Qual è stato lo spartiacque tra il “cono d’ombra” e la presa di coscienza, almeno a livello istituzionale, di un fenomeno così radicato? Senza dubbio la strage di San Marco in Lamis del 9 agosto 2017, in cui ci furono 4 morti, tra cui due vittime innocenti, i fratelli Luciani, due agricoltori uccisi perché testimoni di un agguato. Questo accese un faro sulla brutalità della mafia foggiana. Da allora la pressione dello Stato si è fatta serrata. Si sono susseguiti indagini, arresti, condanne, interdittive antimafia, fino allo scioglimento di più consigli comunali. La “Società” ha collegamenti con altre mafie? La nascita della mafia foggiana si deve proprio ad un’intesa con il boss camorristico Raffaele Cutolo. Il riferimento è all’incontro del gennaio 1979 all’Hotel Florio, sulla strada che collega Foggia a San Severo, che diede vita alla Nuova camorra pugliese. Poi, dopo una serie di vicissitudini, e dopo la creazione della Sacra corona unita, nata nelle carceri italiane, si registrarono guerre di mafia che hanno portato la Società foggiana ad affrancarsi dai legami con la camorra. Più recentemente sono documentate intese con la ‘ndrangheta e con organizzazioni estere, come la mafia albanese. Il territorio foggiano come vive questa presa asfissiante e tentacolare della mafia? Come le dicevo, dal 2017 l’azione dello Stato ha indebolito le strutture mafiose. E con noi hanno lavorato tanti attori della società civile, associazioni antimafia, Terzo settore, scuole, diocesi. Ma è un percorso da completare perché lo strumento repressivo non è risolutivo. C’è bisogno dell’apporto di tutti, ogni cittadino può metterci del suo schierandosi, testimoniando, facendo emergere il valore della presenza negli eventi antimafia. Questa assunzione di coraggio e di consapevolezza richiede un tempo di elaborazione. Ce lo insegna la storia. Abbiamo dovuto attendere le stragi di Capaci e di via D’Amelio di 31 anni fa, in Sicilia, prima che ci fosse un certo sollevamento popolare nei confronti di Cosa nostra. Forse anche qui dovrà trascorrere altro tempo. Non ne so misurare la congruità. Nel frattempo, è fondamentale seminare progetti di cultura della legalità. Un altro grande problema di questa provincia sono i ghetti dei migranti stagionali dove non esiste lo stato di diritto, e che Avvenire denuncia da anni… Nel territorio ci sono molti insediamenti abitati da migranti africani (Senegal, Guinea, Gambia, Mali) che vivono in baracche in condizioni di assoluto degrado, prima di tutto igienico-sanitario. È inaccettabile, a vederli così ti si stringe il cuore. Abbiamo arrestato imprenditori che, per poter lucrare, facevano dormire queste persone in edifici diroccati, a rischio crollo. Gli insediamenti più importanti sono il borgo Mezzanone, a Manfredonia, il ghetto di Rignano Garganico, a San Severo, e poi il Borgo Tre Titoli a Cerignola. Parliamo di 6-7.000 braccianti l’anno. Nel Foggiano ci sono 60.000 aziende agricole che operano su circa 5.000 ettari di superficie coltivata, è l’”orto d’Italia”. Un’economia importante, che si deve anche ai braccianti, che però guadagnano 5 euro a cassone, o 4 euro all’ora, per giornate che superano le 8 ore e con temperature anche superiori ai 40 gradi. Che cosa si fa per aiutarli? Oggi tutte le istituzioni, a partire dalla prefettura, sono impegnate a realizzare strutture dignitose, foresterie da destinare all’accoglienza temporanea. Uno dei progetti più importanti riguarda Borgo Mezzanone, coinvolge i Comuni di Foggia e Manfredonia, che usufruiranno anche dei fondi del Pnrr per riqualificare una serie di borghi e favorire un’inclusione sociale, affinché queste persone possano anche mandare a scuola i propri figli, accedere all’assistenza sanitaria, essere regolarizzati, un po’ come sta avvenendo nel Salento. Per alcuni progetti di riqualificazione è stato coinvolto anche il Politecnico di Bari. Da poco si è riusciti a trasferire in moderni moduli abitativi dei lavoratori migranti che si trovavano in un piccolo campo, a Stornara, reso celebre, due anni fa, per la morte di due bambini, seguita ad un incendio. E sul piano della repressione? Lavoriamo con i carabinieri dell’Ispettorato del lavoro per aggredire lo sfruttamento. Negli ultimi 12 mesi abbiamo raddoppiato le indagini, eseguito 26 misure cautelari e sequestrato 35 aziende, ora in amministrazione controllata. Quali reati contestate? Ricorrono con più frequenza l’intermediazione illecita, lo sfruttamento del lavoro, la tentata estorsione, la falsità ideologica. A volte un’indagine parte da un incidente stradale, quando per esempio ci imbattiamo in automezzi con braccianti. Spesso si tratta di veicoli modificati illegalmente per trasportare più persone. Ma il vero problema nella nostra attività è la mancanza di denunce. Il contesto non aiuta i braccianti… Nessuno di loro rivela di essere sfruttato. Ma attorno a loro vive un mondo di false autorizzazioni, false attività formative, falsa documentazione delle norme di sicurezza. I migranti non denunciano perché sono costretti a rivolgersi al “caporale” per lavorare e per essere trasportati sul luogo di lavoro. In questo senso, credo possa essere di grande aiuto per loro il supporto delle organizzazioni agricole e sindacali, oltre che degli imprenditori onesti. Chi sono i caporali? Spesso sono ex braccianti, in passato a loro volta sfruttati, che conoscono il territorio, la lingua, gli imprenditori, hanno confidenza con le pratiche documentali, e sono riusciti a dotarsi di una flotta di veicoli per trasportare braccianti. Se non ti rivolgi a loro non lavori. Hanno per così dire compiuto il “salto di qualità”. Ma lo ha fatto anche lo Stato. Cos’è la castrazione chimica che Matteo Salvini vorrebbe approvare in Parlamento di Simone Alliva L’Espresso, 27 agosto 2023 Dopo lo stupro di gruppo denunciato da una donna a Palermo torna una battaglia storica della Lega. Criticata da costituzionalisti, femministe e studiosi. E lo stesso Carlo Nordio nel 2019 la definiva un “ritorno al medioevo”. È una battaglia storica della Lega. Una soluzione spiccia che da sempre, sottoposta a sondaggio, risulta di forte gradimento agli italiani: castrazione chimica per gli stupratori. Non stupisce quindi che, sull’onda della legittima indignazione per lo stupro di Palermo, Matteo Salvini torni a parlare di questa formula. “Porteremo avanti in Parlamento il disegno di legge della Lega chiedendo di calendarizzarlo in commissione per votare e approvare al più presto una proposta di buonsenso” ha annunciato sui social il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. “Se stupri una donna o un bambino hai evidentemente un problema: la condanna in carcere non basta, meriti di essere curato. Punto”. Così il leader del Carroccio, convinto che rendere impotente con un’iniezione chi si sia reso colpevole di stupro sia una buona soluzione, torna alla “tolleranza zero” lanciata sin dal 2005. All’epoca era stato l’allora ministro per le Riforme istituzionali Roberto Calderoli, attuale ministro per gli Affari regionali e le Autonomie. Poi è arrivata la raccolta firme del 2009 della Lega, terminata con un nulla di fatto. Nel 2019 invece, in occasione della discussione del cosiddetto “Codice rosso” (legge che ha introdotto alcune modifiche nella gestione dei casi di violenza di genere) Lega e Fratelli d’Italia presentarono un emendamento specifico, poi respinto. Di cosa si tratta? La soluzione drastica che incontra l’opposizione di molti medici, costituzionalisti e anche femministe consiste in una terapia farmacologica a base di ormoni, a volte associata a psicofarmaci, che ha l’effetto di ridurre la produzione e il rilascio degli ormoni sessuali, come il testosterone, e di inibire l’azione della dopamina, portando a un conseguente calo del desiderio sessuale. In Italia il trattamento è riservato a gravi malattie in prevalenza di natura tumorale e può avere effetti collaterali specifici come la riduzione della massa muscolare, effetti negativi sul metabolismo osseo, osteoporosi, anemia. A leggere il disegno di legge della proposta firmata da Roberto Calderoli e presentata il 29 aprile del 2019 il colpevole di stupro, con sentenza passata in giudicato, in alternativa al carcere: “Può sempre chiedere di essere ammesso volontariamente al trattamento farmacologico di blocco andro­ genico o al trattamento di castrazione chirur­gica di cui al presente articolo”, Insomma: castrazione su base volontaria. I limiti - L’attuale ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel 2019 si era pubblicamente opposto alla soluzione leghista senza mezzi termini: “Ritorno al medioevo”. Dalle colonne del Messaggero scriveva che avrebbe sovvertito “completamente la struttura del nostro codice e della Costituzione” dove la pena ha una funzione retributiva e rieducativa: attribuire alla castrazione chimica una funzione retributiva significherebbe tornare “alla vecchia pena corporale” e per quanto riguarda la funzione rieducativa, essa si fonda “sul libero convincimento, non sull’effetto materiale di qualche molecola”. Senza contare il rischio di incostituzionalità. L’articolo 32 della Costituzione dice chiaramente che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Ma non solo. Come spiega al Corriere della Sera il segretario dell’associazione nazionale Funzionari di Polizia, Enzo Marco Letizia, “Il farmaco non incide sulla personalità e il soggetto può continuare ad avere fantasie sessuali e perciò aumentare la sua aggressività”, afferma Letizia. “È un’utopia che lo stupratore segua il protocollo medico. Questo farmaco va somministrato per via orale tre volte al giorno e appena si sospende la somministrazione il testosterone viene prodotto in maggiore quantità con l’aumento della libido del violentatore”. Della stessa opinione era Nordio: “Una volta esaurito il tempo di espiazione e “di cura” la pericolosità infatti riemerge, probabilmente potenziata dal noto effetto contrario conseguente all’interruzione della somministrazione del farmaco”. C’è poi un altro aspetto: il rischio di minimizzare la violenza sessuale e ricondurre la responsabilità della violenza non alla persona, ma al suo organo genitale. Su questo punto attacca dall’opposizione Cecilia D’Elia senatrice Pd, vicepresidente della commissione Bicamerale d’inchiesta sui femminicidi e portavoce nazionale della Conferenza delle democratiche: “Parlare di malati e per questo di castrazione chimica come fa Salvini, significa non aver capito nulla della violenza maschile contro le donne, che è un fenomeno strutturale radicato nella cultura patriarcale