Appalti sul vitto in cella, diritti ancora sacrificati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 agosto 2023 Vitto dei detenuti, anche coi nuovi bandi restano le ombre. Per due giorni all’inizio di questa settimana, i detenuti del carcere Marassi di Genova hanno dato vita a una protesta. Il motivo? La crescente impennata dei prezzi dei generi alimentari, noti come “sopravvitto”, acquistabili tramite la spesa interna, e il mancato arrivo delle forniture da parte dell’azienda appaltatrice. Fabio Pagani, segretario regionale della Uil Pa Penitenziari, ha sottolineato la necessità di affrontare questa questione per evitare futuri disordini. Questo problema, va ricordato, è di portata generale. Dopo numerose sentenze, dalla decisione del Tar fino al Consiglio di Stato, la questione degli appalti per vitto e sopravvitto ha trovato una via di soluzione creando nuovi bandi. Però rimane l’ombra sull’esecuzione di contratti d’appalto e di concessione del servizio di sopravvitto, persino in fase di aggiudicazione. Ombra che riguarda anche il servizio mensa per gli agenti penitenziari. Per capire meglio, bisogna partire dal caso del precedente bando del Provveditorato Regionale di Lazio, Abruzzo e Molise. È importante ricordare che questo bando ha generato condizioni insostenibili per i detenuti. Tanto è vero che l’ex Garante del Comune di Roma, Gabriella Stramaccioni, ha denunciato la questione alla procura. Recentemente, è emerso che grazie alle denunce, la procura di Roma ha avviato un fascicolo investigativo. Due persone in posizioni di vertice all’interno dell’azienda Ventura (l’impresa che aveva vinto l’appalto) sono stati inseriti nel registro degli indagati. Si sospetta che abbiano violato i termini dell’appalto allungando il latte dei detenuti con l’acqua, servendo carne deteriorata e usando caffè di bassa qualità. Nonostante nel 2020 la base d’asta sia stata incrementata da 3,90 a 5,70 euro al giorno e la media nazionale si attesti sui 3,92 euro, le offerte delle tre imprese che si sono aggiudicate i quattro contratti (successivamente annullati), focalizzate sul servizio principale e obbligatorio di vitto secondo la lex specialis di gara, prevedevano sconti che si avvicinavano o superavano persino il 60%. L’aggiudicatario dell’appalto, l’azienda Ventura, ha proposto uno sconto del 57,98% sulla diaria pro capite di 5,70 euro. Si era impegnata a fornire le materie prime necessarie per i pasti giornalieri completi al prezzo di 2,39 euro. Con appena poco più di due euro a persona, si voleva garantire ai detenuti colazione, pranzo e cena. La Corte dei Conti del Lazio - tramite la sua pronuncia emessa l’anno scorso - ha altresì messo in evidenza il grave problema del sopravvitto, che per l’azienda vincitrice diventa un mezzo per compensare i costi estremamente bassi proposti per il vitto. Evidentemente, a subire le conseguenze sono i detenuti, costretti a spendere il doppio rispetto alle persone libere. Va ricordato che il sopravvitto fa riferimento agli alimenti acquistabili all’interno degli empori interni agli istituti penitenziari. La stessa azienda appaltatrice che fornisce i pasti gestisce i prodotti in vendita. Questa situazione è la causa dell’insufficienza alimentare dovuta all’offerta estremamente ridotta, motivo per cui i detenuti sono costretti a fare ricorso al sopravvitto. I nuovi bandi per sanare l’ingiustizia - Dopo la sentenza della Corte dei Conti, è stato lanciato un nuovo bando per il vitto, separato dal sopravvitto, partendo da una diaria di 5,70 euro al giorno. Gli altri bandi - su indicazione dell’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia - sono stati via via cancellati, e nel luglio 2022 sono stati stipulati nuovi contratti. Per quanto riguarda il sopravvitto, i nuovi contratti sono in fase di stipula, a seguito della procedura di gara indetta il 24 giugno 2022. Questa procedura segue lo schema tipo di atto regolatorio generale di concessione fornito a tutti i provveditorati regionali. Gli elementi fondamentali di questo schema regolatorio possono essere così sintetizzati: 1) previsione nella documentazione di gara di un piano economico- finanziario di massima riguardante il servizio, per permettere una valutazione della sostenibilità e della redditività della concessione, nel contesto di un’offerta informata, basata su un progetto che tenga conto dell’equilibrio tra fattori quali qualità, fattibilità e sostenibilità relativi all’organizzazione del servizio presentato da ogni concorrente; 2) introduzione di strumenti volti a incentivare una maggiore qualità del servizio, una varietà più ampia di prodotti offerti e il controllo dei prezzi praticati alla vendita, prestando attenzione anche alle fasce più svantaggiate (come indigenti e stranieri), attraverso formule promozionali e aiuti alimentari; 3) previsione di requisiti adeguati per favorire una partecipazione più ampia degli operatori economici e una maggiore apertura al mercato. Le nuove indagini - L’anno scorso, il Garante della Concorrenza e del Mercato avanzò l’ipotesi che le aziende alterassero le gare d’appalto. L’anomalia più frequente sembrava derivare dalla presentazione di offerte estremamente eterogenee tra i vari lotti della stessa procedura, favorendo così a turno una delle parti interessate nell’aggiudicazione (conosciuta come ‘ scacchiera’). A questa irregolarità si aggiungevano altre pratiche, come la presentazione di offerte cosiddette ‘ di appoggio’ o astensioni finalizzate a beneficiare altri concorrenti, atte a compensare altre procedure contestuali. Queste sono le supposizioni. Tuttavia, il 12 giugno scorso, il Garante della Concorrenza ha concluso che non vi erano sufficienti elementi per accertare la violazione. Nel frattempo, è sorto un nuovo fronte di indagine, questa volta riguardante gli appalti relativi alla fornitura del servizio mensa per gli agenti penitenziari. L’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac) ha esaminato le mense obbligatorie presso gli istituti penitenziari, le scuole e gli istituti di formazione del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania. L’ispezione effettuata ha rivelato una serie di discrepanze rispetto alle clausole contrattuali stabilite per l’attuazione del servizio. In particolare, è emerso che il servizio è stato condotto in modo parzialmente difforme rispetto alle disposizioni contrattuali. Questa discrepanza ha sollevato preoccupazioni riguardo alla gestione dell’intero processo d’appalto e all’efficacia dei controlli nella fase di esecuzione. Si è constatato che il Provveditorato regionale della Campania del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, responsabile della supervisione del contratto d’appalto, ha effettuato controlli limitati e non sufficienti per garantire un adeguato accertamento della corretta esecuzione in conformità con le condizioni e i termini stabiliti nel contratto d’appalto e nel capitolato. Le carenze nei controlli durante l’esecuzione sono state individuate su vari livelli amministrativi. Sia il Direttore dell’esecuzione, sia i Direttori degli istituti, sia la Commissione di verifica e collaudo sono risultati coinvolti nelle mancanze di supervisione. Questo scenario ha sollevato interrogativi sull’efficacia del sistema di controllo interno e sulla collaborazione tra le diverse istanze responsabili dell’esecuzione e della vigilanza del contratto. Nonostante alcune delle lacune siano state parzialmente risolte attraverso un’ispezione dettagliata e le comunicazioni istruttorie ricevute, l’episodio sottolinea la problematica dell’assenza di un controllo rigoroso e continuo durante l’intero ciclo di vita di un contratto d’appalto. Un Gruppo di supporto per i familiari dei detenuti morti in carcere di Luna Casarotti* napolimonitor.it, 25 agosto 2023 La storia di Stefano Dal Canto. Il Gruppo di supporto psicologico per i familiari dei detenuti che si sono tolti la vita o che sono deceduti per altre cause in carcere nasce nel mese di luglio, dopo un contatto tra alcuni attivisti e attiviste e i familiari di un ragazzo che si sarebbe suicidato inalando il gas del suo fornelletto, nel carcere di Modena. È possibile seguire le riunioni del gruppo ogni venerdì, dalle 17:45 alle 20:00. Le riunioni avvengono tramite una piattaforma on-line, con il supporto del dottor Vito Totire, psichiatra, attivista e portavoce del circolo “Chico Mendez” di Bologna. Durante gli incontri ognuno può raccontare la propria storia, parlare del proprio dolore e confrontarsi con altre persone che hanno vissuto la tragica esperienza di familiari morti all’interno delle carceri. Il link per accedere alla riunione settimanale viene pubblicato qualche giorno prima dell’incontro sul gruppo Telegram “Morti in carcere” e su quello Whatsapp “Sportello di supporto psicologico per i familiari dei morti in carcere”. È possibile ricevere informazioni, ma anche raccontare in forma scritta la storia propria e del proprio familiare, anche scrivendo all’indirizzo e-mail dell’associazione Yairahia Ets (yairaiha@gmail.com). Avvocati, volontari, membri di associazioni, garanti delle persone private della libertà sono invitati a unirsi e a condividere il proprio punto di vista. *** Marisa è la sorella di Stefano Dal Corso, un detenuto che secondo le ricostruzioni ufficiali si sarebbe suicidato nel carcere di Oristano, nel reparto d’infermeria, il 12 ottobre del 2022. Era lì in via temporanea, per assistere a un’udienza del suo processo. Dietro la sua morte ci sono però molti dubbi e incongruenze. La questione più scabrosa riguarda le anomalie nella presunta impiccagione. La finestra della cella in cui si trovava Stefano era molto bassa. Stefano era invece alto un metro e settanta circa: sarebbe stato impossibile per lui, secondo la perizia medico-legale di parte, rimanere nel vuoto, senza contatto con il suolo o quantomeno con il letto che si trovava proprio sotto la finestra, per il tempo sufficiente a provocargli la rottura dell’osso del collo. Inoltre, le foto scattate subito dopo il fatto ritraggono un letto fatto con precisione, senza alcun segno, e soprattutto senza che vi fosse stato in precedenza rimosso alcun lenzuolo o coperta. Non ci sono informazioni o indizi su dove avrebbe potuto prendere Stefano il lenzuolo con cui si sarebbe impiccato. Sempre stando alla perizia medico-legale, la ferita di colore rosso che Stefano aveva sul collo al momento della sua morte sarebbe incompatibile con l’orario del decesso registrato agli atti, ma risalirebbe all’incirca a dodici ore prima. Si tratta, inoltre, di una ferita che sembrerebbe più vicina a quella provocata da uno strangolamento che non da una impiccagione. Stefano aveva poi altri segni sul braccio, in testa e sugli occhi, compatibili con una presa e/o una colluttazione. Tutti questi elementi, tuttavia, restano delle suggestioni irrisolte, dal momento che nessuna autopsia è stata mai effettuata sul corpo del detenuto. Altre anomalie emerse al momento del ritrovamento del corpo vanno segnalate. Innanzitutto le scarpe che indossava Stefano, più grandi della sua misura e soprattutto allacciate, cosa che l’uomo non faceva mai. E poi il caso di un pacco anonimo consegnato alla famiglia qualche giorno dopo il decesso. A casa Dal Corso, infatti, si è presentato un presunto fattorino di Amazon, consegnando un pacco che conteneva un libro, Fateci uscire da qui, di Nicholas M. Eltz. Nel libro erano sottolineati due capitoli: “La confessione” e “La morte”. Dalle chiamate effettuate dai familiari di Stefano ai centralini della multinazionale per rintracciare il mittente, il pacco sarebbe risultato essere un falso, e il numero di tracciamento della scatola inesistente. Stefano stava scontando la pena agli arresti domiciliari presso la sua abitazione prima di essere ricondotto in carcere a Rebibbia. Era infatti stato trovato sotto casa dalla polizia mentre portava a spasso i suoi cani, ma la sua detenzione era comunque ormai quasi terminata. Aveva una figlia che amava molto e a cui scriveva con regolarità. Nell’ultima lettera, che le aveva inviato il giorno stesso dell’udienza, esprimeva la volontà di rifarsi una vita dopo la detenzione. Aveva richiesto di poter essere presente all’udienza sottoponendosi al viaggio da Rebibbia alla Sardegna proprio per poter vedere la sua bambina, che abita a Oristano assieme a sua madre (ex compagna di Stefano). Il pubblico ministero che si è occupato del caso ha rigettato per ben tre volte la richiesta di autopsia presentata dai familiari e ne ha chiesto l’archiviazione. La famiglia ha nel frattempo lanciato una campagna di crowdfunding per provare a raccogliere i fondi necessari all’esame autoptico, che però resta vincolato all’approvazione da parte dell’autorità giudiziaria, per poter essere utilizzato nell’eventuale processo. Un atteggiamento, quello della procura, di certo molto ambiguo, che sembra nascondere qualcosa. È stato davvero un suicidio, quello di Stefano, o varrebbe la pena indagare per chiarire le circostanze che adombrano ben più di un sospetto? Perché, in tal caso, si continua a rifiutare l’autopsia? Ancora: perché i possibili testimoni detenuti sono stati tutti trasferiti subito dopo la morte dell’uomo? Troppe domande ma, a oggi, nessuna risposta. *Yairaiha Ets Suicidi nelle carceri, le proposte di Psichiatria Democratica di Emilio Lupo La Repubblica, 25 agosto 2023 Suicidi nelle carceri, l’intervento di Emilio Lupo, di Psichiatria democratica. “Grande dolore, angoscia e forti preoccupazioni, è quanto ha registrato Psichiatria Democratica nel Paese a seguito delle tragiche morti avvenute nelle carceri italiane. Tre vite spezzate richiamano Governo e Parlamento a passare dai rituali e generici annunci di interventi ad atti concreti capaci di affrontare - in maniera organica - tutte le problematiche relative alla detenzione”. “Non dimentichiamo - prosegue - che si tratta di persone affidate allo Stato che ne doveva garantire dignità, salute e incolumità fisica e che l’articolo 27 della nostra Costituzione richiama esplicitamente l’umanità della pena e la sua finalità di rieducazione del condannato. Sempre più oggi le carceri, invece, sono ridotte a discariche sociali, dove vengono rinchiusi i soggetti considerati “difficili” che sono esclusi dal welfare. Senza veri ed efficaci percorsi di recupero”. Per questo, secondo Psichiatria Democratica, “va denunciata e contrastata la ritualità che ad ogni tragedia vede indicare come soluzione al sovraffollamento la costruzione di nuove carceri o l’utilizzo di nuove strutture detentive come le caserme dismesse. Invece, chi vi opera sa bene che lo si contrasta efficacemente con congrui stanziamenti sociali e con il ricorso alle pene alternative. Per le persone ristrette che non abbiano commesso reati gravi e/o con pene da scontare inferiori ai quattro anni Psichiatria Democratica ritiene indispensabile definire autentici percorsi di inclusione sociale che preveda l’istituzione di corsi di formazione interni e il rilancio dell’occupazione esterna presso gli Enti Locali e/o nella Cooperazione”. “Parallelamente alle pene alternative - prosegue - dovranno essere stanziati congrui fondi per migliorare ambienti e strutture carcerarie la cui carenza (acqua, docce, servizi igienici, aree verdi, attività di formazione e lavoro, ecc.) finisce, nei fatti, per aggravare la pena. In alcuni istituti penitenziari vi è, infatti, una vera assenza di civiltà da affrontare e risolvere. Scelta prioritaria deve comunque essere quella di adeguare gli organici non solo del personale di custodia, ma anche di tutte quelle figure - medici, psichiatri, psicologi, infermieri, educatori professionali, assistenti sociali, ecc. - senza le quali i progetti auspicati rimarrebbero impraticabili. Per Psichiatria Democratica, infine, è necessaria una approfondita riflessione sulla realtà e sul funzionamento delle sezioni carcerarie psichiatriche per valutare la loro adeguatezza a rispondere ai bisogni di salute dei detenuti ivi ristretti”. Psichiatria Democratica fa suo l’ammonimento, contenuto nella Relazione al Parlamento, del Garante Nazionale dei Diritti detenuti, dott. Mauro Palma: “Il primo diritto che l’umanità deve garantire è l’appartenenza ad essa”. Così la commissione di Nordio ha annacquato la riforma Cartabia di Ermes Antonucci Il Foglio, 25 agosto 2023 Valutazione reale dei magistrati, meno toghe fuori ruolo, nomine obiettive da parte del Csm: la commissione nominata da Nordio per l’attuazione della riforma Cartabia sta cancellando tutte le più importanti novità garantiste. Ricordate il fascicolo per la valutazione dei magistrati? Era stato tra le principali novità annunciate un anno fa dall’allora ministro della Giustizia Marta Cartabia, ai tempi dell’approvazione della sua riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. “Se un pm indaga o fa arrestare cento persone e quasi tutte vengono poi assolte o se un giudice vede annullate tutte le sue sentenze, questo deve avere una conseguenza sulla carriera del magistrato”, si era detto. Parole di buon senso, soprattutto alla luce dei dati ministeriali piuttosto sconcertanti: negli ultimi anni la percentuale di magistrati promossi (ogni quattro anni) è stata del 99,2 per cento. La valutazione di professionalità riguarda criteri come indipendenza, equilibrio, laboriosità, impegno, e da ciò dipendono l’avanzamento di carriera e il trattamento economico. In sostanza, la valutazione non esiste, e la riforma mirava a porre rimedio a questa situazione. C’era un dato, però, di cui in pochi avevano tenuto conto: la legge non introduceva direttamente queste novità, ma delegava il governo a elaborare e adottare i decreti attuativi. Le toghe, che attraverso l’Anm già avevano cominciato a protestare contro il provvedimento, si placarono improvvisamente. Sapevano, per esperienza, che difficilmente la riforma sarebbe andata in porto. E così è andata. È passato poco più di un anno dall’approvazione della legge delega e la commissione nominata dal nuovo ministro Carlo Nordio, composta da 26 membri, di cui diciotto magistrati, ha elaborato la bozza di decreto legislativo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. La novità più desolante riguarda proprio il fascicolo per la valutazione del magistrato. Secondo la legge delega, il fascicolo dovrebbe contenere per ogni anno di attività “i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta, inclusa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività dell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio, nonché ogni altro elemento richiesto ai fini della valutazione”. Per far cadere l’intera impalcatura, la bozza di decreto legislativo fornisce una definizione del concetto di “grave anomalia” veramente particolare: costituiranno indice di “grave anomalia” il rigetto delle richieste o la riforma e l’annullamento delle decisioni del magistrato, “ove assumano, anche in rapporto agli esiti delle decisioni e delle richieste adottate dai magistrati appartenenti al medesimo ufficio, carattere di marcata preponderanza e di frequenza rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”. Insomma, non basterà accumulare una serie di errori e flop giudiziari. Questi verranno presi in considerazione nella valutazione soltanto se “preponderanti” rispetto al totale (saranno necessari 51 errori su 100 provvedimenti?). Il giudizio positivo dovrà essere articolato nelle valutazioni di “discreto”, “buono” e “ottimo”, ma il provvedimento prevede che sia il Csm a indicare i criteri sulla base dei quali esprimere questo giudizio. Non si tratta dell’unica novità a essere stata sgonfiata. La riforma prevedeva anche una riduzione del numero dei magistrati collocati fuori ruolo. Ciò che la commissione ministeriale è riuscita a concepire è la riduzione del limite massimo di magistrati collocati fuori ruolo da 200 a 180. Un taglio risibile, con il sapore della beffa: il testo stabilisce infatti che il collocamento del magistrato fuori ruolo non può essere autorizzato “se sono decorsi meno di tre anni dal rientro in ruolo a seguito di un precedente collocamento fuori ruolo”. Tuttavia, qualche riga più in là si specifica che la disciplina non si applica “ai magistrati fuori ruolo al momento della pubblicazione del presente decreto”, cioè quelli che al momento affollano i corridoi di Via Arenula. Per quanto riguarda, poi, le tanto discusse nomine alla guida delle procure e degli uffici giudicanti, il testo si limita a delegare - ancora - al Csm, cioè il principale responsabile delle distorsioni emerse in questo campo, il compito di dotarsi di nuove regole per garantire maggiore oggettività delle decisioni. Così la commissione voluta da Nordio ha annacquato le innovazioni della riforma Cartabia. Riforme dettate dalle toghe: Meloni e Nordio preferiscono tornare all’antico di Errico Novi Il Dubbio, 25 agosto 2023 Sul Csm, rinnegata la svolta di Cartabia. Rischia di essere tradito il punto chiave, la modifica che non a caso aveva spinto l’Anm allo sciopero: il “fascicolo di valutazione”. Appartiene a un’altra era politica, a ben vedere. La riforma del Csm è un’improvvisa incursione del passato. Della stagione di Draghi e Cartabia, del governo di tutti - tranne Fratelli d’Italia - e delle mediazioni faticose. In quel clima che ora appare irripetibile e che era orientato, seppur cautamente, alla prevalenza del garantismo, è stato disinnescato il blocca-prescrizione di Bonafede, è stata approvata l’inedita disciplina sulla presunzione d’innocenza e si è spinto almeno un po’ l’acceleratore sulla riforma della magistratura. Cioè sul dossier che ora il nuovo guardasigilli Carlo Nordio si ritrova davanti, e che la commissione da lui nominata ha risolto con una bozza di decreto attuativo piuttosto deludente. Rischia di essere tradito il punto chiave, la modifica che non a caso aveva spinto l’Anm allo sciopero: il “fascicolo di valutazione”, l’indicatore statistico sugli insuccessi processuali a cui legare scatti di carriera ed eventuali incarichi direttivi per tutti i magistrati. In più, viene mortificato fino allo sberleffo il taglio delle toghe fuori ruolo, con il tetto di 200 incarichi ridotto di pochissimo, appena 20 in meno, e con una “riserva di flessibilità” per le nomine internazionali che annulla persino quel minimo ritocco. Come ci si arriva? Grazie a una commissione di studio preposta, da Nordio, a elaborare la bozza e formata per la stragrande maggioranza da magistrati: 18 su 28. Il resto è una ridotta rappresentanza dell’avvocatura e dell’accademia. Che annovera il presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco e il numero uno del’Aiga Francesco Perchinunno. Il primo in particolare aveva chiesto a Nordio un segnale completamente diverso sui fuori ruolo, un atto di chiarezza sulla separazione dei poteri. Ora solo un’iniziativa politica forte in Consiglio dei ministri e in Parlamento potrà correggere il gattopardismo della bozza. E qui siamo appunto al passo indietro rispetto all’unica vera conquista, in ambito giudiziario, dell’esecutivo di Draghi e Cartabia: la capacità di legiferare in forma magari non sempre efficace, ma almeno senza lasciare alla magistratura il potere di dettare le norme. Un merito del precedente governo riconosciuto da alcuni tra i più autorevoli esponenti dell’accademia, a cominciare da Giovanni Maria Flick. Ossessionato dallo spettro di un conflitto con la magistratura che finisca per sommarsi alle già tante contingenze difficili, il governo di Meloni e del ministro Nordio preferisce, sul Csm come sul decreto Antimafia, un passo indietro rispetto alla pur ambivalente e breve stagione dell’unità nazionale. Ci si fa dettare letteralmente la riforma, almeno quella del Csm e dell’ordinamento giudiziario, dai magistrati. Come in passato. Certo, la bozza su cui chiediamo di pronunciarsi anche al responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa ? uno dei protagonisti in Parlamento della stagione Cartabia ? potrebbe essere corretta: è il lascito dei lavori condotti fin qui, interrotti per la pausa estiva. Ma non promette nulla di buono. E rischia di segnare una regressione proprio sotto la guida di un guardasigilli che della sfida alla magistratura autoreferenziale ha fatto la ragione del proprio impegno. Finisse così, sarebbe, per Nordio, la sconfitta più cocente che si potesse immaginare. L’avanzata dell’Anm contro la separazione delle carriere: “Dai colleghi a riposo nessun eccesso” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 agosto 2023 Le toghe in congedo? “Una nostra costola”. Reale: “Super procuratori, ecco il vero nodo”. L’appuntamento è per il 6 settembre. Quel giorno si terrà anche l’audizione dei presidenti del Cnf, Francesco Greco, e dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, e del coordinatore dell’Organismo congressuale forense, Mario Scialla. Se l’Anm promuovesse un sondaggio sulla separazione delle carriere, che tipo di risultato verrebbe fuori? Nessuna esitazione sull’esito da parte del presidente Santalucia. “Sarebbe un sondaggio che si esprimerebbe per la contrarietà alla separazione”, dice al Dubbio. “Su questo tema - aggiunge - l’Anm si è pronunciata più volte. Qualche mese fa il Comitato direttivo centrale ha redatto un documento in occasione del dibattito sui disegni di legge che giacciono alla Camera, motivando la contrarietà. Si separano le carriere, ma non si dà una collocazione stabile e plausibile alla figura del pubblico ministero. Nei quattro disegni di legge all’esame della commissione Affari costituzionali della Camera c’è una spia di questa incertezza costituzionale e istituzionale, perché si dice che l’ordine giudiziario è composto da giudici e pubblici ministeri. Lo si dice in tutti i disegni di legge”. Un approccio, secondo Santalucia, che dimostra “incertezza e confusione dei proponenti”. Se l’ordine giudiziario resta unico, ci si chiede a cosa possa giovare la riforma. A separare le carriere da un punto di vista burocratico- funzionale? “Si creerebbero - chiosa il presidente dell’Anm - due Consigli superiori e una moltiplicazione degli organi di autogoverno. Ne abbiamo stabilizzato uno con il Consiglio di Giustizia tributaria e ora ne vogliamo creare un altro. Secondo me, al