Sul carcere sono troppe ormai le parole inutili di Franco Corleone Il Manifesto, 26 agosto 2023 Adesso dobbiamo piuttosto fare i conti con la scomparsa della concezione del carcere come extrema ratio, con il prevalere incontrastato della detenzione come discarica sociale. La tragedia dei suicidi e in particolare quelli delle due detenute a Torino hanno fatto esplodere un profluvio di commenti, in taluni casi assolutamente inadeguati, sulla condizione del carcere. Si distinguono le riflessioni di Fiandaca, Anastasia, Gonnella, Pugiotto, De Vito e Ronconi. Anche molte visite, pur meritevoli, negli istituti in agosto hanno il sapore della stanca ripetitività, condita da denunce generiche e rituali sul sovraffollamento e da espressioni insulse tratte dal repertorio della retorica e della demagogia. Mi è capitato molte volte di dire, a voce o in scritti, che sul carcere sappiamo tutto, almeno dal numero speciale del Ponte del 1949 e che il problema è cambiare le cose. “Non basta interpretare il mondo, bisogna cambiarlo”. Quando mi è capitato di avere responsabilità di governo ho messo in moto azioni di riforma e insieme ad Alessandro Margara scrivemmo il nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, entrato in vigore nel 2000 e in quei cinque anni, tra il 1996 e il 2001, forse l’unica stagione coerentemente riformatrice, furono approvate leggi significative come la legge Simeone-Saraceni per eliminare disparità di classe nell’accesso a possibili misure alternative, la legge Smuraglia sul lavoro, la legge Finocchiaro per le detenute madri, la legge per l’incompatibilità con la detenzione pei i malati di Aids e altre gravi patologie. Furono avanzate anche proposte per superare gli Opg (realizzata finalmente nel 2017 grazie al commissariamento) e per la riforma della legge Iervolino-Vassalli sulle droghe. La Commissione Grosso elaborò il miglior testo di un nuovo Codice penale per archiviare il Codice Rocco, architrave dello stato etico del fascismo, tuttora in vigore dal 1930. Il Piano Marshall elaborato tanti anni fa da Sergio Segio e Sergio Cusani, oltre alle proposte concrete, ebbe anche la forza e originalità di riuscire a mettere in rete e sinergia migliaia di realtà, associazioni e sindacati, consapevole che su un fronte così difficile l’ordine sparso, gli orticelli, gli editoriali dei grilli parlanti non aiutano. Dopo di che, è cominciato il passo del gambero e si sono perse occasioni irripetibili. Tentativi positivi come la Commissione Palma che chiarì la disapplicazione del Regolamento dopo venti anni e realizzò l’eliminazione dei banconi di separazione nelle sale colloquio (erano ancora più di ottanta!), poi gli Stati Generali con il coordinamento di Glauco Giostra e infine la Commissione Ruotolo rimasero in gran parte nel regno delle buone intenzioni. Ora con il Governo Meloni che ha come orizzonte lo stravolgimento dell’articolo 27 della Costituzione occorre una prova di verità. Siamo stati sconfitti, dove abbiamo sbagliato? Bisogna essere seri. Nella condizione data, limitarsi a proclamare l’obiettivo dell’abolizione del carcere, non rappresenta una fuga in avanti, ma un ritrarsi dalle responsabilità. Ho condiviso con Massimo Pavarini la riproposizione di un orizzonte abolizionista ma con la consapevolezza di non estraniarsi dalla realtà e del dichiararne il carattere di indicatore di marcia, non di astratto e imbelle “programma minimo”. Dobbiamo piuttosto ora fare i conti con la scomparsa della concezione del carcere come extrema ratio, e con il prevalere incontrastato della detenzione come discarica sociale. L’innovazione della possibilità di concessione delle misure alternative da parte del giudice dalla cognizione, ad esempio, può favorire meno ingressi in carcere. Oltre ai 728 detenuti al 41bis quanti sono oggi i detenuti in alta sicurezza, nelle sue varie forme? Circa 12.000? Sono numeri che spazzano via il vaniloquio (interessato) sulle necessità di nuovi istituti e sulla mancanza di personale di polizia penitenziaria. Occorre una riflessione sulla composizione sociale dei detenuti per capire logiche e comportamenti che spingono a dipingere i reclusi come tossici e matti, proponendo soluzioni reazionarie come il ritorno ai manicomi o alle comunità terapeutiche chiuse e mettendo in discussione la competenza del diritto alla salute affidata al Servizio sanitario pubblico. I problemi sono enormi, ancorché non nuovi. Da dove partire? Prima di tutto dalla lettura degli interrogativi che poneva Sandro Margara nel suo ultimo intervento pubblico e che vanno riproposti come la precondizione concettuale, a partire dalla domanda delle domande: perché è finita da tempo la guerra alla povertà? (Punti interrogativi, in Il carcere al tempo della crisi, Fondazione Michelucci, 2014). Da quella consapevolezza tocca necessariamente ricominciare: il carcere è sostituto autoritario delle politiche di welfare, è campo di concentramento per i poveri, a dispetto delle retoriche sulle “culture della legalità” che hanno imperato negli ultimi decenni, sottraendo capacità di analisi e di proposta. Poi, chiarito il contesto e lo scenario, bisogna scrivere un’agenda delle ferite aperte, a cominciare dalle previsioni non realizzate del Regolamento del 2000 che prevedeva cinque anni per la loro realizzazione: diciotto anni di ritardo costituiscono o no un reato di omissione di atti di ufficio? Sicuramente qualche azzeccagarbugli sosterrà che il termine non era perentorio ma ordinatorio, ma io affermo a chiare lettere che siamo di fronte a un crimine politico, che va immediatamente sanato. Una citazione parziale: servizi igienico sanitari, mense e refettori, spacci per la vendita dei prodotti essenziali per abbattere il sistema dell’affidamento a imprese del malaffare il vitto e sopravvitto, locali per i previsti colloqui lunghi in attesa dell’affermazione del diritto alla affettività e sessualità. Occorre dire alto e forte che il sovraffollamento è provocato dalla detenzione sociale: è questa che va affrontata e risolta. In concreto, si tratta del prodotto della legge proibizionista sulle droghe, di quella sull’immigrazione, della persecuzione dei poveri. Vi sono due soluzioni, cambiare le leggi o cambiare i luoghi di esecuzione della pena utilizzando la vasta tastiera delle misure alternative e magari coordinandole e razionalizzandole. Si potrebbe cominciare con la sperimentazione della attivazione delle “Case di reinserimento sociale” per le pene sotto i dodici mesi che già riguardano settemila prigionieri, strutture di piccole dimensioni affidate alla direzione dei sindaci e alla progettazione dei servizi sociali e del volontariato. La proposta è depositata alla Camera dei deputati con il numero 1064. Le risorse ci sono. Mi riferisco a quelle di Cassa Ammende, che vanno utilizzate non con progetti burocratici ma con affidamenti agli enti locali e al terzo settore (e magari non solo a quelli che vanno sotto il titolo-passe-partout della legalità e della giustizia riparativa…). Una pratica di welfare ex post, visto l’assenza preventiva. Un’applicazione massiccia delle misure alternative per tutti coloro che hanno un fine pena fino a tre/quattro anni per cancellare una contraddizione ingiusta di classe tra chi può usufruire di misure senza entrare in carcere o accedere alla Messa alla Prova e chi invece è destinato a stare fino all’ultimo giorno in carcere, uscendo incattivito e destinato alla recidiva quasi certa. Per realizzare questi obiettivi minimi, occorre un movimento di pensiero e di lotta, dentro e fuori dal carcere. La riforma carceraria del 1975 si ottenne con una grande discussione pubblica e la legge Gozzini del 1986 fu discussa e in alcuni punti elaborata nelle carceri. In questi anni si è sviluppata una rete straordinaria di associazioni del volontariato che hanno ben presente la necessità di affermare nell’istituzione totale i valori della Costituzione e il sistema dei diritti fondamentali di cittadinanza. È ormai affermata e consolidata la diffusa presenza dei Garanti, da quello nazionale a quelli regionali e comunali. Il Collegio nazionale, presieduto da Mauro Palma con Daniela de Robert e Emilia Rossi ha rappresentato in questi sette anni un punto significativo di riferimento e la composizione del nuovo organismo costituirà un banco di prova ineludibile. Vi sono le condizioni per decidere una strategia che deve vedere come controparte il parlamento, la magistratura, l’amministrazione penitenziaria, le regioni titolari della sanità. Vanno individuati obiettivi puntuali previsti dalle leggi e dalle sentenze delle Corti internazionali e della Corte costituzionale attorno cui creare consenso attraverso azioni nonviolente coinvolgendo i parenti dei carcerati, associazioni, intellettuali, radio, giornali, televisioni, social. Va individuata una modalità di intervento straordinaria; ricordo per responsabilità diretta che senza la nomina di un Commissario unico per la chiusura degli Opg non avremmo chiuso quella pagina dell’orrore. Grazie a Sergio Segio ho recuperato la relazione introduttiva al convegno “Liberarsi dalla necessità del carcere”, il movimento fondato a Parma negli anni Ottanta da Mario Tomassini, mitico assessore della Provincia impegnato sul fronte del superamento del manicomio, da Franco Rotelli, psichiatra impegnato con Basaglia. È un testo che fornisce indicazioni ancora attuali. Va ripensata anche la logica premiale, se si vuole rafforzare autonomia e responsabilità. Occorre ripartire con un orizzonte alto e con l’ambizione dettata dall’ottimismo della volontà anche se con la consapevolezza del pessimismo della ragione. Non è dilazionabile la revisione dell’art. 79 della Costituzione che rende assolutamente impraticabile la misura dell’amnistia e dell’indulto. Obiettivi ambiziosi ma percorribili, costruendone pazientemente le condizioni politiche e culturali, le alleanze, il progressivo consenso. Sfuggendo il massimalismo inconcludente e sterile, così come l’affiancamento complice a politiche e amministrazioni artefici dell’attuale disastro. Un disastro umanitario e culturale. Abbiamo pagato troppi tributi al riformismo senza riforme. Ora è tempo di rivoluzione gentile e di utopia concreta. Alternative al carcere, questione di buon senso di Vittorio Attanà L’Eco di Bergamo, 26 agosto 2023 Un detenuto che sconta l’intera pena dietro le sbarre - dicono le statistiche richiamate più volte dagli addetti ai lavori - tornerà a delinquere nel 68,4% dei casi, a fronte di un 19% soltanto che ci ricascherà dopo aver seguito un percorso rieducativo attraverso una misura alternativa al carcere. È quindi nell’interesse della società puntare il più possibile su queste ultime. Non è buonismo, è buon senso: al di là delle reazioni di pancia, dei facili giustizialismi, dei dibattiti sulla certezza della pena (troppo spesso intesa solo come carceraria) non dobbiamo dimenticare che il recupero della persona condannata e l’incremento della sicurezza sociale, fine ultimo a cui tendere, sono in fin dei conti due facce della stessa medaglia. Bergamo da questo punto di vista fa moltissimo. I dati dell’Ufficio esecuzione penale esterna lo testimoniano. Ne abbiamo dato conto nell’edizione de L’Eco di Bergamo di del 24 agosto: in quattro anni i casi in carico all’Uepe di piazza della Libertà sono cresciuti del 55%, passando da 1.693 del 2018 ai 2.631 di fine 2022. C’è poi l’opera instancabile compiuta nella casa circondariale intitolata a don Fausto Resmini, per portare avanti progetti di lavoro all’interno delle mura e avviarne di nuovi: gli ultimi dati (fonte Cnel) rivelano che il tasso di recidiva tra i detenuti che hanno accesso a un lavoro precipita addirittura al 2%. E allora vien da chiedersi: se le misure alternative aumentano così tanto, perché il carcere “scoppia” lo stesso? A Bergamo la casa circondariale ospita 526 detenuti a fronte di una capienza di 319 (dati aggiornati al 31 luglio) con un tasso di affollamento monstre pari al 165%. Per trovare la risposta a questa apparente contraddizione basta guardare “dentro” via Gleno, oltre le sbarre, e incrociare le “storie” di chi ci vive. E i numeri qui fanno davvero impressione: su 409 condannati in via definitiva sono ben 296 i detenuti con un residuo di pena da scontare inferiore ai 4 anni, i quali in linea teorica potrebbero accedere alle misure alternative al carcere. Non tutti, certo: si dovrebbe valutare caso per caso (c’è ad esempio la questione dei “recidivi”). Ma certamente per alcuni questa possibilità si potrebbe concretizzare. Perché allora rimangono “dentro”? La risposta è semplice: per accedere all’affidamento in prova ai servizi sociali, alla detenzione domiciliare, alla libertà vigilata, servono generalmente una casa o comunque una struttura di accoglienza, un lavoro (se si pensa alla semilibertà), una rete d’appoggio forte all’esterno, per scongiurare il fallimento del percorso rieducativo. Così in carcere, di fatto, ci restano gli ultimi fra gli ultimi: stranieri senza casa, tossicodipendenti (in 300 all’interno del carcere di via Gleno hanno problemi di questa natura e non è certo un caso), soggetti con problemi psichici. “Mancano servizi intermedi”, ha dichiarato a L’Eco Lucia Manenti, che dirige l’Uepe di Bergamo. E allora forse sarebbe meglio concentrare sul potenziamento di questi servizi - comunità di accoglienza, assistenti sociali, Serd, psicologi, educatori, percorsi di avviamento al lavoro - le risorse che si è immaginato invece di stanziare per riconvertire le ex caserme in “carceri light” per tentare di affrontare il cronico sovraffollamento dei penitenziari. Una proposta, quella del guardasigilli Carlo Nordio all’indomani dei suicidi nel carcere di Torino (ma un caso si è verificato purtroppo anche a Bergamo), che ha incontrato più critiche che favori, non foss’altro che per gestire ulteriori strutture ci si troverebbe di fronte al problema degli organici: Via Gleno ad esempio conta 132 agenti di polizia penitenziaria effettivi a fronte dei 243 previsti, mentre gli amministrativi sono 17 su 22. L’obiettivo quindi non può che essere la promozione di una cultura nuova, di un coinvolgimento maggiore della società nei progetti di recupero e reinserimento, di un rapporto più stretto - per dirla con il professor Ivo Lizzola - tra carcere e territorio. Chi ha sbagliato paghi, sì. Ma la sanzione sia utile alla collettività. Che è un’altra “vittima” del reato, oltre alla vittima in senso stretto. La cooperativa Giotto: sulle carceri la società di oggi si sta imbarbarendo vaticannews.va, 26 agosto 2023 Il fondatore Nicola Boscoletto aderisce alla lettera-appello che si rivolge al Papa, a Mattarella e al ministro della Giustizia italiano Nordio, con la quale diverse associazioni ed enti hanno chiesto nei giorni scorsi che ai carcerati si offrano più opportunità per curare gli affetti e i rapporti con i familiari Le carceri italiane sono “un piccolo Mediterraneo dimenticato”, ridotte come sono “a un grande ammasso di rifiuti umani indifferenziati”. Lo scrive Nicola Boscoletto, fondatore della Cooperativa sociale Giotto, da trentatré anni impegnata nel mondo delle carceri che, in un articolo su Il Sussidiario.net, denuncia la situazione in cui versano gli istituti penitenziari. Sono trascorsi 18 anni da quando a Benedetto XVI e all’allora presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi, dieci detenuti della Casa di reclusione di Padova inviarono una lettera-appello, sostenuta e promossa dalla stessa Giotto, da allora però, afferma Boscoletto, “niente di nuovo sotto il sole”. Ora, in una nuova lettera-appello, alla quale la Cooperativa Giotto ha aderito, Ristretti Orizzonti, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e Associazione Sbarre si rivolgono a Papa Francesco, al presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, al ministro della Giustizia Carlo Nordio e alla società tutta perché si consenta ai carcerati di curare gli affetti e rafforzare le relazioni. “Dividiamo con cura, a tratti maniacale, la carta e il cartone dalla plastica e dal vetro, il secco dall’umido, le ramaglie e i residui degli sfalci dei giardini - osserva ancora il fondatore di Giotto - tutto questo per cercare di recuperare il massimo dai rifiuti, rigenerarli per riutilizzarli e abbattere il più possibile l’inquinamento, i costi economici, sociali ed ambientali. E l’uomo?”