della nostra società di cui purtroppo sono imbevuti anche tanti giovani maschi ‘sani’ nel nostro Paese. Serve che la giustizia faccia il suo corso e aiuti le donne, ma soprattutto serve una rivolta culturale”. Il ministro Salvini tuttavia insiste su: “Quello che c’è già in via sperimentale in diversi Paesi al mondo, il blocco androgenico, ovvero la castrazione chimica, secondo me in via sperimentale anche in Italia potrebbe servire come dissuasione nei confronti di chi non definisco neanche bestie”. Dimentica di dire tuttavia che il Consiglio Europeo ha già condannato questi Paesi, in quanto, oltre ad essere una pratica lesiva nei confronti dell’integrità corporea dell’individuo, la castrazione chirurgica viene attualmente vista più come una “punizione” che come una prevenzione della recidiva, in un’ottica quindi più riparativa che riabilitativa: “Nessuna pratica coercitiva di sterilizzazione o castrazione”, si legge nella risoluzione 1945 del 2013, “può essere considerata legittima nel ventunesimo secolo”. “Il nostro sistema non brilla di civiltà. Ma poiché credo che in politica l’errore sia il peggiore dei crimini, credo che questa iniziativa debba esser fermata. Perché, appunto, prima di ogni altra cosa sarebbe un errore, forse fatale” a dichiararlo era sempre l’attuale ministro Nordio. “Non ha a che fare con un impulso sessuale irrefrenabile che si può contrastare con dei farmaci - spiega Antonella Veltri, presidente della rete dei centri-antiviolenza D.i.Re al IlPost.it - Lo diciamo da almeno trent’anni, ma le motivazioni della violenza maschile contro le donne stanno nella cultura. Serve un impegno responsabile, strutturale e trasversale da parte di tutti i soggetti coinvolti, in particolare su formazione e prevenzione. E servono finanziamenti”. Prevenzione e formazione. Di tutto questo per adesso, dal Governo, neanche l’ombra. Niente CD musicali per il detenuto al 41bis: potrebbe usarli come strumenti di aggressione di Vincenzo Giglio terzultimafermata.blog, 27 agosto 2023 Secondo la sentenza della Cass. pen., Sez. 1^, sentenza n. 35687/2023, udienza camerale del 23 maggio 2023, è legittimo negare l’autorizzazione all’acquisto di CD musicali e del relativo lettore a un detenuto sottoposto al regime ex art. 41-bis Ord. pen. se questi sia pericoloso e vi sia quindi il rischio che si serva dei dispositivi come strumenti di aggressione. Vicenda giudiziaria - Il tribunale di sorveglianza ha rigettato il reclamo (impugnazione) di XXX avverso l’ordinanza del magistrato di sorveglianza, con cui era rigettato il reclamo contro il diniego oppostogli dalla direzione dell’istituto di appartenenza alla richiesta di acquistare un lettore CD e dei CD musicali, sulla base del rilievo che l’autorizzazione all’acquisto può essere rilasciata esclusivamente per motivi di studio o lavoro, non anche per motivi di mero svago (l’ascolto di musica). Il tribunale di sorveglianza, discostandosi dalle argomentazioni del magistrato di sorveglianza, e in particolare ammettendo, in linea con la recente giurisprudenza di legittimità, che l’amministrazione penitenziaria possa consentire l’acquisto di CD musicali e l’uso dei relativi supporti, rigetta tuttavia il reclamo per la sussistenza di prevalenti ragioni di sicurezza. Motivi di ricorso per cassazione - Avverso tale ordinanza XXX ricorre per cassazione, tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo violazione di legge e motivazione apparente. Si duole che non sia stato svolto il giudizio di bilanciamento tra esigenze culturali del detenuto ed esigenze di sicurezza, peraltro a fronte di una sottoposizione non ancora definitiva al regime di sorveglianza particolare; e che il ragionamento del tribunale di sorveglianza sia errato e illogico, non avendo, invero, mai utilizzato oggetti per aggredire detenuti o agenti di polizia penitenziaria. Insiste, quindi, per l’annullamento dell’ordinanza impugnata. Decisione della Corte di cassazione - Il ricorso è inammissibile. Va premesso che, ai sensi del comma 4-bis dell’art. 35 bis I. 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. pen.), il ricorso per cassazione avverso la decisione del tribunale di sorveglianza sul reclamo giurisdizionale è consentito solo per violazione di legge. Va, inoltre, osservato che, in tema di regime penitenziario differenziato ex art. 41-bis Ord. pen., è legittimo il provvedimento dell’amministrazione penitenziaria di diniego dell’autorizzazione all’acquisto e alla detenzione di “compact disk” musicali e dei relativi lettori digitali, qualora, per l’incidenza sull’organizzazione della vita dell’istituto in termini di impiego di risorse umane e materiali, non sia possibile assicurare la messa in sicurezza di detti dispositivi e supporti (Sez. 1, n. 49280 del 28/09/2022, Rv. 283819). Orbene, il tribunale di sorveglianza evidenzia che la pronuncia richiamata dalla difesa nel proprio reclamo e precisamente la sentenza n. 14782 del 2/03/2022, nel rilevare che, se non può negarsi che l’Amministrazione penitenziaria possa consentire l’acquisto e l’uso dei CD musicali e dei relativi supporti, nel caso di persona sottoposta a regime differenziato il suo interesse culturale deve essere tuttavia bilanciato con le esigenze di sicurezza. Esigenze che nel caso di specie, secondo detto tribunale, impongono il rigetto dell’istanza avanzata dal detenuto. A tale riguardo rileva l’ordinanza in esame che costui è sottoposto altresì al regime di sorveglianza particolare di cui all’art. 14-bis lett. a), b) e c) Ord. pen. per la durata di sei mesi (con divieto di disporre del televisore, fornellino individuale, armadi con ante, specchi e di ogni altro soprammobile) e che dal relativo provvedimento emerge che lo stesso si è reso responsabile di svariate infrazioni disciplinari, passando dalla pronuncia di frasi offensive e minacciose nei confronti del personale penitenziario fino a gratuite e brutali aggressioni fisiche nei confronti sia di compagni di detenzione che di personale penitenziario, e che è un soggetto in grado di porre in essere comportamenti compromettenti la sicurezza o l’ordine degli istituti, e di entrare in contrasto anche con altri detenuti. Ritiene, pertanto, la fruizione da parte del detenuto del lettore CD e dei CD musicali per fini ricreativi nel caso in esame soccombenti rispetto a dette preminenti esigenze di sicurezza, considerando l’aggressività manifestata dal ricorrente indice di pericolosità significativo e tale da rendere altamente probabile che i CD, una volta spezzati, possano essere utilizzati da come oggetti atti ad offendere l’incolumità altrui. A tali argomentazioni scevre da vizi logici e giuridici, il ricorrente si oppone nei termini generici sopra riportati, lamentando un’apparenza motivazionale inesistente e sollecitando una rivalutazione di elementi fattuali, peraltro in un ambito in cui è ammesso il ricorso per la sola violazione di legge. Per queste ragioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Taranto. Detenuto morto in cella, giallo sulle cause: c’è l’ipotesi del suicidio Quotidiano del Sud, 27 agosto 2023 È giallo sulla morte di un detenuto nel carcere di Taranto, trovato privo di vita nella sua cella. Si tratta di un ragazzo di 28 anni. Sono confuse e contrastanti le possibili cause del decesso. Le notizie circolate nelle prime ore del mattino parlavano di impiccagione, poi di una morte improvvisa da probabile infarto. Da fonti interne al penitenziario, infine, si dava come probabile causa un’ingestione volontaria di farmaci. La certezza sarà data dagli approfondimenti medico legali disposti dalla Procura della Repubblica di Taranto prima di consegnare la salma ai famigliari. Il pm Rosalba Lopalco ha disposto l’autopsia. “Se sarà confermato un suicidio sarà il quarto dall’inizio dell’anno”, un primato “spaventoso che deve far riflettere” per il segretario nazionale del Sappe, sindacato autonomo della polizia penitenziaria, Federico Pilagatti che commenta a caldo la notizia appena appresa dai suoi colleghi di servizio ieri pomeriggio nel carcere ionico. Un luogo di pena da sempre al centro di polemiche e toccato da continue emergenze per le quali non si riesce a trovare una via d’uscita. Proprio ieri lo stesso sindacato autonomo aveva diramato un documento con l’ennesimo grido d’allarme degli agenti di custodia. Reggio Emilia. Un’isola abbastanza felice, rispetto ad altre realtà, nel carcere di Via Settembrini di Gabriele Gallo Il Resto del Carlino, 27 agosto 2023 La delegazione del Partito Radicale ha visitato il carcere di Reggio Emilia, riscontrando situazioni di eccessivo sovraffollamento e un organico sottodimensionato. Le condizioni igienico-sanitarie sono migliorate, ma c’è ancora scarsa possibilità di partecipare alla socialità del carcere. Un’isola abbastanza felice, rispetto ad altre realtà. Ma il carcere di Reggio le sue criticità le ha e c’è la ferma intenzione di vigilare, una volta che la struttura di via Settembrini tornerà a pieno regime, affinché non si verifichino nuove situazioni di eccessivo sovraffollamento. Questa, in sintesi, la valutazione complessiva fatta dalla delegazione del Partito Radicale, ieri in città per il consueto ciclo di visite ai penitenziari italiani. Un tour durato più di tre ore nel quale i quattro esponenti del movimento fondato da Marco Pannella e tutti membri del Consiglio Generale - Gemma Gasponi, avvocato del foro di Bologna, Monica Mischiatti, Silvia de Pasquale e Fausto Forti - hanno avuto modo di visitare le sezioni del carcere. “Premesso che si tratta di un penitenziario a gestione complessa, perché ha tante sezioni e di tipo diverso - afferma Gemma Gasponi - se mi chiede come abbiamo visto il carcere, le rispondo che vi abbiamo visto la speranza. La speranza che gli interventi strutturali previsti, che vanno a realizzare importanti migliorie dopo che per anni la struttura è stata a lungo abbandonata, siano un investimento per una decorosa vita quotidiana dei carcerati e degli operatori”. Anche la struttura carceraria reggiana non sfugge a un retaggio atavico del sistema italiano. “L’organico è sottodimensionato - precisa la Gasponi - la pianta organica prevedrebbe 210 agenti, ma in servizio ne risultano 140, e questo non va bene. Non è stato ancora nominato un vicedirettore, sicché il peso delle situazioni ricade tutto sulla direttrice, Lucia Monastero, la quale però ha la reggenza di altri due carceri. E questo non aiuta”. In tema di reparti viene segnalata una pulizia “più che decorosa” e spazi “non certo ampi ma, rispondenti alle norme di legge e dove i detenuti