di là del lato formale, è il segnale di una non ancora chiara rappresentazione di ciò che dovrà essere la figura del pubblico ministero. Una volta che viene separato cosa sarà? Se fa parte dell’ordine giudiziario, non capisco tutta questa agitazione. L’omogeneità culturale continuerà ad esserci. Si crede veramente che i pubblici ministeri siano in grado di influenzare i giudici? Non riesco a cogliere il senso di garanzia della separazione delle carriere”. In merito all’iniziativa dei magistrati in pensione, Santalucia si sofferma sulla linearità dell’appello indirizzato al guardasigilli e aggiunge altri argomenti contro la separazione delle carriere. “La sezione dei magistrati a riposo - spiega - è una articolazione della nostra Associazione, dotata di una autonomia propria. L’iniziativa dei colleghi ormai in pensione ha fatto gridare ad alcuni allo scandalo. Io invece colgo un altro elemento: si tratta di una iniziativa posta in essere da magistrati che ormai hanno dismesso le cariche di potere. Non c’è una battaglia di corporazione portata avanti dalla magistratura. Non si tratta di una interferenza, parola che ricorre spesso se qualcuno interviene nel dibattito pubblico, e non mira a difendere interessi burocratico- corporativi. Sono oltre 500 i magistrati in pensione che si muovono in un caldo mese di agosto, forti della loro esperienza. Separare il pubblico ministero non risolve i problemi, semmai li aggrava. Con la separazione, quello del pubblico ministero diverrebbe un corpo del tutto autoreferenziale, con un Consiglio superiore della magistratura inquirente in cui gli stessi pm saranno la metà”. Andrea Reale, giudice del Tribunale di Ragusa e componente del direttivo centrale dell’Anm in rappresentanza della lista “Articolo 101”, rispetta le diverse prese di posizione che stanno emergendo. “Tutti - afferma - hanno il diritto di esprimere la propria opinione: per quanto mi riguarda, nei confronti del contenuto e del merito dell’appello dei magistrati in pensione non nutro alcuna obiezione. Ma non ho neanche pregiudizi ideologici di fronte alla separazione delle carriere. Secondo me, però, porterà più svantaggi che vantaggi, soprattutto in merito all’esercizio dell’azione penale. L’attuale assetto credo che sia il migliore per garantire l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e l’obbligatorietà dell’azione penale”. Reale si sofferma su un altro aspetto: l’organizzazione del lavoro all’interno delle Procure. “Il vero problema nell’esercizio dell’azione penale - sottolinea - riguarda il fatto che è stato eliminato il potere diffuso, che la Costituzione riconosceva, a tutti i pubblici ministeri. C’è un titolare dell’azione penale, all’interno di ciascuna Procura, che è il Procuratore, i cui criteri di scelta dentro il Csm sono diventati politici latu sensu in questi anni, tenuto conto anche di “Magistratopoli”. L’esasperata gerarchizzazione delle Procure e i criteri di scelta dei Procuratori imbrigliano l’azione penale o portano un vulnus forte sia per l’obbligatorietà dell’azione penale sia per il potere diffuso fondamentale che la Costituzione aveva previsto per tutti i pm, per renderli autonomi e indipendenti. Questo è un tema che dovrebbe interessare l’avvocatura e il governo. Ma, a quanto pare, le intenzioni sono altre”. “Csm, così il governo prova ad annacquare la riforma” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 agosto 2023 Parla Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione: “Ridicolo penalizzare gli errori solo se sono centinaia: pesa anche il singolo maxiblitz che colpisce tanti innocenti”. “Il fascicolo delle performance deve servire a monitorare le attività dei singoli giudici o pm, i loro meriti, ma anche gli errori, le inchieste flop, le sentenze ribaltate e gli arresti ingiusti”. “Si tratta di una fotografia molto precisa della carriera di ciascun magistrato per consentire a chi è più bravo, a chi lavora silenziosamente e senza essere organico alle correnti, di poter fare la carriera che merita. Purtroppo, il governo è intenzionato a stravolgere con i decreti attuativi quella che è una innovazione storica”, sottolinea Enrico Costa, componente della Commissione giustizia di Montecitorio e responsabile giustizia di Azione, oltre che firmatario dell’emendamento alla riforma Cartabia che lo scorso anno aveva introdotto tale istituto. La nuova disciplina, approvata, sotto forma di legge delega, già da un anno, prevedeva che il governo emanasse i relativi decreti attuativi. L’iniziale scadenza del 21 giugno è stata prorogata di sei mesi, con un emendamento al decreto Pnrr. È pessimista? Sì. Molto. Il governo vuole “annacquare” questa riforma. Bisogna capire, invece, che si tratta di una battaglia di principio, che trova fondamento nel dettato costituzionale del giusto processo. Ma vorrei fare innanzitutto una premessa. Prego... Attualmente c’è una totale “irresponsabilità” dei magistrati. Mi spiego. La responsabilità civile è di fatto impossibile, uno slalom che nessun si avvocato si azzarda a proporre al proprio assistito. E infatti dal 2010 ad oggi ci sono state solo otto condanne. Discorso simile per la responsabilità disciplinare: ogni anno, della circa 1500 segnalazioni che pervengono, oltre il 90 percento è archiviato di default dal procuratore generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare, senza che nessuno possa metterci il naso. Sono archiviazioni che non hanno alcun vaglio. L’unico che può chiedere le copie di tali provvedimenti è il ministro della Giustizia ma non lo fa mai. Rimaneva, quindi, la responsabilità professionale, strettamente legata alla carriera. Le valutazioni di professionalità sono positive nel 99 percento dei casi e non c’era un registro delle attività del magistrato in cui raccogliere le “gravi anomalie”, cioè i gravi errori da matita blu nella sua carriera. Cosa è una “grave anomalia”? Anche una sola inchiesta con arresti e sbandierata ai quattro venti e terminata con l’assoluzione di tutti gli imputati è una grave anomalia. Nei decreti attuativi, invece, si parla di “marcata preponderanza” degli insuccessi... Appunto: significa che il magistrato dovrà sbagliare centinaia di inchieste o processi, oltre la metà dei suoi provvedimenti, prima di incappare in una penalizzazione sul piano professionale. All’Associazione nazionale magistrati non è mai piaciuto, questo fascicolo... Infatti. Le correnti lo scorso anno fecero una levata di scudi, fecero anche sciopero, dimostrando chiaramente come temessero di perdere il controllo che detengono grazie a quel 99 percento di valutazioni di professionalità ‘automaticamente’ positive. Con il fascicolo, tutta l’attività del magistrato è sotto gli occhi di chi deve fare la valutazione, non come oggi che gli atti vengono scelti a campione: diventa più semplice distinguere chi lavora bene e chi lavora meno bene, premiando chi lo merita, anche se non è organico alle correnti. Ora c’è il rischio concreto che tutto finisca in un nulla di fatto. Il suo è un giudizio molto severo... Carlo Nordio è uomo di grande valore, ma ad un pensiero garantista ed una voce giuridicamente impeccabile non conseguono atti altrettanto apprezzabili. Atti che portano formalmente la firma di Nordio, ma il timbro del suo ufficio legislativo straripante di magistrati. E comunque anticipo fin da ora che nel decreto intercettazioni trasformerò in emendamenti le dichiarazioni del ministro. La Commissione che è stata incaricata di scrivere i decreti attuativi della riforma Cartabia era in netta maggioranza composta da magistrati: 18 su 28... Ma certo. È quello il problema, gli avvocati erano in minoranza. Comunque io non ho nulla contro i magistrati. Indubbiamente sono ben preparati, ma condizionano in maniera fortissima l’attività del ministero che ormai gestiscono in regime di monopolio. Non si riesce ad incidere sul loro numero fuori ruolo. E comunque, tornando al fascicolo, lo dico con forza: è la madre di tutte le battaglie sulla giustizia. Se non cambia il relativo decreto attuativo, cambierà certamente il nostro rapporto con il governo. Prima di concludere, una domanda sull’applicazione della normativa sulla presunzione d’innocenza, di cui lei è sempre stato un convinto sostenitore. Le conferenze stampa delle forze di polizia continuano come se non fosse successo nulla, vengono dati nomi alle indagini che esprimono pesanti giudizi di valore, si prosegue nel diffondere nomi e circostanze che dovrebbero rimanere riservate... Guardi, posso dirle che ho in corso un monitoraggio ed a breve interverrò. C’è una forza di polizia, in particolare, che continua a fare comunicati a tutto spiano. Capisco che vogliano dimostrare che stanno lavorando ma c’è modo e modo. Era davvero necessario un decreto legge per risolvere i problemi sulle intercettazioni? di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2023 La recente introduzione del decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105, ha sollevato una tempesta di discussioni in ambito giuridico e tra l’opinione pubblica più avvertita. Ma non è solo una questione accademica. In un’epoca in cui la tecnologia ha ridefinito i confini della nostra privacy, l’equilibrio tra sicurezza e diritti individuali non è mai stato così delicato. Questo decreto-legge, che si immerge in profondità nel dominio delle intercettazioni, mira a dare chiarezza ad un campo costellato di ambiguità. Nello specifico, si rivisita l’art. 13 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, tentando di risolvere le contraddizioni emerse nelle interpretazioni giuridiche. La sentenza Scurato, ad esempio, aveva offerto una versione di “criminalità organizzata”, ma successive interpretazioni, proposte da una singola sezione della Cassazione, hanno mescolato le carte in tavola. Questo gioco del “tira e molla” tra diverse sezioni della Cassazione mette in evidenza la sfida di mantenere la coerenza nella giurisprudenza, mentre questo instabile gioco di interpretazioni evidenzia una questione fondamentale: era davvero necessario un decreto-legge per risolvere questi problemi? Oppure si è trattato di un intervento precipitoso, magari sotto l’influenza di figure di potere? In un contesto in cui un’intercettazione può essere dichiarata inammissibile a causa di incertezze interpretative, la risposta non è semplice. L’art. 1 del nuovo decreto-legge vuole colmare queste lacune, dando solidità normativa a ciò che era precedentemente lasciato all’interpretazione. Ma con questa solidità emergono nuovi problemi, in particolare riguardo alla retroattività. Come influenzerà le indagini passate, basate su interpretazioni ora superate? Il vero dilemma, infatti, si trova nel modo in cui è stato strutturato l’intervento legislativo. L’art. 1, co. 1 del decreto-legge richiama specifici delitti, rendendo così legge un principio che era già stato stabilito dalle Sezioni Unite. Ma se il diritto vivente diventa legge, cosa ci guadagniamo realmente in termini di chiarezza? L’idea era quella di avere una norma di interpretazione autentica, che avrebbe conferito alla disposizione originale un significato ben preciso sin dal suo primo momento di entrata in vigore. Ma le norme di interpretazione autentica devono essere rigorose nella loro definizione e non possono mascherare tentativi di innovazione normativa, come parrebbe in questo caso. Oltre a queste sfide giuridiche, però, la tecnologia ne presenta di proprie. Viviamo un’era di trasformazione digitale: comunicazioni criptate, telefonate mobili e canali di comunicazione quasi impenetrabili sono diventati la norma. E la criminalità organizzata, con le sue risorse e il suo ingegno, si muove rapidamente perché, lungi dall’essere estranea a queste evoluzioni, le ha abbracciate. Questo ha creato una vera e propria “corsa agli armamenti” tra investigatori e criminali. Mentre queste ultime adottano nuove tecnologie per proteggere la loro privacy e sfuggire alle indagini, le forze dell’ordine devono evolversi parallelamente per tenere il passo. Ciò porta a una competizione continua tra investigatori e criminali. E, in questo contesto, un’altra domanda si fa strada: dove tracciamo il confine tra la necessità investigativa e il rispetto dei diritti dei cittadini? Con l’avanzare della tecnologia, le forze dell’ordine possiedono strumenti senza precedenti. Ma questi strumenti devono essere usati con saggezza, bilanciando sicurezza e privacy. La privacy, in particolare, è diventata un pilastro dei diritti civili, trasformandosi spesso in una bandiera ideologica di posizioni ultragarantiste. Per questo la fiducia e la trasparenza sono essenziali in ogni democrazia. I cittadini devono essere informati e comprendere bene le operazioni di sorveglianza. Se fossi il Ministro Nordio, piuttosto che attaccare tale strumento, favorirei campagne informative spiegando la natura, lo scopo delle intercettazioni e sottolineando l’importanza di tali strumenti nella lotta alla criminalità. con l’obiettivo di educare le persone sui loro diritti in relazione ad esse. Affinché la fiducia sia consolidata, è essenziale che ci siano canali chiari e