Carcere, più telefonate contro i suicidi. Perché servono (e perché non bastano) di Fulvio Fulvi Avvenire, 24 agosto 2023 Il ministro della Giustizia Nordio promette due colloqui in più al mese (sei in totale). Le associazioni sono preoccupate: “Serve un cambiamento vero”. Don Riboldi: “Ma almeno si allevia la solitudine”. Alleviare la sofferenza di chi vive dietro le sbarre e limitare il numero dei suicidi con due telefonate in più al mese. Venti minuti di conversazione che si aggiungono ai quaranta già consentiti. È una modifica del regolamento penitenziario appena accennata ma già finita nel vortice delle polemiche con gli addetti ai lavori che si dividono nel giudizio sulla reale efficacia del provvedimento la cui entrata in vigore dovrebbe essere deliberata a breve dal Consiglio dei ministri. “Sono scintille preziose nel ravvedimento di chi sta espiando la pena, soprattutto in un momento delicato per le ragioni che conosciamo” aveva spiegato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio la vigilia di Ferragosto, dopo la visita al cercare delle Vallette di Torino a seguito della morte di due detenute, una, giovanissima, che si è impiccata alle grate della cella, l’altra, mamma di due bambini, che si è lasciata morire di fame e di sete per disperazione. Due telefonate in più al mese, dunque, da quattro a sei, è la proposta del Guardasigilli condivisa con il nuovo capo del Dap, Giovanni Russo. Ma tre associazioni impegnate nell’assistenza e nel sostegno ai reclusi, “Ristretti Orizzonti”, “Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia” e “Associazione Sbarre di Zucchero” (nata un anno fa a Verona in seguito al suicidio in cella di una giovane detenuta, Donatela Hodo) in una lettera indirizzata allo stesso Nordio, al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e a Papa Francesco bocciano la proposta ritenendola “inconsistente”. “Abbiamo tirato un sospiro di sollievo a leggere che il ministro Nordio si era reso conto dell’importanza di dare una svolta a tutta la negatività che sta travolgendo le carceri puntando proprio in particolare sull’aumento delle telefonate - scrivono le associazioni - ma cosa cambierebbe con due miserabili telefonate in più al mese di dieci minuti l’una in quelle vite di solitudine, isolamento e lontananza dalle loro famiglie?”. Di parere diverso è don David Maria Riboldi, cappellano della Casa circondariale di Busto Arsizio, in provincia di Varese, che proprio sulla possibilità di allargare i contatti dei carcerati con i familiari mettendo a disposizione di ognuno un cellulare, aveva fatto una battaglia nell’agosto dell’anno scorso, insieme con Rita Bernardini di “Nessuno tocchi Caino” e altri, inviando anche un video-appello all’allora ministro della Giustizia, Marta Cartabia: “Una telefonata può salvare una vita” era il motto della campagna. “Sono contento - dice don Riboldi - perché almeno così si attenua la solitudine dei reclusi, il 30% dei quali è straniero, e si allontana la possibilità di farsi del male, al primo impatto sembra una buona risposta. Così si rafforzano, o si ricuciono, i legami familiari, pensiamo a chi ha tre, quattro figli: come fa con quattro chiamate al mese a seguirli tutti? Non solo - aggiunge il sacerdote - in questo modo il detenuto si può sentire addosso la responsabilità di essere genitore e marito: è un’opportunità per rimettersi in gioco quando si uscirà dal carcere”. Ma la questione è alquanto complessa. “Attenzione a non fare dei passi indietro - precisa il cappellano - perché in alcuni penitenziari, grazie alla sensibilità dei direttori, di telefonate se ne fanno di più: a Busto Arsizio, per esempio, sono 12 al mese e a Bollate, carcere modello, addirittura una al giorno”. E la questione sicurezza? “Non siamo più negli anni 90 quando da una telefonata in carcere partivano gli ordini dei boss - spiega don David - su 57mila detenuti quanti Matteo Messina Denaro ci sono? Gli atti criminosi passano invece dai cellulari che entrano clandestinamente, ma se c’è il “telefono ufficiale” e chi lo usa sa di essere controllato, è un vantaggio anche per chi deve sorvegliare”. “Qui si fa del male anche ai familiari, che non hanno nessuna responsabilità, anzi hanno bisogno di essere incoraggiati e aiutati - sostengono invece le tre associazioni a proposito delle due chiamate in più al mese -. E ricordiamoci che ci sono Paesi in cui le famiglie indigenti vengono sostenute dalle istituzioni. In Italia, le persone detenute si pagano le telefonate. Qualcuno non venga a dirci che non si possono creare differenze tra chi può pagarne di più e chi non può, si tratta piuttosto di aiutare e sostenere chi non ha possibilità, tanto più che se queste persone avessero come prescrive la legge un lavoro, questo problema non esisterebbe”. I firmatari della lettera ricordano poi il principio costituzionale secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E per questo chiedono al ministro “un gesto di cambiamento vero” perché “i nostri governanti sembrano ignorare che la pena detentiva consiste nella privazione della libertà e non in altre “torture” che possono spingere anche al suicidio, come la mortificazione degli affetti”. “Favorire i rapporti coi parenti, con telefonate è comunque un passo da fare - sostiene Daniela De Robert, componente del Collegio dell’Autorità Garante dei diritti delle persone private della libertà personale - e non va dimenticato che durante l’emergenza Covid le telefonate quotidiane hanno tranquillizzato detenuti e famiglie: non è facile per i parenti andare a trovare i loro cari dietro le sbarre, perché spesso vivono lontano se non all’estero”. E la riforma del sistema? “Va fatta ma i tempi sono lunghi, mentre intervenire sulle misure amministrative è più veloce, come abbiamo verificato nella commissione Ruotolo sull’innovazione del sistema penitenziario, con direttive trasformate in circolari - dice De Robert - l’importante è non togliere, non sottrarre, e una video chiamata (che adesso è sostitutiva di un colloquio, ndr), magari con whatsapp o Skype alleggerisce senz’altro le tensioni e fa bene a tutti: ha un grande significato per un detenuto, vedere in faccia moglie, figli, genitori. E costa meno di una trasferta”. Ma, anche su questo fronte, don Riboldi è già “operativo”. “Con i contributi che riesco ad ottenere - spiega - pago ogni anno come cappellano circa 4.500 euro per le ricariche telefoniche dei detenuti che me lo chiedono e per l’acquisto dei doccia-schiuma che l’amministrazione penitenziaria non può pagare”. Due telefonate in più al mese, una beffa alla dignità dei detenuti di Nicola Boscoletto ilsussidiario.net, 24 agosto 2023 Anche “Giotto” aderisce alla lettera appello indirizzata al Papa e a Mattarella da tre associazioni per chiedere più attenzione ai detenuti e al loro diritto all’affettività. Le carceri italiane, un piccolo Mediterraneo dimenticato, sono state ridotte a un grande ammasso di rifiuti umani indifferenziati. Dividiamo con cura, a tratti maniacale, la carta e il cartone dalla plastica e dal vetro, il secco dall’umido, le ramaglie e i residui degli sfalci dei giardini, tutto questo per cercare di recuperare il massimo dai rifiuti, rigenerarli per riutilizzarli e abbattere il più possibile l’inquinamento, i costi economici, sociali ed ambientali. E l’uomo? Domenica 20 agosto tre realtà che operano nelle carceri italiane si sono fatte promotrici di una lettera-appello a tutta la nostra società, al ministro della Giustizia ma in particolare a Papa Francesco e al presidente Mattarella. Come Cooperativa sociale Giotto, che da trentatré anni opera nel mondo delle carceri, non abbiamo esitato ad aderire. Mi è venuto alla mente un’altra lettera-appello che avevamo sostenuto e promosso nel 2005 a firma di dieci detenuti della Casa di reclusione di Padova. Allora era rivolta a Papa Benedetto XVI e a Carlo Azeglio Ciampi. Sono passati 18 anni, sono cambiati due presidenti della Repubblica e un Papa, ma niente di nuovo sotto il sole. Mi viene poi alla mente una bellissima conversazione che don Bosco nel 1854 ebbe con l’allora ministro della Giustizia Urbano Rattazzi. Nel 1854 i problemi erano gli stessi di oggi. Il problema della recidiva, i costi elevati che nelle strutture pubbliche superavano di ben tre volte quelli delle strutture che applicavano il “metodo don Bosco” o di tutta quella miriade di santi e beati sociali che la Torino dell’Ottocento e dei primi del Novecento donò al mondo intero: san Domenico Savio, san Giuseppe Cafasso, san Giuseppe Cottolengo, i santi Giulia e Carlo marchesi di Barolo, san Leonardo Murialdo, beato Pier Giorgio Frassati. Il ministro Rattazzi, dopo aver ascoltato e visto i frutti dell’opera di don Bosco nei confronti delle persone carcerate, pur capendo che sostenere il metodo educativo di don Bosco lo rendeva impopolare (non paga quasi mai politicamente fare bene il bene) cerca in tutti i modi di aiutare queste realtà sociali, uniche in grado di dare una risposta vera, dignitosa e civile. Non a caso il ministro per le persone che gli interessano e a cui vuole bene cerca una soluzione “alternativa” al carcere tout court. Sembra che 169 anni siano passati invano, che non solo non ci abbiano insegnato niente ma che addirittura ci stiano sempre di più imbarbarendo. Chissà che cosa direbbero oggi personaggi come Dostoevskij, Voltaire, Beccaria, Mandela; andate a vedere che cosa dicevano allora delle carceri e della società. Il tempo che passa sembra renderci sempre più in-civili. Tutto direbbe chiaramente verso dove occorrerebbe andare, quali soluzioni prendere. Ci vengono in aiuto anche la scienza, la statistica e l’economia a spiegarci che l’approccio che la politica italiana, ma siamo nel mondo in buona compagnia, ci sta portando negli ultimi trent’anni verso disastri sociali ed economici. Andate a vedere la situazione delle carceri nel mondo, che cosa la repressione, la punizione fino alla pena di morte hanno generato. Ma allora, se è tutto così chiaro e conveniente per la nostra società civile, perché dopo 169 anni non si riesce a fare bene del bene? La politica questo dovrebbe fare, perseguire il vero bene dei suoi cittadini a costo di risultare impopolare. Mi fermo perché quando le cose sono semplici e chiare non servono tante parole, servono persone umanamente e professionalmente di grande spessore, che equivale a dire semplici di cuore, “disinteressate”. Servono persone che sappiano veramente amare, veramente accogliere, veramente ascoltare, veramente guardare e veramente chiedere. Concludo con una frase di don Bosco che