hanno maggiore spazio vitale rispetto, per esempio, a Bologna”. Nella nostra città, per capirci, “la maggior parte delle celle vede due ospiti, e dunque i parametri base sono rispettati, si sta più comodi che in altre realtà, insomma”. Il polo medico e sanitario, hanno valutato i Radicali, è invece un reparto dai due volti. “È organizzato in maniera adeguata per personalità e gestione delle competenze - dice Monica Mischiatti - è questo è un valore positivo. Ma proprio per questo qui vengono mandati detenuti da altre carceri, con un sovraccarico importante di lavoro”. La delegazione si è trattenuta parecchio nella sezione che ospita i condannati transessuali, unica in Emilia-Romagna: “Le ospiti sono contente per la pulizia e sono migliorate le condizioni igienico-sanitarie, lamentano però l’ancora scarsa possibilità di partecipare alla socialità del carcere e ad attività dentro il medesimo”. Viene portato ad esempio il laboratorio di falegnameria: “Ben attrezzato e al quale vengono affidate anche commesse esterne” e segnalato il disagio legato all’organizzazione di corsi da parte di operatori esterni: “È vero che i bandi regionali prevedono che si possano attuare solo in presenza di un determinato numero di iscritti, ma questo limita la possibilità di accedervi alle detenute donne (“appena” 11 a “La Pulce”, ndr). Teramo. Carcere stracolmo e senza servizi. “Struttura vecchia e inadeguata” di Veronica Marcattili Il Centro, 27 agosto 2023 I Radicali guidano la delegazione in visita all’istituto in cui ci sono 409 detenuti, ma ha posti per 255 Celle anguste e senza l’acqua calda, solo tre docce per ogni raggio. Ventilatori comprati dai reclusi Una struttura inadeguata, un sovraffollamento che sfiora il 160%, una carenza di personale cronica e percorsi di inserimento in società insufficienti. Questo è il carcere di Castrogno. A scattare la fotografia della casa circondariale teramana è il Partito radicale che anche quest’estate, come consuetudine, ha organizzato l’iniziativa “Agosto in carcere”: una delegazione di osservatori ieri mattina ha raggiunto l’istituto di pena per una visita alle sezioni, guidata dalla direttrice della struttura Lucia Di Feliciantonio e dall’ispettore Giuseppe Pallini, e un incontro coi detenuti. Subito dopo gli osservatori hanno fatto il punto sulle condizioni del carcere e dei reclusi. Condizioni difficili documentate anche da numeri che da soli, pur nella loro freddezza, bastano a far capire quanto la situazione sia al limite e lontana dagli standard di garanzia e rispetto dei diritti dei detenuti. La delegazione era composta dall’avvocato Manola Di Pasquale, dirigente del Pd, dall’avvocato Tommaso Navarra, presidente del Parco Gran Sasso-Laga, da Jacopo Di Michele, studente universitario, da Antonio Iacovoni, dirigente di Rifondazione comunista, da Giovanni Rosci e Marianna Di Addario della Casa del popolo e da Ariberto Grifoni, consigliere generale del Partito radicale. Castrogno ospita 409 detenuti, ne potrebbe accogliere 255; 110 sono stranieri, di diversi Paesi del mondo, ma la struttura non ha neppure un mediatore culturale. La popolazione carceraria è variegata: ci sono 324 detenuti comuni, 85 nella sezione di alta sicurezza; 249 hanno una condanna definitiva, mentre 109 sono in attesa di giudizio. Più della metà dei detenuti, per la precisione 252, ha problemi psichiatrici; 74 sono quelli con problemi di tossicodipendenza; 29 i disabili. Se questi dati restituiscono un profilo, sommario, su chi vive a Castrogno, altri numeri provano a raccontare il “come” si vive a Castrogno. E qui lo scenario si fa drammatico. La delegazione si è concentrata su spazi e servizi nella struttura, bocciando entrambi gli aspetti: ogni cella, di appena 9 metri quadrati, ospita due detenuti che hanno a disposizione un bagno con acqua fredda e non la doccia. Servizio, questo, in comune: ogni raggio ne ha tre. Poche, secondo gli osservatori, così come pochi e inadeguati sono gli spazi per la socialità e quelli all’aperto. Il carcere, hanno sottolineato in particolare Di Pasquale e Navarra, ha bisogno di significativi interventi: molti, soprattutto per gli impianti, sono stati chiesti da tempo dalla direzione, ma senza esito. “L’edificio, nato negli anni 70, è chiaramente una struttura non più rispondente a una serie di criteri di spazi e di rispetto dei diritti dei detenuti”, ha detto Navarra citando il materiale usato per la costruzione, i problemi legati alle temperature interne e l’organizzazione fisica delle celle. Quest’anno i detenuti hanno acquistato con fondi propri i ventilatori per far fronte al grande caldo e mensilmente versano tre euro per usarli: è uno degli esempi portati dagli osservatori per far comprendere come vi siano delle gravi criticità all’interno del carcere dove restano ancora pochi i sanitari in servizio stabile, i corsi di inserimento al lavoro e la collaborazione col mondo esterno. Parole di grande stima e ringraziamento sono state spese, dagli osservatori che hanno formato la delegazione, per gli agenti di polizia che in condizioni difficili gestiscono ogni giorno 409 detenuti. Viterbo. Mammagialla incubo dei medici: nessuno vuole lavorare al carcere di Mattia Ugolini Corriere di Viterbo, 27 agosto 2023 Nessun dottore viterbese vuole andare a prestare servizio nel carcere. Il 25 luglio scorso, in commissione Sanità, Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, è stato ascoltato alla Pisana. Anastasia ha esposto il quadro relativo all’assistenza sanitaria negli istituti penitenziari regionali, compreso quello di Viterbo, evidenziando le criticità collegate all’assenza di personale e, di riflesso, i disagi per i carcerati che necessitano di assistenza. “Inadeguatezza del nucleo di polizia penitenziaria preposto ad accompagnare i detenuti alle visite specialistiche all’esterno, carenza di personale medico e paramedico all’interno degli istituti penitenziari, gravi carenze nell’assistenza psichiatrica e scarsità di percorsi alternativi al carcere sul territorio”: queste le falle di cui ha parlato il garante, tutte ovviamente amplificate dal sovraffollamento delle celle. Nel dettaglio, Mammagialla è tra le carceri dove la situazione sanitaria è più critica. A rivelarlo è stata Simona Di Giovanni, direttore amministrativo della Asl di Viterbo: “Gli avvisi per l’assunzione di nuovo personale sono andati deserti. La teleradiologia e la telecardiologia sono già attive, ma non è possibile implementare altri ambiti per problemi legati alla fibra ottica”. Insomma, finora nessun dottore parrebbe disposto a prestare servizio nella casa circondariale viterbese. Da qui la ricetta proposta da Anastasia: “Occorre una riflessione - ha concluso il garante dei detenuti - per capire come si possa incentivare la presenza di personale, riconoscendo che la prestazione di servizio sanitario all’interno di un istituto di pena è obiettivamente la prestazione di un servizio in una sede disagiata e che quindi bisognerà trovare degli incentivi. Molti giovani medici o esercenti professioni sanitarie se possono scegliere se fare il medico o l’infermiere dentro un carcere o farlo sul territorio ovviamente scelgono di farlo sul territorio. Noi dobbiamo sapere che la scelta di lavorare in carcere, come alcuni fanno da anni, può diventare una vocazione ma in qualche modo deve essere incentivata”. Carestia di agenti penitenziari - Come noto, oltre alle difficoltà nel reperire i medici - i quali, a detta di altri dirigenti Asl del Lazio come il reatino Livio Bernardini, preferirebbero “fare la guardia medica” piuttosto che andare nelle carceri - Mammagialla da tempo fa i conti con una vera e propria carestia di agenti penitenziari. Gli addetti sono sempre meno e gli episodi di violenza all’interno del carcere denunciati dai sindacati di polizia proliferano. La Spezia. “Portare arte e teatro nelle carceri: non è impossibile, si può fare” di Elena Sacchelli La Nazione, 27 agosto 2023 Intervista al regista Enrico Casale che domenica 3 settembre presenta al Teatro degli Impavidi di Sarzana “La meraviglia dentro”. Si può portare la meraviglia dentro le mura del carcere? Questo il grande interrogativo che sta alla base di “La meraviglia dentro: storie di arte e di bellezza dalle carceri italiane”, l’incontro di ApprofonditaMente che domenica 3 settembre alle 9.45 si svolgerà al teatro Impavidi. Un argomento che senz’altro divide, quasi borderline, ma che grazie al coraggio di Benedetta Marietti quest’anno sarà sviscerato da più punti di vista da personalità che il mondo degli istituti di pena lo conoscono davvero da vicino, all’interno della più antica rassegna culturale multidisciplinare d’Italia. Tra i relatori dell’evento, oltre alla giornalista Marianna Aprile, al direttore dell’istituto penale minorile Nisida Gianluca Guida e agli sceneggiatori Maurizio Careddu e Cristina Farina, c’è anche l’attore e regista spezzino Enrico Casale che da anni è impegnato a “far entrare un po’ di meraviglia” all’interno della casa circondariale della Spezia con il progetto teatrale Per Aspera ad Astra. Una scelta coraggiosa. Non è affatto scontato che si parli di carcere e di detenuti in una rassegna così importante come il Festival della Mente. Indiscutibilmente però il tema negli ultimi anni è stato via via portato all’attenzione del grande pubblico grazie al fenomeno Mare Fuori. Quanto crede che la fiction di enorme successo abbia contribuito sulla scelta di far rientrare l’argomento, se vogliamo spinoso, nel Festival? “Una scelta davvero coraggiosa per cui ringrazio ancora una volta la direttrice Benedetta Marietti - spiega Enrico Casale-. Innanzitutto voglio chiarire che la fiction, così come l’ottimo prodotto cinematografico con Antonio Albanese “Grazie Ragazzi” che affronta proprio questa precisa tematica, anche per evidenti esigenze narrative, non rispecchia esattamente la realtà. Vivendola tutti i giorni ho paura che ci sia un’eccessiva romanticizzazione delle dinamiche interne. Nel film i detenuti che proprio grazie a un progetto teatrale riescono ad uscire dalle strette mura del carcere e a debuttare a teatro in giro per l’Italia sono scortati da solo due agenti. Assicuro che nella realtà non è così. Tuttavia, come si suol dire, l’importante è che se ne parli. Quindi se questi prodotti eccezionali hanno contribuito ad accendere l’interesse del pubblico sull’argomento è solo un bene”. Nella sua esperienza nel carcere spezzino si è mai meravigliato? E ha mai visto dei detenuti meravigliarsi? “Continuamente. Sia chiaro portare arte, teatro e quindi meraviglia all’interno