. Il tempo ha reso più in-civili - Boscoletto guarda alla storia, ad una conversazione, era il 1854, tra l’allora ministro della Giustizia Urbano Rattazzi e Don Bosco, quando “i problemi erano gli stessi di oggi”: quello della recidiva e quello dei costi elevati delle strutture, che allora superavano “di ben tre volte quelli delle strutture che applicavano il metodo don Bosco”. Rattazzi, pur rischiando l’impopolarità, “cerca in tutti i modi di aiutare queste realtà sociali, uniche in grado di dare una risposta vera, dignitosa e civile”. Ora, prosegue Boscoletto, “sembra che 169 anni siano passati invano, che non solo non ci abbiano insegnato niente, ma che addirittura ci stiano sempre di più imbarbarendo”. “Il tempo che passa sembra renderci sempre più in-civili”, si legge ancora in quella che è una disamina impietosa dell’operato della politica italiana, che “ci sta portando negli ultimi trent’anni verso disastri sociali ed economici”. Un disastro che non è solo italiano, ma del mondo tutto, considerando che cosa hanno generato “la repressione, la punizione fino alla pena di morte”. Perché dopo 169 anni “non si riesce a fare bene del bene?” L’appello a Mattarella, non si tiri indietro - L’invito alla politica è a perseguire “il vero bene dei suoi cittadini a costo di risultare impopolare”, una sollecitazione rivolta a “persone umanamente e professionalmente di grande spessore, che equivale a dire semplici di cuore, disinteressate. Servono persone che sappiano veramente amare, veramente accogliere, veramente ascoltare, veramente guardare e veramente chiedere”. E poi infine, Boscoletto lancia un accorato appello al presidente Mattarella, a “non tirarsi indietro”, a non “fare troppi calcoli, perché l’articolo 27 della Costituzione è ormai quasi del tutto calpestato”, è il momento “di metterci la faccia e di non tirarla indietro, come ben ha saputo fare in altre occasioni, ne va della dignità di ciascuno di noi e di tutta la nostra società”. Consentire più telefonate mensili ai carcerati - Ad appoggiare Ristretti Orizzonti, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e Associazione Sbarre, nella lettera-appello datata 20 agosto, sono diverse associazioni ed enti. La missiva chiede apertamente al ministro della Giustizia Carlo Nordio “un gesto di cambiamento vero” definisce poi “inconsistente” la proposta di aumentare il numero delle telefonate mensili tra i detenuti e i propri affetti da quattro a sei, poiché - scrivono le associazioni - “cosa cambierebbe con due miserabili telefonate in più al mese di 10 minuti l’una in quelle vite di solitudine, isolamento, lontananza dalle famiglie?” Si può fare molto per aiutare i detenuti - Chiunque sia impegnato nel mondo del carcere sa che, “da quando è scoppiato il Covid”, quelle telefonate in più “non potevano più essere tolte, anzi andavano potenziate”. Pur essendo necessaria una modifica della legge, “molto si può fare già da ora”, prosegue la lettera-appello, soprattutto “in un periodo in cui in carcere si manifesta sempre più alto il disagio con suicidi e atti di autolesionismo, uniti alla desertificazione delle estati negli istituti di pena”. La pena detentiva, ricorda il testo indirizzandosi direttamente ai governanti, “consiste nella privazione della libertà e non in altre torture che possono spingere anche al suicidio, come la mortificazione degli affetti”. Rilascio senza sostegno: quel destino incerto dei detenuti psichiatrici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 agosto 2023 La denuncia della signora Debora Mosca è davvero straziante proveniente dalla signora Debora Mosca. La sua richiesta di aiuto mette in luce una triste realtà che spesso passa inosservata: la situazione dei detenuti psichiatrici al momento del rilascio e la mancanza di adeguato supporto sociale per loro e le loro famiglie. In un appello urgente la signora Mosca ha raccontato all’associazione “Sbarre di Zucchero” la sua lotta disperata per trovare una soluzione adatta a suo marito Gennaro, che sta per essere scarcerato dal carcere di Montorio Veronese. Gennaro è affetto da un disagio psichiatrico, essendo schizofrenico bipolare con episodi di autolesionismo. L’invalidità psichiatrica è stata accertata all’ 80%. Con il suo rilascio imminente, la famiglia di Gennaro si trova di fronte a una crisi devastante: senza dimora. La signora Debora infatti è ospite in una struttura temporanea e suo marito Gennaro è costretto a vagare e dormire per le strade di Verona. Questo scenario non solo mette a rischio la vita e la salute di Gennaro, ma crea anche una situazione insostenibile per la famiglia che è disperata nel cercare aiuto. Nonostante gli sforzi della signora Mosca nel cercare un supporto da parte dei servizi sociali locali e dei servizi psichiatrici che avevano in cura suo marito, la situazione sembra senza soluzione. L’unica opzione proposta: una sistemazione adeguata con cure necessarie, ma è troppo costosa per le disponibilità economiche attuali della famiglia. Con una spesa mensile di 600€, di cui solamente 150€ coperti dai servizi sociali, la famiglia non può permettersi tale onere. Questo evidenzia una falla nel sistema di supporto sociale per i detenuti psichiatrici e le loro famiglie, lasciandoli indifesi e vulnerabili al momento del rilascio. Di fronte a questa situazione disperata la signora Debora Mosca si è rivolta all’Associazione “Sbarre di Zucchero” per far diffondere il suo appello. Con il supporto del figlio ha deciso di rendere pubblico il suo nome e la sua storia, sperando che le istituzioni prendano atto e agiscano per offrire aiuto concreto al suo marito e alla sua famiglia. È un grido d’allarme che mette in luce il problema urgente della gestione e del trattamento dei detenuti psichiatrici, che persiste e si intensifica dopo la scarcerazione. L’omicidio della psichiatra Barbara Capovani, uccisa da un ex detenuto, dimostra chiaramente che la mancanza di supporto adeguato ai detenuti psichiatrici può avere conseguenze tragiche per la società nel suo complesso. La scarcerazione non segna la fine dei problemi, ma piuttosto l’inizio di una sfida ancora più grande. La sicurezza ùdelle strade e il benessere delle famiglie sono direttamente collegate al modo in cui la società affronta questa questione. L’Associazione “Sbarre di Zucchero” chiede con urgenza che gli organi preposti, tra cui i servizi sociali comunali, regionali e i Centri di Salute Mentale, intervengano immediatamente per affrontare la situazione del signor Gennaro e di altri individui nelle sue condizioni. È vitale fornire un supporto completo che includa alloggio, cure mediche e psicologiche, nonché il necessario sostegno finanziario. Solo in questo modo la società ha la possibilità di prevenire ulteriori eventi tragici e garantire un autentico sostegno a coloro che necessitano di assistenza. “Carceri, nel pacchetto anche l’accesso al digitale” di Fulvio Fulvi Avvenire, 26 agosto 2023 Intervista al sottosegretario alla giustizia Ostellari: “Previsti totem elettronici negli istituti per consentire ai detenuti di consultare testi e documenti nella loro lingua”. È confermato: per alleviare la condizione di forte disagio dei detenuti e limitare il numero dei suicidi il governo approverà una modifica del regolamento penitenziario portando da quattro a sei i colloqui telefonici mensili con i parenti, come aveva annunciato alla vigilia di Ferragosto il ministro Nordio in visita alle Vallette di Torino. Si tratta, in sostanza, di un’ora complessiva di telefonate ogni 30 giorni (ciascuna, infatti, ha una durata massima di dieci minuti). “Il Consiglio dei ministri esaminerà la proposta già a settembre, nell’ambito di un “pacchetto carcere” che stiamo preparando con il collega Delmastro - precisa Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia - ma va chiarito che questo provvedimento allarga e non restringe il regime ordinario vigente. Concede più diritti. Inoltre, sarà previsto un intervento normativo (art. 61 Dpr 230/2000) che permetterà al direttore di un istituto di pena di utilizzare lo strumento delle telefonate per “ragioni trattamentali”. E lo potrà fare senza alcun limite: il principio a cui bisogna rispondere - aggiunge - rimane sempre quello della rieducazione della persona reclusa, e non si parla quindi di un premio”. Ma cosa prevede, oltre a questo, il “pacchetto” che il governo sta predisponendo? Nuove regole e diritti che vanno coniugati tra loro. Innanzitutto il rispetto e la tutela di chi opera all’interno del carcere, a cominciare dagli agenti penitenziari e dagli educatori che devono agire con strumenti adeguati. Mi piacerebbe poi, ma il progetto sarà pronto nei prossimi mesi, la realizzazione di “totem elettronici” da sistemare nelle sezioni degli istituti, per dare la possibilità ai detenuti di visionare in digitale i propri documenti, anche i conti correnti personali, per esempio, e, per gli stranieri, tradurre nella propria lingua atti che sono utili alla loro vita dentro il carcere. Lo valuteremo all’esito dello studio di fattibilità. Associazioni di volontariato hanno contestato, con una lettera inviata a Nordio, Mattarella e a papa Francesco, la proposta di aumentare il “monte ore” di chiamate alla famiglia. La ritengono insufficiente e inadeguata. Ma su altri fronti, che cosa si può fare? La questione del lavoro rimane fondamentale. C’è la legge Smuraglia che favorisce le assunzioni di detenuti anche dentro il carcere. Però abbiamo visto che esistono parecchie difficoltà da parte delle imprese private ad accedere negli istituti penali per portare merci e attrezzature ed è un impegno maggiore per gli addetti alla sorveglianza. Bisogna metterci mano. Per questo è stata creata una cabina di regia con il Cnel e a ottobre ci sarà un evento pubblico in cui verranno illustrate delle nuove proposte. Inoltre, aziende e cooperative devono essere informate meglio sui benefici fiscali e contributivi che hanno a disposizione se assumono detenuti. Come risolvere invece il problema del sovraffollamento e delle strutture fatiscenti? Nuove carceri non se ne possono costruire per il momento: è troppo costoso. Stiamo monitorando caserme ed altri edifici pubblici dismessi per vedere quelli che possono essere riutilizzati anche come strutture per percorsi diversi, per chi deve scontare pene brevi, per esempio o deve essere curato per disagi psichici. Una riforma complessiva del sistema è ancora lontana? Prima bisogna intervenire con l’incremento del personale, che è insufficiente, e garantire che in ogni istituto vi sia un direttore, senza più sedi “ad interim’: Lo stiamo facendo con concorsi già banditi e prossime nomine. Il tema carcere in ogni caso deve essere affrontato da molteplici punti di vista e con l’apporto di tutti, welfare, sanità, Regioni ed enti locali devono svolgere il loro compito. Anche perché i disagi dei detenuti, se non si riesce a limitare le recidive e ad applicare il principio della pena come rieducazione, poi li paga l’intera comunità. E non va dimenticato il personale che soffre a causa di aggressioni e violenze e ha bisogno di sapere che lo Stato è dalla loro parte. “Dalla commissione Nordio proposte folli. Pronti a opporci”, dice Costa (Azione) di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 agosto 2023 Intervista a Enrico Costa, vicesegretario e responsabile giustizia di Azione, furioso per il ribaltone che la commissione nominata da Nordio intende fare della riforma Cartabia: “Sulla valutazione dei magistrati non cederemo”. “È una follia, se passa questa norma la nostra opposizione sarà durissima”. È furioso Enrico Costa, vicesegretario e responsabile giustizia di Azione, nel commentare il ribaltone, anticipato ieri sul Foglio, che la commissione per la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, nominata dal ministro Carlo Nordio, si appresta a fare della sua proposta sul fascicolo di valutazione del magistrato. Introdotta con fatica nella riforma Cartabia approvata un anno fa, tramite emendamento proprio di Costa, la novità del fascicolo del magistrato - finalizzata a rendere effettive le valutazioni di professionalità delle toghe (che oggi restituiscono il 99,6 per cento di esiti positivi) - rischia ora di essere spazzata via. Nella bozza di decreto legislativo, la commissione nominata da Nordio, composta da 26 membri (di cui diciotto magistrati), definisce il concetto di “grave anomalia” la cui presenza sarà necessaria per valutare l’attività del magistrato: il rigetto delle richieste o la riforma e l’annullamento delle decisioni adottate dovranno avere “carattere di marcata preponderanza e di frequenza rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”. Insomma, non basterà accumulare una serie di errori e flop giudiziari. Questi verranno presi in considerazione nella valutazione soltanto se “preponderanti” rispetto al totale. “In altre parole - spiega Costa - il magistrato dovrà sballare la maggioranza dei suoi provvedimenti. È evidente che in questo modo si rende la norma inapplicabile. Eppure, io credo che anche una sola inchiesta sbagliata possa meritare di essere valutata nel complesso della professionalità di un magistrato. Penso a un’indagine fatta da un pm soltanto per andare sotto i riflettori dei media, facendo arrestare delle persone che poi vengono liberate dal Riesame o assolte. Lo stesso vale per i magistrati giudicanti. Con la specificazione della ‘grave anomalia’, invece il magistrato continuerà a essere irresponsabile sotto ogni punto di vista”. “L’introduzione della valutazione del fascicolo del magistrato costituisce il cuore della riforma Cartabia - ribadisce Costa -. Non a caso l’Associazione nazionale magistrati celebrò uno sciopero, in verità ben poco partecipato, proprio contro questa norma”. “Quando ho letto la composizione di questa commissione mi è sembrato che mettessero le volpi a guardare un pollaio - prosegue Costa -. Non si trattava di magistrati presi da oscuri tribunali, ma di toghe che hanno sempre svolto vita di corrente, oppure sono stati molto tempo fuori ruolo nel corso della loro carriera”. Sì, perché un’altra novità del testo elaborato dalla commissione di Nordio riguarda proprio questo: la riforma Cartabia prevedeva una riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo, ma la commissione ministeriale alla fine ha stabilito una riduzione del limite massimo di magistrati collocabili fuori ruolo soltanto da 200 a 180. Un taglio ridicolo, che per giunta non si applicherà alle toghe che attualmente affollano i corridoi di Via Arenula. “È una roba da poveracci, pensata per difendere il proprio posto e quei quattro soldi in più di indennità”, afferma senza mezzi termini Costa. “Ma a questo siamo abituati - aggiunge - Il ministero è in mano alle correnti. Ciò su cui, invece, non possiamo transigere è la valutazione di professionalità dei magistrati. È la nostra bandiera. O Nordio ha nominato questa commissione per disinnescare questa novità, oppure non è al corrente dei provvedimenti elaborati dalla commissione, che è peggio ancora. Di certo noi su questo non cederemo, così come sulla disciplina attuativa della presunzione di innocenza”. “Nordio ci dica cosa intende fare, ma sappia che se passa questa roba qui finisce la nostra opposizione costruttiva”, conclude Costa. Sisto: “Vedrete, su toghe e Csm sarà una riforma vera” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 26 agosto 2023 Il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto assicura: quella di cui si discute è una proposta per riformare l’ordinamento giudiziario. C’è tutto il tempo per fare correttivi e accogliere suggerimenti volti a migliorare il testo. Il messaggio è rivolto anche al presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco, che ha parlato di “occasione persa”. “Il presidente del Cnf - dice Sisto - avrà occasione, se riterrà, di intervenire sui singoli punti, per offrire un contributo a quello che sarà il dibattito politico, di governo e poi parlamentare”. Il viceministro della Giustizia sottolinea come sia necessario “un deciso segnale di mutamento all’interno dell’ordinamento