abbiamo scritto in una parete del carcere di Padova: “Se questi ragazzi avessero trovato qualche amico che si fosse preso amorevolmente cura di loro, non sarebbero finiti in questi luoghi”. Al presidente Mattarella chiedo di non tirarsi indietro, di non fare troppi calcoli, perché l’articolo 27 della Costituzione è ormai quasi del tutto calpestato. Questo è il momento di metterci la faccia e di non tirarla indietro, come ben ha saputo fare in altre occasioni, ne va della dignità di ciascuno di noi e di tutta la nostra società. Invito tutti i lettori del Sussidiario, tanto come singole persone che come enti pubblici e privati, associazioni e aziende profit e no profit ad aderire a questo appello. La lettera-appello È da anni che noi portiamo avanti la battaglia perché alle persone detenute sia data la possibilità di curare gli affetti e rafforzare le relazioni. Abbiamo tirato un sospiro di sollievo a leggere che il ministro Nordio si era reso conto dell’importanza di dare una svolta a tutta la negatività che sta travolgendo le carceri puntando proprio in particolare sull’aumento delle telefonate. Ma poi siamo ripiombati nella dura realtà di proposte inconsistenti, perché crediamo che tutti quelli che come noi entrano tutti i giorni in carcere tale reputino la proposta di aumentare da quattro a sei le telefonate mensili. Ma cosa cambierebbe con due miserabili telefonate in più al mese di 10 minuti l’una in quelle vite di solitudine isolamento lontananza dalle famiglie? Da quando è scoppiato il Covid abbiamo continuato a dire che quelle telefonate in più (concesse dopo le rivolte con cadenza quotidiana o quasi) che avevano salvato il sistema dal disastro, non potevano più essere tolte, anzi andavano potenziate. E invece è successo quello che non doveva succedere: fermata l’epidemia si è deciso di fermare anche molte delle telefonate in più, salvo in quelle carceri dove la forza del volontariato e del Terzo settore, delle persone detenute e dei loro familiari ha trovato una risposta saggia delle direzioni e il buon uso delle loro prerogative per mantenere le telefonate. Sappiamo benissimo che sarebbe importante la modifica della legge, però sappiamo anche che molto si può fare già da ora, e soprattutto che non bisogna mollare la presa, tanto più in un periodo in cui in carcere si manifesta sempre più alto il disagio con suicidi e atti di autolesionismo, uniti alla desertificazione delle estati negli istituti di pena. A chi risponde che “hanno sbagliato e devono pagare” non si ricorda mai abbastanza che secondo la nostra Costituzione le pene devono tendere alla rieducazione e non si rieduca rispondendo al male con altrettanto male. I nostri governanti sembrano ignorare che la pena detentiva consiste nella privazione della libertà e non in altre “torture” che possono spingere anche al suicidio, come la mortificazione degli affetti. Perché qui si fa del male anche ai familiari, che non hanno nessuna responsabilità, anzi hanno bisogno di essere incoraggiati e aiutati. E ricordiamoci che ci sono paesi in cui le famiglie indigenti vengono sostenute dalle istituzioni. Le telefonate le persone detenute in Italia se le pagano: qualcuno non venga a dirci che non si possono creare differenze tra chi può pagarne di più e chi non può, si tratta piuttosto di aiutare e sostenere chi non ha possibilità, tanto più che se queste persone avessero come prescrive la legge un lavoro, questo problema non esisterebbe. Sono anni che Ristretti Orizzonti e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia portano avanti importanti battaglie in particolare sul tema degli affetti (che significa anche colloqui, colloqui intimi, massimo ampliamento dei colloqui con terze persone…). In quest’ultimo anno si è aggiunta poi l’Associazione Sbarre di zucchero, nata in seguito al suicidio di una giovane donna detenuta, Donatela Xodo, una realtà che ha portato in queste battaglie passione, intelligenza e capacità di comunicazione. Insieme chiediamo al Ministro della Giustizia un gesto di cambiamento vero. Chiediamo di sostenere questa nostra richiesta al presidente Mattarella e a Papa Francesco. Sottoscrivono: Ristretti Orizzonti, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Associazione Sbarre di Zucchero, Coop Giotto Padova, Camera penale Padova, Commissione Carcere Attilio Favaro, Ludovica Tassi, Lucio Di Giannantonio, Franca Marcolin (Associazione OCV Padova) Associazione Granello di Senape Venezia, Adolfo Ceretti, Rossella Favero, AltraCittà Padova, Volontari Biblioteche Carcere Padova (AltraCittà e Granello di Senape) Cooperativa AltraCittà Padova, Marco Boato. L’estate in carcere: tasso di affollamento al 112,6%, poche attività e pochi strumenti contro il caldo redattoresociale.it, 24 agosto 2023 La fotografia scattata dall’osservatorio di Antigone. Cresce l’età media delle persone detenute. Al 30 giugno stava scontando un residuo di pena inferiore all’anno il 17,9% delle persone detenute con condanna definitiva, addirittura il 24,3% delle persone straniere, mentre quelli in carcere con un residuo pena inferiore ai tre anni erano addirittura il 51,2% dei definitivi. A Ravenna e Caltanissetta proteste per l’emergenza caldo del mese di luglio. “A fine luglio di quest’anno le persone detenute nelle nostre carceri erano 57.749, 6.464 in più della capienza regolamentare, che era di 51.285 posti. Le donne erano 2.510, il 4,3% dei presenti, e gli stranieri 18.044, il 31,2%. Continua dunque la crescita della popolazione detenuta, che a fine luglio del 2022 era di 54.979 persone”. I dati sono dell’associazione Antigone, che nei giorni scorsi ha scattato la solita, interessante fotografia del carcere. Afferma Antigone: “Le presenze sono dunque aumentate in un anno di 2.770 unità, un incremento del 5%. Una tendenza alla crescita che riguarda i detenuti italiani in misura leggermente maggiore rispetto agli stranieri, essendo i primi aumentati del 5,2%, e soprattutto le donne più che gli uomini, essendo il loro numero cresciuto dell’8,8%”. Sovraffollamento. Tutto questo fa sì che il tasso di affollamento ufficiale sia del 112,6%, mentre era del 108% un anno fa. “Peraltro, come è noto, questo tasso di affollamento deriva da un conteggio in cui vengono inclusi anche posti detentivi in effetti non disponibili, a causa di interventi di manutenzione più o meno brevi - continua Antigone -. L’esempio più eclatante è forse quello di Arezzo, in cui gran parte dell’istituto è chiuso da almeno 15 anni, ma i cui posti detentivi da allora vengono sempre inclusi nella capienza regolamentare del nostro sistema penitenziario. Secondo l’ultimo conteggio da noi fatto aggregando i dati pubblicati dal ministero della Giustizia sulle schede trasparenza di ciascun istituto, a maggio 2023 i posti non disponibili erano 3.646. Il nostro tasso di affollamento reale dunque viaggia più realisticamente intorno al 121%, e sono circa 10.000 le persone detenute in più rispetto alla capienza regolamentare”. Se il dato medio nazionale dell’affollamento ufficiale è del 112,6%, si tratta però appunto di un dato medio. Ci sono regioni che registrano valori medi molto più alti, come la Puglia (144,2%), la Lombardia (135,9%) ed il Veneto (129,0%). E valori ancora più alti si registrano in singoli istituti, come a Brescia “Canton Mombello” (181,1%), Como (178,3%), Varese (177,4%) o Foggia (177,2%). Età delle persone detenute. Al 30 giugno 2023, i giovani adulti detenuti, gli under 25, erano 3.274, e rappresentavano il 5,7% del totale dei presenti, percentuale che sale al 9,3% se si considerano solo i detenuti stranieri. Le persone detenute con 60 anni o più erano invece 5.834, il 10,1% del totale dei presenti (ma solo il 2,7% delle persone detenute straniere). Al 30 giugno 2022 questa percentuale era del 9,8%, 10 anni fa, a giugno del 2013, era del 5,4%, quasi la metà di oggi. “L’età media della popolazione detenuta sta rapidamente crescendo, con le complicazioni di salute che questo comporta. Soprattutto nei mesi più caldi”, precisa Antigone. Pena residua. Sempre al 30 giugno stava scontando un residuo di pena inferiore all’anno il 17,9% delle persone detenute con una condanna definitiva, addirittura il 24,3% delle persone straniere, mentre quelli in carcere con un residuo pena inferiore ai tre anni erano un esorbitante 51,2% dei definitivi, ben 21.753 persone. “Se si favorisse l’accesso anche di solo una parte di costoro alle misure di comunità il sovraffollamento probabilmente sparirebbe - sottolinea Antigone -. Ma soprattutto sparirebbe se il carcere riuscisse a mettere in campo strategie di reinserimento sociale efficaci. Al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti nelle carceri italiane, il 62% in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18% c’era già stato addirittura 5 o più volte. La recidiva del carcere è dunque altissima e misure efficaci per prevenirla, e favorire percorsi efficaci di reinserimento sociale, avrebbero sul sovraffollamento un impatto enorme”. Sempre al 30 giugno, erano 1.861 gli ergastolani, il 4,4% dei definitivi e il 3,2% dei presenti. Il personale. Ma sovraffollamento non vuol dire solo carenza di spazi, significa anche che ogni risorsa del carcere, risorse che raramente sono abbondanti, va “divisa” per un numero crescente di detenuti. A partire dal personale. “Nelle 38 visite fatte da Antigone nel primo semestre del 2022, abbiamo registrato una presenza media di 1,7 persone detenute per ogni agente di polizia penitenziaria. Nelle 42 visite fatte dall’inizio del 2023 ad oggi, questo valore è salito ad 1,8, ovviamente a causa della crescita delle presenze - si precisa -. Di segno opposto la variazione nel numero degli educatori, grazie alle immissioni degli ultimi anni, lungamente attese. Erano in media 88,6 persone detenute per ciascun educatore negli istituti da noi visitati nel primo semestre del 2022, sono in media 70,8 in quelli visitati quest’anno. Si attende con ansia l’immissione in servizio dei nuovi direttori, dato che solo il 50% degli istituti da noi visitati quest’anno aveva un direttore tutto proprio. In tutti gli altri casi il direttore era impegnato in più di un istituto, non potendo dunque garantire la presenza costante di cui una comunità complessa e delicata come un carcere ha bisogno. E come si può immaginare - continua Antigone - d’estate tutte queste criticità si aggravano. A causa delle ferie negli istituti c’è meno personale e rispondere ai bisogni delle persone detenute si fa più difficile e tutto rallenta”. Le attività. Resta non sempre adeguata l’offerta di attività che