di un carcere è come mangiare del pesce prelibato in un fast food. Gli istituti di pena sono luoghi che rifiutano la meraviglia e portare l’arte lì dentro può sembrare utopico. Ma le esperienze lunghe mi hanno insegnato che non è impossibile, si può fare. I detenuti approcciandosi a un testo o a un’opera che non conoscono si meravigliano, innanzitutto per la “nuova scoperta”, ma anche e soprattutto perché interpretando un ruolo possono immedesimarsi in un personaggio e immaginare di essere per qualche ora qualcun altro, viaggiando con la mente e planando al di fuori del carcere per raggiungere un altro posto. Ho visto accadere cose tristi, ma anche cose belle. Come degli ex detenuti che una volta conclusa la pena hanno continuato a fare teatro a livello amatoriale o un ragazzo che, mentre stava finendo di scontare la sua pena in una comunità, la sera anziché guardare la televisione ha iniziato a “insegnare” teatro, coinvolgendo gli altri ragazzi”. Lei viene dal mondo del teatro e fa parte dell’associazione “Gli Scarti”. Cosa lo ha spinto nel 2018 a voler collaborare con un istituto di pena con il progetto Per Aspera ad Astra? “Io lavoro da 12 anni con dei non attori. Ho lavorato anche con grandi attori sia chiaro, ma mi sono accorto lavorando ad esempio con le scuole, con gli anziani e con i disabili che proprio i “non attori” potevano dare al pubblico una verità che è difficile portare in scena anche per i professionisti, perché chi non mastica il teatro ha una capacità di meravigliarsi straordinaria. Questo modo di lavorare anche con gli outsider è diventano il marchio di fabbrica degli Scarti. Nello specifico il carcere è arrivato su proposta di Fondazione Carispezia e quando mi è stato proposto sono stato entusiasta. Confesso di aver avuto all’inizio un po’ di timore, non certo dei detenuti, ma mi spaventava il come poter fare a lavorare in determinate condizioni. Teniamo conto che il contesto in cui lavoriamo non è un luogo silenzioso e pacifico, ma ci sono il rumore delle chiavi, le celle che si chiudono, le grida di guardie e detenuti. Non è una passeggiata, ma è un’esperienza che lascia dentro tantissimo”. Milano. “Uno, Nessuno e Centomila”: detenuti in scena al Castello Sforzesco di Roberta Rampini Il Giorno, 27 agosto 2023 “Noi che da oggi...”, uno spettacolo teatrale ispirato a Pirandello, al Castello Sforzesco di Milano. Attori ex detenuti e non, uniscono le loro forze per abbattere pregiudizi e barriere. Un messaggio di accettazione di sé imperfetti, in una società che cerca l’approvazione degli altri. Abbattere barriere e pregiudizi sul carcere e sui detenuti con uno spettacolo teatrale: “Noi che da oggi…”, liberamente ispirato a “Uno, Nessuno e Centomila” di Luigi Pirandello, sarà di scena martedì 29 agosto alle ore 21 sul palcoscenico del Castello Sforzesco nell’ambito del cartellone “Milano è viva - Estate al Castello”, promosso dal Comune. Gli interpreti sono gli attori della compagnia Le Crisalidi del carcere di Milano-Bollate che fanno parte del laboratorio di teatro promosso dal 2020. “Torniamo al Castello Sforzesco per la seconda volta con un cast rinnovato - raccontano Serena Andreani e Beatrice Masi, della cooperativa che gestisce il laboratorio di teatro -, ci sono ex detenuti, alcuni ormai veterani del teatro, altri più giovani, che proseguono l’attività teatrale anche fuori dal carcere e continuano a coltivare quella che è diventata ormai una passione. E ci sono altri, esterni al mondo della detenzione, ma che aderiscono con grande entusiasmo ad un progetto integrato come questo. C’è chi, tra gli ex detenuti, vive proprio di teatro e si è cimentato negli anni anche in alcuni lavori di regia”. Una ventina di attori che dopo aver registrato il sold-out nel teatro del carcere lo scorso mese di marzo, ora sono pronti per il debutto in un luogo storico e amato dai milanesi e davanti ad un pubblico più numeroso. Lo spettacolo è stato scritto a più mani insieme agli attori, con luci e scene di Beatrice Masi, e porta sul palcoscenico una questione attuale che ruota intorno al concerto di identità, intesa come ricerca di se stessi, in un “fuori” che spesso ci identifica e ci vede diversamente da come ci vediamo noi. “In una società dove affermarsi in quanto individui sembra essere un’impresa difficile da raggiungere, ci si domanda se il continuo bisogno di approvazione da parte degli altri non sia in realtà un effimero tentativo di nascondersi da ciò che realmente siamo, arrivando alla consapevolezza e all’accettazione di essere individui imperfetti”, conclude Serena. La Costituzione sotto attacco e la lezione di Mattarella di Massimo Giannini La Stampa, 27 agosto 2023 Non penso di esagerare, se dico che quello di Sergio Mattarella al Meeting di Rimini è stato uno dei discorsi più importanti del suo doppio settennato. Molto più che un testo politico-sociale: un manifesto etico-morale. Il pensiero di un laico, ma che pesca a piene mani nelle fonti più profonde e feconde del cattolicesimo democratico, dall’”Appello ai liberi e forti” di Don Luigi Sturzo al “Con Dio e con la storia” di Giuseppe Dossetti. A leggerlo tutto, e con attenzione, viene davvero da rimpiangere la vecchia Dc, se chi la guidò negli ultimi anni della Prima Repubblica non l’avesse svilita a pura consorteria di potere e a comitato d’affari di sottogoverno. Un inno alla tolleranza, all’inclusione, all’amicizia. Che non è solo la risorsa a cui attingere per esprimere la nostra stessa umanità e per superare, tutti insieme, le barriere e gli ostacoli. Ma è anche la base spirituale e materiale che ha ispirato la nostra Assemblea Costituente e poi la nostra Costituzione. La Casa di tutti gli Italiani. L’unione e la condivisione tra i diversi. Il rispetto e la coesistenza delle identità plurali. Il patto che ci lega, incompiuto perché inattuato, nel quale abbiamo riassunto i valori in cui crediamo: la dignità e l’uguaglianza, la pace e la libertà. Con questo intervento, salutato dal tripudio di una platea da sempre troppo incline ad applaudire allo stesso modo santi e mascalzoni, il Capo dello Stato cala simbolicamente il sipario sull’estate pazza della “Nuova Destra”. Smaltiti i fumi alcolici del Papeete di Milano Marittima, i patrioti hanno scoperto i silenzi assordanti della Masseria Beneficio di Ceglie Messapica. Il rovente vuoto d’agosto è stato riempito dalle fuitine albanesi e dalle serate pugliesi della presidente del Consiglio che, non contenta di aver già ingaggiato i cognati, ha umiliato i Fratelli e auto-promosso le Sorelle d’Italia: Giorgia&Arianna, Io-Patria-Famiglia. Facendo fare un passo ulteriore al sistema politico italiano, che aveva già conosciuto il “partito personale” di Berlusconi e ora degenera nel “partito familiare” dei Meloni, dove tutto si decide nel condominio della Garbatella: per parentela e per cooptazione, con tanti saluti all’articolo 49 della Costituzione. Ma la quiete canicolare è stata sovrastata soprattutto dai deliri di un mediocre generale dell’Esercito che, astutamente “ispirato” e manovrato da ex colonnelli post-missini trombati dal partito, ha impapocchiato in un pamphlet di 356 pagine i peggiori luoghi comuni della bassa propaganda populista e nazional-sovranista. “Il mondo al contrario” è diventato in un mese il nuovo Libro Sacro del politicamente scorretto, dell’anti-wokismo destrorso che rivendica il “diritto all’odio”, e dunque odia gli omosessuali (detti “pederasti, invertiti, finocchi, sodomiti, froci, ricchioni...” e via via sproloquiando) perché “non sono normali, se ne facciano una ragione”, odia i migranti di cui cerca al tatto la pelle per capire “se è più o meno rugosa della nostra”, odia Paola Egonu perché “i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità”, odia le femministe perché “moderne fattucchiere” convinte che “solo il lavoro e il guadagno possono liberare le fanciulle dal padre padrone e dal marito che le schiavizza”. Avevamo capito che nella costruzione della tanto agognata “nuova egemonia culturale”, dopo la fase uno della macelleria in Rai, la famosa destra di governo si dedicasse alla fase due ripartendo da Montesquieu e Bergoglio, da Oriana Fallaci e Roger Scruton: e invece il Vate moderno è Roberto Vannacci. Un eroe, perché “vende più della Murgia”. Soprattutto un vero patriota e martire della libertà. Sia perché nelle sue vene, come scrive umilmente lui stesso, scorre “una goccia del sangue di Enea, di Romolo, di Giulio Cesare, di Dante… di Leonardo Da Vinci, di Michelangelo”. Sia perché la solita sinistra stalinista adesso vorrebbe purgarlo mettendo a tacere la sua “voce libera e forte” (forse proprio don Sturzo pensava a uno come lui, già in quel lontano 18 gennaio 1919). I nuovi adepti del culto vannacciano - come hanno scritto Giovanni De Luna e Gustavo Zagrebelsky, Flavia Perina e Annalisa Cuzzocrea - fingono di non capire che il “signor Vannacci” può pensare, dire e scrivere anche la più squallida delle nefandezze perché è un uomo libero, ma è il “generale Vannacci” che non può farlo perché appartiene alle Forze Armate e adempie ai suoi doveri secondo la Costituzione repubblicana. Ma così è, se vi pare. Il generale continua a straparlare e a sragionare. Magari “scende in campo”. Si permette persino di dare giudizi sul Capo dello Stato, che è anche Capo delle Forze Armate e dunque suo “superiore” in ogni senso. Salvini e La Russa, confermando che in questa fase se scommetti sul peggio vinci sempre, lo chiamano, lo blandiscono, lo difendono. Povera Patria, cantava Battiato. In questo sfacelo, vivaddio, è una salvezza che il presidente della Repubblica ristabilisca l’ordine delle cose. Ancora una volta, ma mai come stavolta, le parole di Mattarella ridanno senso alla convivenza civile. E rappresentano una “contro-narrazione” radicale e irriducibile rispetto alle imbarazzanti banalità del male che abbiamo ascoltato in questo mese di follie un tanto al chilo, che uccidono il vecchio buon senso in nome del nuovo senso comune. “Espellere l’odio come misura dei rapporti umani”. Sconfiggere le contrapposizioni ideologiche e l’invocazione di caratteri etnici, le ingannevoli lotte di classe e gli anacronistici nazionalismi. Garantire a tutti gli stessi diritti, inviolabili, come recita l’articolo 2 della Carta. Rimuovere gli ostacoli che impediscono a tutti i cittadini di avere pari dignità sociale, come aggiunge l’articolo 3. Risolvere i problemi in una “dimensione comunitaria”. Dove il noi vince sull’io, dove la solidarietà prevale sull’egoismo, dove “l’amicizia sociale” è l’orizzonte di un nuovo umanesimo, dove