giudiziario, che possa avvicinare sempre più la giustizia alle esigenze dei cittadini”. Viceministro Sisto, in riferimento alla bozza di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm si sono alzate tante voci anche molto critiche. Siamo di fronte a una riforma corporativa, scritta da magistrati per non disturbare la magistratura? Mettiamo un po’ di ordine. Il lavoro, per la verità ultrarapido, della Commissione Galoppi costituisce solo una proposta per lo schema di decreto legislativo riveniente dalla legge delega Cartabia sull’ordinamento giudiziario. Il ministro Nordio, nella sua notoria correttezza, sottoporrà tali esiti alle valutazioni delle forze politiche della coalizione, partendo da quelle “interne”, viceministro e sottosegretari, per gli approfondimenti del caso. Poi vi sarà il passaggio in Cdm e successivamente vi saranno i pareri delle Commissioni parlamentari, di cui, anche qui notoriamente, il ministro ha grande considerazione. Questo il percorso. Aggiungo che non si tratta di una lettura nuova, perché anche in passato, sia sulla legge delega sia sui decreti legislativi, i responsi delle Commissioni tecniche non hanno mai avuto il crisma anticipato della definitività, anzi. Sono stati infatti modificati, anche profondamente, sia da riflessioni interne al ministero della Giustizia sia da indicazioni proprie del governo, come pure dalle scelte delle Commissioni parlamentari di merito. Nulla è così compromesso: su di una semplice proposta la riflessione politica e quella parlamentare possono portare a intervenire per verificare metodo e merito. Nessuna commissione può scrivere, da sé, un provvedimento legislativo. Tante attenzioni sono rivolte al fascicolo di valutazione del magistrato. Si prendono in considerazione i “dati statistici” e si tiene conto delle “gravi anomalie”. È stato fatto notare che anche se un magistrato ha sbagliato molto può comunque fare carriera. C’è qualcosa da rivedere in questa impostazione? C’è da prendere atto che molte volte la ricerca affannosa, talvolta ossessiva, delle definizioni può giocare brutti scherzi all’interpretazione, correndo il duplice rischio di inibire l’esercizio corretto della discrezionalità e di snaturare alcuni principi. È una patologia non infrequente: quando si cerca di definire troppo, con minuziosità a profusione, l’eccesso può incidere sul funzionamento dei meccanismi. L’ho detto anche durante i lavori della Commissione Galoppi: ritengo che non si debba definire il concetto di “grave anomalia”. Toccherà poi a chi dovrà, volta per volta, giudicare il comportamento del singolo stabilire se è “grave anomalia” un unico comportamento molto grave o se non costituisce “grave anomalia” una pluralità di comportamenti che possono essere meno gravi. Mi sembra che il tentativo di definire quantitativamente e qualitativamente l’anomalia nella sua gravità presti il fianco alla naturale complicazione sulla possibilità di valutare serenamente l’opera di ciascun magistrato, come avviene per tutte le categorie lavorative di questo paese. In merito al tema dei fuori ruolo il passaggio da 200 a 180 è poca cosa. Si poteva fare molto di più? Torno a dire che si tratta di una proposta della Commissione Galoppi. Siamo di fronte a un dato che non è assolutamente definitivo. Seguendo anche quelle che sono state le dichiarazioni in merito del ministro Nordio, lo sforzo appare minimo nella esecuzione della delega, peraltro molto precisa. Sarà di sicuro compito della politica, del governo e anche delle Commissioni stabilire se una riduzione di soli 20 magistrati, pari al 10%, possa rispondere allo spirito della delega, come pure valutare l’ortodossia di alcune esclusioni dalle regole scritte nel provvedimento. Il presidente del Cnf Francesco Greco ha parlato di “occasione persa”. Una delusione giustificata? Si tratta di un giudizio prematuro e lo dico con tutto l’affetto che nutro per il presidente Greco. È chiaro che se le cose rimanessero così, la sua opinione potrebbe avere un qualche fondamento. Credo però che la strada di questo decreto legislativo sia ancora lunga. Siamo, lo ripeto, di fronte ad una idea, una proposta articolata quanto unilaterale e non politica. Spetta invece proprio alla politica assumersi la responsabilità delle decisioni definitive. Il presidente del Cnf avrà occasione, se riterrà, di intervenire sui singoli punti, per offrire un contributo a quello che sarà il dibattito politico, di governo e poi parlamentare. L’avvocatura non nasconde perplessità anche sul “voto unitario” nei Consigli giudiziari: lei da avvocato cosa ne pensa? Noi dobbiamo evitare che l’avvocato nei Consigli giudiziari diventi un potentato uti singuli: il voto deve essere dell’avvocatura. Ritengo che il rispetto della determinazione del Cnf o del Consiglio dell’Ordine sia certamente più consono al luogo in cui quel voto viene espresso ed alle ragioni che lo determinano. D’altronde questo è già nella legge delega. Via Arenula come agirà rispetto alla bozza di decreto legislativo? Il ministro Nordio potrebbe chiedere di rivedere il documento? Come nelle fattispecie a formazione progressiva, in cui ogni step è inscindibilmente collegato al successivo, la proposta della Commissione, come detto, ripassa attraverso la valutazione del ministro, del viceministro e dei due sottosegretari. Dopo questo passaggio, a mezzo dell’ufficio legislativo, le ulteriori riflessioni e determinazioni confluiranno in uno schema di decreto legislativo per l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri: poi toccherà alle Commissioni parlamentari di merito. C’è tutto il tempo per poter approfondire ogni singolo tema: a questo è servita la proroga di sei mesi per l’esercizio della delega, ad evitare frettolosità e ansia da prestazione. Parliamoci chiaro: è necessario un deciso segnale di mutamento all’interno dell’ordinamento giudiziario che possa avvicinare sempre più la giustizia alle esigenze dei cittadini. Il punto di riferimento delle riforme, lo dico spesso, non sono i sacerdoti ma sono i fedeli. In questo contesto il suo partito, Forza Italia, vigilerà sulla realizzazione del programma? Forza Italia sui temi della giustizia è sempre stata in prima linea per l’affermazione chiara e netta dei principi costituzionali. Saremo vigili controllori, affinché il programma di governo, approvato dalla coalizione e condiviso dai cittadini, sia realizzato. Questo il nostro compito. Per difendere i princìpi del 27, del 101, 104 e 111 della Carta costituzionale, noi forzisti, con la guida di Antonio Tajani, siamo pronti a tutto, e di più. “Il testo di via Arenula è un’occasione persa, il governo lo riscriva” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 26 agosto 2023 Riforma del Csm, parla il presidente del Cnf Francesco Greco: “Ci si è arresi all’autoreferenzialità del sistema correntizio: il fascicolo del magistrato è stato svuotato di senso, sui fuori ruolo il taglio non c’è”. “Il governo dovrebbe chiedere al ministro della Giustizia di rimettere mano alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Il termine è stato prorogato fino a dicembre. Ci sono ancora alcuni mesi davanti per intervenire seriamente”. Il presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, non usa giri di parole per esprimere le proprie perplessità sulla bozza di decreto legislativo messa a punto dalla Commissione nominata dal guardasigilli per dare attuazione alla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Presidente Greco, come valuta gli interventi che dovrebbero portare a compimento la tanto sospirata riforma dell’ordinamento giudiziario? Siamo di fronte a un’occasione perduta. La riforma della giustizia, ormai è chiaro, deve passare attraverso la riforma dell’ordinamento giudiziario. Abbiamo invece assistito a interventi sugli organici delle cancellerie, con una serie di concorsi fatti nel passato, quando ormai le cancellerie stesse si sono svuotate. Si è fatto l’Ufficio del processo, abbiamo assistito a numerosi interventi, negli ultimi vent’anni, sui codici di rito, senza riuscire a ottenere alcun miglioramento. Anzi, le cose addirittura sono peggiorate. Si è intervenuto sull’avvocatura. Ci hanno tolto le tariffe ed è stato detto che sarebbe migliorato tutto il sistema. Adesso, sono stati imposti i limiti che riguardano la lunghezza degli atti giudiziari, come se la crisi della giustizia derivasse da quanto scrivono gli avvocati. Insomma, abbiamo assistito a una miriade di interventi, ma non su quello che è l’oggetto vero e che richiede massima attenzione, vale a dire l’ordinamento giudiziario. Il “motore” dell’organizzazione giudiziaria è stato, dunque, tralasciato? È così. È nella organizzazione della macchina giudiziaria, gestita dal magistrato, che si annidano i problemi maggiori della giustizia. Voglio fare a tal proposito un esempio, che credo sia molto calzante. Se una partita di calcio si svolge in modo non regolare, va individuata nell’arbitro una responsabilità perché non è in grado di dirigerla al meglio. È chiaro che alla base di tutto ci sarebbe dovuta essere, già tanti anni fa, la riforma dell’ordinamento giudiziario. Voglio però essere chiaro su questo punto. Mi consenta di sottolineare un aspetto che considero molto importante. Dica pure... Io non parlo e non mi riferisco ai singoli magistrati. I nostri magistrati sono eccellenti, non hanno nulla da invidiare alla media dei magistrati europei, sono operosi e capaci. Sia i giudici che i pubblici ministeri sono un fiore all’occhiello del nostro Stato di diritto. Il problema riguarda invece la corporazione della magistratura, che è autocelebrativa ed è organizzata in correnti. Abbiamo visto tutti nel recente passato a cosa hanno portato le correnti. Bisognava, quindi, intervenire sulla corporazione della magistratura. Questa riforma non interviene affatto sugli aspetti più importanti. Ecco perché, lo ribadisco, ci troviamo di fronte a un’occasione perduta e sono d’accordo con le posizioni espresse dall’onorevole Enrico Costa. Un tema significativo, contenuto nella bozza della delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario, riguarda i magistrati fuori ruolo. Non si incide più di tanto, a quanto pare... Per quanto riguarda il numero dei magistrati fuori ruolo, noi avevamo proposto di ridurli a 100 con un meccanismo progressivo che nell’arco di cinque anni li portasse poi a 50, in modo da far ritornare gli altri a fare i magistrati nelle aule di giustizia, a scrivere le sentenze e a gestire i processi. La linea che, invece, è passata in una Commissione composta nella stragrande maggioranza da magistrati è che si passa da 200 a 180 magistrati. Un risultato del genere era prevedibile, se si pensa appunto alla composizione della Commissione. Altro tema rilevante è quello delle valutazioni di professionalità. In riferimento al fascicolo personale del magistrato, si prende in considerazione la “sussistenza di gravi anomalie in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio”. L’avvocatura ha fatto proposte sul punto? Il tema delle “gravi anomalie” è significativo. Se il legislatore ha fatto un riferimento generico alla “gravi anomalie” è perché non si voleva identificarle in un comportamento specifico. Si voleva far sì che, in sede di valutazione del magistrato, si tenesse conto di “gravi anomalie” indefinite che in un determinato momento si dovevano andare a considerare. La Commissione alla fine ha tirato fuori un altro principio. Ha previsto una forma di salvaguardia secondo cui non sussistono “gravi anomalie” se il magistrato, nel distaccarsi dall’orientamento della Sezione, subendo la riforma delle sue decisioni, specifica che lo fa perché non condivide l’orientamento della Sezione stessa. Il meccanismo delle “gravi anomalie”, ai fini della valutazione della carriera del magistrato, è stato di fatto svuotato di significato. La riforma Cartabia mirava a riformare l’ordinamento giudiziario. Temo, però, che non si raggiungeranno i risultati prefissati. Anche il ministro Nordio, d’altronde, ha riconosciuto che gli obiettivi di riduzione dell’arretrato nel civile e nel penale non saranno raggiunti. Sarebbe stato opportuno prevedere degli indici di valutazione di ogni singolo processo, cui ogni magistrato nella gestione del procedimento deve attenersi, al fine di introdurre nel nostro sistema giudiziario principi oggettivi rivolti a perseguire sia l’efficienza che la qualità della giurisdizione. Invece, facendosi scudo dell’autonomia e della indipendenza, che nulla hanno a che vedere con i principi di efficienza e qualità della giurisdizione, la magistratura associata rifiuta ogni sistema oggettivo di controllo della sua attività. Cosa cambia in tema di partecipazione degli avvocati nei Consigli giudiziari per le valutazioni di professionalità dei magistrati? La riforma prevede l’attribuzione di un voto unitario. Se in un Consiglio giudiziario ci sono, per esempio, tre o quattro avvocati, questi esprimono un voto solo. Davvero una cosa singolare. E se questi colleghi non sono d’accordo tra di loro, che voto verrà espresso? L’avvocatura, nell’apposita Commissione, ha spiegato che occorreva oggettivizzare il voto che gli avvocati avrebbero espresso per i magistrati in sede di valutazione. Va precisato però che è stata la legge delega a prevedere il voto unitario. Si tratta, secondo me, di un aspetto sintomatico della paura di far partecipare l’avvocatura alla valutazione dei magistrati. Fino a quando i magistrati, con il meccanismo corporativo, con le correnti che questo esprime, potrà procedere alla auto-valutazione per gli avanzamenti di carriera, non ci sarà alcun rimedio rispetto all’attuale stato delle cose. Con le carriere separate ci vuole il controllo politico sui pm: perché no? di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 26 agosto 2023 Solo il controllo del potere legislativo ci libera dall’ipocrita obbligatorietà dell’azione penale. Nel mese di aprile del 2020 il procuratore capo di Milano Francesco Greco, con una circolare rivolta ai suoi sessanta sostituti, impose una deroga all’applicazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Evitate -era scritto nel documento- di chiedere al gip l’applicazione di misure cautelari in carcere se non per reati gravissimi commessi con modalità violente. Il motivo era molto serio, l’epidemia da coronavirus e la pericolosa situazione di perenne sovraffollamento delle carceri. Ma il punto che interessa sottolineare oggi, alla vigilia della discussione parlamentare su vari progetti di modifica costituzionale per separare le carriere di giudici e pm, è che l’obbligatorietà non è un tabù inespugnabile. E che l’articolo 112 della Costituzione può benissimo essere abrogato e sostituito da un principio, quello della discrezionalità dell’azione penale, che è il contrario di quel che succede oggi in Italia, cioè il totale e incontrollato arbitrio con cui si muove un soggetto processuale, il pm, nel selezionare, sotto anziché sopra il tavolo, le carte che vedranno la luce processuale, separandole da quelle destinate alle tenebre del cestino della carte straccia. Un’attività coperta dall’ipocrisia invece che dalle regole, senza che questo soggetto selezionatore debba mai risponderne a nessuno. Non agli elettori, visto che ogni magistrato, giudice o accusatore che sia, è un burocrate che ha vinto un concorso. Non al ministero di Giustizia o al Parlamento come è in tutti i Paesi dell’Occidente democratico, sia quelli anglosassoni del common law, sia quelli europei del civil law. Ogni volta, e questa ultima potrebbe essere quella buona, in cui la politica cerca di riprendersi nelle mani il ruolo di legislatore che le assegna la Costituzione secondo il principio della divisione dei poteri, e tenta di toccare le carriere dei magistrati e proporre la separazione tra chi accusa e chi giudica, ecco che l’intera corporazione grida come un sol uomo contro l’”attentato”. “Così il pubblico ministero finirà sotto il controllo politico!”