accessibili per i cittadini dove presentare reclami o esprimere preoccupazioni. Questo fornirebbe riscontri preziosi alle forze dell’ordine che, oltre la collaborazione con organizzazioni civili e la pubblicazione di rapporti periodici, potrebbe costruire un ponte di fiducia tra il pubblico e le autorità. Il decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105, è dunque molto più che una semplice questione giuridica. È un riflettore sul futuro delle nostre società, sul ruolo delle tecnologie e sulla nostra capacità di adattarci in modo attivo. Man mano che la tecnologia avanza e le definizioni legali diventano sempre più complesse, la nostra sfida principale sarà trovare l’equilibrio tra la protezione della società e il rispetto inalienabile dei diritti dei cittadini. Una sfida che merita tutta la nostra attenzione e impegno. *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Ostellari: “Castrazione chimica per chi violenta, pronto l’emendamento della Lega” di Serena Riformato La Stampa, 25 agosto 2023 Il sottosegretario alla Giustizia e l’iniziativa nel ddl contro la violenza di genere. Durante la telefonata con Andrea Ostellari, sottosegretario leghista alla Giustizia con delega per il trattamento dei detenuti, arriva la notizia dell’ennesimo tentativo di suicidio in carcere: ad Avellino una donna ha provato a togliersi la vita ingerendo candeggina. “Stiamo seguendo questa escalation di casi”, commenta. “Dobbiamo fare di tutto per evitarli”. Un primo passo per tamponare la solitudine dietro le sbarre potrebbe arrivare con un provvedimento atteso in Consiglio dei ministri a settembre: “Ai detenuti verranno concesse più telefonate rispetto alle quattro al mese previste finora”. Davanti agli stupri, però, il sottosegretario sposa la linea dura del suo partito: “Quando il disegno di legge Nordio-Piantedosi-Roccella arriverà alla Camera, proporremo la castrazione chimica come emendamento della Lega o del governo, se ci sarà condivisione”. Partiamo dal provvedimento di settembre: le associazioni per i diritti dei detenuti sostengono che la proposta di aggiungere due telefonate in più al mese sia “inconsistente”... “Prima di criticare bisogna vedere il testo definitivo. Al momento si consentono al detenuto, in regime ordinario, quattro telefonate al mese. Intanto, di base, diventeranno sei. La vera novità è che il direttore dell’istituto penitenziario potrà andare oltre questo limite e permettere comunicazioni anche giornaliere, se lo riterrà opportuno”. Per buona condotta? “No, la decisione si baserà sulle relazioni scritte dagli educatori e dall’equipe d’osservazione. Anche quando il detenuto è appena entrato in carcere o magari in caso di soggetti prossimi alla scadenza. Poi non ci sono solo i condannati, ci sono anche gli imputati, ai quali a maggior ragione vanno permessi contatti con l’esterno”. Perché non concedere telefonate quotidiane a tutti (salvo specifiche ragioni di sicurezza), com’è stato durante la pandemia? “Ci sarebbe un problema di gestione. Quella era un momento emergenziale. Oggi siamo tornati alla normalità. Con il ministro Nordio concordiamo sull’esigenza di superare la norma ordinaria. Questa prima modifica adatterà il trattamento alle esigenze del singolo”. Cos’altro ci sarà nel ddl sul carcere? “Verranno inserire anche norme per la protezione di chi lavora all’interno degli istituti. Ci sarà un aggravamento di pena nei confronti di chi aggredisce il personale”. Lei ha detto che la sorveglianza dinamica - che prevedeva celle aperte e libertà di movimento fra i corridoi del carcere - “ha fallito”. Si torna a chiudere? “In realtà lo stabiliva già una circolare di luglio 2022. In questi mesi è stata applicata a zone. Oggi è consentito uscire dalla cella solo per ragioni specifiche, attività, colloqui, e per un massimo di otto ore”. Non vede rischi nel costringere i detenuti più tempo in cella? “Dipenderà dall’adesione di ogni singolo alle varie attività. Se uno non lavora, non fa formazione, non fa nulla, rimane in cella”. Per il sovraffollamento: avrà un seguito l’idea di utilizzare le caserme dismesse? “Il capo di gabinetto sta portando avanti un monitoraggio e al termine sapremo le disponibilità per una soluzione di questo tipo. Si sta lavorando anche sulla ristrutturazione degli istituti minorili. Ripensare la detenzione dei minori sarà il vero tema del futuro”. A questo proposito: il minorenne dello stupro di Palermo (ora maggiorenne) è stato trasferito dalla comunità al carcere... “Dobbiamo cercare di essere inflessibili, ma agire con misure che puntino sulla prevenzione, non solo per i giovani, ma anche per gli adulti che commettono reati legati alla violenza di genere”. La Lega propone la castrazione chimica per chi stupra donne e bambini. È una strada percorribile? “Perché no? Penso che sia un’utile proposta sul tavolo. È una soluzione rivolta a chi reitera il reato e ha dei problemi. Sarebbe solamente su base volontaria per chi si vuole curare”. Ma può diventare una proposta dell’esecutivo? “Quando il disegno di legge Roccella-Piantedosi-Nordio arriverà alla Camera, in fase di esame, proporremo la norma sulla castrazione chimica come emendamento della Lega o come emendamento governativo, se ci sarà condivisione”. Ne avete parlato con gli alleati? “Non ancora. Intanto la Lega mette a disposizione la proposta”. Suicidio di Federico Gaibotti, la mamma: “La droga aveva trasformato mio figlio in zombie” di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 25 agosto 2023 “Avrebbe potuto uccidere anche me. Devastante il suo suicidio”. Maria Cristina Ravanelli racconta il dramma della tossicodipendenza del figlio, che ha ucciso il padre poi si è tolto la vita in carcere. “Per noi genitori è come scalare l’Himalaya senza ossigeno. Siamo soli e impotenti”. Maria Cristina Ravanelli si tocca il lato destro e il lato sinistro del collo. “Federico aveva una C qui e una U qui. Sono stati i suoi primi tatuaggi. C sono io, Cristina, e U è suo padre Umberto”. Si alza dal tavolo rotondo con la tovaglia fatta all’uncinetto che era di sua madre, esce dal salotto con i cuscini rosa sul divano in tinta con due vasi e torna con la foto del figlio, quella del necrologio dove i tatuaggi si vedono bene: “Guardi, qui aveva ancora gli occhi belli”. Lì a Seriate, in un’altra foto che tiene sul comò della camera, Federico aveva due anni e il vestito di Arlecchino. Ormai, quel figlio non esisteva più. “Era diventato uno zombie, non lo riconoscevo più, in preda a sostanze micidiali. Lo scriva, c’è in giro di tutto, c’è pieno, e lo trovi ovunque”. La trasformazione e la paura - Suo figlio è Federico Gaibotti, il ragazzo di 30 anni che il 4 agosto ha ucciso il padre Umberto, a casa di lui a Cavernago, e il 10 si è tolto la vita in carcere. Il Federico prigioniero della droga sarebbe stato capace di tutto, anche di uccidere la madre, lei ne è convinta: “Mi ha salvato la paura verso mio figlio - ripete più volte -, me ne sono andata da casa per tre mesi, da giugno ad agosto, rifugiandomi in una struttura protetta perché ho avuto paura di lui. Quel giorno è toccato a Umberto, ma potevo essere io al suo posto”. Il dramma della droga - Quando descrive il figlio dagli occhi belli (“intelligente, lavoratore, preciso con il suo negozio di Tatoo, dolce ed educato, con carattere”) accenna un sorriso sul viso serio ma non carica le parole di miele, e quando ripercorre che cos’era diventato non lesina la cruda realtà. C’è un solo modo per raccontare questa storia ed è farlo con le parole senza filtri di questa mamma, di 63 anni, minuta nel suo vestitino bianco a piccoli fiori azzurri, curata nei dettagli e con i capelli raccolti. Infermiera negli ambulatori prima a Grumello e poi a Calcinate, è in pensione da marzo. Questo è il suo dramma, ma potrebbe esserlo di mamma Elisa, Rosaria, Federica e di papà Mario, Angelo, Luigi. “Noi genitori soli e impotenti” - “Lo scriva che noi famiglie siamo sole, impotenti. È come pensare di scalare l’Himalaya senza bombola d’ossigeno. Fai tutto quello che puoi: vai al Sert, contatti le comunità ma devi anche fare i conti con le trafile e le lunghe attese perché sono piene, lo porti al pronto soccorso se sta male, lo porti in psichiatria, chiami i carabinieri, lo fai arrestare, lo denunci, vai a prenderlo se ti chiamano anche nel cuore della notte, non lo vuoi più in casa e poi lo riprendi perché ci speri, è tuo figlio. Ma alla fine noi famiglie siamo sole con i loro mostri e siamo stremate”. Il lavoro, l’incidente in moto, il negozio di Tatoo - Maria Cristina Ravanelli non sa come sia iniziata con la droga, se l’è chiesto. “Federico aveva le capacità e gli strumenti per fare quello che voleva. Io e Umberto lo prendevamo in giro perché anche da piccolo metteva le mance sul suo libretto. Dopo alcuni anni di studio in informatica, con un’eredità dei nonni e con i soldi dell’assicurazione dopo un incidente in moto, si era aperto il negozio di Tatoo a Martinengo, aveva fatto tutto da solo. Poi non so se con il lockdown e la chiusura dell’attività sia successo altro”. A proposito dell’incidente. “Aveva 22 anni e una Kawasaki. Quel giorno, quando ho sentito l’ambulanza, ho detto subito: “Questo è Federico”. È rimasto in ospedale 18 giorni, con il duodeno sfondato, voleva uscire il prima possibile per tornare a lavorare. Sono certa che allora non si drogasse, i test che gli hanno fatto in ospedale erano negativi”. “Nel 2021 i primi mostri di mio figlio” - Nel 2021, invece, mentre è in vacanza a Fuerte Ventura la mamma capisce subito che il figlio non è quello di prima: “Continuava a telefonarmi, aveva delle fissazioni, aveva quasi aggredito un’anziana in strada convinto che lei volesse entrare in casa sua”. Lei torna, lui ammette di usare cocaina, inizia il percorso di recupero. E l’incubo. Federico arriverà a fare due buchi nel soffitto al quinto e ultimo piano della casa della madre convinto che sopra ci fossero delle telecamere: “Guardi qui - indica una parete -. Questi sono i segni”. Federico va tre volte in tre diverse comunità, ma ci rimane due settimane, poi sei giorni, poi una settimana. “Lui non voleva stare alle regole, entrava e pensava di essersi ripulito subito”. “Me ne sono andata da casa per tre mesi” - L’infermiera tornava dal lavoro e, quando il figlio era da lei, la scena era sempre la stessa. Lui a letto, si alzava di notte, quando chiedeva soldi e voleva uscire. “Una volta era fatto e strafatto, mi ha tirato addosso una bottiglia di acqua. Ecco, lì ho avuto paura e me ne sono andata in una struttura protetta. Ad agosto ero tornata e me lo sono trovato sotto casa. Certo che come genitore ci speri, io e il mio ex marito eravamo rimasti uniti nell’ultimo anno, sempre in contatto per Federico. Ma questi ragazzi ti prosciugano, in tutti i sensi. In due anni ho speso 25 mila euro. Se ci fosse stata la pillola magica per guarirlo, mi sarei anche indebitata pur di salvarlo”. Il papà preso per il collo, due costole rotte, la mamma buttata giù dalla sedia al pronto soccorso, la richiesta di soldi, gli anelli (“uno prezioso di famiglia”) e un girocollo spariti. Ne hanno viste, questi genitori. I messaggi tra Federico e il papà - Maria Cristina Ravanelli scorre il telefono e legge i messaggi. Il 24 luglio, “Umberto” scriveva a Federico, in comunità: “Stai lì, altrimenti non so come possiamo aiutarti”. Lui, con un messaggio vocale, gli diceva: “Ho fatto il bravo per due mesi, non voglio stare chiuso. Tanto vado in Francia da un mio amico”. Il padre scrive alla ex moglie che non ce la fa più, ma la sera alle 21.48 le fa sapere: “Ciao, ci sentiamo domani, Federico è con me”. Il giorno dell’omicidio: “Mi chiamò la vicina” - Maria Cristina Ravanelli non se lo dimenticherà mai. Il 4 agosto è al centro antiviolenza (“persone fantastiche”) e riceve una telefonata da un numero sconosciuto, un ragazzo chiedeva di una ditta: “Ho riconosciuto la voce di Federico e lui la mia”. Per averlo cacciato da casa si era sentita parolacce e minacce: “Ti ammazzo e ti brucio la macchina, io gli dissi: “Federico, mi sa che se vai avanti così dovrò venire io al tuo funerale”“. Quel giorno, su consiglio del centro, sta andando a Seriate per sporgere la denuncia. “Mi chiama la vicina di Umberto. “Vieni, vieni, sta succedendo qualcosa”. Sono arrivata a Cavernago, Umberto era steso in giardino, Federico non mi ha vista. Ho pensato: speriamo che Umberto si salvi, così Federico andrà comunque in carcere e poi in comunità”. “Un carabiniere mi avvisò del suicidio di Federico” - Per un paio di volte Maria Cristina Ravanelli ha serrato le labbra e rispedito indietro la commozione. Stavolta è troppo pesante. Il suicidio. “Ero alla sala del commiato, il giorno prima del funerale di Umberto. Il mio primo figlio Michele mi dice: “Mamma, vieni subito”. Fuori, in borghese con una maglietta rossa, riconosco il carabiniere che aveva preso la denuncia. Mi dice: “Signora, le devo dire una cosa brutta, suo figlio...”