possano riempire di senso le giornate in carcere e preparare al momento del fine pena. Afferma Antigone: “In media le persone che lavorano per il carcere stesso sono il 33,5% dei presenti, con valori però molto diseguali, dal 94% di Isili o il 75% di Orvieto, al 14% di Altamura e addirittura il 4% di Paola. Ancora più scoraggiante il dato delle persone che lavorano per datori di lavoro esterni. Sono in media il 2,7% dei presenti, e anche qui con grandi differenze. Ad Altamura il 20% dei presenti lavora per datori esterni (imprese edili, di attività di ristorazione, di tabaccheria e di una azienda municipalizzata di raccolta rifiuti), a Pistoia questa percentuale è del 13,8%, ma in molti istituti la percentuale è decisamente più bassa e nel 40% delle carceri da noi visitate quest’anno di datori di lavoro esterni non ce ne sono affatto. In media poi le persone che partecipano a percorsi di formazione professionale sono il 5,4% dei presenti, il dato forse più scoraggiante in assoluto se si pensa all’importanza del lavoro per un percorso di reinserimento sociale”. “Non mancano eccezioni virtuose, come il carcere di Reggio Calabria Arghillà, dove questa percentuale è quasi del 40%, o Isernia (33%) ma la media precipita perché in tantissimi istituti, almeno il 40% di quelli da noi visitati quest’anno, non ci sono corsi di formazione professionale. Partecipa ai corsi scolastici in media il 27% dei presenti, anche qui con le solite variazioni tra un istituto e l’altro, dall’68% di Pozzuoli al 4% di Brindisi, ma chiaramente questo accade solo durante l’anno scolastico. Se in generale infatti le attività in carcere sono poche, in estate sono ancora meno. La scuola e i corsi di formazione si interrompono, per riprendere solitamente non prima di ottobre. Con essi terminano anche la maggior parte delle attività ricreative e sportive, lasciando gli istituti fermi per tutta la lunga pausa estiva”. Suicidi e atti di autolesionismo. Ricorda Antigone: “Come molti sanno, lo scorso anno si è registrato il record di suicidi in carcere da quando questo dato viene registrato: nel 2022 si sono tolte la vita in carcere ben 85 persone. Nel corso delle nostre visite di quest’anno non è apparsa evidente l’adozione di contromisure adeguate alla gravità di questa emergenza, e ad oggi i suicidi in carcere ci risultano essere 42 (dato al 10 agosto scorso, ndr), un numero molto vicino a quello che si registrava l’anno scorso a questa data (50), anche se bisogna prendere atto di un leggero calo. Ed un leggero calo si riscontra anche nel numero degli autolesionismi da noi registrati durante le visite. Erano in media 18 ogni 100 persone detenute nel primo semestre del 2022, mentre nelle visite fatte fino ad oggi nel 2023 risultano essere in media 15,2”. In generale, per Antigone, “l’estate si conferma una stagione negativa per il numero dei suicidi. Lo scorso anno, da questo punto di vista, fu drammatico: nei mesi di giugno, luglio e agosto del 2022, 31 persone si sono tolte la vita in carcere (16 solo ad agosto) sugli 85 contati a fine anno. E se nel 2021 i casi nei tre mesi estivi erano stati ‘solo’ 9 sui 58 registrati a fine anno, nel 2020 si erano tolte la vita 19 persone delle 61 conteggiate al 31 dicembre. Nel 2019 i suicidi estivi erano stati, invece, 16 sui 53 totali. Quest’anno, a giugno, luglio e i primi giorni di agosto si contano già 15 suicidi”. Il caldo. Non sono solo le temperature sempre più alte a causare problemi, ma anche lo stato delle strutture penitenziarie. “Ad esempio l’aria che filtra dalle finestre è poca per via delle schermature che, dalle rilevazioni dell’osservatorio di Antigone del, sono presenti nel 50 per cento dei casi - si afferma -. A questo si può aggiungere che, durante la notte, in diversi istituti viene chiuso anche il blindo, una pesante porta di ferro all’ingresso della cella, che di fatto costituisce un muro per l’aria. Negli istituti visitati dall’osservatorio di Antigone quest’anno, nel 50% dei casi c’erano celle senza doccia, nonostante il regolamento penitenziario del 2000 preveda la loro presenza obbligatoria a partire dal 2005. Questo significa non poter cercare refrigerio in questo modo. I frigoriferi nelle celle sono presenti solo in pochissimi casi, molti istituti non hanno nemmeno il frigorifero di sezione, quindi anche l’acqua fresca non è sempre a disposizione. Alcuni istituti hanno poi problemi di approvvigionamento di acqua”. Ogni anno Antigone riceve segnalazioni di carceri dove i detenuti per lavarsi utilizzano l’acqua confezionata. “In questi giorni di caldo torrido ci sono state proteste nel carcere di Ravenna e in quello di San Cataldo (Caltanissetta), mentre il carcere di Avellino è rimasto senz’acqua per diversi giorni e, a farne le spese, non sono stati solo i detenuti, ma anche agenti penitenziari e operatori che lavorano nella struttura. Di seguito viene riportata la situazione di alcuni istituti in cui gli osservatori di Antigone si sono recati nei giorni scorsi”. A Ravenna e Caltanissetta proteste per l’emergenza caldo del mese di luglio. Il 15 luglio nel carcere di Ravenna un gruppo di persone detenute ha protestato per l’eccessivo caldo. Qualche giorno prima il garante regionale aveva chiesto all’amministrazione penitenziaria l’adozione di una serie di misure per migliorare la situazione, tra le quali l’apertura del blindo delle celle durante l’orario notturno per far circolare l’aria. Dieci giorni più tardi, nella Casa di Reclusione di San Cataldo a Caltanissetta, un’altra protesta è scaturita per motivi analoghi. Alla base della rimostranza l’eccessivo caldo di quei giorni, aggravato dal surriscaldamento delle lamiere saldate sulle grate delle finestre di ogni stanza detentiva. In alcuni istituti manca addirittura l’acqua. “È ad esempio il caso di Aversa dove non è previsto l’allaccio alla rete idrica comunale ed è quindi servito da cisterne. Specie nel periodo estivo, si verifica una carenza di acqua corrente, con tutte le difficoltà connesse, anche a trovare refrigerio dal gran caldo. Stesso problema ad Augusta, dove sono presenti cisterne esterne che non garantiscono acqua calda e acqua corrente tutto l’anno e in qualsiasi momento del giorno. I ventilatori sono presenti solo in alcuni istituti. A Vercelli è stata presentata una petizione. L’istituto di Vercelli è situato in una zona pianeggiante per lo più coltivata a risaia; il caldo nella stagione estiva è opprimente. Non vi sono ventilatori e le persone detenute hanno presentato una petizione per poter acquistare con i propri mezzi dei ventilatori funzionanti con l’energia elettrica”. Allo stato attuale possono acquistare solo ventilatori portatili di grandezza irrisoria, da tenere in mano, per il costo di €5.89, oltre all’acquisto delle pile (3 euro). I ventilatori in cella si trovano di rado, spesso, come ad esempio a Regina Coeli a Roma o a Pesaro, anche per l’inadeguatezza della rete elettrica. Dove i ventilatori sono presenti, spesso i modelli non sono adeguati e il costo è a carico delle persone detenute. Fondo per le vittime dei reati con i soldi dei detenuti? “No, ci si impegni piuttosto ad aumentare il lavoro” redattoresociale.it, 24 agosto 2023 Fa discutere la proposta del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari. Gonnella (Antigone): “Il lavoro è dignità, emancipazione sociale. Il lavoro deve essere reddito altrimenti si torna ai lavori forzati. I prelievi forzosi dagli stipendi dei detenuti che lavorano per darli alle vittime hanno già subito la censura della Corte Costituzionale. Non si vede perché far gravare l’onere della restituzione alle vittime sui detenuti”. “Il lavoro in carcere è uno degli strumenti principali di reintegrazione sociale. Lavorare, guadagnare, imparare una professione, può essere l’elemento che consente alle persone detenute di rompere con il proprio passato criminale, portando così ad un abbattimento della recidiva. Tuttavia il lavoro in carcere è poco”. Così Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, che aggiunge: “Le nostre rilevazioni ci dicono che, nel 2023, solo il 33% delle persone detenute ha un impiego, fra l’altro non particolarmente qualificato. La maggior parte di loro lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e per poche ore al giorno o per periodi brevi, così da distribuire le opportunità lavorative - e di guadagno - tra più persone possibili. Solo il 2,5% lavorano poi alle dipendenze di un datore di lavoro esterno, con professioni che possono accompagnarli anche a fine pena”. La presa di posizione di Antigone arriva poco dopo la proposta di creare un fondo per le vittime dei reati, da alimentare con una parte degli stipendi dei detenuti nelle carceri italiane. Ed è la proposta avanzata dal sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, che ha trovato supporto anche dal sindacato autonomo della Polizia Penitenziaria (Sappe). Per il presidente di Antigone, “il lavoro è dignità, emancipazione sociale. Il lavoro deve essere reddito altrimenti si torna ai lavori forzati. I prelievi forzosi dagli stipendi dei detenuti che lavorano per darli alle vittime hanno già subito nel 1992 la censura della Corte Costituzionale. Non si vede perché far gravare l’onere generico della restituzione alle vittime sui detenuti che lavorano. Viene violato il principio di uguaglianza oltre che l’articolo 36 della nostra Costituzione in materia di dignità del lavoro. I risarcimenti alle vittime sono già decisi nei procedimenti penali e civili. Lavorare e guadagnare per un detenuto significa, soprattutto per chi proviene da contesti di marginalità e povertà, poter avere qualche soldo per acquistare beni al sopravvitto (ad esempio i ventilatori per combattere il grande caldo che in carcere si vive), per far fronte alle spese di mantenimento che ogni detenuto deve all’amministrazione penitenziaria a fine pena e per aiutare i familiari fuori”. “Per questo - continua - il sottosegretario alla Giustizia Ostellari farebbe bene ad occuparsi di come incentivare l’aumento delle opportunità di lavoro - cosa che lo stesso ministro della Giustizia Nordio ha dichiarato più volte essere una priorità del governo - anziché proporre di togliere soldi ai detenuti lavoranti. Ne guadagnerebbe la sicurezza di tutti”. “Inoltre a proposito delle telefonate - conclude Gonnella -. Pensare a una modifica della norma regolamentare estendendo da 4 a 6 telefonate mensili significa non cambiare le regole già in corso. In moltissimi istituti sono già sei. Coraggio, ci vuole coraggio. Vanno previste telefonate quotidiane per evitare