. Perché no, viene da rispondere. Naturalmente depurando la parola “controllo” dell’aura di disvalore che le toghe le attribuiscono. Prima di tutto va detto che la separazione delle carriere tra requirente e giudicante, mezzo fondamentale per arrivare a una terzietà del giudice come soggetto separato e “non amico” delle parti processuali, è solo l’antipasto, la premessa indispensabile per portare l’Italia fuori da sistemi degni di Paesi totalitari e farla rientrare nel mondo moderno e occidentale. Magari ricordando anche le nostre origini, perché il diritto romano prevedeva un vero sistema accusatorio pieno, e non solo “tendenziale” come quello della riforma del 1989. Separazione come mezzo per la terzietà del giudice e non come fine a se stesso, come sottolineano le diverse proposte di legge oggi depositate in Parlamento e che traggono ispirazione da quella su cui l’Unione Camere penali raccolse oltre 70.000 firme nel 2017. Mezzo, ma anche presupposto. Perché non basta, anche se sarebbe già molto, per esempio, con la spaccatura in due del Csm, togliere ai pm quel potere elettorale di condizionamento sulle carriere dei giudici che deriva proprio dal loro ruolo di investigatori. Perché è proprio la funzione requirente che va ridefinita per essere adeguata al sistema accusatorio del processo. Va ricordato che l’autonomia e l’irresponsabilità (cioè la non responsabilità, il non dover render conto delle proprie azioni a nessun soggetto) concesse dai padri costituenti al pubblico ministero furono frutto di un compromesso e bilanciate con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Che il principio di voler perseguire ogni reato sia irrealizzabile è sotto gli occhi di tutti. Tanto che il criterio delle priorità nella politica anticrimine è stato posto fin dal 1993 dalla Commissione Conso, che pure era composta di soli magistrati, e dalle due Bicamerali, quella presieduta da Ciriaco De Mita e quella guidata da Massimo D’Alema. In entrambe fu chiaro che parlare di “priorità” vuol dire spezzare il nocciolo duro dell’obbligatorietà dell’azione penale. Certo, ci sono stati anche magistrati, come il procuratore generale di Torino Maddalena nel 2007, che hanno preso personalmente l’iniziativa di avviare una politica delle corsie preferenziali. Ma dovendo rispondere sempre, nel nome dell’autonomia del pubblico ministero, solo a se stessi. Ecco, questo non è da Paese democratico, è da Paese totalitario. Separiamo le carriere dunque, ma rompiamo anche l’ipocrisia della finta obbligatorietà e rendiamo il giudice veramente terzo e più forte, rendendo la figura del pubblico ministero più democratica. Non è questione di “controllo” politico, ma di responsabilità. La violenza sulle donne non è un affare di famiglia di Roselina Salemi Corriere della Sera, 26 agosto 2023 L’80 per cento dei femminicidi ha origine dai maltrattamenti in casa. “Dobbiamo mettere in sicurezza le vittime e rieducare gli uomini” dice la questora che ha inventato un protocollo speciale, partito da Milano e oggi operativo in 70 città. Forse ci voleva una che ha combattuto contro la ‘ndrangheta per affrontare temi come la violenza sulle donne. Quando Alessandra Simone, oggi questora (o questore, non le importa) di Savona, ha cominciato, nel 1993, a indagare sul clan Piromalli, i sospetti erano tanti, le condanne e gli arresti, zero. Con lei a capo della Squadra Mobile di Gioia Tauro (Criminalpol di Reggio Calabria), sono arrivate le manette e poi gli ergastoli. Si è sempre sentita un’investigatrice, perciò, quando è arrivata a Milano nel 2017 e le hanno offerto di occuparsi di “soggetti deboli” si è messa a studiare. Avvocata, con un master di secondo livello in criminologia, abuso all’infanzia, psicologia del trauma, ha avuto un approccio più scientifico che emotivo. E ha funzionato. Il protocollo Zeus, contro violenza domestica e stalking, partito da Milano nel 2018 oggi è operativo in 70 città, e aumenteranno. Ma non basta, perché le donne continuano a essere uccise. Nei primi sei mesi di quest’anno sono state sessanta, ventotto ammazzate dal compagno o dall’ex. Come rivoluzionaria forma di comunicazione, Alessandra Simone ha scelto Un altro domani, docufilm di Silvio Soldini e Cristiana Mainardi, un puzzle di storie, alcune terribili, altre a lieto fine. E lo accompagna al Festival della Mente (1-3 settembre, vedi riquadro nella pagina seguente) così chi non lo conosce ancora, scoprirà il “Protocollo Zeus”, che forse permetterà di avere “un altro domani”. Com’è cambiato il suo lavoro, dalla criminalità organizzata alla violenza domestica? Ho studiato per due anni. Ho cercato di capire che cosa può fare la polizia: molto. Mi sono trovata in un mondo completamente nuovo. Mi ha sorpreso il senso di colpa che provano le donne, anche quelle aggredite da sconosciuti. Per sintetizzare, abbiamo un problema. La parità non esiste. Parità significa zero femminicidi. Che cosa l’ha colpita quando ha incontrato le donne maltrattate? Ho diretto anche la Sezione Omicidi della squadra mobile. Quando una persona è stata assassinata, ti affidi ai tecnici: il medico legale, la scientifica, gli esperti che faranno “parlare” il corpo. Ma trovarsi di fronte a una donna violentata, abusata, è lacerante per chi parla e per chi ascolta. Vedi un’anima spezzata. Dai racconti ho imparato SEGUITO che, per quanto siano importanti, le esigenze dell’indagine devono rispettare i tempi della vittima. Devi perquisire, interrogare, controllare il cellulare, ma devi anche usare l’empatia. Perché tante restano dentro situazioni violente? Molte hanno sentimenti ambivalenti. Vogliono andarsene, ma lui sa come convincerle a restare. Qualcuna si sente un po’ crocerossina: io lo salverò. Qualche altra pensa: con me cambierà. C’è chi ha paura e chi non vuole rompere per amore, o perché ci sono figli. Ma il fenomeno è trasversale, riguarda tutte le classi sociali e tutti i livelli di cultura. Il femminicidio è il fallimento del sistema. Arrivi quando la donna è morta. Bisogna pensarci prima. Il 75-80 per cento dei femminicidi ha origine dai maltrattamenti in famiglia. E lei che cosa ha pensato di fare? Abbiamo cominciato con il protocollo Eva, che riguarda il primo intervento, quando c’è stata una lite in famiglia (violenta, uno schiaffo). L’idea mi è venuta grazie a un convegno internazionale del 2005. I colleghi svedesi hanno elaborato una strategia che codifica i segnali di una situazione a rischio. Oggi in Italia gli interventi confluiscono in una banca dati interforze, e le informazioni inserite nel sistema rimangono a disposizione. Così gli operatori sono preparati a intervenire e possono, anche loro, inoltrare la segnalazione per far scattare il Protocollo Zeus. Un nome di battaglia? Bè sì. Zeus, il padre degli dei è l’archetipo dell’uomo che deve appagare il suo bisogno di controllo. Noi dobbiamo fermarlo prima che diventi un maltrattatore incallito. Se lo facciamo all’inizio, possiamo obbligarlo a un trattamento terapeutico. Come funziona? Gli notifichiamo l’ammonimento, un provvedimento amministrativo, per intimargli di interrompere qualsiasi forma di aggressione anche verbale. Se lo viola, avrà delle conseguenze. La segnalazione può partire da un vicino di casa, da un infermiere, da un parente, sempre con la garanzia dell’anonimato. All’ammonito prendiamo un appuntamento con il Centro partner (Cipm), specializzato nel contrasto alla violenza e nei conflitti interpersonali, e lo avviamo a un trattamento. A questa procedura pochi si sottraggono. Ogni due tre-mesi la situazione viene valutata, e una volta presi in carico, questi uomini non li molliamo. Le recidive, tra chi ha accettato il trattamento, si sono ridotte del 90 per cento. Lei ha dedicato il suo Ambrogino d’oro, il premio più importante della città di Milano, a una donna che non è stato possibile salvare… A Roberta Priore, assassinata a Milano nel 2019 dal suo compagno, che poi si è suicidato in carcere. Quattro giorni prima le volanti erano entrate a casa loro per una lite verbale, due giorni dopo c’era stato un altro allarme e avevamo preparato subito l’ammonimento. Quando abbiamo telefonato per comunicarlo, Roberta era appena stata uccisa. Allora ho chiamato i ragazzi della Divisione Anticrimine di Milano, che all’epoca dirigevo (erano due al mio arrivo, sono diventati dieci) e ho spiegato che quella era la strada giusta. Eravamo affranti, però c’eravamo, l’avremmo salvata e avremmo salvato anche lui. Due vite. Ecco perché dobbiamo arrivare ancora prima. Che cosa è sbagliato? Considerare gli uomini soltanto come antagonisti. Dobbiamo rieducare, senza sminuire la gravità dei fatti, ma facendoli comprendere. Dobbiamo mettere in sicurezza le donne, aiutarle a denunciare, offrire sostegno. Oggi, per fortuna, non ci sono più poliziotti che dicono alla moglie maltrattata: vai a casa e fai pace con tuo marito. Ma se non lavoriamo anche sull’uomo, avremo salvato soltanto quella donna e lui potrà cercarne altre. Lo vediamo con gli stalker. Pensano di essere nel giusto, non capiscono l’invasione della sfera privata. Dicono: non facevo che preoccuparmi di lei, mandavo rose, messaggi, regali, che c’è di male? Riesce a essere ottimista? Sono poliziotta e calabrese, perciò diffidente, eppure riesco a essere ottimista. Il film, dal quale è nata una bella amicizia con Cristiana Mainardi, che ha fatto uno straordinario lavoro di ricerca e scrittura, è un inno alla speranza. Parlano in tante. C’è quella che ha visto assassinare la madre, c’è il padre che ha ucciso una delle due figlie (e voleva fare lo stesso con l’altra), eppure nessuna è rimasta ferma nel dolore. Se costruiamo un sistema di fiducia, se i giornali smettono di fare titoli come “Ammazzata per amore”, se il medico, l’insegnante, il vicino di casa non si voltano dall’altra parte, le cose possono cambiare. Questi non sono affari di famiglia, sono affari di tutti. Molte serie tv raccontano storie come quelle che incontra tutti i giorni, per esempio Law and Order- Unità Vittime Speciali. Ci trova delle somiglianze? Le vedo poco. Fuori servizio, cerco un minimo di distanza dal mio mondo. Mi piacciono i film di Clint Eastwood. E sì, preferisco le commedie francesi. Il sistema delle misure di prevenzione non funziona: è tempo di rivedere la legge di Paolo Pandolfini Il Riformista, 26 agosto 2023 Piero Cavallotti, imprenditore siciliano la cui azienda di famiglia nel 1999 venne sequestrata nell’ambito di una inchiesta per associazione di stampo mafioso, si è rivolto alla Cedu. Il ricorso è stato dichiarato ammissibile ed i giudici di Strasburgo hanno posto alcune questioni al governo italiano. “La politica deve capire una volta per tutte che il sistema delle misure di prevenzione non funziona”, afferma Piero Cavallotti, imprenditore siciliano la cui azienda di famiglia nel 1999 venne sequestrata nell’ambito di una inchiesta per associazione di stampo mafioso. Nel 2011, pur essendo stato definitivamente archiviato il procedimento, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo allora presieduta da Silvana Saguto, poi radiata dalla magistratura e condannata ad otto anni di prigione proprio per l’illecita modalità con cui gestiva i beni, tramutò il sequestro in confisca. Per motivare la decisione vennero utilizzate le stesse fonti di prova che i giudici penali avevano ritenuto inidonee per sostenere l’accusa di mafia. L’azienda, nel frattempo gestita dagli amministratori giudiziari, era però fallita, mandando così la famiglia Cavallotti, al termine del processo risultata essere vittima delle estorsioni dei clan, sul lastrico. Nel 2016 i Cavallotti, assistiti dagli avvocati Baldassarre Lauria e Alberto Stagno d’Alcontres, decisero allora di presentare ricorso alla Cedu. Il ricorso è stato dichiarato ammissibile ed i giudici di Strasburgo hanno posto alcune questioni al governo italiano. Ad esempio, se la confisca dei beni a soggetti assolti in un processo penale non violi la presunzione di innocenza. Poi, se è stato motivato che i beni confiscati avrebbero potuto essere di provenienza illecita sulla base di una valutazione obiettiva delle prove fattuali, e senza invece basarsi su un mero sospetto. Ed infine, se l’inversione dell’onere della prova quanto all’origine legittima dei beni acquisiti molti anni prima abbia imposto un onere eccessivo ai ricorrenti. In una lettera indirizzata all’Agenzia dei beni confiscati, alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e ai ministri dell’Interno e della Difesa, i Cavallotti hanno quindi chiesto di sospendere “qualsiasi eventuale iniziativa volta all’utilizzo dei beni oggetto della confisca di prevenzione” fino alla decisione della Cedu o, in subordine, “fino alla comunicazione da parte del governo italiano delle sue determinazioni”, che dovranno essere comunicate entro il 13 novembre a Strasburgo. La richiesta di sospensiva risponde ad una esigenza reale: i beni sono già stati danneggiati e rischiano di diventare inutilizzabili. “Per assurdo - aggiunge Cavallotti - se i beni venissero assegnati a qualche associazione e la Cedu dovesse darci ragione non riavremmo le nostre case che hanno per noi un grande valore affettivo, ma l’equivalente in denaro. Beni che nel frattempo sono stati vandalizzati: i ladri hanno portato via tutto, anche le piastrelle e i sanitari. Chi ci dovrebbe risarcire? L’Agenzia che non ha vigilato e che dice di non avere risorse? Ci sono danni che si potevano evitare e che non potranno mai essere risarciti. Altri, però, si possono ancora scongiurare”. “La pronuncia della Cedu sarà sicuramente un grande passo avanti, perché per la prima volta potrebbe essere riconosciuto il fatto che il sistema di prevenzione contrasta in alcuni suoi aspetti con la Convenzione europea: l’uso di presunzioni e di meri sospetti ha soppiantato la ricerca della prova”, ricorda Cavallotti, aggiungendo che “occorre impedire che una persona assolta per gli stessi fatti si veda portare via tutto il patrimonio come è successo alla mia famiglia. La lotta alla mafia non deve trasformarsi in una inaccettabile persecuzione di innocenti”. “Mi rendo conto - continua - che la revisione del sistema delle misure di prevenzione non è nel programma della coalizione. Ma non ci può essere lotta alla mafia senza il rispetto dei diritti e delle garanzie costituzionali”. Attualmente il 90% delle aziende sottoposte a sequestro e finite in mano agli amministratori giudiziari falliscono dopo poco. Senza contare che la confisca determina la perdita, dall’oggi al domani, di ogni bene, impedendo di poter continuare a lavorare, a mandare i figli a scuola, a fare la spesa. Il mese scorso, comunque, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, intervenuto in prefettura a Palermo per la firma di un protocollo d’intesa per l’assegnazione di alcuni beni confiscati alla mafia, aveva affermato che la normativa italiana “è un unicum nel panorama mondiale: siamo richiesti da Paesi stranieri, anche europei per vedere come funziona il nostro sistema. È bene celebrarlo nella maniera dovuta”. “Rivedere la legge sulle misure di prevenzione non vuol dire fare un regalo alle mafie, non significa indebolire la lotta contro la criminalità organizzata. Vuol dire solo evitare che la vita di persone innocenti venga distrutta nuovamente. Com’è capitato alla mia famiglia”, puntualizza Cavallotti. Livorno. Trovato senza vita in cella, disposta autopsia per accertare le cause della morte di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 26 agosto 2023 Si sarebbe dovuto sposare tra un mese il detenuto, un uomo italiano di 55 anni, che è deceduto ieri mattina nel carcere di Livorno, probabilmente per un malore, anche se saranno gli esami autoptici a stabilirlo. A trovarlo senza vita sono stati i compagni di cella: visto che l’uomo non rispondeva hanno dato l’allarme ma il medico intervenuto sul posto non ha potuto fare altro che constatare il decesso. Sgomento è stato espresso dal garante dei detenuti di Livorno Marco Solimano, che conosceva personalmente il recluso deceduto e che, dopo essersi recato proprio ieri mattina al carcere livornese, ha visto un piccolo fiore appoggiato sullo spioncino del blindato della sua cella: “Era felice per il modo in cui la sua vita si stava riprendendo” ha detto. “È indispensabile conoscere le ragioni che hanno stroncato la vita di quest’uomo per onore di verità e giustizia - ha proseguito. Un senso di pesantezza e tristezza per una morte intervenuta in una sezione detentiva, nello squallore