. Ho finito io la frase. È stato devastante, devastante”. Gli occhi si gonfiano, si alza e va a prendere un fazzoletto che terrà stretto in mano. Non le servirà ancora, è una mamma che ha finito le lacrime. “Federico, con i suoi fantasmi, era finito in un pozzo nero senza luce. Forse, se fosse stato preso in tempo prima del crack e di tutto il resto, si sarebbe salvato”. Caso Regeni, Schlein: “Il governo faccia di più. La ragion di Stato? Prima vengono i diritti umani” di Francesco Rosano Corriere della Sera, 25 agosto 2023 La segretaria del Pd alla Festa dell’Unità di Bologna: “Senza tenere in conto determinati valori si tradisce la Costituzione”. “Siamo qui per rilanciare la richiesta di un impegno più forte da parte del governo. La ragione di Stato non può venire prima dei diritti umani, altrimenti si tradisce la Costituzione”. Sul palco della Festa dell’Unità di Bologna, la segretaria del Pd Elly Schlein abbraccia i coniugi Regeni e la loro battaglia di verità. È la prima volta che i genitori di Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso nel 2016 al Cairo, partecipano a una Festa dell’Unità per raccontare la loro lotta contro il muro di depistaggi e silenzi che si è alzato attorno ai quattro ufficiali del servizio segreto egiziano, “irreperibili” nonostante il rinvio a giudizio della Procura di Roma. Regime brutale e dittatoriale - Insieme a Claudio Regeni e Paola Deffendi sul palco c’è anche Alessandra Ballerini, l’avvocata che li ha accompagnati nella loro battaglia. Nella calda notte bolognese li accoglie la standing ovation degli oltre 200 presenti nella sala intitolata a Salvador Allende. Sulla copertina del libro Giulio fa cose, racconta il padre del ricercatore ucciso nel 2016, “c’è la foto di un murale con Giulio, sul viso gli hanno scritto “ucciso come un egiziano”. Ecco di cosa parliamo - continua Claudio Regeni - di un regime brutale e dittatoriale che elimina i suoi oppositori. Di questo Paese siamo amici. Anzi, con questo Paese l’Italia collabora violando una legge, la 135/90, che vieta l’esportazione di armi verso chi viola diritti umani”. La leadership - All’inaugurazione della Festa “più grande d’Italia” - come rivendicano gli organizzatori con buona pace della kermesse nazionale che si apre il 30 a Ravenna - dopo “l’estate militante” della battaglia per il salario minimo, Schlein promette un “autunno di lotta”. Lo fa dalla “sua” Bologna, da un palco “che mi ha cresciuta come prima donna segretaria del Pd”. Schlein rivendica la leadership di un partito che, glielo conferma giorno per giorno l’esperienza al Nazareno, “non è un partito personale e non è neanche un partito familiare”. Lollobrigida e Figliuolo - Di fronte alle parole del ministro Lollobrigida dal Meeting di Rimini, la leader dem rivendica di volersi occupare “soprattutto di quegli italiani che fanno fatica a fare la spesa, tanti, nonostante abbia visto qualche ministro che pensa che i poveri mangino meglio dei ricchi”. Plaude all’accoglienza emiliana, al collasso per colpa di un governo “campione di scaricabarile anche sui migranti”. Conferma la voglia di mobilitazione sull’alluvione: “Dopo più di tre mesi non si sono visti i ristori che Meloni aveva promesso, l’unica cosa che si è vista è una volgare politicizzazione”. Sarebbe spettato a Stefano Bonaccini, per cui spende parole al miele, il ruolo di commissario affidato al generale Figliuolo. Lui, l’ex avversario delle primarie, ieri sera era assente. Giustificato: è impegnato nelle Marche per due iniziative del Pd. Alle Europee potrebbe essere il capolista perfetto per il Nord Est? Il freno resta tirato: “Ne discuteremo nei prossimi mesi, quando sarà il tempo”. Il detenuto fa ricorso perché la cella “è troppo piccola” ma perde di Silvia M. C. Senette Corriere della Sera, 25 agosto 2023 La Cassazione: “Non è una dimora privata”. L’uomo, un sessantenne veneto, sosteneva tramite i suoi legali che le celle in cui era stato recluso fossero inferiori ai tre metri quadrati. Il grave sovraffollamento delle carceri è da tempo una delle criticità più frequentemente sollevate dai detenuti in molti Stati membri del Consiglio d’Europa per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che “proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante”. Non è però il caso di un sessantenne veneto che si è visto puntualmente e a più riprese “rimbalzare” i ricorsi avanzati per lamentare che le celle in cui è stato recluso a Trento, Verona, Pordenone e Padova erano troppo piccole. Il suo spazio vitale, sosteneva il detenuto tramite i suoi legali, era inferiore ai tre meri quadrati minimi sanciti per legge. Istanze ritenute infondate dalla Corte di Cassazione che, nell’ultima e recente sentenza della prima sezione delle sezioni penali unite, ha stabilito un principio destinato a far discutere ma anche a fare giurisprudenza: la cella non è una dimora privata. Le dimensioni della cella - Secondo la Cassazione, dunque, la superficie della cella deve sì consentire il movimento, ma non quello paragonabile ai confortevoli spazi di casa. La detenzione è pur sempre un regime che parte dal presupposto della limitazione delle libertà personali, per quanto certamente non debba sfociare nelle violazioni che la Cedu (la Convenzione europea dei diritti dell’uomo) indica come “trattamento inumano e degradante”. Un principio su cui si fonda in particolare l’articolo 3 del testo comunitario, su cui poggiava il ricorso del detenuto. L’uomo aveva trascorso un periodo di detenzione prima nella casa circondariale di Trento, poi nel carcere di Verona, quindi a Pordenone e infine, per tre anni, nell’istituto penitenziario di Padova. L’ultimo ricorso era stato presentato in Cassazione contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Venezia, che aveva dichiarato inammissibile una nuova richiesta di valutazione delle condizioni di detenzione applicate. “La cella non è una dimora privata” - La prima sezione penale presieduta dalla giudice Angela Tardio, con sentenza numero 32582 emessa lo scorso 20 aprile ha però rigettato il ricorso “affermandone l’infondatezza dei motivi”. Il lungo dispositivo del verdetto si addentra in dettagli tecnici quali “il riferimento al computo della superficie del letto singolo, anche se ancorato al suolo” e perfino “la presenza di mensole, travi o tubazioni particolarmente ingombranti”, per poi ribadire un principio “in linea con le condivise, e qui riaffermate, argomentazioni giuridiche svolte nella precedente sentenza”. Ossia che “nello svolgere tale valutazione, il giudice non deve avere come paradigma il movimento di una persona libera nella stanza di una comune abitazione. La cella non è un luogo di privata dimora - ribadisce il presidente della sezione penale 1 - e presenta ovviamente caratteristiche diverse, determinate dalla necessaria limitazione della libertà personale di movimento che è insita nella stessa sanzione detentiva e che è ben presente sia nel comune sentire sia, sotto un profilo giuridico, nei criteri fissati nella legislazione di riferimento per il rilascio del certificato di abitabilità o di agibilità di un immobile destinato ad abitazione”. “Il ricorso è infondato” - In ultima analisi, quindi, “la “normalità” dei movimenti di un detenuto in una cella arredata va intesa in termini di conformità alla consuetudine, cioè alla usuale e abituale forma di movimenti che un detenuto effettua in cella” e “la cella carceraria non rileva come “luogo di privata dimora” del detenuto e va considerata in modo complementare alle altre parti dell’istituto penitenziario destinate allo svolgimento della vita di relazione della popolazione carceraria e del personale di custodia”. A scanso di equivoci, e anche per prevenire ulteriori tentativi di ricordo, la giudice Tardio mette nero su bianco che “in definitiva, il trattamento carcerario può assumere rilevanza come “inumano o degradante” per la riduzione dello spazio della cella sotto una certa soglia, soltanto quando risulti compressa in misura molto significativa la maggior parte dei movimenti ordinari di una persona detenuta”. Per questo, al primo punto della sentenza, si sancisce che “Il ricorso è infondato”. Bolzano. Il grado di civiltà di un Paese si misura dalle carceri, non dai balconi fioriti di Roberto Sensi Il Dubbio, 25 agosto 2023 Nella città sempre ai vertici delle classifiche di vivibilità, c’è un istituto fatiscente e sovraffollato che risale all’Ottocento. Voltaire, nel diciottesimo secolo, affermava: “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. A Bolzano, città sistematicamente ai vertici delle classifiche di vivibilità, c’è un carcere che a detta di Rita Bernardini è tra i più fatiscenti di Italia: solo l’umanità del personale salva l’istituto dal degrado totale. Chi viene a Bolzano, normalmente resta affascinato dall’ordine e dalla pulizia della città, rotonde con aiuole fiorite, gerani appesi ai lampioni dei ponti, prati e parchi. Proprio su uno di questi parchi si erge un edificio storico: il carcere di Bolzano, costruito a metà dell’800. Forse il termine “storico” dà una suggestione un po’ romantica, e invece bisognerebbe dire vetusto, inadatto, fuori dal tempo. E il tempo in quell’edificio lo trascorrono molte più persone di quelle che potrebbero essere ospitate, ristrette in celle sovraffollate, in spazi comuni angusti e con un cortile per l’ora d’aria che a definirlo cortile ci vuole molta immaginazione: un rettangolo di circa 40 metri per 8/ 10 metri, delimitato da alte mura di recinzione con una pavimentazione irregolare di asfalto/ cemento, piena di buche dove le rare partite di calcetto si concludono sempre in infermeria. E il tempo in quell’edificio lo trascorrono anche gli addetti alla sicurezza, che a differenza dei ristretti sono sottorganico, a partire dalla direttrice che è di stanza a Venezia. Mancano il comandante di reparto, gli ispettori, almeno 25 agenti e non in ultimo gli educatori, che dovrebbero essere quattro, ma ce n’è uno solo. I turni e le attività vanno comunque svolte e quindi gli agenti in forza e l’unico educatore sono costretti a turni massacranti e continui straordinari. D’altronde in una delle città più vivibili di Italia il costo della vita è altissimo e con uno stipendio da agente si rischia di dover fare la fila alla Caritas per rimediare un pasto. “Il carcere e la morte non sono argomenti piacevoli di cui parlare”, ha detto l’avvocato Beniamino Migliucci durante il convegno organizzato lo scorso 17 luglio dalla Camera penale di Bolzano in collaborazione con l’Ordine degli avvocati di Bolzano e Nessuno Tocchi Caino. Ma soprattutto non sono argomenti che attirano voti. La politica locale, con la scusa della costruzione del nuovo carcere, al centro di una controversia legale da almeno vent’anni, si disinteressa dell’attuale drammatica situazione. E quindi ad occuparsene sono quelli che non hanno bisogno di voti: i volontari. Tra le problematiche maggiori all’interno dell’istituto c’è quella legata alla tossicodipendenza, che riguarda oltre il 70 per cento dei detenuti. E costituisce una doppia pena per chi sta in carcere, come spiega l’avvocato Angelo Polo, Vicepresidente dell’UCPI di Bolzano. La Provincia di Bolzano, che ha competenza sulla sanità e quindi sul Serd, garantisce solo due mezze giornate alla settimana per il trattamento dei detenuti con dipendenze. Facendo un calcolo approssimativo, su una presenza di circa 120 detenuti, coloro che hanno problemi di dipendenza sono circa 84; se un operatore del Serd concede circa mezz’ora ad assistito in otto ore settimanali, vuol dire che ne segue 16 alla settimana e all’ultimo arrivato servono circa cinque settimane per il primo appuntamento. Ma le crisi di astinenza non aspettano cinque settimane e alla fine il problema ritorna in carico alla già sottodimensionata struttura organica. Anche una piccola cosa potrebbe migliorare la condizione di chi è ristretto: una telefonata allunga la vita. A Bolzano per i due piani della struttura c’è solo una linea telefonica da condividere per tutti i detenuti: eppure aumentare le linee sarebbe una soluzione a basso costo che migliorerebbe di molto la qualità della vita all’interno del carcere. Aumentare il numero di telefonate previste in carcere (una alla settimana, per soli dieci minuti) è anche una delle proposte fatte da Il Dubbio nel suo appello per fermare la strage dei suicidi in cella. Un massacro quotidiano, che purtroppo non sorprende chi a Bolzano non si limita a guardare soltanto le rotonde con le aiuole fiorite. Verona. Gennaro sta per uscire dal carcere: malato psichiatrico, finirà per strada di Annamaria Schiano Corriere di Verona, 25 agosto 2023 I familiari non possono sostenere i costi per una struttura. Appello dell’associazione “Sbarre di Zucchero” per Gennaro, un detenuto che domani esce dal carcere di Montorio ritrovandosi da solo per strada in preda ad una grave condizione psichiatrica. La moglie Debora e il figlio, sono molto preoccupati e si sono rivolti all’associazione nata un anno fa dalle ex compagne di detenzione di Donatella Hodo, che a soli 27 anni si è tolta la vita nel carcere veronese. A “Sbarre di Zucchero” hanno aderito avvocati, giornalisti, volontari e attivisti dei diritti umani per condividere la battaglia per la tutela delle persone detenute, in