contano i “Fratelli tutti” di Francesco, non solo i Fratelli d’Italia di Giorgia. La pedagogia del Quirinale fa però adesso un ulteriore salto di qualità, che prelude già agli inevitabili conflitti istituzionali legati alle prossime misure del governo. C’è alle viste la manovra economica, sulla quale pende la mannaia della Commissione europea e sulla quale rischia di fallire miseramente la logica “a pacchetto” sognata dalla premier (noi cediamo sul Mes, voi ci fate sconti sul Patto di Stabilità). C’è il decreto migranti, sul quale torna ad accanirsi il “cattivismo” fascio-leghista e sul quale Mattarella fissa un paletto personale prima ancora che costituzionale: “Nello studio dell’appartamento dove vivo al Quirinale ho collocato un disegno che raffigura un ragazzino, di 14 anni, annegato con centinaia di altre persone nel Mediterraneo… nella fodera della giacca aveva cucita la sua pagella, come fosse il suo passaporto, la dimostrazione che voleva venire in Europa per studiare…”. Quel ragazzino, e come lui tutti quelli che arrivano sulle nostre coste, sono “persone”, con “i loro progetti, i loro sogni, il loro futuro, tante volte cancellato”. Il Consiglio europeo ha le sue responsabilità, naturalmente, ma il governo italiano si vorrà far carico di quelle persone, garantendo loro “ingressi regolari” e “un inserimento lavorativo ordinato”, oppure continuerà a fare la faccia feroce, stringendo ancora le maglie dei permessi umanitari e sfasciando la rete di sicurezza delle Ong? Ma il vero terreno di scontro tra il Colle e la destra, fatalmente, sarà la stessa Costituzione. E quel che è successo durante e dopo il Festival riminese lo conferma. Come ha sottolineato Ugo Magri (e pochi altri hanno colto), in chiusura della sua lectio magistralis Mattarella ha citato un passaggio di un altro discorso di Dossetti, quello tenuto a Parma nel 1985: “Non abbiate prevenzioni rispetto alla Costituzione del ‘48 solo perché opera di una generazione ormai trascorsa… La Costituzione americana è in vigore da 200 anni, e in questi due secoli nessuna generazione l’ha rifiutata o ha proposto di riscriverla integralmente… È proprio nei momenti di confusione, o di transizione indistinta, che le Costituzioni adempiono alla loro funzione più vera: cioè quella di essere, per tutti, punto di riferimento e di chiarimento. Cercate quindi di conoscerla, di comprendere in profondità i suoi principi fondanti, e quindi di farvela amica e compagna di strada… Vi sarà presidio sicuro, nel vostro futuro, contro ogni inganno e contro ogni asservimento…”. Come Dossetti allora, anche Mattarella oggi si rivolge ai giovani. Ma in realtà il suo è anche un avviso ai patrioti, che intorno alla Costituzione trafficano e si accingono a banchettare allegramente. Non può essere un caso se, sul discorso di Mattarella, Meloni non ha speso un solo tweet. Anzi, quasi per marcare le distanze, ha voluto postare una sua foto con un “altro presidente”, non l’italiano ma la ungherese Katalin Novàk. E poi, segnale ancora più inquietante arrivato sempre dal Meeting di Cl, la coalizione annuncia l’accordo sulla nuova “Grande Riforma”, che non sarà più il presidenzialismo alla francese ma il “premierato forte” all’italiana. Cioè il rafforzamento dell’esecutivo e l’elezione diretta del presidente del Consiglio. È questa, in fondo, la vera risposta a Mattarella: una forma di governo che destabilizza lui e depotenzia il Parlamento. Una “contro-narrazione” uguale e contraria rispetto a quella del Capo dello Stato. Come ha scritto Lucia Annunziata, Meloni scimmiotta le manipolazioni del reale di Trump. E ora minaccia di terremotare il sistema, nascondendo la sua debolezza politica dietro a un atto di forza apparente. Siamo solo agli inizi di una contesa che esploderà, inevitabilmente, perché questa “coabitazione” precaria non può durare. La presidente del Consiglio dovrà decidere come cavalcare l’onda sfascista del caso Vannacci e se assecondare il modello Checco Zalone di “Sole a catinelle”, che spara le sue clamorose supercazzole qualunquiste incassando la standing ovation finale al grido “Grazie, pancia del Paese!”. Ma anche per il Presidente della Repubblica verrà il tempo delle scelte: di fronte ai fatti compiuti, purtroppo, non basteranno più né la moral suasion né le “prediche utili” e bellissime come quella di Rimini. L’esercito dei lavoratori poveri, sfruttati per stipendi da fame: “Vivere così è impossibile” di Simone Alliva e Chiara Sgreccia L’Espresso, 27 agosto 2023 Sono 3 milioni in Italia, tra i Paesi in Europa che ne ha di più. Hanno età diverse e forme contrattuali tra le più varie. Chi prova a protestare viene licenziato e descritto come viziato nel dibattito pubblico. Ecco le loro storie. Valeria, diciassette anni, studentessa brillante del liceo ci porta dentro la sua estate che racconta di un Paese che non dà un posto nel mondo del lavoro perché quel posto non c’è. O, se c’è, è mal pagato. “Lavoro in uno stabilimento balneare: 30 euro per 4 ore al giorno, senza day off, da giugno a settembre”. Sono 7,5 euro l’ora, in nero, anche se tutti i documenti per l’assunzione sarebbero pronti e la visita medica già fatta. “Il proprietario aspetta che arrivino i controlli per regolarizzarci. Finché nessuno lo scopre si va avanti così”. Assieme a lei, altre due amiche servono colazioni e gelati alle stesse condizioni. Pochi metri più avanti, sempre lungo la Riviera che costeggia il Monte Conero, nelle Marche, Luca lavora come bagnino “di terra”: “Se faccio i conti viene fuori che guadagno meno di tre euro l’ora: arrivo alle 7.30 stacco verso le 20. Per mille euro al mese monitoro la sicurezza dell’area e dei bagnanti, accompagno i turisti agli ombrelloni che ogni mattina apro e la sera chiudo. Ho un contratto regolare ma le ore lavorate sono molte di più rispetto a quelle previste”. Non è il solo. Francesco, Marco, Andrea hanno appena iniziato a lavorare come camerieri in un ristorante sulla spiaggia lungo la costa tra Lazio e Campania. “Per giugno e settembre abbiamo un contratto a chiamata, per luglio e agosto quello a termine, la paga oraria è di 6 euro l’ora per 4 ore al giorno. Quelle in più ci vengono pagate fuori busta”, racconta Andrea che ha appena compiuto vent’anni. Studia all’università, abita con i genitori, vuole approfittare di parte delle vacanze per mettere qualche soldo in tasca e magari per pagarsi lo svago nelle settimane che restano, per questo non denuncia. A differenza di Sara, trentenne a cui è stato proposto di lavorare come cameriera in una pasticceria di Cerenova, sul litorale romano, per circa 200 ore al mese con uno stipendio di mille euro. “Questo è sfruttamento: quasi 5 euro l’ora. Senza alcun genere di pausa. Anche andare al bagno è un lusso e naturalmente non ti passano nulla da mangiare, nonostante gli orari lo prevedano”, è lo sfogo sui social riportato da Today.it. “Il contratto l’ho rifiutato anche se ho bisogno di lavorare. Ma alla soglia dei 30 anni sono stufa di fare la serva”. I lavoratori poveri, quelli che pur avendo un’occupazione non riescono a guadagnare il necessario per arrivare alla fine del mese, sono almeno 3 milioni in Italia, secondo Eurostat, anche se è difficile avere un dato preciso perché dipende dai criteri utilizzati per definirli. La realtà, ben al di sotto della soglia di salario minimo a 9 euro, su cui la politica si è presa altro tempo, racconta che al di là delle statistiche il variegato mondo del lavoro è fatto di giovani che in nome di un introito estivo sono disposti ad accettare paghe da fame, quaranta-cinquantenni che non hanno altra scelta e accettano ogni tipo di contratto, anche quelli pirata, partite Iva obbligate a lavorare come dipendenti se vogliono tenersi il posto, lavoratori irregolari, per una parte o per il totale. Il che fa schizzare i numeri in alto. Quella del “working poor” non è una categoria omogenea eloquente. Non ha un’età precisa, non guarda solo a una generazione, non risponde a una determinata fetta di mercato e competenze. Ma è flessibile e penetrante. Basti guardare al dato Inps per ritoccare al rialzo le stime di Eurostat. Secondo l’istituto di previdenza solo i dipendenti con un reddito annuo lordo inferiore ai 12 mila euro, considerata la soglia di retribuzione minima, sono almeno 4,6 milioni. Così, mentre siamo distratti da una politica che discute di pensioni e di tasse e che spesso parla a chi il lavoro ce l’ha o ce l’ha avuto, è nel sommerso, invece, o grazie al lavoro grigio che sopravvive, a stento, il Paese. “L’Italia soffoca sotto il peso del lavoro che non permette a chi lo fa di uscire dalla soglia di povertà, cioè di avere abbastanza soldi per arrivare a fine mese”, spiega Emanuele Felice, professore ordinario di politica economica all’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara: “Il nostro è il quarto Paese per lavoro povero in Europa e l’unico tra quelli Ocse ad aver registrato un valore negativo nella variazione dei salari medi tra il 1990 e il 2020. Questo succede perché manca una politica industriale strutturata, manca una strategia a lungo termine e investimenti in innovazione e ricerca: l’occupazione cresce in settori come ristorazione e turismo che sono quelli in cui i salari sono più bassi e il lavoro irregolare più diffuso, trasformando l’Italia in un territorio sempre più povero, che si allontana dagli standard degli altri Stati avanzati, mentre i laureati si trasferiscono all’estero”. Chi resta riempie le fila del lavoro precario e sottopagato: “Ma io devo vivere con 750 euro? Non mi ci pago neanche l’affitto, non ci vivo”, aveva denunciato sui social Ornela Casassa, ingegnera ventottenne a cui era stato proposto un posto a 900 euro al mese con partita Iva per lavorare come dipendente. “Guadagnavo cinque euro e ottanta l’ora inquadrato come guardasala anche se per la maggior parte del tempo spiegavo ai visitatori le opere in esposizione”, racconta Marco, laureato in storia dell’arte, ex dipendente del Chiostro del Bramante: “Avrei dovuto fare 16 ore al mese, invece erano in media 120. Non ero l’unico in questa condizione, la maggior parte era messa come me”. Dai dati emerge che i lavoratori poveri sono soprattutto under 30 e donne. Che vivono al Sud o nelle isole dove le paghe si abbassano fino all’inverosimile: “2,5 euro all’ora, in nero, per fare la babysitter”, ha raccontato a Fanpage Emanuela dalla periferia ovest di Napoli; “280 euro al mese per 10 ore al giorno per lavorare come commessa”, è lo sfogo di una ventiduenne sempre dal capoluogo campano. “Voi giovani non avete voglia di lavorare”, le