solitudine, depressione, abbandono”. La presidente della Corte costituzionale, Silvana Sciarra: “Scarsissime opportunità per i detenuti” di Paolo Viana Avvenire, 24 agosto 2023 “Il lavoro carcerario è uno strumento di redenzione, non di espiazione della pena”. Il diritto al lavoro è ancora disatteso, soprattutto quello delle categorie più fragili. I diritti costituzionali debbono essere rispettati da tutti i tipi di contratto, anche quando il vincolo di subordinazione è abilmente camuffato. La gig economy è un ritorno al futuro: presenta dei rischi simili a quelli creati dal taylorismo della rivoluzione industriale e oggi come allora bisogna “proporre regole democratiche, garantire libertà ed eguaglianza”. La presidente della Corte Costituzionale, Silvana Sciarra, ha voluto parlare soprattutto ai giovani del Meeting di Rimini, ieri mattina, nella convinzione, neppur troppo dissimulata, che il lavoro è diventato un’emergenza democratica, da cui si potrà uscire utilizzando due timoni - eguaglianza e ragionevolezza - a patto però che “le due mani che li controllano siano condotte da una stessa mente”. I lavoratori fragili - La presidente ha premesso di parlare a titolo personale, ma a Rimini ha messo dei paletti talmente fissi che, anche se non faranno giurisprudenza, sicuramente chiariranno da che parte sta la Consulta su molte questioni calde. Ha iniziato passando in rassegna tutte le zone d’ombra del diritto del lavoro, partendo da quelle che obliterano il diritto al lavoro: “Nel vertice sociale europeo che si è tenuto a Porto nel 2021 - ha ricordato - si è dovuto ammettere che continuano a mancare forme di inclusione sociale per i più fragili, per i disoccupati di lungo periodo, per quanti hanno una bassa qualifica professionale, per chi lavora con contratti non standard. Ancora più drammatica la condizione dei detenuti, cui si offrono scarsissime opportunità formative e lavorative. Del lavoro carcerario la Corte ha detto in una sentenza che è strumento di “redenzione”, non di “espiazione della pena”, ma è un metodo di trattamento. La tutela della dignità è dovuta per chi è privato della libertà”. La persona e l’algoritmo - Neppur sfiorato il tema del salario ed appena accennato quello della contrattazione, il discorso ha investito in pieno la dimensione personale del diritto, particolarmente in un momento in cui il cambiamento del mercato del lavoro mette a dura prova l’applicazione dei principi costituzionali nelle diverse forme di rapporto lavorativo. “Il diritto del lavoro, e con esso l’azione dei soggetti collettivi, si propongono di convertire via via le tutele, orientandole verso mutevoli formule organizzative. In questo processo modulare di nuova sistemazione della disciplina, i lavoratori in quanto persone devono poter accedere ai diritti fondamentali, sia individuali sia collettivi, indipendentemente dal tipo di contratto che stipulano con il datore di lavoro” ha osservato. Il problema non riguarda solo la condizione, sempre più debole, del lavoratore subordinato, ma investe anche la metamorfosi del datore di lavoro, che non è più una controparte personale: quando il “padrone” è una piattaforma informatica e lo smart working sancisce anche un “distanziamento contrattuale”, si possono avere “nuove forme di alienazione, se non di marginalizzazione sociale”. Per Sciarra anche questi lavori devono restare al cuore della democrazia ed infatti, ha ricordato, “una proposta di direttiva interviene sul lavoro tramite piattaforme digitali e suggerisce di spostare sul datore di lavoro l’onere di provare l’inesistenza di un vincolo di subordinazione”. Anche nella gig economy è possibile, ha commentato, attingere alle tecniche di tutela tradizionalmente adottate “per correggere la posizione di debolezza del lavoratore nel contratto di lavoro”. Il precedente dei riders - Su questo fronte si è mossa la Cassazione nel 2020 per tutelare i riders e superare le innovazioni delle piattaforme, che attraverso una nuova dislocazione spaziale creano disparità di trattamenti salariali, se non vere e proprie discriminazioni. “Le reazioni delle corti nazionali, che si stanno orientando verso il riconoscimento della natura subordinata delle prestazioni offerte tramite piattaforme, specialmente con riferimento ai riders, aprono la strada all’intervento della contrattazione collettiva, che comincia a diffondersi anche in queste realtà” sottolinea la presidente. “Tutto questo - ha detto - ci porta a riflettere non solo sulle occasioni di progressiva estensione delle tutele, ma anche sull’opportunità che emerga una nuova normalità della subordinazione digitale, improntata a una flessibilità controllata, corredata di strumenti per l’inclusione e per la formazione professionale continua, ispirata al rispetto dei principi di libertà ed eguaglianza e soprattutto capace di combattere ogni forma di discriminazione, nascosta dietro la solo apparente neutralità degli algoritmi”. Incognita artificiale - La presidente si è soffermata dunque sul ruolo dell’intelligenza artificiale, oggetto di una recente Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio, “che descrive un modello di “innovazione responsabile”, necessariamente restrittivo di alcune libertà - la libertà d’impresa, delle arti e delle scienze, secondo un rigoroso criterio di proporzionalità - per assicurare la protezione dei diritti fondamentali, fra tutti la salute e la sicurezza. Sui fornitori di IA incombe l’obbligo di informare le autorità nazionali competenti in merito a incidenti che tale protezione possono mettere in pericolo. Si tratta dunque di instaurare un capillare sistema di monitoraggio a livello nazionale e a livello europeo, attraverso la creazione da parte della Commissione di una banca dati per sistemi di IA ad alto rischio che presentano implicazioni in relazione ai diritti fondamentali”. Marcella Reni: “Le pene devono tendere alla rieducazione”. Il progetto “Il viaggio del prigioniero” agensir.it, 24 agosto 2023 A colloquio con la presidente di Prison Fellowship Italia, realtà che nasce dall’esperienza statunitense della vasta organizzazione Prison Fellowship International, operante da oltre quarant’anni e attiva in quasi 140 sedi nazionali del mondo. Sovraffollamento, suicidi, caldo asfissiante, estate che non passa mai per chi è chiuso in cella. Di tutto questo parliamo con Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia, realtà che nasce dall’esperienza statunitense della vasta organizzazione Prison Fellowship International, operante da oltre quarant’anni e attiva in quasi 140 sedi nazionali del mondo. La missione di Pfi consiste sostanzialmente nel recupero dei detenuti e nell’evangelizzazione all’interno delle carceri, luogo degli ultimi per eccellenza. Scopo di Pfi è servire Cristo nelle carceri, prestando la propria attività in favore dei detenuti, ex detenuti, delle vittime e delle loro famiglie, oltre che creare percorsi di redenzione umana e spirituale nell’ottica della restituzione, del perdono, della fraternità umana. Pfi Italia ha avuto il suo atto costitutivo ufficiale a Rimini, in occasione della 33ª Conferenza nazionale animatori, quando Reni, allora direttore del Rinnovamento nello Spirito Santo, accolse il presidente mondiale Pfi Ronald W. Nikkel accettando l’incarico alla presidenza della neonata Associazione italiana su richiesta del RnS. Oggi Pfi è attivamente impegnata in progetti innovativi, come “Il viaggio del prigioniero”, per accompagnare chi vive la difficile prova della detenzione in un concreto percorso di riabilitazione umana e spirituale. Quest’estate il tema delle carceri torna alla ribalta per i suicidi di detenute e detenute in Istituti penitenziari, che non può lasciarci indifferenti… I detenuti di tutto il mondo sono tagliati fuori dalla società e abbandonati con i loro sentimenti di solitudine e disperazione. La carenza di personale e le altre criticità strutturali e organizzative, unite alla desertificazione delle estati negli Istituti di pena, rendono la situazione sempre più esplosiva. Troppo spesso il carcere viene dimenticato e in questo periodo dell’anno la situazione diventa ancor più tragica. Come ha avuto modo di ribadire anche il ministro di Giustizia “ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, per la giustizia e mia personale”. I suicidi in carcere si verificano 18 volte in più rispetto al mondo esterno e non possiamo continuare a pensare che il problema siano i detenuti. Il problema è, invece, il sistema carcere. La pena detentiva consiste nella privazione della libertà e non in altre “torture” che possono spingere anche al suicidio, come la mortificazione degli affetti. È vero che chi ha sbagliato deve pagare, ma non smettiamo di ricordare che secondo la nostra Costituzione le pene devono tendere alla rieducazione e non si rieduca rispondendo al male con altrettanto male. Rispondere al sovraffollamento e al disagio psichico è una priorità. Esiste, concretamente, un modo di prevenire o una soluzione definitiva? A seguito della tragedia torinese, in cui due donne, a distanza di poche ore, hanno perso la vita in carcere, il ministro Nordio ha fatto due proposte: da una parte, il recupero di caserme dismesse per i condannati per reati minori, dall’altra, l’aumento delle telefonate settimanali garantite alle persone detenute. Pensiamo al tempo di pandemia: le chiamate concesse durante la fase “calda” del Covid hanno salvato il sistema dal disastro e sarebbe stato saggio non solo non toglierle, ma anzi addirittura potenziarle, infatti, abbiamo appurato che è stata una soluzione che ha funzionato. Invece, terminata l’epidemia si è fermato anche l’accesso a quelle telefonate in più. I detenuti hanno diritto a quattro chiamate al mese di non più di dieci minuti. Non è molto difficile, né c’è da fare molto: occorre semplicemente apportare una modifica al regolamento penitenziario. Più complicata, invece, è la questione delle caserme. Innanzitutto ci sarebbe la difficoltà pratica del trasferimento dei beni dalla Difesa alla Giustizia, poi la necessità di riadattarle, il reperimento del personale: ciò che, tuttavia, crea maggiori perplessità è l’efficacia del provvedimento. Il sovraffollamento penitenziario non è un accidente contingente. Da trent’anni, salvo momenti eccezionali, la popolazione detenuta è sempre e costantemente cresciuta e l’aumento della capacità ricettiva del sistema penitenziario da 36mila a 51mila posti detentivi non ha risolto il problema. Trovare altri posti cambierà la situazione? Il nodo da sciogliere è cosa vogliamo che sia il carcere. Ciò