particolare le donne, e per il superamento del carcere e la giustizia riparativa. “La signora Debora ci spiega che la sua famiglia è attualmente senza dimora, lei è ospite in una struttura, ed il marito con invalidità psichiatrica accertata all’80%, (schizofrenico bipolare con episodi di autolesionismo), da domani si ritroverà a girovagare e dormire per le strade della città di Verona. La moglie da oltre due mesi sta chiedendo aiuto ai servizi sociali locali ed ai servizi psichiatrici che avevano in cura il marito, al fine di trovare una struttura adatta dove lui possa trovare sistemazione e cure necessarie, ma l’unica soluzione propostale è troppo onerosa per le sue attuali disponibilità economiche, per cui è totalmente impossibilitata a sostenere una spesa mensile di 600 euro, (la differenza di 450 euro la metterebbero i servizi sociali), per una sistemazione nella quale il signor Gennaro dovrebbe procurarsi comunque da solo farmaci e tutto il necessario”, spiegano le referenti dell’associazione. Che ricordano ancora una volta: “Il gravissimo problema di gestione e trattamento dei detenuti psichiatrici non finisce con l’espiazione della pena ma si amplifica soprattutto dopo la scarcerazione, lasciando nel dramma i familiari e rendendo le vie delle nostre città meno sicure, come successo pochi mesi addietro con l’omicidio della psichiatra Barbara Capovani, uccisa da un suo paziente, ex detenuto. Per questo chiediamo con urgenza una presa in carico immediata della situazione del signor Gennaro ai servizi sociali comunali, regionali, al Centro di salute mentale, per evitare nuove tragedie”. Genova. Al carcere Marassi ora protestano i detenuti per associazione mafiosa Il Dubbio, 25 agosto 2023 Quarto giorno di disordini nella casa circondariale ligure. Ora il caos si è spostato nella sezione “Alta sicurezza”. I reclusi denunciano un peggioramento dei servizi di spesa e sopravvitto. “Continua la protesta nel Carcere Marassi di Genova, ripresa alle 23,30 di ieri sera per il quarto giorno consecutivo, ed è durata circa un’ora. Stavolta è il reparto Alta Sicurezza dove sono ristretti detenuti per associazione mafiosa”. Lo rende noto il Segretario Regionale della Uil Pa Penitenziaria, Fabio Pagani, che precisa: “La protesta continua e non ci sembra che ci siano stati risvolti positivi in merito al servizio (Spesa e sopravvitto), anzi sembra che a peggiorare la situazione sia anche la carenza di fondi per l’acquisto di materiale (elettrico, di muratura, mancano addirittura le lenzuola per il cambio), ovvero sembrano esauriti i fondi per la mOF (Manutenzione Ordinaria Fabbricati)” commenta Pagani. “La situazione di degrado e di pericolo per l’incolumità degli operatori che si registra negli istituti penitenziari del Paese è davvero inaccettabile e giunta a un punto di non ritorno se non si avvia immediatamente un piano di manutenzione straordinaria delle strutture. Il Carcere di Marassi rischia di restare con le celle inagibili considerato l’esaurimento di quei fondi per acquistare il materiale per la manutenzione, inoltre le lenzuola, che permettono il cambio e l’igiene sembrano essere esaurite, due i detenuti a Marassi isolati per scabbia”, aggiunge Pagani. “Dopo dieci mesi dall’insediamento del governo Meloni e, con esso, del Ministro della Giustizia, la verità è che la situazione carceraria continua a degenerare giorno dopo giorno ed è a un passo dalla capitolazione definitiva anche per i tagli apportati con la legge di bilancio dello scorso anno. Il Ministro, quando pensa al riutilizzo delle caserme in disuso, dovrebbe specificare con quale personale, atteso che alla sola Polizia penitenziaria mancano 18mila unità e di assunzioni straordinarie utili a invertire la rotta del decremento non se ne vedono”, conclude Pagani. Palermo. Lo show giudiziario aizza la vendetta e spaventa persino i vertici del carcere di Francesca Spasiano Il Dubbio, 25 agosto 2023 “Ma chi se ne frega cosa vogliono loro… non dovrebbero nemmeno avere una difesa”; “pena esemplare, non c’è alcuna incertezza di colpevolezza. Purtroppo la giustizia ha una serie di paletti, e non si possono cambiare ad hoc…”; “dovrebbe essere lo Stato a garantire la certezza della pena… in questo caso sarà garantita dai detenuti”; “li lascerei in pasto agli altri carcerati”. Quando mercoledì scorso si è diffusa la notizia che i sei ragazzi di Palermo arrestati per violenza sessuale di gruppo sarebbero stati trasferiti in altri istituti di pena per “motivi di sicurezza”, sul web è partito il solito tam tam. Un mix di indignazione e giubilo, da parte di chi ritiene intollerabile ogni sforzo per garantire l’incolumità dei “mostri” che hanno perso ogni diritto. La richiesta di allontanare i sei è partita dalla direzione del carcere Pagliarelli di Palermo, ma sarebbero stati gli stessi ragazzi a chiedere il trasferimento dopo le minacce ricevute dagli altri reclusi. Ed è questo dettaglio, in particolare, ad infiammare gli utenti che commentano sui social: come si permettono quei balordi - sarebbe il ragionamento - di avvalersi della difesa? E perché lo Stato si prende pure il fastidio di assecondarli? Ci pensassero i detenuti a fare giustizia, così una buona volta tornano utili. E non deve passarsela meglio il settimo indagato, l’unico minorenne al momento dei fatti, che nel frattempo è tornato in carcere per nuovi elementi a suo carico dopo che il gip aveva “osato” revocare la misura cautelare. Niente di nuovo, direte: la giustizia mediatica, che sistematicamente anticipa la giustizia nei tribunali, ci ha già abituati a gogne e linciaggi sulla piazza del web, soprattutto nel caso di reati così odiosi, come quello consumato a Palermo. Ma in questa terribile storia, che la cronaca ci ha raccontato in ogni dettaglio, ci sono almeno un paio di ingredienti che aggravano il quadro. Innanzitutto l’estremo clamore mediatico, citato dalla stessa direzione del carcere Pagliarelli per motivare il rischio di disordini all’interno dell’istituto. Un odio virale, un voyeurismo di cui è prova la “caccia” alle immagini dello stupro partita su Telegram (con tanto di promessa di ricompensa), a cui segue la richiesta di una pena esemplare. La pena di morte, si direbbe, per mano di chi abita il carcere: una contraddizione niente male da parte di chi vorrebbe che “i criminali marcissero in galera” e ora eleva quegli stessi detenuti ad arbitri dell’etica criminale. Un po’ come quando si dice con una certa soddisfazione che chi tocca i bambini se la vedrà in cella con i “mafiosi”. La stessa sorte tocca a chi stupra: è la legge del contrappasso. E guai a ricordare che esiste una legge vera, che non equipara la risposta punitiva al delitto. Era già successo con i fratelli Bianchi, che siccome avevano ucciso come le bestie, come le bestie dovevano morire: trasferiti anche loro. Ma garantire condizioni di detenzioni umane per chiunque non è “buonismo”: significa ricordare che ogni tentennamento sullo Stato di diritto, ogni cedimento ai nostri istinti peggiori, ci riporta dritti al livello più tribale della giustizia, in un inferno dove è lecito divorarsi l’uno con l’altro. Perché tanto la cosa non ci riguarda, a noi del mondo di fuori, che così avremo risparmiato tempo e denaro. Lauro (Av). Detenuta tenta il suicidio bevendo candeggina: è grave in ospedale Il Riformista, 25 agosto 2023 È ricoverata in gravi condizioni la donna di 39 anni, detenuta nel carcere di Lauro, in provincia di Avellino, che nelle scorse ore ha tentato di togliersi la vita bevendo candeggina. Soccorsa dalle altre detenute prima, e dagli agenti penitenziari in servizio poi, è stata trasportata in ospedale ad Avellino in codice rosso. Le sue condizioni sarebbero gravi ma non è in pericolo di vita. Il carcere di Lauro è un istituto a custodia attenuata per madri con bambini al seguito. L’ICAM, che può ospitare fino a 35 donne con bambini, è entrato in funzione il 12 giugno 2017 ed è pertanto ancora in fase di organizzazione delle attività interne. “È la spia del grave malessere psicologico delle madri detenute, nonostante condizioni detentive ben lontane da quelle che si vive negli istituti ordinari”, commenta all’agenzia Ansa Samuele Ciambriello, garante regionale della Campania delle persone detenute che martedì scorso, in video-chiamata, aveva parlato anche con la donna. “Da quel colloquio -riferisce il Garante- nulla lasciava presagire la prostrazione che ha indotto la 39enne a tentare il suicidio. Era apparsa apparentemente rincuorata per il fatto che tra pochi mesi avrebbe potuto usufruire di permessi. Evidentemente lo stigma di crescere i propri figli in carcere costruisce giorno dopo giorno una sofferenza latente ma profonda che finisce poi per esplodere”. Lecce. Il laboratorio inclusivo dove i detenuti pasticceri fanno il latte di mandorla di Luca Bergamin Corriere della Sera, 25 agosto 2023 Formazione e lavoro con la Social Food Corporation nel laboratorio in cui i detenuti del carcere di Borgo San Nicola prossimi alla scarcerazione già realizzano le orecchiette, le confetture, alimenti salati e dolci della tradizione. Il latte di mandorla nel Sud Italia non costituisce soltanto una bevanda rinfrescante, bensì anche e soprattutto un elisir di lunga vita frutto di una tradizione agricola che risale al un passato povero e dignitoso. Va preparato con cura e perizia, specialmente se lo si accompagna a un altro storico alimento liquido imprescindibile quale il caffè. Ecco, dunque, che il progetto messo in atto da un anno a questa parte con notevole successo da Social Food Corporation, dopo una prima fase sperimentale, ha incontrato il favore di tanti consumatori, nonché estimatori e sostenitori dell’importanza di dare una seconda possibilità e una prospettiva futura ai detenuti prossimi a lasciare il carcere per decorrenza dei termini di detenzione. Ristrutturato un caseggiato adiacente alla ex casa circondariale minorile di Lecce, accanto al laboratorio in cui i detenuti cesellano con le loro mani le orecchiette, le confetture, alimenti salati e dolci tra cui conserve e sughi, di concerto con il Ministero della Giustizia, essi si dedicano anche al latte di mandorla. Il numero dei soggetti coinvolti in questa attività è più sempre in aumento: essi prendono inizialmente parte a un corso di formazione, per apprendere le tecniche e l’arte della pasticceria sotto la direzione di Davide De Matteis, titolare del Bar 300mila e promotore di questa iniziativa concreta volta a propiziare il ritorno alla vita libera e il reinserimento nella società. “Destiniamo i proventi di queste attività a cause umanitarie, quali ad esempio l’Unicef impegnato ad aiutare i bambini colpiti dalla Guerra in Ucraina - spiega De Matteis - perché crediamo fortemente che lavorare per una causa giusta possa sensibilizzare e responsabilizzare doppiamente le persone che hanno sbagliato, ma adesso sono prossime alla libertà e a lasciare le celle del carcere di Borgo San Nicola”. Entrare nella fucina-laboratorio dei detenuti pasticceri significa incontrare i loro sorrisi, intercettare sui volti la gioia di avere imparato un mestiere, assistere a un lavoro di team che mai queste persone si sarebbe aspettate di poter nuovamente compiere nella loro vita stravolta dai reati commessi. Adesso anche gli avventori sanno che quando bevono alcuni sorsi dell’amato latte di mandorla, regalano momenti di spensieratezza e speranze a chi lo ha prodotto, imbottigliato e confezionato su iniziativa di Social Food Corporation. Ferrara. I buskers all’Arginone con l’arte di strada di Veronica Capucci La Nuova Ferrara, 25 agosto 2023 Il forte abbraccio tra il festival e la casa circondariale di Ferrara. Tanti sogni, desideri, speranze e magie regalate a circa 250 detenuti. È stato un forte abbraccio quello di ieri, tra il Ferrara Buskers Festival e la casa circondariale di Ferrara. Un momento intenso, fatto di sogni, desideri, speranze, magie, come quella della libertà che per un momento El Kote, l’acrobata giocoliere cileno più ammirato della manifestazione legata agli artisti di strada, ha regalato ai circa 250 detenuti che hanno potuto assistere, all’aperto nel campo sportivo del carcere, al suo spettacolo. Un momento durato circa un’ora, e che per essere organizzato ha richiesto tutto l’impegno dell’area educativa della casa circondariale e della polizia penitenziaria. “Abbiamo profuso molto impegno per realizzare la giornata di oggi, lo abbiamo fatto con tutto il cuore e con un grande sforzo del settore educativo e della polizia penitenziaria”, spiega la comandante Annalisa Gadaleta. Uno sforzo che ieri ha dato i suoi frutti, realizzato nello stare insieme, seppure separati secondo le normative, dei circa 250 detenuti appartenenti ai vari circuiti: collaboratori, congiunti di collaboratori, detenuti comuni e protetti. La direttrice Maria Nicoletta Toscani rimarca le parole della comandante, spiegando che si tratta “di un momento storico, di una tradizione che si rinnova dato che con il Ferrara Buskers Festival c’è già un legame e gli artisti sono già intervenuti altre volte. Una tradizione che oggi vede uno spettacolo