e nella solitudine di una cella”. Avellino. Mele: “Più attenzione per i detenuti. Basta bimbi negli istituti” di Angelo Giuliani ottopagine.it, 26 agosto 2023 Il Garante irpino ha incontrato la donna che ha tentato il suicidio a Lauro: è fuori pericolo. Carceri nel caos in Irpinia. È di ieri la notizia di una detenuta a Lauro che ha tentato il suicidio ingerendo candeggina; la 39enne è fuori pericolo ma il suo gesto ripropone la drammaticità della condizione che si vive negli istituti penitenziari. “Sapete bene che sono tanti i suicidi e i tentativi di suicidi in Irpinia - spiega il garante dei detenuti Carlo Mele - Le carceri vanno attenzionate. Il periodo estivo acuisce questi disagi per una serie di condizioni e la malattia mentale rischia di prendere il sopravvento. Incontrerò la detenuta e cercherò di capire quale è stato il motivo del suo gesto. La pena deve essere rieducativa e bisogna investire di più su figure professionali in questo senso”. All’Icam di Lauro sono nove le detenute, tra italiane e straniere, con 10 figli al seguito. Per Carlo Mele avere i bambini dietro le sbarre è eticamente inaccettabile. “Il carcere, per quanto possa essere bello e colorato, è pur sempre un carcere. I bambini non devono stare in carcere in un paese civile, è inaccettabile. Devono vivere la loro età nella normalità”. Bologna. “Caldo e troppi detenuti, al carcere minorile è di nuovo emergenza” bolognatoday.it, 26 agosto 2023 L’allarme del sindacato di polizia: “Fortunatamente non si stanno registrando al momento situazioni di criticità, ma chiaramente la situazione è allarmante”. È di nuovo emergenza al carcere minorile del Pratello. A lanciare l’allarme è la Fp Cgil ramo polizia penitenziaria che riporta “l’ennesima situazione di grave sovraffollamento della struttura che vede la presenza di 46 detenuti ristretti, ben 6 in più rispetto alla prevista capienza”. A rendere ancora più difficile la situazione, la grave carenza di personale, anche socio-educativo, ridotto al minimo “in pieno piano ferie estive” situazione che sta creando notevoli difficoltà nella quotidiana gestione delle varie attività all’ interno dell’istituto. Non di residuale impatto infine, il caldo intenso di questi giorni e la mancanza di sistemi di climatizzazione adeguati, con i ventilatori mobili che non possono essere utilizzati per ovvie questioni di sicurezza. LA Fp Cgil ha aggiunto in una nota, che “nulla è stato fatto dall’amministrazione per alleviare la situazione già rappresentata recentemente e che la stessa è ancora di più peggiorata presso l’Istituto in questione”. Fortunatamente “non si stanno registrando al momento situazioni di criticità, ma chiaramente la situazione è allarmante” e si registrano difficoltà nella gestione per la carenza di pasti da fornire ai detenuti, al momento sono presenti 23 detenuti minori e 23 maggiorenni, con apparecchi televisivi non sufficienti per tutti. Questa O.S. auspica che la situazione sopra descritta venga affrontata con urgenza dall’amministrazione ed a tal proposito si chiede l’immediato stop agli ingressi di nuovi giunti ed il conseguente sfollamento della struttura. Si chiede inoltre “l’urgente incremento dell’organico di polizia penitenziaria in carico alla struttura in considerazione della prossima ripresa di tutte le attività istituzionali al termine della stagione estiva” reclama il sindacato. Taranto. Quando i detenuti diventano panificatori di Angelo Diofano Corriere di Taranto, 26 agosto 2023 Progetto di formazione e avviamento al lavoro della cooperativa di volontariato carcerario “Noi & Voi”. Partirà a settembre a cura dei detenuti della casa circondariale “Magli” di Taranto la produzione di panettoni artigianali. È l’ultima realizzazione del progetto di formazione e avviamento al lavoro “Fieri Potest Pastry Lab” promosso dalla cooperativa di volontariato carcerario “Noi & Voi”, che ha all’attivo la produzione di altre specialità da forno quali friselle, grissini, cracker, tarallini e soprattutto i “Sorrisi”, il marchio della linea di biscotti che, a quanto pare, riscuotono particolare gradimento. I biscotti, in elegante confezioni, sono già in vendita presso alcune attività commerciali cittadine, con l’entusiasta apprezzamento degli acquirenti, che già ne fanno oggetto di intenso passaparola fra parenti e amici. E mai nome fu così appropriato in quanto simboleggia il sorriso di chi vede ripagato il suo impegno di rinascita, pregustando nuove e ben coinvolgenti prospettive di vita, vissuta in pienezza e senza più l’amarezza di rimanerne ai margini. Il tutto sta avvenendo. vanno bene, dopo fase sperimentale, anche le friselle, preparate con vari ingredienti e, con l’utilizzo degli ingredienti rivenienti dalle lavorazioni del luppolo, nel birrificio attivo in carcere (altra iniziativa di promozione sociale per i detenuti, di cui ci siamo recentemente occupati), ci si sta affinando nella preparazione di grissini, tarallini e cracker, la cui qualità anche in tal caso non deluderà i consumatori. Per maggiori informazioni basta consultare la pagina www.facebook.com/fieripotest.pastrylab “Il tutto è nato dalla volontà di fornire ulteriori sbocchi occupazionali ai detenuti. Perciò quella dei prodotti da forno ci è sembrata un’allettante opportunità, confermata ampiamente dai fatti - spiega don Francesco Mitidieri, presidente dell’associazione ‘Noi & Voi’ e cappellano del ‘Magli’ - L’esperienza ha avuto inizio già nel 2020, con relativi corsi di formazione condotti da operatori della nostra cooperativa e l’acquisto dei macchinari. La pandemia ha bloccato l’attività per la chiusura del carcere agli esterni, con l’impossibilità, quindi, di farvi accedere i nostri formatori”. La ripresa è avvenuta ai primi mesi di quest’anno, con la preziosa collaborazione di “Fondazione con il Sud-Progetto Bill”, per la formazione l’avviamento al lavoro, e con la possibilità di attingere ai fondi ex Ilva, messi a disposizione del Comune, per l’acquisto di nuovi macchinari. “I frequentanti hanno da subito mostrato grande impegno nell’apprendere le nuove tecniche di lavorazione e di cottura, con l’ottenimento di prodotti di qualità” - aggiunge Antonio Erbante, presidente della cooperativa ‘Noi & Voi”, che ha provveduto all’assunzione di tre detenuti, particolarmente distintisi nell’attività, e del formatore Pierluigi Barbaro. “Panificatori di Taranto e provincia - conclude Erbante - hanno chiesto informazioni alla cooperativa per avvalersi di tali professionalità: e questo non può che riempirci di gioia”. Viterbo. Verrà costruito un nuovo padiglione del carcere: 81 celle in più per 10,5 milioni di euro di Federica Lupino Il Messaggero, 26 agosto 2023 Un nuovo padiglione al carcere Mammagialla per 81 posti in più a disposizione. L’ampliamento della Casa circondariale di Viterbo lo scorso anno era stato inserito dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia nel programma di 8 nuove strutture da costruirsi, utilizzando i fondi complementari al Piano nazionale di ripresa e resilienza. E ora è ufficiale: la Conferenza dei servizi si è conclusa positivamente e dal Provveditorato interregionale per le opere pubbliche per il Lazio, l’Abruzzo e la Sardegna è arrivata l’autorizzazione alla realizzazione del progetto che prevede la costruzione nell’area nord ovest. Per ora a disposizione ci sono 10,5 milioni di euro. Mammagialla è gravato da anni dal mix esplosivo di organico insufficiente e sovraffollamento: rispetto agli organici previsti dal Dap, mancano almeno 100 agenti di polizia penitenziaria: per quanto riguarda i detenuti, i posti regolamentari sarebbero 431 ma i numeri reali arrivano a oscillare tra i 550 e i 600. Da ricordare, inoltre, che il carcere di Viterbo ospita anche detenuti al 41 bis e in regime di alta sicurezza. Il nuovo edificio, che sarà collegato alla struttura penitenziaria già esistente in strada Santissimo Salvatore, si articolerà su “sei livelli fuori terra, con un piano interrato occupato in parte dalla sotto-centrale tecnica che lo serve. Il primo livello fuori terra sarà destinato - riporta il progetto - alle attività collettive, sociali e trattamentali (zone giorno) e, in un avancorpo, alla cucina di reparto”. Sempre a questo livello saranno a disposizione dei detenuti anche delle aree esterne recintate, con zone porticate e serre. “Ai tre livelli sovrastanti - continua il dossier del nuovo padiglione - si svilupperanno le zone detentive di pernottamento fornite di ampie superfici per le attività collettive e sociali (zone residenziali). Al quinto livello sono previsti terrazzi per le attività fisiche. Nella parte centrale del sesto livello la zona franca (i per attività libere, delimitati prevalentemente da superfici vetrate esterne)”. Il nuovo edificio sarà inclusivo anche per i diversamente abili. È infatti stato progettato nel rispetto delle leggi per l’eliminazione delle barriere architettoniche. Due camere al primo piano, una camera al secondo piano e i relativi servizi sono state progettate per essere utilizzate da persone disabili su sedie a rotelle. Tutti i corridoi e gli spazi per la movimentazione sono stati dimensionati tenendo conto delle esigenze dei portatori di handicap. Attualmente, per la realizzazione dell’opera (capienza complessiva è di 81 camere, di cui 3 per portatori di handicap) è stato stanziato un finanziamento di 10.500.000 euro, insufficiente però alla completa realizzazione della stessa. Pertanto, si è reso necessario suddividerla in un primo stralcio funzionale da 7,9 milioni. I poveri a Torino sono più di 40 mila di Cristiano Corbo Corriere di Torino, 26 agosto 2023 Tredici mense distribuiscono 4 mila pasti al giorno. Dopo il Covid, +40% di richieste di aiuto alla Caritas. Tredici mense sociali solo a Torino. Più di 4 mila pasti al giorno a regime regolare. In un agosto dai mille volti, quello della povertà è rimasto costante, ricevendo il supporto di chi si è attivato senza tregua per preservare un servizio utilizzato da tanti, troppi torinesi. Prezzi, bollette, elettricità. Caro benzina e affitti. I salari che non tengono il passo. Nel calderone del disagio è tutto mischiato e in fondo le differenze poco importano se davanti c’è una richiesta di aiuto, il trauma della povertà. Secondo il report della Caritas, in città sono stimati 40 mila poveri tra quelli censiti e non registrati sul supporto. Considerando l’intera Diocesi si arriva a 70 mila. Ecco perché la richiesta di donazione si fa più intensa, dai pacchi di viveri alla distribuzione di abiti e medicinali. Per arrivare al sostentamento diretto, la processione quotidiana che parte alle 11 e termina oltre le 14. Dal Sacro Cuore di Gesù in via Brugnone a Sant’Alfonso in via Netro. Quindi il Cottolengo, Sant’Antonio da Padova, le colazioni alla Casa Santa Luisa e il Cenacolo Eucaristico. Luoghi di conforto, che vanno oltre la distribuzione del pranzo e si fanno socialità e assistenza. Luoghi da cui chi vi lavora conferma le code diventate più lunghe, l’impossibilità di inserire in un contesto o in un’immagine chi usufruisce dei servizi. La povertà non ha più un volto. E sono 16 mila le persone che ogni anno hanno un rapporto con Caritas, che ha registrato un incremento delle domande di sostegno del 40% dopo il periodo più intenso della pandemia da Covid 19. Soltanto negli ultimi 12 mesi i nuovi accessi ai servizi sono raddoppiati (più 53%) e nelle singole strutture c’è chi immagina incrementi ulteriori da qui alle prossime settimane, con la fine dell’erogazione del reddito di cittadinanza che avrà un peso enorme. Altro aumento in vista, almeno del 35% sulle domande, con effetti diretti e indiretti al momento impossibili da calcolare. L’unica certezza è che saranno mesi in cui i costi non caleranno. Così come le preoccupazioni, anche di accoglie. Per comprendere la portata del fenomeno, i numeri sanno spiegare: al Sermig si raggiunge quota 150 ingressi al giorno, al Convento Sant’Antonio da Padova vengono distribuiti 450 pasti, più di 300 sono quelli forniti al Cottolengo. Nelle case della rete di accoglienza si contano 600 persone, 450 famiglie vengono aiutate dal Polo Alimentare. Numeri che mostrano una situazione che si regge sul filo delle possibilità e su quello delle donazioni, che ora si spera possano tornare in buon numero dopo la pausa estiva di tante attività. Nell’ultimo mese, un grosso aiuto è arrivato pure dall’iniziativa del Comune, con la mensa estiva di via Ghedini in Barriera di Milano. In transito quotidiano, almeno 200 persone. E il numero non è calato nei giorni più caldi, così come in quelli di pioggia: per tanti è diventata una certezza imprescindibile. Oltre la semplice rete di sostentamento, è stato sentirsi meno soli. Palermo. Malaspina, sei detenuti diventano pupari e portano in scena Danilo Dolci palermotoday.it, 26 agosto 2023 Angelo Sicilia ha coordinato i lavori del progetto conclusosi con la realizzazione dello spettacolo “Chi tace è complice”, ispirato al lavoro sociale ed educativo realizzato in Sicilia dal sociologo triestino. Sei detenuti dell’istituto penale per minorenni Malaspina sono diventati pupari grazie al progetto “Muoviamo i fili. I Pupi della Legalità” promosso dall’Ipm guidato dalla direttrice Clara Pangaro. Angelo Sicilia ha coordinato i lavori del progetto conclusosi con la realizzazione dello spettacolo “Chi tace è complice”, che porta il titolo di una delle frasi pronunciate dal sociologo Danilo Dolci, intellettuale di Trieste che nel 195l2 scelse di vivere in Sicilia facendo un’emigrazione al contrario. Ieri, lo spettacolo finale all’interno dell’istituto. L’esempio di Danilo Dolci - “I ragazzi hanno realizzato questa storia e mettendola in scena basandosi su alcuni aspetti importanti dell’opera del sociologo - spiega Angelo Sicilia, che attraverso i pupi promuove messaggi di legalità -. Il trasferimento dal nord al sud in una realtà difficile come la nostra, la creazione del Borgo di Dio, che esiste ancora oggi, divenuta una struttura socioeducativa che ha dato a tanti ragazzi la possibilità di studiare”. I detenuti hanno conosciuto la figura e la storia del sociologo: dal primo sciopero alla rovescia nel ‘56, che ha coinvolto disoccupati, contadini e pescatori di Trappeto e Partinico che, ispirandosi all’articolo 4 della Costituzione, resero fruibile una ‘trazzera’ in poco tempo, alla radio dei poveri cristi. “Nel 1970 a due anni dal terremoto del Belìce - ricorda Sicilia -, Dolci realizzò la prima radio privata in Italia. Proprio a Trappeto, per 26 ore, partiva: ‘Sos, questa è la radio dei poveri cristi’. Messaggio per denunciare la terribile condizione dei terremotati, a cui mancavano case, strutture essenziali e servizi”. Il laboratorio al Malaspina - “I ragazzi hanno partecipato con grande entusiasmo e coinvolgimento alla realizzazione delle scenografie dello spettacolo mettendo da parte la propria condizione personale per qualche ora, e rilassandosi. Un lavoro di 3-4 mesi per 1-2 giorni alla settimana - spiega la scenografa Sofia Gargano -. La pittura crea quel miracolo di distacco dai propri pensieri. La creatività aiuta i ragazzi a dare il meglio di sé. Hanno anche lavorato in squadra riscoprendo il senso del gruppo. Tre, quattro ragazzi hanno lavorato alla stessa tela: una stoffa di grandi dimensioni, dipinta con bianco acrilico, intelaiata con una cornice per poi dipingervi sopra gli scenari della narrazione”. Il progetto “Muoviamo i fili. I pupi della legalità” - È il quinto anno che Angelo Sicilia lavora accanto ai ragazzi del Malaspina guidandoli in tutte le fasi di realizzazione di uno spettacolo di teatro dei pupi, che è stato poi portato in scena. Ogni anno un tema educativo diverso. Dall’immigrazione alla discriminazione razziale del popolo ebraico alla strage delle Foibe. Dall’esperienza personale dei giovani detenuti, protagonisti del progetto, spesso provenienti dalle periferie di Palermo, alla storia di Francesca Morvillo, magistrato al tribunale dei minori. Un ampio progetto portato avanti in questi ultimi anni con il Centro di Giustizia Minorile della Sicilia, con gli Usm di Palermo, Messina e Caltanissetta e gli Ipm di Palermo e Caltanissetta. “Tanti ragazzi negli anni hanno conosciuto Angelo Sicilia apprezzando il suo teatro. Alcuni