dovrebbe essere una extrema ratio, spesso invece è il ricettacolo degli ultimi. Se continuiamo ad identificare la pena con il carcere, se continuiamo ad inserire nuovi reati e pene più dure, i più poveri dovranno andare in galera. Se il Governo vuole mettere fine al sovraffollamento, dovrebbe avere il coraggio di porre limiti effettivi all’uso del carcere. In carcere un ruolo importante lo gioca il volontariato. Ci può parlare del progetto “Il viaggio del prigioniero”, promosso da Pfi? Quando annunciamo misericordia e perdono, collaboriamo perché altri ritrovino il senso del peccato e la responsabilità personale. Nella misura in cui ci poniamo nell’atteggiamento di offrire misericordia, ci accorgiamo che l’altro si interroga e si apre lo spazio per il riconoscimento della responsabilità personale. Il progetto “Il viaggio del prigioniero” consiste nel presentare Cristo, Figlio di Dio e vero uomo, che ha patito ciò che ogni detenuto patisce: solitudine, sofferenza, angoscia, stigma sociale. E consiste nell’annunciare che in Gesù e attraverso Gesù tutte le sofferenze possono essere riparate e guarite, che non c’è ferita che non possa trovare accoglienza. Il progetto si snoda in un percorso di otto settimane che parte da tre domande fondamentali: chi è? Perché è venuto? E quindi? “Il viaggio del prigioniero” ha dimostrato, nelle Nazioni nelle quali è stato realizzato, di poter realmente trasformare la vita dei detenuti, interiormente ed esteriormente, avvicinandoli al rapporto ristoratore con la persona di Gesù. La stessa realtà di Prison d’intesa con il RnS, con il patrocinio del Ministero di Giustizia, da anni organizza per il Natale l’iniziativa “L’Altra Cucina… per un Pranzo d’Amore”. Quest’anno è attesa la decima edizione. Quale messaggio lascia questo gesto a cui prendono parte chef stellati e volti noti dello spettacolo? In occasione delle festività natalizie, all’interno di alcuni Istituti penitenziari italiani, quest’anno ben 40, da molti anni vengono organizzati pranzi speciali per i detenuti con una peculiarità: ai fornelli, chef stellati e, a servire ai tavoli, cantanti, attori, comici, personaggi e volti noti del mondo dello spettacolo che, durante il pranzo, si esibiscono per rallegrare i commensali. Il nostro sforzo non è soltanto diretto a donare un giorno di festa a chi soffre l’esperienza dolorosa del carcere, ma è volto anche a richiamare l’attenzione di tutti e coinvolgere il maggior numero di persone per far sì che il carcere - come dice Papa Francesco - possa “diventare un luogo di inclusione e di stimolo per tutta la società, perché sia più giusta, più attenta alle persone”. Sul carcere urge un cambiamento effettivo: ad esempio un “credito di cittadinanza” di Leo Beneduci* Il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2023 Le dichiarazioni che affollano emittenti e quotidiani ogni qual volta, soprattutto ad agosto e forse per la concomitante assenza di ulteriori argomenti d’interesse, i tristi eventi penitenziari diventano degni di attenzione mediatica, portano alla mente almeno due domande: “perché sul carcere si affermano da anni, sempre, le stesse cose?” e anche “perché chi parla di carcere più degli altri è assai spesso chi, politici compresi, il carcere lo conosce poco o niente?”. Le risposte, a partire dal fatto che le emergenze penitenziarie non sono prerogativa dell’eccessiva calura estiva ma accadono giorno dopo giorno, mese dopo mese, ogni anno con crescente drammaticità, riguardano la consapevolezza che di carcere, persino negli addetti ai lavori e addirittura in chi è lautamente retribuito per occuparsene, si tratta malvolentieri e, quindi, latitano idee e progetti tali da rendere fattiva l’obbligata permanenza di decine di migliaia di soggetti in spazi angusti e fatiscenti. Eppure la Giustizia, si proclama ed è scritto ovunque, è amministrata in nome del popolo che rispetto al carcere vanta un credito e non un debito (il sistema penitenziario assorbe più di un terzo del bilancio del Ministero della Giustizia) nei confronti di chi ha commesso un crimine in danno della collettività soprattutto nei territori in cui la criminalità è fenomeno endemico. Il Guardasigilli Carlo Nordio, già presidente della commissione per la riforma del codice penale, in luogo di proposte datate e già nel tempo illusorie quanto fallimentari, dovrebbe disporre per la rivalutazione della funzione della pena alleggerendo le spese dei contribuenti che, ad esempio, nella riconversione delle caserme in carceri leggere, sarebbero costretti ad ulteriori aggravi per nulla giustificati dagli improbabili risultati futuri. Urge, quindi, il coraggio di un cambiamento effettivo, laddove i rigurgiti punitivi sono sempre naufragati in un carcere - oggi più di ieri, anche sui social con triste ostentazione, ‘scuola di criminalità’. Le maggiori e irrisolte criticità del sistema penitenziario, oltre al mantenimento in essere di condizioni di vivibilità inaccettabili per l’utenza e per il personale riguardano, infatti, l’impossibilità di realizzare attraverso il carcere la funzione risocializzante della pena (ex art.27 della Costituzione) e la conseguente giustizia riparativa in favore delle vittime del reato e dell’intera società civile che, invece, paga il costante prezzo dell’inefficienza e delle disfunzioni. Rispetto ad una funzione quasi esclusivamente contenitiva (come se i reclusi non dovessero mai accedere alla libertà) e che produce solo sopraffazione e violenze, per i sottovalutati problemi interni della promiscuità-sovraffollamento, della tossicodipendenza e della malattia mentale, oltre che per le interessate ingerenze della criminalità organizzata, occorrono iniziative concrete a partire dall’individuazione di una nuova classe dirigente, estranea alle inefficienti logiche dell’appartenenza agli schieramenti, che sia in grado di confrontarsi con le sfide della modernità e con i problemi dei territori su cui le carceri gravano. Immediate possibilità a cui nessuno guarda si riferiscono ad un più proficuo utilizzo esterno della pena e della Polizia penitenziaria che, benché Forza di Polizia a tutti gli effetti, viene colpevolmente relegata a funzioni meramente custodiali (apertura e chiusura delle celle) e che potrebbe impiegarsi per il controllo dei condannati in attività che ne consentano il riscatto con i cittadini che vantano a causa dei reati un vero e proprio ‘credito di cittadinanza’, per una infinita gamma di interventi: dai servizi di tutela del decoro urbano all’impiego quali netturbini itineranti o manutentori stradali, dall’assistenza ad anziani e inabili alla custodia dei parchi pubblici, oppure volontari in canili e gattili, etc.. In tal modo il passaggio dal carcere alla società libera sarebbe intermediato da un graduale e reale reinserimento a beneficio del debito con la giustizia e del connesso credito della Società civile. *Segretario Sindacato Polizia Penitenziaria La giustizia “fai da te” che interroga la politica di Paolo Pombeni Il Messaggero, 24 agosto 2023 In questa bollente estate in cui il dibattito politico sembra interessarsi più di narrazioni che di problemi, emerge con una qualche evidenza nel Paese una certa voglia di frasi giustizia da sé. Sono, come ha documentato questo giornale, fenomeni non piccoli, ma certo non ancora (per fortuna) di grandi dimensioni. Sono però segnali che non è opportuno trascurare, soprattutto in un contesto in cui crescono le incertezze e gli spaesamenti a livello sociale. Per spiegare come mai ci siano componenti della popolazione che senza attendere il corso della giustizia mirano a colpire per mano propria stupratori, responsabili di morti e gravissimi incidenti sulla strada, delinquenti di vario genere, non occorrono ragionamenti raffinati: tutto si lega alla percezione di uno stato che non è in grado di punire efficacemente i colpevoli. Si dirà: attenzione, fino a sentenza definitiva sono presunti colpevoli. Eppure quello che dovrebbe essere un buon costume in un rigoroso stato di diritto si trasforma in una norma da azzeccagarbugli quando si è di fronte a colpevoli colti sul fatto o nei cui confronti ci siano prove documentali schiaccianti. Chi vede una vita stroncata dal comportamento accertato di un pirata della strada, la violazione della libertà e intimità sessuale di una donna (ma vale anche per un uomo), l’aggressione violenta con o senza motivo di un soggetto per lo più fragile, fatica ad accettare che tutto sarà risolto in un iter giudiziario lungo, a volte lunghissimo e complesso. Intanto la percezione, ma per lo più anche la realtà è che l’autore del reato la sta facendo franca, non paga per la sua condotta inaccettabile. Non si possono chiudere gli occhi di fronte alle cronache che sempre più parlano di autori di questi reati che davanti alle forze dell’ordine e poi alla magistratura minimizzano quanto è accaduto (e fin qui potrebbe anche essere comprensibile dal loro punto di vista), ma soprattutto si vantano di poter chiudere tutto con qualche risarcimento pecuniario, di sapere a priori che anche in caso di condanna godranno di benefici carcerari vari per cui non c’è troppo da preoccuparsi, di essere a conoscenza di come ci si possa poi districare per non pagare pegno nelle tortuose vie del nostro sistema giudiziario. Questo contesto deve preoccupare il governo, ma più in generale tutte le forze politiche, perché un Paese dove si sta perdendo la fiducia nella capacità dello Stato di tenere sotto controllo i fenomeni di infrazione della legge è un Paese che rischia di scivolare in forme più o meno gravi di anarchia. Il conferimento in esclusiva allo Stato dell’esercizio della forza per il mantenimento di una equilibrata convivenza è stato un passaggio essenziale nell’evoluzione dei sistemi giuridici e politici. Ciò però deve essere efficace non solo nello sbocco finale (la repressione dei crimini con le condanne giudiziarie), ma nel messaggio che è in grado di trasmettere quotidianamente: il potere pubblico garantisce con intervento rapido e con la prevenzione l’ordine e la sicurezza dei cittadini. Si deve prendere in mano la crisi che oggi, come sempre avviene nei periodi di cambiamento e di transizione, interessa il sistema delle relazioni sociali. Qui davvero deve vigere il principio della tolleranza zero: le legge deve essere percepita come obbligante a tutti i livelli. La convinzione che con le norme “ci si aggiusta”, che quanto prescrivono non vale per tutti, è particolarmente grave quando sfocia in reati istintivamente ripugnanti per i normali cittadini, ma non cessa di essere foriera