risponde la titolare del negozio. Come evidenzia il Geography Index dell’osservatorio JobPricing, c’è un forte squilibrio in termini di stipendio a parità di ruolo e di esperienza professionale sia a livello regionale sia a livello provinciale. Queste differenze sono ulteriormente accentuate da fattori esogeni al mercato del lavoro, quali, per esempio, il costo della vita, gli investimenti pubblici, le infrastrutture e i mezzi di trasporto. Ne deriva che fra Nord e Sud, in media, il delta retributivo raggiunge il 17 per cento. Una differenza che diventa ancora più significativa, quasi il 52 per cento, se si confronta la provincia di Milano, con la retribuzione media più elevata d’Italia, con quella di Ragusa, con la retribuzione in media più bassa. A essere pagati meno del necessario per vivere una vita dignitosa, però, non sono soltanto gli under 30: Corrado ha 49 anni, rider di Cagliari. È assunto a tempo indeterminato da Just Eat per 10 ore alla settimana, “e per il tempo che mi resta lavoro come autonomo per gli altri food delivery. Accedo alle app e aspetto che mi vengano assegnate le consegne. Alla fine, lavoro 9-10 ore al giorno per 5 giorni alla settimana e guadagno sui mille euro al mese, puliti. Meno di 4 euro a consegna. Riesco a viverci solo perché ho una casa di proprietà”. Vale lo stesso per Enrico che ha 50 anni, conducente di scuolabus da 24 per una ditta privata che ha vinto la gara d’appalto con il Comune di Cerveteri. Ha un contratto a tempo indeterminato ma guadagna 950 euro solo per 9 mesi: “Durante l’estate non percepiamo lo stipendio. Il contratto nazionale a cui facciamo riferimento è quello degli autoferrotranvieri. Non ne abbiamo uno nostro. Siamo impegnati tutto il giorno dalle sette di mattina alle cinque di pomeriggio, abbiamo la responsabilità del mezzo, qualsiasi danno ci viene imputato in percentuale, e dei bambini che portiamo a bordo. Ma non ci viene riconosciuto niente di tutto questo: stiamo tre mesi senza indennità e il primo stipendio completo lo prendiamo a novembre, relativo al lavoro svolto a ottobre”. Paghe da fame, turni pesanti, lavoro precario in cooperative finte e subappalti selvaggi sono caratteristiche che rendono infernale anche la vita dei vigilanti privati: “La nostra retribuzione era già bassa. Adesso non arriviamo più a fine mese. Non abbiamo soldi neanche per comprare i libri che servono per la scuola ai nostri figli”, è lo sfogo degli addetti alla vigilanza dell’Università Sapienza di Roma raccolto da L’Espresso. Cinquanta lavoratori che all’improvviso avevano visto il loro stipendio, nonostante gli anni di servizio, ridursi drasticamente. Perché, come conseguenza di un cambio d’appalto, s’era trasformata anche la tipologia del contratto d’assunzione: da multiservizi a vigilanza privata e servizi fiduciari, il contratto nazionale noto per le sue retribuzioni “al di sotto della soglia di povertà”, come hanno sancito diversi tribunali. “È complicato avere relazioni umane quando non si hanno tempi di vita conciliabili con il resto della società”, spiegava, infatti, Matteo. Che lavora come vigilante armato 173 ore al mese spalmate su 27 giorni, con 4 giornate di riposo e otto domeniche libere l’anno. Per uno stipendio di 1.120 euro netti al massimo della carriera, con 26 anni di lavoro alle spalle: “I colleghi più giovani non arrivano a 700”. L’articolo 36 della Costituzione sancisce il diritto a una retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Ma in troppi casi non succede: alcuni contratti nazionali anche se firmati dalle principali sigle sindacali, come nel caso di quello della vigilanza privata, prevedono paghe inferiori alla soglia di povertà. Inoltre l’Italia è il Paese dei contratti scaduti e quindi inadeguati all’inflazione attuale, non aggiornati sulla base del costo della vita che aumenta. Ma soprattutto esistono contratti nazionali sottoscritti da sigle di rappresentanza minori o fittizie pensati più per ridurre i costi per le aziende che per tutelare i lavoratori. Creano dipendenti di serie b e che a parità di mansioni guadagnano molto meno di quelli tutelati dagli accordi siglati dai sindacati principali: i contratti pirata proliferati negli ultimi anni a causa della mancanza di regole chiare, che sono difficili da arginare visto che anche le sentenze emesse dai tribunali non si traducono in un azzeramento del contratto ma valgono solo per il lavoratore che ha fatto causa. “Una serie di studi ha evidenziato che sono i lavoratori sottoposti a forme contrattuali atipiche quelli con più difficoltà a raggiungere un reddito sufficiente alla sussistenza. Penso soprattutto ai rider e agli shopper, ossia chi consegna la spesa a domicilio. Vivono una condizione sostanziale di lavoro a cottimo, a volte con paghe inferiori ai 4 euro l’ora, resa possibile da “contratti” che sono ritenute d’acconto. Questi lavoratori, invece, dovrebbero essere inquadrati come dipendenti visto che nella realtà le loro prestazioni sono interamente gestite dalle piattaforme”, spiega Andrea Borghesi, segretario generale NIdiL Cgil: “Succede perché in Italia ci sono troppe forme contrattuali, generano caos e portano le imprese ad approfittarne. Anche per questo è importante il dibattito che si è aperto sul salario minimo, che deve estendersi anche alle forme di lavoro che non sono subordinate”. A condividere l’iniziativa di legge sul salario minimo anche il professor Felice: “I contratti che prevedono paghe basse sono più una conseguenza della situazione che la causa. Bisogna cambiare la politica industriale per tornare a crescere. Nel frattempo, però, le leggi servono per evitare lo sfruttamento: in Italia il lavoratore viene visto come un peso. Non come una risorsa. Non si investe più sulla persona che diventa facilmente sostituibile, le mansioni che deve svolgere sono relativamente semplici, il Paese non si specializza e diventa sempre più povero e più diseguale. Non possiamo competere con il resto del mondo ribassando i salari, dobbiamo puntare sulla qualità del lavoro”, sentenzia l’economista senza mezzi termini. Nell’inferno di Parco Verde a Caivano “la scuola è latitante” di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 agosto 2023 Parla Bruno Mazza, dell’associazione “Un’infanzia da vivere”. Le due cuginette stuprate dal branco seguite dallo psicologo, insieme alle famiglie. Nell’inferno di Parco Verde a Caivano (Na) - come lo ha definito la madre di una delle due cuginette stuprate a più riprese da un branco di adolescenti dai 13 ai 19 anni - c’è ora, dopo che la notizia è diventata di pubblico dominio e dopo l’allontanamento delle due tredicenni dalle famiglie di provenienza disposto dal tribunale dei minori, un “clima di morte e di deserto”, come riferisce Padre Maurizio Patriciello, parroco locale che ieri ha scritto alla premier Meloni invitandola a visitare quel quartiere dove, dice, “sarebbe bello se lo Stato fosse più presente”. Le inchieste della magistratura (due, una riguardante i presunti colpevoli minorenni e l’altra l’unico maggiorenne del gruppo) si allargano a più giovani di Parco Verde. Potrebbero essere coinvolti fino a 15 ragazzi, alcuni dei quali legati a esponenti di spicco della camorra. Le due piccole vittime, trasferite in una casa famiglia, sono state inserite in percorsi di sostegno anche psicologico, con l’obiettivo di reintegrarle progressivamente nei loro nuclei familiari, ritenuti attualmente dal giudice poco accudenti nei confronti dei figli. Anche la segretaria del Pd Elly Schlein ha chiesto via social alla presidente Meloni “di lasciare da parte lo scontro politico su questo tema, e lavorare insieme per fare un grande investimento culturale sull’educazione alle differenze sessuali sin dalle scuole”. Peccato però che a Caivano l’obbligo scolastico sia solo sulla carta, come ha testimoniato ieri su queste colonne anche la stessa avvocata Antonella Esposito, legale della madre di una delle due ragazzine violentate. E come conferma anche Bruno Mazza, fondatore nel 2008 dell’associazione “Un’infanzia da vivere”, sorta tra le piazze di spaccio di Parco Verde “per dare ai bambini l’opportunità che nessuno ha dato a noi”. Mazza, 42 anni e 12 passati in carcere racconta: “A 11 anni ho perso il padre e da quel momento non sono stato più il bambino di prima. La strada ha sostituito la scuola, la droga era ed è dappertutto, h24, ed è l’unica cosa che non manca mai qui. Ma nessuno è mai venuto a casa mia, allora, a cercare di capire perché, a darmi una mano. E ancora oggi è così: genitori inadeguati e senza mezzi culturali dicono ai figli “vai nella giungla e salvati da solo”. E non è vero che i dirigenti scolastici vanno a prendere a casa i ragazzi che hanno abbandonato la scuola. Qualcuno ha fatto finta davanti a una telecamera, e ha postato un video. Ma è stato girato di domenica”. Secondo Mazza, che ha scontato 12 anni di carcere per rapine che eseguiva “vestito da poliziotto” (“tutti sapevano chi eravamo, comprese le forze dell’ordine, ma lasciavano fare”, arriva addirittura ad affermare), la collusione con la camorra a Parco Verde è generalizzata. “Abbiamo denunciato istituzioni, poliziotti e pure sacerdoti. Per questo motivo mi hanno incendiato due furgoni e devastato la sede dell’associazione”, racconta. “Qui - continua Mazza che come un fiume in piena inonda di parole la cronista, troppe e troppo a lungo tenute per sé - i dirigenti scolastici si candidano in politica, con tutti i partiti, mentre ai bambini viene rubata l’infanzia. Madri alcolizzate, papà drogati, scuole assenti: il fallimento è di tutti gli adulti. Senza nulla togliere alla terribile responsabilità personale di chi stupra una donna o una ragazzina”. Mazza aveva la quinta elementare, quando è entrato in carcere. “Cosa mi ha salvato? Lo studio. Leggere, studiare, capire. Mi sono diplomato in carcere, ma ho il rammarico di non aver capito prima, perché nessuno me lo ha mai spiegato, che quella era l’unica salvezza”. E a chi, come la ministra della Famiglia Eugenia Roccella, addita la “nuova pornografia, sempre più violenta e umiliante nei confronti delle donne”, Mazza risponde: “Può darsi, ma qui i ragazzi assorbono i comportamenti devianti in famiglia, prima ancora che in strada”. Migranti. Caritas: “Basta parlare di emergenza, ora un tavolo nazionale col governo” di Paolo Lambruschi Avvenire, 27 agosto 2023 Appello sull’accoglienza: “Il momento è difficile - spiega il direttore, don Pagniello - dobbiamo confrontarci e ragionare tutti insieme. Se ognuno va da sé non ne usciremo”. Un confronto aperto e a diversi livelli - con il governo, i comuni, le regioni e le altre reti del terzo settore impegnate nell’accoglienza - che permetta di affrontare la questione dei migranti in modo strutturale e non emergenziale. Lo chiede Caritas italiana al governo proprio mentre inizia l’ultimo mese di una estate che vede gli sbarchi toccare quota 106.000, più del doppio dell’anno scorso, mentre sale a 85.000 circa il numero delle persone accolte nel sistema italiano. Da settimane, comuni e regioni sono in difficoltà a reperire posti letto per i migranti. In alcuni comuni sono state addirittura montate tendopoli, si fatica a trovare spazi. Da parte sua la Chiesa è sempre in prima linea sul fronte dell’accoglienza e della promozione di percorsi di integrazione. “In diversi territori - spiega don Marco Pagniello, direttore di Caritas italiana - sono sempre più pressanti le richieste che giungono da parte delle Autorità perché la rete ecclesiale metta a disposizione altri spazi. La Chiesa che è in Italia si impegna al massimo delle sue possibilità, mettendo a disposizione strutture idonee, personale e volontari per aiutare le persone oltre quello che la convenzione stessa chiede”. Possiamo dare delle cifre? Tra le accoglienze dei migranti nei centri, quelle delle famiglie ucraine - che spesso non sono accolte ufficialmente - e le persone arrivate attraverso i corridoi umanitari, universitari e lavorativi, la rete ecclesiale nazionale, in questo momento, sta ospitando circa 20.000 persone. Possiamo dire che è sicuramente quella che in Italia ha fatto e sta facendo di più. Ma siamo in emergenza o no? Sulla questione migratoria non possiamo più parlare di emergenza poiché ormai il fenomeno è sistematico. Siamo tuttavia in un periodo “di picco”, come dimostra l’alto numero di arrivi dall’inizio dell’anno. Il tema è complesso e deve essere affrontato insieme all’Unione euroepa e con una più stretta collaborazione tra Stato, Chiesa e realtà della società civile, in un’ottica di solidarietà e sussidiarietà. E come? Al meeting di Rimini venerdì scorso il presidente Mattarella ha dichiarato che i fenomeni migratori vanno affrontati, muri e barriere non li cancellano. E ha parlato degli ingressi regolari come via per combattere il traffico di esseri umani... In questi anni abbiamo promosso con i fondi dell’otto per mille i corridoi umanitari e poi quelli universitari e lavorativi come vie alternative, sicure e legali rispetto ai barconi e alla rotta balcanica per governare il flusso dei profughi in fuga da guerre e persecuzioni. Per i migranti economici in fuga dalla miseria, oltre all’ingresso di immigrati regolari, sarebbe utile ampliare i fondi per la cooperazione, ad esempio con la campagna 0,70 per aiutare lo sviluppo soprattutto in Africa. Dove la situazione purtroppo non parla di pace a partire dal Corno, dal Sudan e poi nel Sahel. Prima di parlare di rimpatri, garantirei - come ha ribadito il Papa nel discorso per la prossima Giornata del migrante - il diritto fondamentale, la libertà di scegliere anche di restare a casa propria. E sull’accoglienza? La nostra esperienza dice che si può e si deve uscire da questa logica dell’emergenza anche nell’accoglienza. La complessità del fenomeno migratorio si può affrontare in maniera sistematica. Dunque Caritas italiana è disponibile a collaborare? Certo, con questo governo come con tutti gli altri. Ma occorre cambiare metodo. La nostra proposta è quella di un confronto aperto e a più livelli che possa aprire a forme positive e propositive. Ad esempio, attraverso un tavolo di lavoro permanente e continuo con il governo a cui partecipino la rete ecclesiale, le realtà del terzo settore, l’Anci, le regioni così che il problema venga affrontato in chiave nazionale, facendo tesoro di quanto sperimentato anche a livello ecclesiale. Occorre ragionare tutti insieme per concordare soluzioni efficienti, a partire dal reperimento degli spazi idonei per accogliere dignitosamente queste persone. Da parte nostra questo comporta una maggiore assunzione di responsabilità, ma da parte di chi governa occorre il coraggio di superare la logica emergenziale per accogliere bene favorendo ad esempio il ritorno dell’accoglienza diffusa. Alla quale è stato inferto un colpo letale nel 2018, ma sulla quale soprattutto i piccoli comuni erano e sono contrari... Se in un centro di 500 abitanti arrivano 10 minori stranieri non accompagnati li capisco, rischiano di andare in bancarotta. A maggior ragione, un tavolo di lavoro che coinvolga diversi attori può favorire un migliore coordinamento e aiutare a redistribuire in modo efficace quanti hanno bisogno di ospitalità. Dobbiamo confrontarci e ragionare tutti insieme, se affrontiamo la complessità del fenomeno separatamente, ciascuno con il proprio punto di vista o solo per gestire una fase di picco o per cercare sistemazioni abitative in una determinata provincia, non ne usciremo. Il momento è difficile. Pensiamo, ad esempio, a quanto la questione Covid abbia inciso sulla spesa sanitaria delle regioni. Ma più continuiamo a dividerci e meno riusciremo ad avere una visione complessiva e a dare risposte. Migranti. Lampedusa, nuovo record: in 4mila nell’hotspot di Lidia Ginestra Giuffrida Il Manifesto, 27 agosto 2023 Mare Nostrum. 65 sbarchi in sole 24 ore, aiuti difficili: sull’isola ci sono solo sei medici. Una donna racconta: “In Libia hanno picchiato me, mio marito e mia figlia. Ero incinta, ho perso il mio bimbo”. Hotspot di Lampedusa oltre quota 4mila (con 243 minori non accompagnati): da mezzanotte alle 11 di ieri 870 persone sono arrivate sull’isola. Venerdì si sono contati 65 sbarchi, un numero mai raggiunto prima in 24 ore. Gli approdi del resto non si fermano mai: ieri alle 19 avevano raggiunto l’isola altri 399 migranti. Le motovedette della Guardia costiera fanno avanti e indietro dal molo Favaloro. La Croce Rossa ha allestito due nuovi gazebo per aumentare lo spazio d’ombra dove i naufraghi sono costretti ad aspettare per ore. Verso le 14 di ieri il molo era al massimo della sua capienza e una motovedetta della Guardia costiera è stata costretta a sbarcare di fianco al Favaloro, fuori dall’area militare. A bordo c’erano 98 persone di origine subsahariana: tre donne incinte di cui una ha perso coscienza durante il salvataggio, e due bambini di pochi mesi. Hanno aspettato per 3 ore sotto il sole l’arrivo delle ambulanze e dei bus che, a causa della mancanza di mezzi, tardano ad arrivare. Così i tempi si dilatano: se la Croce rossa non è all’interno del molo lo sbarco si ferma. E a bordo non avevano più né acqua né cibo. “Stiamo facendo tutto quello che possiamo” spiegavano ieri dalla Croce Rossa. Gli enormi sforzi sono evidentemente insufficienti a gestire gli arrivi record. Ieri notte più di cento persone sono sbarcate autonomamente da due diverse imbarcazioni e sono state trovate lungo la strada di ponente: “Eravamo tre macchine piene di attivisti della società civile, impegnati nell’ambito dei diritti umani e delle migrazioni. Sul ciglio della strada abbiamo avvistato diverse dozzine di persone. Ci siamo resi conto che erano appena sbarcati. Parliamo di primo soccorso ogni giorno ma non ci siamo mai trovati a farlo realmente. Abbiamo chiamato la polizia, abbiamo aiutato i più vulnerabili e abbiamo recuperato acqua e cibo. Nel frattempo dalla strada è arrivato un altro gruppo di ragazzi, anche loro appena sbarcati a Lampedusa. I soccorsi sono arrivati dopo circa due ore, una lunga attesa senza teli termici” ha raccontato Tiziano Schiena, del consiglio direttivo di Mediterranea saving humans, presente ieri sera. Tra i migranti arrivati in autonomia, un gruppo di 44 persone (tra cui numerose famiglie) provenienti dalla Libia e dalla Siria. Su un altro barchino ragazzi dal Sud Sudan. “In Libia hanno picchiato me, mio marito e mia figlia di due anni. Ero incinta e ho perso mio figlio al quarto mese di gravidanza a causa delle percosse” la testimonianza di Fatma Hosin, proveniente dalla Libia e sbarcata ieri notte dopo 24 ore di viaggio in mare. Evidenti segni di percosse sono presenti anche nei giovanissimi ragazzi sudanesi partiti da Sfax, tutti minorenni tranne uno di 19 anni. Alcuni di loro nel 2021 avevano protestato davanti alla sede di Unhcr a Tripoli con il movimento autorganizzato “Refugees in Libya”. Dopo due anni è stato David Jambo, cofondatore e portavoce del movimento, a prestargli primo soccorso insieme al resto della società civile, dopo lo sbarco a Lampedusa. Sull’isola ci sono solo sei medici, decisamente troppo pochi per la quantità di naufraghi che arriva e che necessita di immediate cure mediche. Mentre le persone continuano a sbarcare vanno avanti i trasferimenti, nella mattinata di ieri sono state spostate sul continente 750 persone, alle 14 altre 80 e 169 sono salpate nel pomeriggio. Ma l’hotspot continua a essere affollato e la Croce Rossa non riesce a far fronte agli interventi richiesti. Migranti. Lesbo, l’isola dove i migranti diventano “ombre” di Massimo Nava Corriere della Sera, 27 agosto 2023 I respingimenti, le decine di tentativi per raggiungere terra, la disperazione. Quando le barche in mare segnalano la loro presenza, gli operatori umanitari cercano di raggiungerle, possibilmente prima delle forze dell’ordine: un tragico gioco a guardie e ladri. Chi ce la fa passa dall’inferno delle onde a quello dei centri di accoglienza. Platone, nel mito della caverna, spiega come gli uomini scambino le ombre delle cose per la realtà che ancora non conoscono. La politica greca dell’immigrazione sembra ispirata dal famoso filosofo: se i migranti che attraversano il mare sono ombre, esse si perdono anche nelle statistiche e di fatto non esistono. Certo, il problema non è risolto, ma sembra che lo sia e anche così si tranquillizza il popolo e si vincono le elezioni. L’isola di Lesbo, negli anni scorsi tragico simbolo, come Lampedusa, della grande invasione, è diventata un approdo controllato: numeri e sbarchi ridotti, un campo profughi limitato a 2500 ospiti e selezione rigorosa fra chi ha diritto d’asilo e chi deve lasciare il Paese. Quasi scomparse anche le tracce del gigantesco campo di Moria divorato dalle fiamme tre anni fa. Ed è invece ripreso il turismo in questo paradiso naturale, dove, da secoli, uliveti e pinete riecheggiano di storia e mitologia: Saffo, l’assedio di Troia, la guerra fra Sparta e Atene. Ma le cose stanno un po’ diversamente e l’invito di Platone allo svelamento delle ombre farebbe emergere la realtà. La costa turca si vede a occhio nudo e gli sbarchi continuano. Tuttavia, come denunciano Medici