di loro hanno scoperto di essere bravi nel prestare la voce ai pupi, quindi ad immedesimarsi, altri a manovrare un pupo - spiega Maria Mercadante, funzionario della professionalità pedagogica in servizio presso l’Istituto Penale Minorile “Malaspina” di Palermo -. L’aspetto di Danilo Dolci come educatore e il suo messaggio di non violenza, è quello che vogliamo trasmettere a questi ragazzi”. Mattarella: “Rispetto delle diversità e libertà, così nasce la nostra Carta” Il Dubbio, 26 agosto 2023 Giovani, migranti, ambiente. Il discorso integrale del capo dello Stato a Rimini: “È il binomio persona-comunità a sorreggere un ordinamento che non deve essere intrusivo, ma diretto a valorizzare pluralità e libertà”. Ecco l’intervento integrale del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile. Permettetemi di riprendere le fila di un discorso, avviato, con la vostra comunità, sette anni or sono, nel 2016, qui a Rimini. Nel frattempo, molti di quei giovani, sono passati all’età adulta; tanti sono in cammino; mentre nuove generazioni si affacciano, nella continuità di una speranza, di un impegno. Ricorrevano, allora, i settant’anni della Repubblica; e mi appare significativo che, questo, nuovo, dialogo diretto, avvenga in occasione dei settantacinque anni della nostra Costituzione. Il titolo - coraggioso - di quel Meeting, affermava: “tu sei un bene per me”; sottolineando il valore dell’incontro. Senza che fosse progettato, nell’anno del Covid - era il 2021 - ho avuto modo di rivolgermi, alla platea dei partecipanti, da remoto, quando a tema era posto “il coraggio di dire io”. Mi sembra, quasi, un completamento di riflessione, svolgere qualche considerazione, qui, quest’anno, sull’amicizia, carattere dell’esistenza umana. Ringrazio, per questa opportunità, gli organizzatori del Meeting; e rivolgo un saluto e un augurio, calorosi, ai giovani che hanno animato gli incontri di questa settimana; e che torneranno da Rimini con più conoscenze, e maggiori motivazioni; ai volontari, che, con il loro servizio, e la, loro, passione, hanno consentito che si realizzasse un programma di eventi così ricco; contributo, impegnativo, al pensiero contemporaneo. Vorrei che ci interrogassimo. Su cosa si fonda, la società umana; la realtà, nella quale ciascuno di noi è inserito; la realtà, che si è organizzata, nei secoli, in società politica, dando vita alle regole - e alle istituzioni - che caratterizzano l’esperienza dei nostri giorni? È forse il carattere dello scontro? È inseguire soltanto il proprio accesso ai beni essenziali e di consumo? È l’ostilità verso il proprio vicino, il proprio lontano? È la contrapposizione tra diversi? O è, addirittura, sul sentimento dell’odio, che si basa la convivenza tra le persone? Se avessimo risposto affermativamente, anche, soltanto, a una di queste domande, con ogni probabilità, il destino dell’umanità si sarebbe condannato da solo; e da tempo. Invece, il crescere dell’amicizia fra le persone, è quel che ha caratterizzato il progresso dell’umanità. L’amicizia, come vocazione - incomprimibile - dell’uomo. Vi è una circostanza, che richiama l’attenzione. Ogni volta che, l’umanità, si è trovata di fronte al baratro - è accaduto con le due guerre, mondiali, novecentesche - ha trovato, dentro di sé, le risorse morali per ripartire, per costruire un mondo diverso, in cui, il conflitto, lasciasse posto all’incontro. Per immaginare, e progettare, il futuro insieme. E se, questa prospettiva, è naufragata nel decennio, iniziato quasi alla metà degli anni venti, proprio, per difetto di sentimenti di solidarietà e di reciproca disponibilità tra i popoli, ha avuto successo, negli anni Quaranta e Cinquanta, per la comunità internazionale, con il dar vita alle Nazioni Unite, e con l’avvio della integrazione d’Europa. Uno spirito, analogo, ha ispirato la nostra Assemblea Costituente, nella quale, opinioni diverse, si sono incontrate in spirito di condivisione, per affermare i valori della dignità, ed eguaglianza, delle persone; della pace; della libertà. Ecco, come nasce la nostra Costituzione: con l’amicizia come risorsa, a cui attingere, per superare - insieme - le barriere e gli ostacoli; per esprimere la nostra stessa umanità. Per superare, per espellere, l’odio, come misura dei rapporti umani. Quell’odio che la civiltà umana ci chiede di sconfiggere nelle relazioni tra le persone; sanzionandone, severamente i comportamenti, creando così le basi delle regole della nostra convivenza. “Homo homini lupus”, di Plauto, e il presunto “stato di natura”, di Thomas Hobbes, hanno, sempre, rappresentato ostacoli per la soluzione dei problemi dell’umanità. L’aspirazione, non può essere, quella, di immaginare che l’amicizia unisca soltanto coloro che si riconoscono come simili. Al contrario. Se così fosse, saremmo sulla strada della spinta alla omologazione, all’appiattimento. L’opposto, del rispetto delle diversità; delle specificità proprie a ciascuna persona. Non a caso, la pretesa della massificazione, è quel che ha caratterizzato, ideologie e culture, del Novecento, che hanno portato alla oppressione dell’uomo sull’uomo. Le identità plurali delle nostre comunità sono il frutto del convergere delle identità di ciascuno di coloro che le abitano, le rinnovano, le vivificano. Nel succedersi delle generazioni, e delle svolte della storia. È la somma dei tanti “tu”, uniti a ciascun “io”, interpellati dal valore della fraternità, o, quanto meno, del rispetto e della reciproca considerazione. È il valore della nostra Patria, del nostro straordinario popolo - tanto apprezzato e amato nel mondo - frutto, nel succedersi della storia, dell’incontro di più etnie, consuetudini, esperienze, religioni; di apporto di diversi idiomi per la nostra splendida lingua; e nella direzione del bene comune. Amicizia, per definizione, è contrapposizione alla violenza. Parte dalla conoscenza e dal dialogo. Anche in questo, l’amicizia assume valore di indicazione politica. Non mancano, mai, i pretesti per alimentare i contrasti. Siano la invocazione di contrapposizioni ideologiche; la invocazione di caratteri etnici; di ingannevoli, lotte di classe; o la pretesa di resuscitare anacronistici nazionalismi. Quanto avviene ai confini della nostra Europa, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, ne dà drammatica testimonianza. Viviamo un tempo di cambiamenti profondi, velocissimi, addirittura tumultuosi in alcuni campi. Tanto da non consentire, spesso, di avvalersi di uno sguardo lungo che ci aiuti a comprendere, in profondità, quale sia la direzione della nostra vita; immersi nell’affannoso consumo di un eterno presente; immemore del giorno prima e indifferente al giorno dopo. Le trasformazioni incidono sui modelli sociali, sulla produzione e il lavoro, ma anche sugli abiti mentali, sulla stessa cultura, sulle aspettative delle donne e degli uomini. Tanti descrivono il nostro come il tempo dell’individuo. L’individuo che sente di avere opportunità e respiro, mai raggiunti prima. È giusto cogliere, in questo processo, il segno positivo in termini di comprensione del proprio ruolo, della propria responsabilità, dei propri diritti. Ma occorre, anche, saperne leggere i rischi di aspetti critici, di distorsioni. L’auto-affermazione dell’io, nella sua più assoluta centralità in realtà nella sua piena solitudine, appare priva di qualunque senso. Il concetto di individuo rischierebbe di separarsi da quello di persona. L’affermazione di sé - uno dei motori della vita comunitaria - vale, in realtà, se è inserita nella comunità in cui si è nati, o in cui si è scelto di vivere; e se contribuisce alla sua crescita. Vorrei attirare, ora, la vostra attenzione su un tema ricco di suggestioni ed evocativo; che si inserisce, a mio giudizio, nel filone di riflessione sul rapporto tra amicizia e istituzioni. Nel dibattito pubblico si cita, sovente, il “diritto alla felicità” elencata - come da perseguire - assieme a quelli alla vita e alla libertà, nella Dichiarazione di indipendenza, del 4 luglio 1776, degli Stati Uniti. È già interessante notare l’influenza del pensiero di esponenti della cultura del nostro Paese su quel testo. Nel confronto tra Beniamino Franklin e il filosofo napoletano Gaetano Filangieri fu, infatti, l’insegnamento di quest’ultimo a suggerire di sostituire alla espressione “diritto alla proprietà” quella relativa alla felicità. Non vi è definizione equivalente nella nostra Carta costituzionale; eppure, vi sono pochi dubbi circa il fatto che gli articoli della Costituzione delineino una serie di diritti, e chiedano, alla Repubblica, una serie di azioni positive per conseguire condizioni che rendano gratificante l’esistenza; sia pure senza la pretesa che la felicità sia una condizione permanente; quasi che la vita, con le sue traversie, non introduca momenti di segno diverso. È sufficiente riferirsi all’art. 2 della Carta dove si prevede che la Repubblica deve riconoscere, e garantire, i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità; e deve richiedere l’adempimento dei doveri, inderogabili, di solidarietà. E, all’art. 3, che chiede alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana; dopo aver sancito che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono uguali davanti alla legge. È, cioè, la dimensione comunitaria; sono le relazioni sociali a determinare la concretezza di esercizio dei diritti. Ecco allora: le nostre istituzioni sono basate sulla concordia sociale, sul perseguimento - attraverso la coesione, dunque la solidarietà - di sentimenti di rispetto e di collaborazione: l’amicizia riempie questi rapporti, rendendoli condizione per la felicità. Sono i sentimenti e i comportamenti umani che esaltano la vita della comunità. Il benessere consentito dalla pace - di cui, sino a ieri, ha potuto godere l’Europa - è frutto di questa visione. È la discordia che lo pone a rischio. È un tema universale. L’Onu, dieci anni fa, ha definito il 20 marzo Giornata Internazionale della Felicità invitando tutti gli Stati membri, le organizzazioni del sistema delle Nazioni Unite, altri organismi internazionali e regionali, così come la società civile, incluse le organizzazioni non governative, e i singoli individui, a celebrare questa ricorrenza in maniera appropriata, anche attraverso attività educative, di crescita della consapevolezza pubblica (...). Nell’occasione, il Segretario generale dell’epoca Ban Ki-moon ha ribadito: “Felicità, è aiutare gli altri. Quando, con le nostre azioni, contribuiamo al bene comune, noi stessi ci arricchiamo. È la solidarietà - diceva - che promuove la felicità”. L’amicizia, come è evidente, non è una questione intimista. Nasce, anzitutto, dal riconoscere l’altro - nella sua diversità - uguale a noi stessi. Ecco, ancora una volta, perché il sentimento dell’amicizia supera la qualità - che sovente gli viene attribuita - di mera terapia contro la solitudine, di edulcorante dell’esistenza, e riconferma il suo valore di scelta sociale e politica su cui fondare la società, su cui fondare il rapporto con gli altri popoli nella dimensione della comune appartenenza all’unica famiglia umana - qui ricordata, giorni fa dal Cardinale Zuppi - e nella dimensione dell’incontro. Sono trascorsi ottant’anni dal convegno di Camaldoli, nel luglio del 1943, nel quale un nucleo di intellettuali cattolici provò a delineare le caratteristiche e i principi di un nuovo ordinamento democratico. La dittatura fascista si stava consumando; ma ancora avrebbe causato - all’Italia e all’Europa - lutti, devastazioni, crudeltà, sofferenze. A Camaldoli provarono - nella temperie più drammatica - a disegnare una democrazia, un ordinamento pluralista; fondato sull’inviolabile primato della persona e sulla preesistenza delle comunità rispetto allo Stato. Perché il bene comune è responsabilità di tutti. Come, poc’anzi ricordavo, in Italia abbiamo la fortuna di una Costituzione orientata al rispetto della dignità di ogni persona; alle sue possibilità di realizzazione personale; e, quindi, al perseguimento della felicità di ciascuno, nel rispetto del bene comune. Ne troviamo consapevolezza nelle prime parole del Codice di Camaldoli, quello che fu chiamato successivamente Codice di Camaldoli : “L’uomo è, per sua natura, un essere socievole: sussiste, cioè, fra gli uomini una naturale solidarietà, fratellanza e complementarietà, per cui le esigenze delle singole, personalità non possono essere pienamente soddisfatte che nella società”. È il binomio persona-comunità a sorreggere un ordinamento che non deve essere intrusivo, ma diretto a valorizzare pluralità e libertà. Papa Francesco, nell’enciclica “Fratelli tutti”, ha parlato di “amicizia sociale” come orizzonte di un nuovo, più intenso, dialogo tra le generazioni; tra la cultura popolare e quella accademica; tra l’arte, la tecnologia, l’economia. Un rinnovato umanesimo nel tempo dell’innovazione, in cui avanzano le neuroscienze, la robotica, l’intelligenza artificiale, l’ingegneria genetica, le frontiere della medicina, le tecnologie digitali. L’amicizia sociale è una dimensione che lega la comunità, nell’affrontare le sfide della storia. Favorire la dimensione sociale dell’amicizia è un impegno a cui sono chiamate, tutte, le pubbliche istituzioni; ma, con esse, anche le forze sociali, economiche, le energie civili. Ora, siamo di fronte a un’altra, grande, e grave evidenza che comporta responsabilità. L’ambiente che abbiamo incrinato e impoverito. Non si possono ignorare gli appelli dell’ONU attraverso le parole, allarmate, del suo Segretario Generale. Proprio qui, in Romagna, ne abbiamo vissuto drammatica, sottolineatura. L’alluvione ha lasciato ferite profonde. I cittadini della Romagna - e i loro sindaci - non vanno lasciati soli. La ripartenza delle comunità e, con esse, di ogni loro attività, è una priorità, non soltanto per chi vive qui, ma per l’intera Italia. L’amicizia è fonte di speranza. La speranza nasce da un sentire comune. Da un sostegno offerto. Da testimonianze coerenti. Da un futuro immaginato insieme. “La speranza è il respiro della vita umana” ha scritto Jurgen Moltmann. E lo è, anche, - vorrei aggiungere - della vita di ogni comunità. Non vogliamo rinunciare, oggi, alla speranza della pace in Europa. L’Europa, che conosciamo, è nata da un reciproco impegno di pace che i popoli e gli Stati si sono scambiati, dopo l’abisso della seconda guerra mondiale. Su quella pace sono stati edificati i nostri ordinamenti di libertà, di democrazia, di diritto eguale. Su quella pace è cresciuta la civiltà degli europei. Non ci stancheremo di lavorare per fermare la guerra. È contro lo strumento della guerra che siamo impegnati per impedire una deriva di aggressioni del più forte contro il più debole. Per costruire una pace giusta. Una pace giusta non può dimenticare il dramma dei profughi. I fenomeni migratori vanno affrontati per quel che sono: movimenti globali, che non vengono cancellati da muri o barriere. Nello studio dell’appartamento dove vivo al Quirinale ho collocato un disegno che raffigura un ragazzino, di quattordici anni, annegato, con centinaia di altre persone, nel Mediterraneo. Recuperato il suo corpo si è visto che, nella fodera della giacca, aveva cucita la sua pagella: come fosse il suo passaporto, la dimostrazione che voleva venire in Europa per studiare. Questo disegno mi rammenta che, dietro numeri e percentuali delle migrazioni, che spesso elenchiamo, vi sono innumerevoli, singole, persone, con la storia di ciascuno, i loro progetti, i loro sogni, il loro futuro. Il loro futuro: tante volte cancellato. Certo, occorre un impegno, finalmente concreto e costante, e proprio dell’Unione Europea. Occorre sostegno ai Paesi di origine dei flussi migratori. È necessario rendersi conto che soltanto ingressi regolari, sostenibili, ma in numero adeguatamente ampio, sono lo strumento per stroncare il crudele traffico di esseri umani: la prospettiva e la speranza di venire, senza costi e sofferenze disumane, indurrebbe ad attendere turni di autorizzazione legale. Inoltre, ne verrebbe assicurato inserimento lavorativo ordinato; rimuovendo la presenza incontrollabile, di chi vaga senza casa, senza lavoro e senza speranza; o di chi vive ammassato in centri di raccolta, sovente