di diseducazione anche quando tocca comportamenti che sembrano non colpire direttamente la sfera dei diritti strettamente personali. È giusto pretendere l’immediato intervento punitivo contro stupratori, assassini a vario titolo, ecc., ma si deve accettare che è altrettanto giusto chiederlo contro chi si sottrae alla solidarietà sociale non pagando le tasse, sfruttando il lavoro altrui, violando le normative edilizie e ambientali e via elencando. Senza indulgere a demagogie forcaiole, che come è noto non hanno mai risolto i problemi, il governo e il parlamento devono mettere mano, ciascuno per la sua parte, a tutti gli strumenti con cui si risponde alla richiesta di sicurezza e di repressione dell’illegalità che viene dalla società. Comprendiamo che ci sono anche difficoltà strutturali: per esempio la detenzione immediata in carcere dei colpevoli già individuati con ragionevole certezza risulta complicata in prigioni sovraffollate e con condizioni di vita che rafforzano più le tendenze delinquenziali che la presa di coscienza dei propri errori, ma risolvere il problema con l’applicazione dei domiciliari e dell’obbligo di firma è percepito come una rinunzia a sanzionare in maniera adeguata condotte molto gravi (e se la pena arriva dopo un iter di anni non solo non manda un messaggio dissuasivo per chi indulge a delinquere, ma ferisce la domanda di giustizia delle vittime e della stessa società nel suo complesso). Mano lieve su fuori ruolo e “pagelle” delle toghe: ecco la riforma di Nordio di Giovanni M. Jacobazzi e Valentina Stella Il Dubbio, 24 agosto 2023 Nel testo attuativo sul Csm, cala di poco il tetto dei giudici “dislocati” e si tollerano flop in oltre la metà dei processi. Giorgia Meloni non ha dubbi: considera l’intervento sulla giustizia, al pari di quello costituzionale sul premierato, la riforma prioritaria. Lo dice nell’intervista al magazine “Chi”. Il punto è capire però quali contenuti avrà questa riforma della giustizia. A parte il ddl penale, il primo di una serie, presentato da Carlo Nordio a luglio, qualche indizio arriva dalla bozza del decreto attuativo messa a punto dalla commissione nominata dal guardasigilli per dare attuazione alla riforma dell’Ordinamento giudiziario e del Csm. Approvata lo scorso anno, quando a via Arenula era ancora in carica Marta Cartabia, la riforma ordinamentale aveva previsto che il governo emanasse i decreti attuativi entro il 21 giugno, scadenza che è stata successivamente spostata a fine anno con un emendamento al decreto Pnrr. “Ho letto i lavori della commissione e mi pare evidente che si sia voluto neutralizzare gli effetti della riforma”, è il laconico commento del deputato Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, “ma non poteva essere altrimenti, in quanto 18 componenti della Commissione su 26 erano magistrati”, prosegue Costa, augurandosi che Nordio “non abbia ancora letto bene il testo”. Una bozza che dovrà essere presentata in Consiglio dei ministri per la prima approvazione. Fra i punti più attesi vi era certamente il “fascicolo del magistrato” - introdotto proprio grazie all’iniziativa di Costa - che avrebbe dovuto consentire di conoscere punto per punto l’attività del singolo giudice o pm, le “performance”, i meriti ma anche gli insuccessi e gli errori. La disposizione, va detto, è molto blanda, in quanto prevede che costituiranno indice di “grave anomalia” il rigetto delle richieste o la riforma e l’annullamento delle decisioni del magistrato, “ove assumano, anche in rapporto agli esiti delle decisioni e delle richieste adottate dai magistrati appartenenti al medesimo ufficio, carattere di marcata preponderanza e di frequenza rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”, ancorando così il concetto di “grave anomalia” a un dato sostanzialmente statistico-comparativo. “Bisognerà sballare almeno 60 processi su 100”, puntualizza Costa. Si è poi precisato che la valutazione circa la sussistenza di gravi anomalie dovrà essere svolta tenendo conto delle funzioni esercitate e della loro natura monocratica o collegiale, escludendo che la si possa riscontrare in caso di riforma del provvedimento o rigetto della richiesta “determinata dalla decisione del magistrato motivata in difformità dal consolidato orientamento giurisprudenziale, che pure abbia dimostrato di conoscere e col quale si sia confrontato”. Così facendo si è voluto garantire ai magistrati la possibilità di coltivare orientamenti difformi da quelli già espressi, purché supportati da adeguata motivazione che dia conto delle ragioni del dissenso rispetto a questi, e ciò, segnala la relazione illustrativa, “nella consapevolezza che proprio l’evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali costituisca un volano indispensabile al fine di assicurare che questi risultino al passo rispetto non solo alle modifiche normative ma anche al mutato sentire sociale”. Il giudizio positivo, poi, dovrà essere articolato con riferimento alle capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro, nelle valutazioni di “discreto”, “buono” o “ottimo”. A questo scopo il Csm dovrà indicare i criteri sulla base dei quali esprimere tale giudizio. Riguardo, invece, la possibilità per gli avvocati nei Consigli giudiziari di ‘intervenirè ai fini delle valutazioni di professionalità delle toghe, viene mantenuta l’impostazione suggerita a Cartabia dal Consiglio nazionale forense: il voto del Foro sulle “promozioni” delle toghe a dovrà essere preceduto dalla segnalazione proveniente dallo stesso Cnf o dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati circa la presenza di “fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione”. Al ricorrere di tale circostanza sarà quindi attribuita agli avvocati la “facoltà di esprimere un voto unitario”. Nel caso in cui gli avvocati concordino di esprimere un voto, quest’ultimo dovrà essere “coerente al contenuto delle segnalazioni”. Se dovessero discostarsi dalle segnalazioni, servirà una preliminare interlocuzione con il Cnf o con il Coa per sollecitare “una nuova determinazione” da parte di tali organi istituzionali, all’esito della quale il voto espresso dovrà essere comunque “in coerenza con la stessa”. Circa, infine, i magistrati che potranno essere collocati fuori ruolo, il loro numero attualmente fissato in 200 diminuirà del 10 percento e potrà dunque arrivare a 180 unità, con sforamenti possibili per gli incarichi in organismi internazionali. Dei 180 fuori ruolo, non più di 40 potranno essere collocati presso organi diversi dai ministeri della Giustizia, degli Esteri e della Cooperazione internazionale, dal Csm e in generale dagli organi costituzionali. Una scelta basata sul principio per cui debbono essere limitati gli incarichi che hanno minore attinenza con la formazione dei magistrati, che si colloca però in un quadro complessivo assai lontano dalle enunciazioni dello stesso Nordio, il quale un anno fa aveva dichiarato che dei 200 fuori ruolo ne basterebbe “il 10 percento, gli altri dovrebbero tornare nei tribunali”. Perché la castrazione chimica è incompatibile con la nostra Costituzione di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 24 agosto 2023 Dopo lo stupro di Palermo Salvini rilancia il ddl. Ma già nel 2019 Carlo Nordio parlò di “un ritorno al Medioevo”: anche se disposto su base volontaria, il trattamento ormonale viola il principio della funzione preventiva e rieducativa della pena. Già quattro anni il guardasigilli Carlo Nordio (all’epoca non era ancora a via Arenula) intervenne sul Messaggero per stroncare la legge sulla castrazione chimica “per pedofili e stupratori” presentata sempre da Matteo Salvini nel dicembre del 2018. Un vecchio pallino della Lega che, cavalcando l’onda della cronaca nera, la propose per la prima volta nel lontano 2005 su iniziativa di Roberto Calderoli. “Un ritorno al Medioevo” scrisse Nordio sul quotidiano romano, smontando pezzo per pezzo il provvedimento del governo giallo-verde: alla fine l’emendamento di Lega e FdI al cosiddetto “Codice rosso” (che stabiliva una corsia preferenziale per i reati di violenza domestica e di genere) non riuscì a passare. Il leader leghista, in piena campagna per le elezioni europee, aveva invece promosso con decisione la sua idea, parlando di “una cura democratica e pacifica”, sostenuto dall’allora ministra della pubblica amministrazione Giulia Buongiorno per la quale si trattava di “una proposta all’avanguardia” e per di più da applicare su base volontaria, in alternativa al carcere. Nordio sottolineò con estrema precisione quanto questo particolare aspetto fosse incompatibile con i diritti sanciti e protetti dalla nostra Costituzione negli articoli 27 e 32: “Questa alternativa sovvertirebbe completamente la struttura del nostro codice e della Costituzione, dove la pena ha una funzione preventiva, retributiva e rieducativa. Si può concedere che la castrazione prevenga nuovi crimini; ma se le attribuiamo anche una funzione retributiva ciò significa che torniamo alla vecchia pena corporale”. Ci sono poi gli effetti: i governi che hanno adottato la castrazione chimica (13 in Europa, 12 su base volontaria, e la sola Polonia come provvedimento obbligatorio per gli stupratori di bambini e familiari) sostengono che la cura è reversibile e che, terminata la somministrazione ormonale, gli effetti spariscono. Ma la comunità scientifica su questo punto è fortemente divisa, molti oncologi hanno infatti segnalato i pesanti effetti collaterali (osteoporosi, anemia) subiti dai loro pazienti sottoposti allo stesso trattamento per limitare i danni dei tumori alla prostata e alla mammella. In entrambi i casi, spiegò Nordio, si è davanti a una contraddizione giuridica insormontabile: “Se la “castrazione” è un surrogato della pena, dev’essere provvisoria, e di conseguenza è inefficace. Se invece è irreversibile, costituisce una menomazione permanente come l’amputazione di un arto, e quindi, incidendo su un diritto indisponibile, è manifestamente incostituzionale”. Nordio non fu il solo a segnalare l’incompatibilità costituzionale del provvedimento, con lui diversi giuristi tra cui il giudice emerito della Consulta Sabino Cassese che parlò senza mezzi termini di “misura inumana e contraria alla dignità della persona”. “Tortura dinamica” a Rebibbia, come quando ero detenuto di Claudio Bottan* Il Dubbio, 24 agosto 2023 Agosto 2021, sono trascorsi otto anni dalla sentenza Torreggiani. Mi trovo a Rebibbia, reparto G- 12 per una condanna definitiva risalente a tredici anni prima. Mi faccio prestare il metro dal detenuto MOF, l’addetto