all’esterno, certo se avessimo saputo che c’erano 40 gradi non lo avremmo fatto, ma qui abbiamo acqua, ghiaccio per mettere i detenuti a loro agio. Gli artisti di strada rappresentano la libertà di espressione dell’arte, quella libertà che i ragazzi qui tanto agognano. I nostri ospiti, come chiamiamo i detenuti, stanno facendo un percorso importante di reintegrazione sociale, la sentenza di colpevolezza per loro è stato l’inizio della rinascita. Stanno facendo un percorso significativo nell’area educativa grazie alla dottoressa Annamaria Romano, e come donne ci siamo unite in questa sinergia educativa”. Poi la direttrice si è rivolta ai detenuti, per salutarli prima dello spettacolo. Divertente e interattivo, lo show di El Kote, che prima di iniziare ha stretto la mano ad uno a uno ai detenuti. Un’ora di spettacolo intensa, condita da momenti con battute scherzose, che è stata molto apprezzata dal pubblico. È poi la stessa comandante Gadaleta a spiegare che, all’interno della casa circondariale, vengono tenuti corsi di rugby, calcio, camminata veloce, yoga e varie attività sportive. Attualmente nella casa circondariale ci sono 360 detenuti e la capienza è di 244, ma Gadaleta spiega che “non c’è sovraffollamento giuridico, c’è un sovraffollamento afferente alla capienza regolamentare. Attualmente abbiamo due detenuti per cella, in certi casi uno”. Leosini: “Mai concedere al male l’aura di originalità, i criminali possono essere interpretati” di Michela Tamburrino La Stampa, 25 agosto 2023 La signora dei delitti in tv ritorna in autunno con i suoi speciali su Rai 3. “Parliamo di esistenze segnate per sempre, il prezzo che viene pagato è altissimo”. Estate di delitti, quella 2023. Estate calda, bollente di morti ammazzati. In maggior parte donne, trucidate in casa. Ma anche di figli fragili che uccidono i genitori. Storie maledette, proprio come quelle che da anni racconta Franca Leosini su Rai3. Franca Leosini, l’estate è una stagione violenta? “Molto. Sorprende che sempre più donne siano vittime dell’attenzione omicida. Una scia di dolore che non accenna a placarsi. Ci si chiede quale sia il problema profondo. Ci si chiede che cosa scateni tanto odio. Certo, l’importanza e il ruolo femminile nella società di oggi è sempre più rilevante. E certi uomini, destabilizzati da questa realtà incontrovertibile, sanno solo opporre violenza. La nostra rilevante presenza, sociale e familiare, ha svelato tante inadeguatezze che si traducono in sangue. Un segno di debolezza, chi patisce il confronto non ha altre armi di reazione”. C’è chi dice che questa estate con caldo torrido record, abbia causato scompensi psichici e dunque violenza. Ci crede? “Troppo facile dare la colpa al caldo, una scappatoia comoda dire che l’afa dà alla testa. Una tesi assolutoria che non può passare”. Leosini, ma non si è stancata di moventi, alibi, raptus, omicidi? Non le piacerebbe cambiare genere? “In effetti c’è una proposta nell’aria ma è tutta da inventare. Non è escluso, nel futuro, che io accetti. Bisogna vedere se il mio carattere me lo concederà, un programma su temi differenti può essere anche più difficile per me che controllo tutto e devo sapere tutto. Chissà”. I delitti di questa estate in maggior parte non costituiscono materia adatta ai suoi programmi. Lei tornerà in autunno con “Che fine ha fatto Baby Jane” e con “Storie Maledette”? “Ci sto lavorando. Che fine ha fatto Baby Jane è stato provvidenziale in epoca di Covid quando le difficoltà di entrare in carcere erano moltiplicate e Storie maledette venne sospeso per questo. Ma il nuovo programma non era facile da mettere in piedi, infatti gli ottimi ascolti mi hanno molto gratificata. La Rai non paga compensi per gli ospiti e io ho dovuto indurre persone che già avevano scontato la loro pena a rimettersi in gioco. Persone protagoniste di una vicenda tragica che non corrisponde alla loro vita, che hanno già scontato la loro pena e che magari si sono ricostruite un’esistenza. Ripercorrere di nuovo quanto accaduto, riproporre il loro vissuto è molto faticoso da tanti punti di vista, soprattutto umano. Chi raggiungo in carcere e chi ne è uscito, non è un professionista del crimine. Io ho scavato nelle vite di persone che nel mezzo di una vita normale, come la mia o la sua, sono precipitate in un burrone di violenza. In questi casi è basilare studiare il contesto nel quale la vicenda è esplosa”. Lei poi non è donna da fare sconti... “Io sono rigorosa. Studio gli atti dei processi dalla prima all’ultima parola. E ho una regola, inderogabile: mai anticipare le domande. Un punto sul quale non transigo. Una volta ho buttato mesi di lavoro perché la persona da intervistare voleva sapere in anticipo quello che le avrei chiesto. Non è una recita a soggetto. Nessun patteggiamento”. Date queste premesse, perché è difficile che queste persone le dicano di no? “Perché ne escono sempre con la loro umanità anche se i delitti non si giustificano mai. Ma possono essere interpretati”. Ma non è che in questi ultimi anni il male sia aumentato e al tempo stesso anche banalizzato? Sembra che i motivi capaci di scatenare la violenza siano sempre gli stessi, reiterati... “Sono i corsi e i ricorsi, non concediamo al male anche l’aura di originalità. Le storie si differenziano nei protagonisti ma si somigliano nella radice dei fatti. Un denominatore comune è il prezzo che viene pagato, altissimo. Parliamo di esistenze segnate per sempre”. Sono anni che lei porta i suoi programmi in Rai. Al ritorno troverà tutte persone nuove nei posti di comando, la nuova Rai di cui tanto si parla. Preoccupata? “Io dico: facciamoli lavorare, vediamo. Non posso negare che ho perso tanti punti di riferimento. Molti dirigenti con i quali ho lavorato per anni, ora non ci sono più. Cambiare non è mai facile e a Raitre, soprattutto, eravamo una famiglia. Ma diamo tempo prima del giudizio, non siamo frettolosi o imprudenti nel valutare. Il periodo è difficile sotto tanti punti di vista”. Leosini, lei è un’icona cult, inutile negarlo. In tantissimi di qualsiasi estrazione culturale e sociale, adorano guardarla parlare di omicidi mentre appare una signora borghese pronta per un tè con le amiche. Anche la comunità Lgbt l’ha eletta come simbolo. Il suo segreto? “Sono tutti molto generosi con me e non finisco di stupirmi di tanto affetto. Io cerco di centellinarmi, non vado ospite di programmi, non sono presenzialista, non per superbia ma per non inflazionare. Ho messo un veto scritto alle repliche dei miei programmi ma questo non lo faccio per me. Credo che dopo anni la vita di un uomo e di una donna possa essere cambiata. Qualcuno ha avuto nuove occasioni. Non è giusto che a distanza di tempo tutto torni a galla. Il prezzo del loro errore l’hanno già pagato”. Il politicamente corretto tra generali e clandestini di Luigi Manconi La Stampa, 25 agosto 2023 Da sempre le parole dicono molto più di quanto le parole dicano. E non è necessario evocare Wittgenstein per sapere che la lingua costruisce la realtà e ne dà sostanza e corpo. Questo per dire che le controversie in tema di “politicamente corretto” sono maledettamente più serie di quanto possano apparire e di quanto le polemicucce piccine picciò di casa nostra lascino intendere. Di conseguenza, anche la vicenda del libro scritto dal generale Roberto Vannacci in un italiano rudimentale non va sottovalutata, né ridotta alla sublime farsa dell’Alto Gradimento di mezzo secolo fa (pur se le suggestioni sono tante: là il colonnello Buttiglione e Catenacci, qui il più alto in grado Vannacci). L’episodio rivela, in primo luogo, a quale livello di asprezza sia giunta la “guerra civile” per l”gemonia all’interno della destra italiana e, sullo sfondo, come la forza elettorale e coalizionale di Fratelli d’Italia mostri crepe che sarebbe un errore ritenere di natura principalmente culturale. No, è lotta politica vera che, come tutte le lotte politiche vere, si combatte anche sul piano degli orientamenti collettivi e del senso comune, dell’immaginario e, appunto, del linguaggio. Perciò, la questione del politicamente corretto è tutt’altro che una moda effimera o un vezzo delle élite soddisfatte di sé e del proprio status o, ancora, un capriccio ideologico di quel mondo che gli sciocchi tuttora chiamano sciaguratamente radical chic. È invece una fondamentale questione politica. Il che rende ancora più meschino l’uso che ne viene fatto dalla destra italiana e, in particolare, da quella mediatica. Se ne trova una esemplificazione formidabile proprio nel libro di Vannacci, quando egli - successivamente sostenuto da una turba di neo-costituzionalisti alla cacio e pepe - rivendica la più ampia libertà di espressione e “il diritto fondamentale” a chiamare “culattoni” gli omosessuali. Per quanto mi riguarda, penso che chi ricorre a questa indecente sineddoche (la parte per il tutto) per indicare un essere umano non è un buontempone animato da spirito goliardico, bensì un poveraccio frustrato; e non chiederei un solo giorno di carcere o alcuna altra sanzione penale per uno sfigato come quel generale che rimpiange i bei tempi andati, quando si poteva impunemente dire: pederasta, invertito, frocio, ricchione, buliccio, femminiello, bardassa, caghineri, cupio, buggerone, checca, omofilo, uranista (così nel libro). Personalmente, mi basta la sanzione morale comminata a Vannacci dalle persone perbene, per una ragione di elementare buon gusto e di semplice rispetto della dignità umana. Ma dire questo significa forse, come scrivono i putibondi giornali di destra, che il generale omofobo è sottoposto a “linciaggio” e subisce un “massacro”? Per essere un guerriero tanto valoroso quale viene descritto sembrerebbe un po’ cagionevole. Tuttavia, come si diceva, la questione del politicamente corretto va oltre, molto oltre. Criticati tutti gli eccessi, le esagerazioni e le ridicolaggini che quella strategia di correttezza linguistica ha prodotto, resto convinto che gli errori e gli orrori determinati dalla guerra culturale contro il politically correct siano più gravi della pur disastrosa pudicizia linguistica che ha ingessato parte del discorso pubblico e irrigidito la dinamica di alcuni conflitti culturali importanti. L’origine del politicamente corretto, a ben vedere, è antica. Tra i primi diritti rivendicati dagli esseri umani c’è stato quello di dotarsi di un proprio nome. Il diritto, cioè, a nominarsi, a scegliere la definizione di sé che si vuole affermare, che si vuole comunicare al mondo, che si vuole che il mondo ci riconosca. Si pensi a quale deve essere stata la sofferenza dello schiavo per liberarsi e per ottenere di essere chiamato con un nome proprio: che non fosse quello servile o un numero o un attributo comune a tutti i suoi simili. La lotta per il nome è fondamentalmente lotta per l’identità. Il diritto, cioè, a non essere chiamato attraverso il nome - e lo stereotipo e il giudizio e il disprezzo - imposto dall’altro, da chi detiene tutto il potere, compreso quello di nominare cose e persone. Tutto qui. Poi, quando è necessario, critichiamo e beffiamo le iperboli e gli eufemismi che precipitano nel grottesco o nel puerile. È questa la ragione che rende così importante una sentenza della Corte di Cassazione di qualche giorno fa, a proposito di un manifesto della Lega che definiva “clandestini” un gruppo di richiedenti asilo arrivati a Saronno nel 2016, in attesa del riconoscimento della protezione internazionale. Nella sentenza si legge: “È fermo convincimento di questa Corte che un termine come clandestino ha assunto concretamente, nell’utilizzo corrente, un contenuto spregiativo e una valenza fortemente negativa”. La sentenza è davvero definitiva, in tutti i sensi. Rileggiamo: quel termine ha assunto “concretamente, nell’utilizzo corrente, un contenuto spregiativo”. Concretamente, appunto. Nella storia materiale della lingua italiana, in questo secondo dopoguerra, “clandestino” è parola usata in due circostanze: a) per definire una relazione adulterina e un rapporto extraconiugale; b) per indicare l’attività criminale occulta delle organizzazioni terroristiche. Con questi precedenti come negare che quella definizione attribuita a un profugo, ma anche a un migrante irregolare, non abbia un significato esplicitamente discriminatorio? Lo stesso che sembra ispirare le considerazioni, si fa per dire, geo-politiche di Vannacci quando parla di quanti fingerebbero di scappare da fame, guerra e persecuzioni per trovare un comodo rifugio in Italia. In altri termini, palesemente, il generale parla di cose più grandi di lui. Vittadini: “Il governo? Ci sono luci e ombre. Il banco di prova sarà la manovra” di Cesare Zapperi Corriere della Sera, 25 agosto 2023 Intervista al presidente della Fondazione per la Sussidiarietà: “La premier si deve guardare dalle persone poco competenti”. “C’è chi affronta i problemi con superficialità. Si sentono troppe parole in giro che infastidiscono, meglio tacere e lavorare di più” Alla vigilia del Meeting aveva auspicato che di fronte ad un Paese “messo male” prevalesse uno spirito di concordia. Lo ha visto a Rimini? “Su alcuni temi ho visto una