mal tollerati dalle comunità locali. Occorre percorrere strade diverse. Se non se ne avverte il senso di fraternità umana, per una miglior sicurezza. Anche come investimento, anche di amicizia, sul futuro delle relazioni, con i popoli di origine, che saranno - presto - sempre più protagonisti della scena internazionale. Amicizia. Comincia da noi. Dal nostro modo di essere. Dalla nostra voglia di dare più umanità al mondo intorno a noi. La speranza è in voi giovani. Prendetevi quel che è vostro. Comprese le responsabilità e i doveri. Voi avvertite, in maniera genuina, tutti questi problemi. Avete la sensibilità di sentirvi pienamente europei. Più degli adulti. Avete conoscenze adeguate per affrontare, senza timore, le trasformazioni digitali e tecnologiche che sono già in atto. Avete la coscienza che l’ambiente è parte della nostra vita sociale. Che non ci sarà giustizia sociale senza giustizia ambientale; e viceversa. Non vi chiudete, non fatevi chiudere in tanti mondi separati. Usate i social, sempre con intelligenza; impedite che vi catturino, producendo una somma di solitudini, come diceva il mio Vescovo di tanti anni addietro. Non rinunciate, mai, alle relazioni personali; all’incontro personale; all’affetto dell’amico; all’amore; alla gratuità dell’impegno. Il mondo è migliore, se lo guardiamo con gli occhi giusti. Ci aiuta, in questo caso, ancora, la nostra Costituzione. In un discorso, tenuto alla Università di Parma, nel 1995, Giuseppe Dossetti - che, dell’Assemblea Costituente, era stato partecipe e protagonista - rivolse un appello ai giovani: “non abbiate prevenzioni rispetto alla Costituzione del ‘48, solo perché opera di una generazione ormai trascorsa - disse -. La Costituzione americana è in vigore da duecento anni e, in questi due secoli, nessuna generazione l’ha rifiutata, o ha proposto di riscriverla integralmente; ha soltanto operato, singoli emendamenti puntuali, rispetto al testo originario dei Padri di Philadelphia; nonostante che, nel frattempo, la società americana, sia passata, da uno Stato di pionieri, a uno Stato, oggi, leader del mondo… È proprio, nei momenti di confusione, o di transizione indistinta, che le Costituzioni adempiono la, più vera, loro funzione: cioè, quella di essere, per tutti, punto di riferimento e di chiarimento. Cercate, quindi, di conoscerla; di comprendere, in profondità, i suoi principî fondanti; e, quindi, di farvela amica e compagna di strada… vi sarà presidio sicuro, nel vostro futuro, contro ogni inganno e contro ogni asservimento; per qualunque cammino vogliate procedere, e per qualunque meta vi prefissiate”. Facciamo nostre queste parole. Quest’anno, il Meeting ribadisce la sua ragione fondativa: “Meeting per l’amicizia fra i popoli”, come suona, il suo nome, per esteso. Ce n’è bisogno. Fate che la speranza e l’amicizia corrano, anche, sulle vostre gambe. E si diffondano attraverso le vostre voci. L’affondo di Mattarella: “Basta odio e razzismo” di Ugo Magri La Stampa, 26 agosto 2023 Le parole scelte con cura sono un invito alla destra al potere: cambi registro. Dal caso Vannacci ai nostalgici, nessuno vada contro lo spirito repubblicano. La politica sta prendendo una piega che mette in allarme il capo dello Stato. Da Rimini ha pronunciato un discorso in cui esorta alla vigilanza contro i seminatori di zizzania e contro tutti quanti li spalleggiano per puro cinismo o calcolo, magari in vista delle elezioni europee. La competizione a destra, unita all’arroganza del potere, sta scoperchiando tombini da cui esalano miasmi velenosi; visioni sconfitte dalla storia s’illudono di sovvertire l’ordine dei valori democratici; tornano nella narrazione corrente linguaggi razzisti, omofobi, discriminatori; quanti hanno il coraggio di sfidarli finiscono vittime dei nuovi mazzieri mediatici. Sergio Mattarella non ci sta, trova inaccettabile questo andazzo. E il suo intervento di ieri innalza la soglia dell’attenzione democratica. Chi cavalca certi sentimenti, traccia una riga il capo dello Stato, si colloca fuori dello spirito repubblicano. Evita di definirli comportamenti eversivi, ma il senso cambia poco. La Costituzione nacque, testuale, per “espellere l’odio che la civiltà umana ci chiede di sconfiggere”. Per superare le culture novecentesche che hanno “portato all’oppressione dell’uomo sull’uomo”. Per rendere più unite e libere le nostre comunità che sono “il frutto, nel succedersi della storia, dell’incontro di più etnie, consuetudini, esperienze, religioni, di apporto di diversi idiomi”: tutto il contrario di quanto vanno propagandando i fautori di una razza italica mai esistita in natura. Non ci vuole molto a immaginare con chi ce l’abbia Mattarella, che cosa maggiormente lo inquieti delle polemiche di mezza estate. E come mai abbia deciso di alzare la soglia della tolleranza. Più di Roberto Vannacci, più ancora delle sue enormità sui neri, sugli ebrei e sui diversi, ciò che al Colle non va giù è il coro delle solidarietà politiche al generale, la gara tra esponenti leghisti e dei Fratelli d’Italia (compreso l’inner circle di Giorgia Meloni) a trasformarlo in martire dell’anticonformismo, in profeta della libertà di espressione, in vittima di un presunto “pensiero unico”, e la corsa a riproporne i concetti più inaccettabili, e il rozzo tentativo di sovvertire i principi, di ribaltare le gerarchie di valori repubblicani: come se fosse nei poteri di una maggioranza parlamentare farne tabula rasa nel nome del popolo sovrano. Il presidente chiarisce che ciò non sarà consentito in quanto la Costituzione lo impedisce. Di questa Costituzione plurale e antifascista Mattarella è garante tanto nelle forme quanto nella sostanza. Guarda caso, ieri pomeriggio è andato fino ad Argenta per deporre una corona di fiori sulla tomba di don Giovanni Minzoni, sacerdote vittima delle squadracce mussoliniane, del quale ricorre in questi giorni il centenario. Per i nostalgici sono anniversari imbarazzanti, ma il presidente non ha intenzione alcuna di sorvolare. Un conto è la lealtà istituzionale di cui ha dato abbondantemente prova nei confronti del governo, altra cosa la condivisione. Né sembrano frenarlo gli attacchi, sempre più tambureggianti, della pubblicistica di destra. Semmai provocano l’effetto opposto. La prova? Proprio verso la fine del suo discorso (dai toni rigorosamente laici nonostante il contesto ciellino, con richiami a grandi figure che si tendono a dimenticare come il filosofo napoletano Gaetano Filangieri) Mattarella ha proposto una lunga citazione di Giuseppe Dossetti, “professorino” dell’allora Dc che poi si fece frate, a proposito della Costituzione americana in vigore da 200 anni, davvero tanti; eppure “nessuna generazione l’ha rifiutata o ha proposto di riscriverla integralmente”, al massimo di emendarla, argomentava Dossetti. Ecco: il presidente fa sue quelle parole, le sottoscrive dalla prima all’ultima lasciando così filtrare il suo autentico pensiero sulle riforme costituzionali annunciate dalla maggioranza e dal governo. Va bene aggiornare le regole per renderle più funzionali, se questo è l’obiettivo; ma guai a stravolgere i cardini di una democrazia “fondata sul rispetto e sulla reciproca comprensione”. Se c’è un equivoco al riguardo, è bene che venga subito chiarito. La lezione di democrazia di Mattarella al governo: “Patria è incontro di etnie, basta col razzismo” di David Romoli L’Unità, 26 agosto 2023 Il capo dello Stato: “Se nel passato avessero prevalso le contrapposizioni tra diversi il genere umano sarebbe stato condannato. Patria è incontro di etnie”. Con il tono vellutato dell’accademico invitato a un simposio sull’amicizia come categoria della politica ma nella sostanza implacabile come un caterpillar il capo dello Stato, dal meeting Cl di Rimini, ha smantellato ieri, mattone su mattone, l’intero impianto culturale della destra. Quello di Mattarella è stato un intervento insolitamente lungo, segno dell’importanza che il presidente dava non solo all’occasione, proprio al meeting di Cl aveva pronunciato 7 anni fa il primo discorso da presidente della Repubblica, ma anche al tema. Il presidente, inoltre, ha fornito alcune indicazioni operative precise e anche questa è nel suo caso una modalità poco consueta. Ma l’obiettivo non era questa o quella scelta particolare: era un intero impianto ideologico e culturale che Mattarella ritiene evidentemente necessitare ormai di una censura precisa. Le parole contro il culto dell’identità nazionale sono affilate e inequivocabili. Se nel passato avessero prevalso la “contrapposizione tra diversi, l’ostilità per il vicino o per il lontano” il genere umano sarebbe stato condannato. Se l’amicizia e la solidarietà fossero solo tra “coloro che si riconoscono come simili”, si imboccherebbe la strada che porta all’”omologazione e all’appiattimento: l’opposto del rispetto delle diversità”. Mattarella esalta apertamente “le identità plurali delle nostre comunità, frutto del convergere delle identità di ciascuno di coloro che le abitano, le rinnovano, le verificano”. Il presidente cita il termine più caro alla premier, “Patria”, ma lo fa per ricordare che il popolo italiano è “frutto dell’incontro tra più etnie, consuetudini, esperienze, religioni, dell’apporto di diversi idiomi”. Nell’appassionata difesa del multiculturalismo e delle identità composite, nella critica senza appello rivolta alla “pretesa di resuscitare anacronistici nazionalismi”, molti hanno letto una implicita risposta alle tesi del generale Vannacci. Ma anche se quel libro spopola in libreria, è impossibile immaginare che il capo dello Stato si sarebbe abbassato a confutarne le farneticazioni senza la consapevolezza che quelle trivialità sono solo una punta di iceberg e che visioni del genere, pur se declinate in maniera meno rozza e grottesca, campeggiano nella destra italiana e ogni tanto emergono nitidamente, come avvenne con l’uscita del ministro Lollobrigida. Non è solo un discorso legato alla contingenza quello di Mattarella: il lungo e centrale passaggio sull’impatto delle trasformazioni tecnologiche e sul rischio che portino a un individualismo privo di connessioni con la comunità, come quello sul diritto alla ricerca della felicità implicito anche nella nostra Costituzione rinviano caso mai alla riflessione permanente sulla contemporaneità, sulle sue opportunità ma anche sui guasti e sui rischi, che sviluppa metodicamente il Pontefice. Ma dopo la prolusione quasi filosofica il presidente torna a bomba sull’agenda stretta del presente. Sull’immigrazione non usa perifrasi, abbandona per un attimo l’abitale felpatezza: “i fenomeni migratori sono movimenti globali che non vengono cancellati da muri o barriere”. Afferma di avere appeso nello studio il disegno di un bambino morto nella strage continua del Mediterraneo. Si era cucito nella giacca la pagella. Veniva in Europa con la speranza e l’intenzione di studiare e lavorare. Quella che chiede è una rivoluzione nell’approccio all’immigrazione, possibile solo su scala europea: “Solo ingressi regolari in numero adeguatamente ampio sono lo strumento per stroncare il crudele traffico di esseri umani”. Ma anche per indurre i migranti ad “attendere turni di autorizzazione legale”, per garantire “inserimento lavorativo ordinato”, per “rimuovere la presenza incontrollabile di chi vaga senza casa, senza lavoro e senza speranza”. Se nella prima parte del suo intervento Mattarella aveva smontato l’impianto delle politiche identitarie e nazionaliste, nelle conclusioni prende di mira l’intera strategia adottata dal governo, ma anche da molti governi precedenti, sul fronte delle politiche dell’immigrazione non solo sul piano dell’etica ma anche su quello della efficacia e funzionalità. Mattarella non si ferma qui. Invoca “una giustizia ambientale senza la quale non può esserci giustizia sociale” e di nuovo passa dall’orizzonte generale all’urgenza delle misure necessarie qui e ora: “I cittadini della Romagna e i loro sindaci non vanno lasciati soli”. Non è solo uno sprone: è un imperativo preciso. Sulla Costituzione il guardiano della Carta è meno esplicito, non meno chiaro. Ricorda un discorso di Dossetti del 1995, nel quale il padre della componente cristiano-sociale segnalava come, nel corso di due secoli, la situazione degli Usa fosse completamente mutata ma senza che per questo la Costituzione americana fosse modificata se non in pochi particolari. Perché, aggiunge l’allievo di Dossetti, “è proprio nei momenti di confusione e transizione che le Costituzioni adempiono alla loro funzione più vera: quella di essere un punto di riferimento e di chiarimento”. Chi si accinge a modificare la Carta deve sapere che la Costituzione può essere modificata. Non stravolta. Voglio portare a scuola la cultura del rispetto di Giuseppe Valditara* La Stampa, 26 agosto 2023 A distanza di alcune settimane da una mia precisazione circa l’intervento di Mirella Serri su La Stampa del 1 agosto, che mi imputava di sostenere una pedagogia della umiliazione, in due giorni consecutivi prima Lucia Annunziata e ora Daniela Padoan ritornano sul tema. In particolare, nell’articolo di ieri dal titolo “Così il governo favorisce e coltiva una subcultura intrisa di razzismo”, Padoan, oltre ad accusarmi di voler utilizzare l’umiliazione come strumento pedagogico, inserisce questa narrazione in un pezzo che vuole denunciare le radici del razzismo che sarebbero alla base di questo governo. Per quanto riguarda “l’umiliazione”, premetto che facevo riferimento, durante un dibattito pubblico, ad un caso specifico di bullismo grave in cui uno studente, dopo aver disegnato una svastica sulla cattedra per ingiuriare la docente ebrea, l’aveva persino presa a pugni per riaffermare fra l’altro il suo dominio machista sui compagni. Detto questo l’uso del verbo era al riflessivo: “il bullo umiliandosi ad accettare la sanzione” dei lavori di utilità sociale. Accettare la sanzione della scuola significa per il ragazzo avviare un processo di maturazione e crescita, perché, limitando il proprio ego, riportandolo a terra, imparando il senso della solidarietà, il bullo impara a riconoscere gli altri e a rispettarli. Sommessamente faccio presente che frasi molto più autorevoli sul significato della umiliazione per la tradizione cristiana le ha dette papa Francesco, ripetutamente, come antidoto alla arroganza superomistica che porta l’uomo ad un individualismo senza rispetto, senza senso del limite e senza il riconoscimento dell’altro. Nell’occasione del dibattito pubblico, aggiunsi anche “quel ragazzo non va lasciato solo”, occorre responsabilizzarlo e fargli capire il senso di appartenere ad una comunità. Mai pensato dunque ad una scuola che umilia gli studenti. L’uso al riflessivo del verbo umiliare (“umiliandosi” a riconoscere il proprio errore con l’accettazione della sanzione) avrebbe dovuto essere di per sè chiarificatore. Detto questo, la mia azione di governo e i relativi provvedimenti che ho assunto hanno come obiettivo quello di mettere il libero e pieno sviluppo della persona al centro del processo educativo, puntando fra l’altro a riportare la cultura del rispetto nelle scuole e valorizzando i talenti di ognuno, che è l’opposto di qualsiasi cultura antidemocratica, a cominciare da quella fascista. La scuola che ho in mente, come ho ripetutamente affermato e pure scritto in tempi non sospetti, è fra l’altro l’opposto di quella gentiliana, è una scuola “repubblicana” e “costituzionale”. Visione dunque molto diversa da quella che emerge da questi articoli che usano una frase decontestualizzata, assumendola addirittura a principio ispiratore di una politica. *Ministro dell’istruzione e del merito In assenza di strategie il governo rispolvera l’emergenza migranti di Paolo Delgado Il Manifesto, 26 agosto 2023 Sequestrate e multate le navi Ong in virtù del Decreto Cutro. Eppure fino a pochi giorni fa venivano coinvolte nei soccorsi dalla Guardia Costiera. “È la legge”: sulla carta la risposta di Giorgia Meloni a Elly Schlein, dopo il sequestro di tre navi Ong “colpevoli” di aver disatteso le norme imposte dal dl Cutro, non fa una piega. In realtà la replica della segretaria del Pd era sin troppo ovvia: se uno si fa le leggi e poi dice che le sta solo facendo