alla manutenzione che tenta invano di riparare gli scarichi della cella numero 8 in cui sono collocato da un paio di mesi. Qualcuno gli ha detto che non potrebbe cedere gli strumenti di lavoro, pena la perdita del posto, ma un caffè ben fatto vince le sue resistenze. La cella in cui sopravvivo con altre cinque persone misura circa 17 metri quadrati. Ci sono due letti a castello, uno dei quali è il mio rifugio, e due letti singoli. Sei persone che si dovrebbero muovere, vorrebbero scrivere, mangiare e respirare. Il conto è presto fatto: al netto dello spazio occupato da letti, tavolo e armadietti, abbiamo a disposizione 1,60 mq ciascuno. Ben al di sotto di quanto previsto dalla Corte Europea per delineare i trattamenti disumani che configurano tortura. Occorrono le abilità del professionista di Tetris per riuscire a muoversi ad incastro senza scontrarsi con le altrui necessità e suscettibilità. Il “cesso” è alla turca, un buco dal quale spesso spuntano le pantegane che potrebbero mordicchiare le parti intime. Acqua calda? Nemmeno l’ombra. Non va meglio nelle uniche due docce comuni funzionanti per sessanta persone: muffa e muschio su pareti e soffitto, e trovare l’acqua calda è un terno al lotto. Ma il sovraffollamento non è solo questione di centimetri; anche gli spazi mentali vengono compressi, violati dal continuo vociare e dal volume perennemente al massimo della televisione. Ci sono evidentemente le condizioni per presentare reclamo ex. Art. 35-ter O. P. ho pensato. Se si tenesse unicamente in considerazione il principio, non derogabile, del rispetto della dignità del detenuto, nulla si potrebbe dire se non che è mortificante, per un Paese civile, misurare la tortura a spanne. Ma non c’è mai fine al peggio: reclamo rigettato. Stando alla relazione fornita dall’Amministrazione Penitenziaria, infatti, lo spazio individuale che ho avuto a disposizione è superiore ai 3 metri quadrati. E poi i letti singoli si possono spostare (forse in corridoio?) e quindi non sono da considerarsi ingombro, così come lo spazio sottostante agli armadietti pensili, anch’esso considerato fruibile e calpestabile. Già, spazio libero e utilizzabile. Probabilmente strisciando a terra sotto ai mobili… Basterebbe un dato per comprendere il cortocircuito: casualmente si tratta della stessa cella a cui si riferisce la sentenza di condanna della Corte EDU nel caso “Sulejmanovic c. Italia” del 6/ 11/ 2009 con la quale viene accertata per la prima volta in Italia la violazione dell’art. 3 della Convenzione per eccessivo sovraffollamento carcerario. Il ricorso del cittadino bosniaco Izet Sulejmanovic, detenuto presso il carcere di Rebibbia in una cella di 16,20 mq con altre cinque persone. Una condizione detentiva contraria all’art. 3 della Convenzione, in uno spazio che nel corso degli anni non si è magicamente allargato. A meno che lo strumento di misura non sia l’elastico. Agosto 2023. Le condizioni di Rebibbia Nuovo Complesso permangono preoccupanti, a confermarlo sono le recenti parole di Rita Bernardini che, con una delegazione di “Nessuno tocchi Caino”, a Ferragosto ha visitato l’istituto romano. “I numeri sono sconvolgenti: 1506 detenuti per mille posti regolamentari. Il sovraffollamento è del 150%. Tenendo presente che è un grande carcere e che ci sono zone come il 41bis dove il sovraffollamento (purtroppo per loro) non c’è perché sono in isolamento in una cella, in alcune sezioni si arriva anche al 180%, al 200%. Poi naturalmente non ci sono gli educatori, quindi io ho il sospetto che il sabato gli psicofarmaci circolino di più degli altri giorni, perché bisogna tenere calmi questi 1.500 esseri umani intrappolati. È una situazione esplosiva, drammatica”. Analoghe condizioni nella maggior parte degli istituti di pena italiani, quelli in cui si muore per pena sfiniti dal caldo, stremati dalla mancanza di prospettive e di umanità. Il regime aperto, che consente alle persone ristrette di muoversi lungo i corridoi delle sezioni di media sorveglianza, è una sorta di compensazione degli effetti devastanti del sovraffollamento di quei gironi infernali. La “sorveglianza dinamica”, considerata “Il mondo al contrario” dai sindacati della Polizia Penitenziaria, non è stata una concessione, ma un modo per correre ai ripari dopo che, con la sentenza Torreggiani, la Corte europea dei diritti umani ha chiaramente “invitato” il nostro Paese a porre rimedio, subito, al sovraffollamento carcerario. Chissà se si tratta dello stesso rispetto delle regole invocato dal sottosegretario alla Giustizia Ostellari secondo il quale “per prima cosa bisogna applicare le circolari che già esistono. Come quella che, negli istituti di media sicurezza vieta ai detenuti di spostarsi nei corridoi o da una cella all’altra liberamente, salvo quando si esce per svolgere altre attività. Nessun intento punitivo: va garantito il rispetto e l’incolumità di chi nelle carceri rappresenta lo Stato. Dalla polizia penitenziaria ai medici e agli educatori: tutti devono essere nelle condizioni di poter svolgere serenamente il proprio lavoro. La “sorveglianza dinamica”, introdotta in passato, è stata un fallimento”. *Attivista, ex detenuto, redattore “Voci Di Dentro” Torino. Riflessioni bioetiche dell’Ordine dei Medici sui recenti suicidi nel carcere omceo-to.it, 24 agosto 2023 In questo mese due giovani donne detenute nel carcere di Torino sono morte, l’una suicidandosi e l’altra lasciandosi morire di fame e di sete. Prima di loro altre due persone si erano tolte la vita. L’Ordine dei medici di Torino vuole proporre alcune riflessioni sulle cause che possono portare a questi tragici eventi, innanzitutto sottolineando che il carcere può sospendere il diritto alla libertà (facendo scontare una pena che non mortifichi la dignità Umana), ma non annullare gli altri diritti fondamentali, come quello alla salute e alla risocializzazione, anche se nella realtà quotidiana è spesso irrisolta la contraddizione tra l’esigenza di sicurezza e il rispetto dei diritti costituzionali. Il detenuto limitato nella libertà personale mantiene dunque integri tutti i diritti dell’essere umano, incluso quello alla salute. Questo stabilisce la legge e questo è rimarcato dal Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) nei documenti elaborati dal 2008 ad oggi su salute, suicidio e salute mentale in carcere. I documenti del CNB offrono analisi e conclusioni che come Ordine dei medici condividiamo pienamente. Ne riportiamo alcuni passi che aiutano la comprensione di quanto accaduto nel carcere di Torino e offrono indicazioni per possibili cambiamenti. “I dati internazionali ci dicono che i detenuti godono di livelli inferiori di salute rispetto a chi sta “fuori” e che la salute mentale rappresenta l’area più critica. Dunque il carcere è chiamato in causa come ambiente che mina la salute mentale. È parimenti a popolazione generale, ivi compresa la salute mentale, anche prima di entrare in carcere. La OMS prende anche atto del carattere intrinsecamente patogeno del carcere, sottolineando che “l’ambiente della prigione è, per sua natura, normalmente nocivo alla protezione o al mantenimento della salute mentale di coloro che entrano in carcere e ivi sono detenuti”. Vanno inoltre individuati i momenti critici della carcerazione, che più mettono a rischio la salute mentale delle persone: uno di questi è l’ingresso in carcere, che può generare una vera e propria “sindrome da ingresso” con fenomenologia di disturbi psichici e psicosomatici. Circa lo stato di salute mentale delle persone che entrano nelle prigioni, la OMS ricorda che “i detenuti spesso provengono da comunità notevolmente deprivate o povere”, citando ricerche che mostrano come nelle comunità più deprivate si riscontrino livelli più alti di cattiva salute, maggiore morbilità psichiatrica e molte problematiche sociali”. Tenere presenti questi fattori di vulnerabilità psicosociale ha conseguenze sul piano degli interventi, come spiega in dettaglio la OMS: “Aiutare i detenuti a mantenere il loro benessere o curare chi soffre di scarsa salute mentale non significa solo offrire i giusti farmaci e trattamenti psicologici adeguati, ma anche aiutarli a far fronte ai loro bisogni fisici e sociali”. L’invito è perciò a predisporre un ambiente sufficientemente “sano”: nel senso di sufficientemente adeguato a mantenere la salute mentale delle persone e a non aggravare lo stato di chi già soffre di disturbi. Oltre ai requisiti strutturali dei locali di detenzione (ampiezza sufficiente, illuminazione con luce naturale e artificiale, aerazione, riscaldamento, dotazione di servizi igienici riservati, decenti, razionali e puliti), si raccomanda l’attenzione agli aspetti psicologici e relazionali (come la possibilità per i detenuti di mantenere rapporti anche intimi con persone significative, il rispetto della privacy, l’offerta di attività per impegnare il tempo). Questo approccio comprensivo alla salute mentale presuppone il coinvolgimento di diversi livelli di responsabilità. La predisposizione di un ambiente (fisico, relazionale, trattamentale) il più possibile salutare dipende dall’amministrazione penitenziaria, e infatti si raccomanda che “la promozione della salute mentale e del benessere siano fattori centrali nella politica di governo del carcere”. Tuttavia, dopo il passaggio della sanità al Servizio Sanitario Nazionale, anche le autorità sanitarie dovrebbero curare questi elementi di base della salute mentale, in quanto istituzioni che operano in prima linea per la concreta affermazione del diritto alla salute delle persone detenute, e della parità di tutela con i cittadini che godono della libertà. È questo il senso di avere oggi un unico sistema a tutela di tutti i cittadini e le cittadine, fuori e dentro le mura. Dopo la riforma, il bene salute acquista una sua autonomia in quanto diritto, che il nuovo sistema sanitario - non a caso autonomo dall’amministrazione penitenziaria - è chiamato a rappresentare e garantire. Ma l’autonomia istituzionale non sempre si traduce in autonomia culturale nelle pratiche quotidiane in cui è impegnato il personale che dipende dal SSN: ed è evidente la maggiore difficoltà da parte dello staff sociosanitario a interloquire con le autorità carcerarie circa le caratteristiche psico-socio-ambientali dei penitenziari, per quanto si tratti di personale normativamente non dipendente dall’amministrazione penitenziaria.” Ritornando alla situazione del carcere di Torino, ancora due osservazioni. Delle quattro morti degli ultimi mesi ben tre erano donne. Non a caso. Le donne detenute, infatti, presentano