Senza Frontiere (MSF) e altre ONG, molti dei nuovi arrivati “scompaiono”: in clandestinità o respinti verso la Turchia. Pare riportati al largo per essere raccolti dalla guardia costiera turca. Queste “ombre” sarebbero novecento dall’inizio dell’anno, secondo una denuncia di MSF che parla di “crudeli tattiche di dissuasione”. La primavera scorsa, un reportage del New York Times ha provocato un’inchiesta sul comportamento della guardia costiera, ma questi casi non sarebbero isolati. La caccia all’emigrante, secondo le denuncie, avverrebbe sia in mezzo al mare, quando le imbarcazioni cariche di disperati sono avvistate e respinte, oppure a terra, sulle colline, dove chi riesce a sbarcare si avventura per sfuggire ai controlli. Chi non ce l’ha fatta, ritenta una, due, dieci, quindici volte la traversata, come racconta Yasim, 28 anni, yemenita, studi di economia e inglese perfetto. Uno che ha raggiunto Lesbo al primo tentativo e ha speso solo cinquecento euro. “I trafficanti in Turchia non hanno prezzi fissi, si sono adeguati alla situazione. Se paghi poco e sei stato respinto hai perso la tua occasione. Ma se paghi fino a duemila euro hai una specie di assicurazione per altri tentativi. Una famiglia palestinese ci ha provato quindici volte e aspetta ancora”. Yasmin è arrivato in Turchia dalla Giordania. I contatti con i trafficanti avvengono a Smirne e in altri centri della costa turca. “Non incontri mai il capo dell’organizzazione, ma qualcuno che stabilisce il contatto e ti organizza la traversata. Basta il passaparola nei bar, loro sanno come trovarti e offrirti il passaggio. Non sai dove sarai sbarcato, nè quanto dura il viaggio. Dipende dalle condizioni del mare e dal livello di sorveglianza. L’importante è conservare un cellulare, l’unico modo per contattare le Ong prima che ti prendano quelli della guardia costiera o i loro “collaboratori”. Nessuna sa chi siano, anche perché entrano in azione a volto coperto”. Secondo MSF si spaccerebbero persino come operatori umanitari. “È un tragico gioco a guardie e ladri”, spiega Duccio Staderini, capo missione di MSF. Il lavoro delle ONG è tollerato, quando non ostacolato. Quando i migranti segnalano la loro presenza, gli operatori umanitari cercano di raggiungerli, possibilmente prima delle forze dell’ordine. Dopo giorni e notti in mare e nella boscaglia, senza acqua e cibo, le condizioni fisiche, sopratutto di donne e bambini, sono drammatiche. “Sono terrorizzati, affamati, i piedi scalzi e le mani sanguinanti”, racconta Federica Zamatto, dottoressa, responsabile dell’ambulatorio di MSF dove si assistono migranti vittime di torture, stupri e violenze subite nei campi in Turchia o nei Paesi d’origine. I migranti sono quindi registrati in un centro provvisorio e poi chiusi nella tendopoli di Mavrovouni, circondata da mura e filo spinato, a nord della capitale Mitilene. Cominciano procedure per richiesta di asilo o espulsione, che, tuttavia, come in ogni Paese, non potrà essere immediata o non avverrà affatto. Così, in questa grottesca meritocrazia della disperazione, i meno “fortunati” perdono briciole di diritto come acqua, cibo, vestiti, assistenza sanitaria. E diventano altre “ombre”, affidate a ONG che provvedono alle prime necessità e all’assistenza legale. Fra domanda d’asilo, ricorsi, intoppi burocratici possono passare mesi e anche più, spiega Ozan Balpetek, responsabile del Legal Center di Mitilene. Le “ombre” in attesa sarebbero circa il 30 per cento dei richiedenti. “Poi ci sono quelli che sono stati arrestati con l’accusa di essere trafficanti, ma la colpa è di essere l’unico del gruppo al timone o a parlare inglese”. Ci sono casi clamorosi, come quello di A.I., un ragazzo sudanese che attendo i documenti da mesi, essendo vittima di un caso di omonimia: il “suo” passaporto è stato rilasciato anche a un ragazzo con lo stesso nome, nato lo stesso giorno, che oggi vive in Francia. O come quello di due giovani somali che si sono conosciuti e sposati al campo. Hanno avuto una bambina, ma il matrimonio non è stato riconosciuto. La donna ha ottenuto il diritto d’asilo e vive in Olanda, il suo compagno attende al campo e non ha mai visto sua figlia. Sotto container e tende infuocate dal caldo record di questa estate, oppressi anche dall’aria immobile, si vive di fatto come reclusi, in competizione per la distribuzione di cibo e per servizi essenziali. Ci sono afghani, eritrei, pachistani, palestinesi, yemeniti, kurdi: la divisione degli alloggi è per famiglie, gruppi etnici, religioni, ma l’ordine non contempla compassione né solidarietà fra internati, fra chi riceve e chi no. Là fuori, a pochi metri, dietro il filo spinato, c’è il mare azzurro che li ha portati in questo inferno. Presto si costruirà un altro campo, ma nella foresta, lontano dalle spiagge e dal turismo. Un progetto che ha scatenato le proteste degli ambientalisti, dato il rischio di incendi. Ma la costruzione di campi continua anche su altre isole-paradiso affacciate sulla costa turca. Unità più piccole, che suscitano meno problemi e soprattutto meno attenzione. Le “ombre”, i migranti esclusi dall’assistenza pubblica, possono uscire sotto controllo, per raggiungere a piedi, sulla collina, il centro Parea, sostenuto da diverse ONG europee. Qui si mettono in fila per ricevere pacchi di alimenti, pasta, formaggio, frutta, ma mercoledì e giovedì sono giorni speciali perché si servono anche pasti caldi e persino il gelato. “Distribuiamo cinquecento pasti la settimana - racconta Silvia Lucibello, responsabile del progetto - ma le autorità sostengono che così favoriamo l’immigrazione illegale”. Parea è anche asilo nido, centro di ricreazione, laboratorio fotografico, officina di riparazione biciclette, fondamentali per gli spostamenti dal centro al campo. Un’altra organizzazione, Mosaik, a Mitilene, ha organizzato per le “ombre” laboratori di artigianato e corsi di lingue. Qui si vendono borsette, sacche, necessaire realizzati con tela di gommoni e giubbotti di salvataggio raccolti sulle spiagge di Lesbo. L’etichetta è “Safe Passage Bags”. Canada. Vancouver depenalizza le droghe pesanti per contrastare la tossicodipendenza di Chiara Sgreccia L’Espresso, 27 agosto 2023 “Chi viene trovato in possesso di una dose inferiore a 2,5 grammi non è un criminale ma una persona che ha bisogno di aiuto”. Così il governo locale punta a ridurre i morti per overdose. Schiena curva, sguardo assente, passo lento. Così centinaia di persone si muovono per East Hastings, la via che taglia la parte est di Vancouver, in Canada: Zombieland. Perché ospita un numero impressionante - per chi non ci ha mai messo piede prima - di senzatetto. Per la maggior parte sono persone con problemi di tossicodipendenza che vivono ai margini della società e della strada, accampati sui marciapiedi, accasciati sul pavimento, freezati sulle panchine senza saperlo. Basta uno sguardo con Google street view per farsi un’idea. Prima c’era una tendopoli, dopo l’ultimo sgombero, rimangono i resti di un accampamento che sta per rinascere. La situazione è la stessa da tempo: le tent city vanno e vengono, il problema della tossicodipendenza segna da decenni la British Columbia, la provincia più occidentale del Canada in cui si trova Vancouver. Già all’inizio dei Duemila il consiglio comunale della città aveva elaborato una strategia per contrastare il boom della droga, basata su prevenzione, trattamento e riduzione del danno. Nel 2016 il governo della Provincia ha dichiarato lo stato di emergenza per la sanità pubblica a causa dell’elevato consumo di sostanze stupefacenti. Da allora alla fine del 2022, sono morte per overdose più di 30 mila persone in tutto il Canada, 12 mila nella provincia più a Ovest del Paese, dove solo nel 2022 i decessi, secondo i dati di Cbc, il servizio pubblico radiotelevisivo canadese, sono stati 2.383, l’anno più mortale di sempre: oltre 6 persone al giorno hanno perso la vita. Da gennaio 2020 a luglio 2021 i morti per overdose hanno superato quelli di Covid-19: tremila contro 1.800. La maggior parte dei decessi, l’85,8 per cento, è causata dall’abuso di Fentanyl, un oppioide sintetico molto potente, 50 volte più dell’eroina, 100 più della morfina. Sempre più spesso utilizzato anche per tagliare altre sostanze come la cocaina che, seconda in classifica, ha causato il 44,8 per cento delle morti per overdose tra il 2019 e il 2022. Poi le metanfetamine, l’alcol, altri derivati dell’oppio e le benzodiazepine. Di solito chi abusa di droga muore dentro casa, in spazi chiusi in cui non trova l’aiuto di nessuno. Così molti preferiscono vivere all’aperto, per strada, gli uni accanto agli altri, sotto gli occhi dei passanti che attraversano noncuranti East Hastings se sono residenti, con lo sguardo esterrefatto se visitano per la prima volta Downtown Vancouver. “Lo stigma e la paura della criminalizzazione fanno sì che alcune persone nascondano il loro uso di droghe aumentando il rischio di danni. Questo è il motivo per cui il governo del Canada tratta l’uso di sostanze come un problema di salute, non criminale”, aveva scritto su Twitter Theresa Tam, direttrice della Sanità canadese, a maggio 2022, quando il governo federale aveva concesso alla Provincia un’esenzione dal Controlled drugs and substances act, entrata in vigore a febbraio 2023: i cittadini maggiorenni fermati con meno di 2,5 grammi di droghe pesanti destinati all’uso personale - come eroina, cocaina, metanfetamina, ecstasy e Fentanyl - non sono più perseguibili penalmente. Il possesso massimo consentito di cocaina, ad esempio, è di tre volte superiore a quello stabilito dalla legge italiana (750 mg), quello di eroina è 10 volte più alto. La vendita di droghe pesanti resta illegale nella British Columbia ma chi viene trovato con quantità inferiori a 2,5 grammi non sarà arrestato e incarcerato. Gli verranno, invece, date informazioni sui programmi e sul trattamento per disintossicarsi. Il progetto, pensato per ridurre l’emergenza, non considera chi fa uso di droghe un criminale ma come una persona che ha bisogno di aiuto. Resterà in vigore per tre anni, fino al 2026: non ci sono ancora report che divulgano i risultati della sperimentazione ma secondo le autorità locali, nonostante la questione polarizzi il dibattito politico e pubblico, la depenalizzazione delle droghe pesanti e la parallela “fornitura sicura”, cioè la strategia che punta ad allontanare le persone dall’acquisto illecito di droga offrendo versioni regolamentate, sta già salvando alcune vite. E facilitando il contatto tra tossicodipendenti e servizi sanitari e sociali.