rispettare l’argomentazione sa di presa in giro, anche al netto del particolare per cui attenersi alla legge che vieta i salvataggi multipli avrebbe significato sacrificare alcune decine di vite che sono state invece salvate. Il punto però è forse un altro. La stessa legge esisteva già anche nelle scorse settimane quando il governo non solo preferiva chiudere un occhio ma chiedeva anche alle navi delle Ong di dare una mano alla Guardia Costiera. Qualcosa è dunque cambiato negli ultimi giorni e non si tratta di una nuova legge da far rispettare. In realtà di cose, nel giro di pochi giorni, ne sono cambiate molte e diverse e la reazione del governo, il triplice sequestro con multa delle navi “Sea Eyes”, “Open Arms” e “Sea Watch”, appare come una reazione dettata più dal panico che da una visione lucida. Gli accordi con la Tunisia non funzionano: il grosso dei migranti continua a partire da quelle coste. Il sistema di accoglienza è sull’orlo del tracollo: lo dicono i sindaci di sinistra e anche quelli di destra. Il numero degli arrivi è più che raddoppiato e la ferita per la destra non è di quelle superficiali: nella breve fase del suo fulgore, nel 2018- 19, il truculento Salvini, allora ministro degli Interni, poteva vantare almeno una riduzione secca degli sbarchi. Era una fase diversa, certo, e soprattutto il prezzo di quella strategia fu una rottura con l’Europa all’origine del tracollo del governo gialloverde. Oggi le cose sono più difficili e il governo Meloni non ha alcuna intenzione di commettere gli stessi errori di Salvini entrando i rotta di collisione con Bruxelles, Berlino e Parigi. Tutto comprensibile ma il dato non cambia: per la destra al governo e per i suoi elettori l’impennata degli arrivi è una cocentissima sconfitta. Il versante soldi, legge di bilancio e in sostanza possibilità di tener fede almeno parzialmente agli impegni assunti è anche più incisivo, pur se indirettamente. Il governo sa di dover deludere per il secondo anno consecutivo i propri elettori e se nel 2023 poteva accampare l’alibi, non infondato, di non essersi trovato di fronte a una manovra già impostata senza disporre del tempo necessario per rivederla, ora le cose stanno diversamente. Ma con la riscrittura del Patto di Stabilità dietro l’angolo e i conti che vanno peggio del previsto il vicolo è cieco e il governo è già rassegnato a una manovra austera, dunque ben poco gradita alla sua base. Infine certo non sfuggono a una politica sensibile agli umori popolari come la presidente del Consiglio i segnali chiari di una richiesta di politiche di destra diffusa in una parte importante del suo stesso elettorato. La vicenda per molti versi grottesca dell’ormai famigerato testo del generale Vannacci, chiacchiere triviali da bar che nessun pensatore o politico pur se reazionario prenderebbe sul serio, è indicativa. Più che il fattaccio in sé sono le reazioni diffuse a indicare che lì uno spazio elettorale di nuovo aperto c’è. Le campagne contro l’immigrazione, da sempre, rispondono a queste esigenze, Permettono di confermare e rinsaldare l’identità di destra. Vengono date in pasto all’elettorato deluso e ne st ornano almeno in parte l’attenzione. Sono adoperate nello scontro interno alla destra stessa, che è particolarmente duro perché in quell’elettorato la pregiudiziale “antisinistra” funziona molto più di quella “antifascista” dall’altro lato della barricata: dunque gli elettori delusi si rifugiano nell’astensionismo molto meno di quanto non capiti a sinistra e preferiscono invece il travaso da una formazione all’altra, come attesta l’improvviso trionfo di FdI, dopo quello della Lega. Il gioco è facile ma pericoloso. Alzare l’allarme sull’immigrazione, farne di nuovo un’emergenza implica destare aspettative. Ma il governo non ha una strategia per limitare gli sbarchi e neppure i fondi necessari per gestire in modo esemplare l’accoglienza, al contrario stenta anche a turare le falle più vistose. Col rischio di un effetto boomerang sul fronte forse più essenziale che ci sia per l’identità della destra. Migranti. A settembre un nuovo decreto sicurezza di Marina Della Croce Il Manifesto, 26 agosto 2023 Previsto un giro di vite anche per quanto riguarda i minori stranieri non accompagnati. Fatta eccezione per il numero di arrivi sulle nostre coste, che il governo non riesce a gestire facendo così impazzire sindaci e governatori a prescindere dal colore politico, non esiste alcuna emergenza migranti tale da giustificare nuovi interventi legislativi. Eppure è proprio quello a cui l’esecutivo Meloni sta lavorando in vista del primo consiglio dei ministri di settembre dove è previsto che verranno presentati due nuovi provvedimenti ai quali ormai da un mese stanno lavorando i tecnici di Viminale e Giustizia. Il primo riguarda un nuovo pacchetto sicurezza Piantedosi-Nordio con cui l’esecutivo spera di accelerare le espulsioni dei migranti ritenuti socialmente pericolosi ma che conterrà anche una revisione in senso restrittivo della legge Zampa sui minori non accompagnati. Il secondo è un decreto a firma Piantedosi-Nordio-Roccella con nuove norme su carceri e personale penitenziario, con la Lega che ha già annunciato un emendamento che prevede la castrazione chimica per gli stupratori. Ma è soprattutto sull’immigrazione che punta il governo. Il pretesto per l’ennesimo giro di vite (si vedrà poi quanto realmente utile) è stata la brutale aggressione avvenuta all’inizio di agosto a Rovereto, dove un immigrato nigeriano con evidenti problemi psichiatrici ha ucciso una donna di 61 anni in un parco cittadino. In quell’occasione il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni aveva annunciato una “stretta sulle espulsioni degli irregolari con elevato profilo criminale” affidando la decisione non più a un giudice ma direttamente questori e prefetti. Inoltre si prevedono procedure più veloci per la realizzazione di Centri di permanenza per i rimpatri, ovvero le strutture nelle quali vengono trattenuti gli irregolari da espellere. Sul fronte dei minori stranieri non accompagnati, nel nuovo decreto legge potrebbe arrivare una stretta sui controlli medici effettuati per stabilire l’età (dalla radiografia del polso ad altre verifiche anatomiche) di quei migranti appena sbarcati che durante le visite si dichiarano minorenni. Quindi un ‘tagliando’ sull’attuale legge Zampa, che stabilisce accertamenti ritenuti meno invasivi e secondo cui in caso di dubbio la persona debba essere considerata minore (potrebbe essere invece più discrezionale con le nuove misure). Il secondo decreto a forma dei ministri Piantedosi, Nordio e Roccella, prevede invece misure riguardanti le carceri in particolare per arginare il crescente numero di suicidi. È previsto un aumento delle telefonate che il detenuto potrà fare a casa, passando dalle attuali quattro a sei al mese. “La vera novità - ha spiegato il sottosegretario leghista alla Giustizia Andrea Ostellari - è che il direttore dell’istituto penitenziario potrà andare oltre questo limite e permettere comunicazioni anche giornaliere, se lo riterrà opportuno”. Le decisioni verranno prese sulla base delle relazioni presentate dagli educatori. Il decreto prevedrà anche un inasprimento delle pene per chi aggredisce il personale penitenziario. Tutto rimandato invece, per quanto riguarda l’utilizzo di caserme dismesse come soluzione contro il sovraffollamento delle carceri, come ipotizzato dal ministro Nordio. Infine, dopo la violenza di gruppo su una ragazza di 19 anni, Ostellari ha riproposto la castrazione chimica per gli stupratori. La Lega ha già preparato un emendamento in tal senso da presentare al decreto sulle carceri una volta che questo sarà all’esame del parlamento. Migranti. Espulsioni più facili senza vaglio dei giudici. Ma è bluff sui rimpatri di Fabio Tonacci e Alessandra Ziniti La Repubblica, 26 agosto 2023 Il governo verso la nuova stretta: garanzie azzerate per gli stranieri ritenuti pericolosi e sotto procedimento giudiziario. Confondendo volutamente espulsioni e rimpatri, il governo Meloni da un po’ di tempo sta dicendo che a settembre sarà pronto un nuovo decreto sicurezza per rendere più facile e rapido il rimpatrio dei migranti che non hanno diritto a stare in Italia. L’obiettivo dato ai tecnici del Viminale, al lavoro in collaborazione con il ministero della Giustizia, è trovare una soluzione legislativa che permetta di poter espellere immediatamente gli stranieri ritenuti socialmente pericolosi, azzerando, se necessario, le garanzie riconosciute sinora a chi è sottoposto a procedimento giudiziario o è imputato in un processo. Stando a quanto risulta a Repubblica, e a quel poco che filtra dagli uffici ministeriali, il decreto riformerà la materia sottraendo competenze all’autorità giudiziaria a vantaggio di prefetti e questori. Esattamente come avvenuto per le sanzioni alle navi umanitarie: alcune violazioni sono state depenalizzate apposta dal legislatore per poter bypassare il potere di controllo della magistratura, e procedere così direttamente con le multe amministrative. Nel mirino del governo, in particolare, c’è l’articolo 13 della legge Turco- Napolitano, ossia il Testo unico per l’immigrazione così come è stato poi modificato dalla Bossi-Fini. L’articolo 13 disciplina la procedura di espulsione dei cittadini stranieri per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato. Adesso funziona così: nel caso di soggetto sottoposto a procedimento penale, solo un giudice può concedere al Questore il nulla osta, previa valutazione delle esigenze processuali. In altre parole, prima di dare l’ok all’allontanamento il magistrato deve stabilire se prevalgono il diritto dell’indagato, l’importanza della sua presenza nella formazione della prova, l’adeguatezza di eventuali misure cautelari. È dal sostanziale stravolgimento di questo articolo che si basa il nuovo decreto sicurezza, atteso all’esame del Consiglio dei ministri a settembre: l’intento dichiarato è rendere efficaci ed immediate le espulsioni degli immigrati ritenuti socialmente pericolosi. I quali, stando all’ipotesi allo studio degli uffici legislativi, non potranno rimanere neanche nel caso in cui siano presenti sul territorio i familiari di primo grado. E neppure se sono in attesa dell’esito di un ricorso contro il permesso di soggiorno negato. Detta in sintesi: via subito dall’Italia su ordine del questore, con l’unica garanzia di poter seguire a distanza per via telematica eventuali udienze in cui sia prevista la presenza dell’indagato. Circostanza assai improbabile, viste le condizioni di molti dei Paesi di provenienza dei migranti. La riforma è da tempo nella mente del governo Meloni. Era stata accantonata nei mesi scorsi quando con il decreto Cutro Palazzo Chigi ha preferito occuparsi, limitandoli, dei soccorsi umanitari in mare e del sistema di accoglienza a terra, i cui effetti devastanti sono sotto gli occhi di tutti in questi giorni. È tornata prioritaria dopo l’omicidio di Ines Setti, la sessantenne aggredita e uccisa a Rovereto dal nigeriano Nweke Chukwuka, con problemi psichici, ben conosciuto alle forze dell’ordine e alla magistratura e sottoposto a quotidiano obbligo di firma. L’uomo è anche in attesa di processo. La sua famiglia ha chiesto per lui un Tso, ma nessuno è intervenuto. “Non potevamo fare nulla, la legge ci impediva di espellerlo”, ha commentato la pm Viviana Del Tedesco. L’indagine ordinata alla Polizia dal ministro dell’Interno Piantedosi ha messo in luce i punti del Codice da cancellare per avere mani libere ed espellere gli immigrati ritenuti pericolosi. Riforma che ancora una volta parla alla pancia della gente, poiché nessuno vuole che un violento restilibero di muoversi indisturbato in Italia. Ma che cela un bluff: stanno vendendo all’opinione pubblica una nuova normativa sulle espulsioni paragonandoli ai rimpatri. Così non è perché, in assenza di accordi diplomatici con i Paesi d’origine, anche il migrante cui sia stato notificato il provvedimento, viene rimesso in libertà con un semplice foglio di via dopo la permanenza in un Cpr. Lo stesso Piantedosi ha ammesso che solo il 2 per cento di costoro poi effettivamente lascia il Paese. “E la sentenza 105 del 2001 della Consulta - osserva Gianfranco Schiavone dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione - stabilisce che in nessun caso l’accompagnamento coatto alla frontiera può essere svincolato dal controllo dell’autorità giudiziaria”. Col nuovo decreto sicurezza potranno sì aumentare gli espulsi, ma difficilmente si vedrà un aumento significativo dei rimpatri. Minori migranti, la violenza dell’onere della prova di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 26 agosto 2023 Non riuscendo, o meglio non volendo, fare fronte all’arrivo dei minori stranieri non accompagnati seguendo sia le Convenzioni internazionali alle quali il nostro Paese ha aderito, sia le leggi nazionali, come la Legge Zampa in materia di tutor dei cosiddetti MISNA (minori stranieri non accompagnati), ecco che alcuni esponenti del governo pensano di aggirare il problema imponendo al minore stesso l’onere della prova riguardo all’età. Con l’attuale sistema, infatti, la valutazione dell’età non è esatta, come tutto ciò che concerne il vivente, ma avviene all’interno di un range che viene determinato attraverso l’analisi radiologica delle ossa del polso, della mano, della dentatura e della clavicola. Tra il loro valore minimo e quello massimo, di norma la medicina, con i criteri ippocratici di scienze e coscienza, considera sempre il primo, perché lo scopo è appunto evitare che un minore possa essere scambiato per un maggiorenne. Ora si vorrebbe capovolgere la possibilità che gli errori con questo sistema possano avvenire solo per difetto, ossia attribuendo la minore età a un maggiorenne. Ecco dunque da dove nasce la paventata idea di scaricare sul minore l’onere di provare la sua minorità. In questa proposta entrano in gioco un mix veramente scandaloso di ignoranza delle situazioni da cui provengono la maggior parte dei minori migranti, una sempre presente volontà di contestare l’ordine multipolare, ancora incardinato nelle Convenzioni internazionali, ed infine una chiara incapacità gestionale che rileva lo scarto sempre più evidente tra promesse elettorali e fatti concreti. Cominciamo dunque dal chiarire, se ce ne fosse bisogno, che uno dei grandi problemi di molti Paesi impoveriti è proprio quello della carenza di una anagrafe. Potrebbe sembrare a prima vista una questione minore ma, a guardare da vicino, appare chiaro che se non hai un documento di identità di fatto non esisti e quindi non hai diritti né a casa tua né tantomeno nel resto del mondo. Non a caso le molte Ong impegnate al fianco di queste popolazioni sostengono progetti di strutturazione per i servizi anagrafici. Chissà se il sempre meno evocato Piano Mattei terrà conto di questi problemi di fondo. Seconda questione il rifiuto di fatto degli oneri che derivano dal rispetto delle Convenzioni internazionali. Qui, in realtà, è in gioco una visione del mondo che fa perno sugli interessi nazionali, il cosiddetto sovranismo, che vede nelle regole dettate dal sistema multilaterale un avversario da abbattere. E quale miglior occasione che sfruttare la paura dell’invasore minorenne che tingerà magari di altri colori la pelle degli italiani, o farà un poco crespi i capelli di qualcuno, per dare una piccola spallata all’ONU? Oltretutto come ha fatto notare recentemente anche il professor Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, il calo demografico italiano avrebbe bisogno urgente di nuove generazioni, e i minori, oggi stranieri, domani si spera italiani, sono una soluzione immediata, reale e costruttiva, a fronte di fantomatici sostegni ad una natalità che si è fermata per tanti motivi non certo superabili con una qualche defiscalizzazione estemporanea. In conclusione accogliere si può e si deve, basterebbe coinvolgere, come da tempo chiedono i Sindaci e le organizzazioni di Terzo Settore, tutti i territori, anche quelli considerati periferici. Non farlo significa avere non solo disprezzo per la dignità di un essere umano ma ostentare una visione miope del futuro che, purtroppo, nasce proprio da questo.