buona convergenza - risponde Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e anima storica della kermesse di Rimini -. I problemi dell’Italia sono enormi. Nessuno può pensare di fare da solo, nemmeno De Gasperi ci riuscirebbe”. Cosa servirebbe? “Distinguere i piani. Da un lato c’è il governo e la Seconda Repubblica ci ha regalato una sana alternanza. Dall’altro, c’è un Parlamento che deve riscoprire la capacità di convergere sulle soluzioni che aiutano il Paese a svilupparsi. I temi di possibile intesa sono molti”. Quali, per esempio? “Anzitutto, l’occupazione. C’è la necessità di superare il modello neoliberista sposato un po’ da tutti negli ultimi trent’anni. Non funziona più. Bisogna rivalutare il ruolo dello Stato non per alterare le regole del libero mercato ma per tutelare le persone dalle sue storture”. Un altro fronte? “Quello della sanità e dell’assistenza. Anche qui bisogna cambiare paradigma. Serve più sanità pubblica e soldi spesi meglio”. Ma il modello lombardo ha sostenuto la sanità privata... “All’inizio si è chiesto al privato di contribuire all’offerta di servizi sanitari pubblici. Il modello per un po’ ha funzionato in modo virtuoso. Ora si è perso il controllo, ma è successo in tutto il Paese”. La sua Fondazione batte molto sul tasto della sussidiarietà. Cosa significa? “Società e Stato devono collaborare di più. Serve una vera alleanza in cui ciascuno metta in campo energie e competenze”. Per un po’ si è affermato il modello della persona sola al comando... “Sì, ed è un modello sbagliato. Il problema vero sono i partiti e come scelgono la loro classe dirigente. I cittadini non possono più scegliere i candidati. Se non si vogliono le preferenze, si facciano almeno le primarie”. Come giudica il governo? “È presto per dirlo, ci sono luci e ombre. Il vero banco di prova sarà la prossima legge di bilancio”. E come valuta la premier? “È una politica cresciuta con la gavetta e si vede. Personalmente, la stimo per l’impegno che ci mette”. Da cosa si deve guardare? “Come tutti i premier, si deve guardare dalle persone poco competenti che non hanno una storia alle spalle e che affrontano i problemi con superficialità. Si sentono troppe parole in giro che infastidiscono. Meglio tacere e lavorare di più”. Come è messo davvero il Paese? “La crescita c’è, ma è debole. Il problema è il lungo periodo. Lo sviluppo deve diventare strutturale. Per far questo serve una politica industriale che manca da decenni”. Non se ne vede l’ombra... “Abbiamo ridotto le scelte economiche al Dpef e alla legge di Bilancio. Nessuno parla di un modello economico che permetta uno sviluppo sostenibile di lungo periodo”. A Rimini si è parlato molto della crisi della natalità... “C’è chi l’ha messa solo sul piano economico, pur importante, ma io penso che i figli si facciano quando si hanno degli ideali. Questa non può diventare una battaglia ideologica. Tocca alla politica infondere fiducia nel Paese”. Uno dei temi di scontro è la gestione dei flussi migratori... “Gli immigrati sono una risorsa preziosa. Ne abbiamo bisogno, visto anche l’enorme calo della popolazione. Io condivido le parole del Papa, l’accoglienza è un dovere”. Il centrodestra la pensa diversamente... “È sbagliato alimentare divisioni su questo tema”. Dei diritti individuali, invece, non avete parlato... “Ognuno ha le sue convinzioni, ma i problemi sono complessi, non vanno banalizzati, bisogna discuterne a fondo entrando nel merito. Ad esempio io sono contrario alla maternità surrogata perché gli esseri umani crescono per attaccamento emotivo alla madre fin da quando sono nella sua pancia”. Sono temi che spaccano... “Condivido quanto diceva Enzo Jannacci, che ci vuole più umanità altrimenti ci rimettono soprattutto i più deboli e per questo aggiungeva: ci vorrebbe la carezza del Nazareno”. Il Meeting è cambiato? “Molto. È cambiato aprendosi. Il primo che ha spronato a farlo è stato don Giussani. Lui ha sempre detto che “l’altro è un bene”. Con persone culturalmente e ideologicamente molto lontane è sempre possibile trovare una sintonia umana”. Oggi arriva il presidente della Repubblica... “Sergio Mattarella è il simbolo di chi sa mettere l’istituzione davanti a tutto. Ha sempre valorizzato il bene comune e mi aspetto che sia di sprone per tutti in questa direzione”. Migranti. L’Ue respinge le accuse della destra: “Stiamo aiutando l’Italia”. La Lega: “Ipocriti” di Marco Bresolin La Stampa, 25 agosto 2023 La Commissione europea si difende: “Già disposti 450 uomini sul campo e investiti 2 miliardi in aiuti”. Asilo, stallo sulla riforma di Dublino. La Commissione europea è “molto preoccupata per l’aumento degli arrivi nel Mediterraneo centrale, in particolare in Italia”. E non potrebbe essere diversamente, visto che questa è tornata a essere la rotta più battuta, dove si registra la metà degli ingressi “irregolari” in tutta l’Unione europea (quasi 90 mila su 176 mila nei primi sette mesi dell’anno). Ma l’esecutivo Ue respinge le accuse di immobilismo che in questi giorni stanno arrivando da diversi governatori di centrodestra e da esponenti della maggioranza. Bruxelles “ha collaborato con le autorità italiane e continuerà a farlo” ha fatto sapere ieri la Commissione tramite una sua portavoce, elencando tutte le forme di sostegno sin qui fornite: 450 uomini sul campo per gestire le procedure di frontiera e decongestionare gli hotspot, quasi due miliardi di euro di supporto economico negli ultimi otto anni e un meccanismo d’emergenza per consentire il trasferimento aereo dei migranti più vulnerabili da Lampedusa verso gli altri centri della Penisola. Il dossier immigrazione è da sempre tra i più sensibili sull’asse Roma-Bruxelles, insieme con quello che riguarda la gestione dei conti pubblici. Due micce capaci di far divampare il fuoco delle tensioni e di scatenare accuse all’indirizzo dell’Unione europea, il perfetto capro espiatorio. A Palazzo Berlaymont ne sono ben consapevoli, per questo cercano puntualmente di intervenire per cercare di gettare acqua sul fuoco. Ma non sempre basta: ieri, per esempio, la reazione della Lega non si è fatta attendere. “Consapevoli e preoccupati? L’Ue non ci prenda in giro - attacca l’eurodeputato Paolo Borchia -. La Commissione continua a lasciare sola l’Italia, basta ipocrisia”. Critiche che vengono però respinte e finiscono per rimbalzare verso gli altri governi Ue. Un esempio su tutti: un anno fa, su spinta della presidenza di turno francese, durante il governo Draghi, l’Unione aveva introdotto un piano di ridistribuzione dei migranti, seppur su base volontaria. L’impegno era di trasferire ottomila richiedenti asilo, ma dopo dodici mesi la cifra è ferma a poco più di un quarto. Di questi, soltanto 1.076 sono stati trasferiti dall’Italia (principalmente verso Francia e Germania). Sono emersi ostacoli pratici, oltre che politici: trattandosi di un piano volontario, gli altri Paesi non sono obbligati ad accogliere. Ma il vero interrogativo riguarda la riforma di Dublino. All’inizio di giugno - nonostante la contrarietà di Polonia e Ungheria - i ministri dell’Interno hanno trovato una prima, storica, intesa sulle nuove regole per la gestione delle politiche d’asilo, basata sul concetto di “solidarietà obbligatoria”. Ma alla fine di luglio il dossier si è impantanato perché non è stato trovato un accordo sul regolamento per le situazioni di crisi che dovrebbe affrontare anche la questione della “strumentalizzazione” dei migranti da parte dei Paesi terzi. E lo stop rischia di bloccare l’approvazione dell’intero Patto, visto che bisogna ancora passare dai negoziati con l’Europarlamento. Nelle prossime settimane la presidenza spagnola proverà a mettere sul tavolo una nuova proposta di compromesso per cercare di sbloccare la situazione. Dal canto suo, però, la Commissione ritiene di avere la coscienza a posto. Sia per quanto riguarda le proposte di riforma (messe sul tavolo tre anni fa), sia per quanto riguarda il sostegno pratico. “Abbiamo collaborato con le autorità italiane per contribuire a decongestionare l’hotspot di Lampedusa - ha precisato ieri una portavoce -, in particolare attraverso l’assistenza di emergenza che consente il trasferimento aereo dei migranti vulnerabili dall’isola ad altre località del territorio italiano”. Inoltre le agenzie Ue - Frontex, Europol e Agenzia per l’Asilo - “hanno dispiegato 450 persone in Italia”, con esperti inviati anche “a supporto del Ministero dell’Interno e delle prefetture”. A luglio, poi, sono stati stanziati ulteriori 14 milioni di euro per un nuovo progetto finalizzato a migliorare le condizioni di accoglienza. “Dal 2015 - ricorda la Commissione - l’Italia sta beneficiando di 1,96 miliardi di euro di aiuti Ue”. Nei mesi scorsi la presidente Ursula von der Leyen si è spesa in prima persona per arrivare alla firma del memorandum d’intesa con la Tunisia voluto dalla premier Giorgia Meloni. I risultati ancora non si vedono, ma le polemiche per la scarsa attenzione al tema dei diritti umani continuano, soprattutto nei Paesi Bassi, visto il ruolo centrale giocato dal premier Mark Rutte. L’accordo è stato aspramente criticato anche dall’ex commissario Frans Timmermans, che due giorni fa ha lasciato Bruxelles per candidarsi alla guida del governo dell’Aia. Corridoi per i migranti contro la propaganda di Daniele Garrone Il Domani, 25 agosto 2023 La lettera del pastore valdese e presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Il notevole aumento degli sbarchi riaccende i toni del confronto pubblico sul tema delle migrazioni. Di questo, tra gli altri temi, si discute anche al Sinodo valdese in corso in questi giorni a Torre Pellice (Torino). I poli estremi del confronto pubblico, in Italia, sembrano essere il respingimento “muscolare” quanto impotente e la riduzione delle possibilità di integrazione, da una parte, e quello dell’accoglienza, dall’altro, animato più da wishful thinking che sorretto da soluzioni calcestruzzo. Intanto i sopravvissuti alla traversata del Mediterraneo vengono dislocati, con sempre più difficoltà. Su questo sfondo si collocano i corridoi umanitari che la Federazione delle chiese evangeliche in Italia, la Tavola valdese, la Comunità di Sant’Egidio e altri portano avanti dal 2016: accessi sicuri e legali per persone fragili. Sono oltre seimila. A partire da questa esperienza, alcune considerazioni, emerse nella discussione dedicata a questo tema durante il Sinodo - la massima assise decisionale - della Chiesa valdese - Unione delle chiese metodiste e valdesi. I corridoi non sono l’unica reazione ai movimenti migratori causa da guerre, persecuzioni, fama. Non possono essere il lato buono di una politica migratoria che esternalizza il respingimento, anche verso regimi. Pensiamo sia una delle risposte ragionevoli che anche gli Stati dovrebbero adottare, non all’emergenza di turno ma a un fenomeno epocale. La qualità delle politiche - La qualità delle politiche con cui l’Italia e l’Europa reagiscono alle migrazioni chiama in causa anche la qualità di quelle democrazie costituzionali basate sulla tutela dei diritti umani a cui il nostro continente è approdato avendo alle spalle tragedie simili a quelle che oggi costringono gli uomini donne alla fuga, che partono perché non hanno altra prospettiva se non soccombere. Anche l’Europa è stata insanguinata da guerre, anche “di religione”, dall’intolleranza e da dittature, anche l’Europa ha avuto milioni di migranti in cerca di un futuro migliore. Quello delle politiche migratorie è uno dei fronti in cui si gioca la nostra anima. Non sudditi ma cittadini - Intanto quest’anno sono arrivati in 100.000. “Illegali”, “clandestini”, ricevuti alla marginalità. Ritengo che questo non sia nell’interesse della nazione. Per assecondare determinati umori e amplificarli nella propaganda, si tollerano o si creano sacche di marginalità. Si invece potrebbe proporre una strategia win win attraverso l’integrazione. Apprendimento della lingua, formazione professionale. Mentre nel Paese posti di lavoro rimangono scoperti perché nessuno vi vuole accedere. Ma si dice “gli immigrati ci tolgono il lavoro”. La nazione non ha bisogno di sudditi ma di nuovi cittadini. Ci sono parole perentorie che non mi piacciono. “Non dovevano partire”, a fronte del naufragio di Cutro. Se dicessimo invece: “Non devono dover partire”. Quelli che partono sui barchini non sono incoscienti ma disperati che fuggono da guerre, violenze, disastri, fama. Come si fa a non dover partire da situazioni come quelle di Siria, Afghanistan, Iran, Africa sub-sahariana? Ecco una domanda per le politiche migratorie. Di solito, quando si dice “aiutiamoli a casa loro”, l’accento cade su “a casa loro”, magari con un punto esclamativo. Intanto, che se ne stiano a casa loro. Se per caso sono arrivati fin qui, mandiamoceli noi, a casa loro! Se anche qui ci chiediamo che cosa si deve fare per aiutare veramente chi non ha scelte se non soccombere o partire. Con quale politica estera, con quale visione della cooperazione internazionale. Per cominciare a rispondere a queste domande, bisognerebbe che la politica fosse qualcosa di più che propaganda.