un disagio psichico maggiore degli uomini. I dati nazionali del Report dell’associazione Antigone 2022 (https://www.rapportoantigone.it/primo-rapporto-sulle-donne-detenute-in-italia/) ci dicono che il 63,8 % fa regolarmente uso di psicofarmaci e gli atti di autolesionismo nel 2022 sono stati il 31%, il doppio di quelli degli uomini, come i tentati suicidi (3,7 %). Guardando al tasso di suicidi, ossia la relazione tra il numero dei casi e la popolazione detenuta media, nel 2022 si osserva un valore molto più alto per le donne che per gli uomini. Il primo corrisponde a 2,2 suicidi ogni 1000 persone, il secondo a 1,4. Si tratta in ambedue i casi di cifre altissime, considerando che nella popolazione libera il tasso è pari a 0,07 suicidi ogni 1000 abitanti. Siamo consapevoli che a Torino istituzioni, professionisti, associazioni, gruppi di lavoro interistituzionali si occupano della salute dei detenuti. Per quanto riguarda l’ASL, in particolare, l’effettiva possibilità di tutelare la salute dei detenuti è anche condizionata dall’annosa cronica carenza di risorse economiche e di professionisti, le cui conseguenze negative ricadono indubbiamente su tutta la popolazione, ma con anticipo, maggiore evidenza e drammaticità tra le fasce deboli, persone detenute incluse. In conclusione, tutto ciò considerato, questo Ordine ritiene che per tutelare la salute dei detenuti ora occorra da parte di chi ne ha la responsabilità un coraggioso, rapido, ideale e concreto cambio di passo per intercettarne i bisogni, il malessere, le fragilità e prevenire le conseguenze drammatiche della carcerazione. Oristano. Detenuto romano morto in cella, caso archiviato senza autopsia rainews.it, 24 agosto 2023 Per la Procura sarda Stefano Dal Corso si è impiccato. Secondo alcuni medici specialisti, contattati dalla famiglia, le foto del cadavere mostrerebbero segni di strangolamento. E poi c’è il mistero di un libro recapitato alla sorella. Anche ora che i magistrati hanno archiviato il caso, per la famiglia del romano Stefano Dal Corso, il mistero resta. Secondo la Procura di Oristano l’uomo, 42 anni si è impiccato in carcere lo scorso 12 ottobre. Per i magistrati l’autopsia è superflua, anche se scrivono “non è stata individuata con certezza la causa scientifica del decesso”. La famiglia si oppone, ma in mano ha solo le fotografie del cadavere. Medici specialisti, che le hanno viste, sostengono che i segni delle ferite sarebbero più compatibili con “uno strangolamento che con un impiccamento”. Dal Corso avrebbe dovuto lasciare Oristano per Rebibbia il giorno dopo, lui che aveva detto e scritto che avrebbe voluto cambiare vita, accanto alla figlia e alla compagna. Chi vuole ricominciare, non si suicida, ripete la famiglia. C’è poi il mistero di un libro recapitato alla sorella di Stefano da quelli che vengono definiti finti corrieri. Il libro ha sottolineati due titoli: “La Confessione” e “La morte”. Un macabro scherzo, secondo i magistrati, un indizio per la famiglia. Per i legali poi ci sarebbero anche testimoni mai stati ascoltati. Ma il caso, appunto, è stato archiviato. Perugia. Incidente in carcere, operato dopo un anno e mezzo: detenuto fa causa a ministero e Asl di Egle Priolo Il Messaggero, 24 agosto 2023 Due incidenti sul lavoro, un’assistenza sanitaria quanto meno altalenante e ora difficoltà pure a muoversi per colpe delle cure tardive. Una situazione che metterebbe in crisi chiunque ma che diventa doppiamente invalidante se gli incidenti sono avvenuti in carcere e il paziente è un detenuto che in tre anni si è scontrato contro un sistema che - nonostante gli sforzi - appare inadeguato. Ed è proprio a questo sistema che adesso chiede conto un ex imprenditore, a Capanne dal 2018 per reati contro il patrimonio: ha citato il ministero della Giustizia e l’Azienda sanitaria Umbria 1 chiedendo il risarcimento per il danno provocato dalle “omissioni” subite nel suo percorso di cura. L’uomo, oggi 47enne, nell’atto di citazione davanti al tribunale civile di Perugia firmato dall’avvocato Laura Filippucci, racconta i problemi nati dal maggio 2020 dopo alcuni incidenti avvenuti svolgendo la propria mansione, come detenuto, in un’azienda agricola. Prima una frattura al polso e poi un infortunio al piede mentre “svolgeva attività di manutenzione dei mezzi dell’amministrazione penitenziaria all’interno del carcere”. Nel primo caso, nonostante il “continuo dolore” è stato sottoposto a “nuova visita radiologica solo due anni dopo”, nel 2022. Nel secondo, all’inizio per quel piede gli viene prescritto solo un antidolorifico. Dopo quasi due settimane ottiene una visita ortopedica che rileva una “lacerazione quasi completa del tendine” e tra intervento e ingessatura si sceglie il gesso. Che però dopo un mese e mezzo va tolto per gonfiori e dolore e il 47enne viene inserito in lista d’attesa per un’operazione. L’infortunio è di maggio e a fine ottobre (ancora del 2020) nuova visita di controllo che poi, a novembre, parla di “tessuto cicatriziale in fase di organizzazione” e il medico prescrive l’intervento. Passano altri mesi, adesso è agosto 2021, la risonanza magnetica rileva un ispessimento del tendine e solo a novembre - un anno e mezzo dopo l’incidente - l’uomo viene finalmente operato. Un’attesa che, secondo l’avvocato Filippucci, ha inficiato “sia la sua salute fisica che quella psicologica”, tanto da chiedere 400mila euro di danni a ministero e Asl. Per quelle definite come “rilevanti negligenze sia del personale medico che del personale del carcere che hanno, con le proprie continue omissioni, determinato un grave ed irreparabile danno”. L’avvocato infatti ricorda come il suo assistito “ha solo una residua mobilita? al piede sinistro, non riesce a sollevarsi e non ha ripreso la propria funzionalita?. Se l’intervento medico fosse intervenuto nell’immediato tale condizione non si sarebbe verificata”. Da qui, la richiesta di risarcimento avanzata lo scorso anno, con la prima udienza fissata - a proposito di tempistiche - a novembre 2023. In attesa della decisione, la storia dell’ex imprenditore si unisce al caso di un altro detenuto operato alla colonna vertebrale e trasferito a Spoleto per sottoporsi a “solo tre sedute di fisioterapia”, denuncia Filippucci. E che insieme ai racconti di pazienti oncologici in difficoltà per ottenere le adeguate cure, fanno intervenire anche il garante dei detenuti Giuseppe Caforio. Che non entra nel merito della storia del 47enne ma spiega: “Un dato è certo, le strutture sanitarie delle carceri umbre sono inadeguate, con una difficoltà enorme di rispondere alla domanda di sanità, a partire dall’esiguità di risorse umane, a fronte di circa 1500 detenuti”. “C’è carenza di sanitari e quando si trovano il turn over è altissimo: è un lavoro di particolare stress - sottolinea al Messaggero -, la strumentazione non è idonea e ciò comporta che i detenuti devono essere assistiti all’esterno. Un percorso che ha un onere economico e organizzativo alto: i poliziotti sono pochi e ne derivano ritardi anche davanti a malattie gravi”. “Mi sono confrontato più volte con la presidente della Regione Donatella Tesei che ha mostrato grande attenzione - spiega - e la prima risposta è stata l’apertura del repartino in ospedale con 4 posti letto. Più la sua battaglia in Conferenza Stato-Regioni sulla necessità di curare i detenuti (in grande maggioranza di fuori regione) attraverso un fondo speciale e non ricadendo, quindi, come oggi, sulle spese ordinarie a carico invece di tutta la nostra comunità”. Verona. La richiesta di +Europa: “Maggiore attenzione per migliorare le condizioni dei detenuti” veronanews.net, 24 agosto 2023 “Nel carcere di Montorio da tempo si stanno verificando situazioni molto gravi. L’ultima protesta ha visto alcuni detenuti dare fuoco e poi allagare le celle. Purtroppo la situazione nelle carceri veronesi è analoga a quella degli istituti di pena nazionali: celle sovraffollate, pochissimi momenti sociali, lavoro riservato ad una minoranza. Tutto questo aggravato dal caldo terribile di questi giorni e dalla impossibilità di utilizzo quotidiano delle docce”. Così Lorenzo Dalai, coordinatore +Europa Verona e Anna Lisa Nalin della segreteria nazionale di +Europa. “I numeri delle strutture carcerarie in Italia sono drammatici: contano circa 58.000 persone, ben 6.500 in più rispetto al limite massimo. Di questi 18.000 sono stranieri. Inoltre, i detenuti per piccoli reati legati all’uso e al piccolo spaccio di cannabinoidi rappresentano una parte considerevole. Un’eventuale legalizzazione della cannabis eviterebbe pene detentive o quantomeno consentirebbe misure alternative, come +Europa sostiene fortemente proprio per combattere lo spaccio e i relativi introiti delle mafie e contribuire ad abbattere il sovraffollamento carcerario. Restando al nostro livello locale possiamo aggiungere che qualcosa è cambiato nella gestione della Casa Circondariale veronese: negli ultimi tempi si stanno verificando con sempre più alta frequenza episodi di violenze, che rasentano ormai la rivolta, come testimoniano i rapporti stilati dai sindacati della Polizia Penitenziaria. Chiediamo, pertanto, alle forze politiche della coalizione che sostiene il sindaco Tommasi, coalizione della quale +Europa è parte attiva a pieno titolo, di farsi carico di un’azione di verifica della attuale situazione del carcere di Montorio”. Brescia. Frigoriferi per i detenuti: parte la raccolta fondi elivebrescia.tv, 24 agosto 2023 Una problematica per i detenuti di Canton Mombello è quella di non avere dei frigoriferi in ogni cella. Conservare il cibo diventa quindi complicato, soprattutto nel periodo estivo. L’Associazione Carcere e Territorio ha aperto una raccolta fondi per cercare di risolvere questa faccenda e donare maggiore dignità ai detenuti. Poter conservare le bottigliette d’acqua, la carne, o la frutta e la verdura all’interno di piccoli frigoriferi nelle celle diventa ancora più necessario con l’arrivo dell’estate e delle alte temperature. D’inverno, spesso, i detenuti cercano di arrangiarsi come possono, posizionando il cibo vicino alle finestre. Disporre quindi di questi elettrodomestici gli permetterebbe di mangiare alimenti e bere bevande fresche e conservate adeguatamente. Luisa Ravagnani, Garante dei Diritti dei detenuti di Brescia, spiega che servono dei fondi per l’acquisto di 30 frigoriferi, del valore di 150 euro ciascuno. Il programma di sensibilizzazione ha già raccolto i suoi frutti; infatti a giugno sono arrivate alcune donazioni. Per donare non vi è alcuna scadenza, e chiunque decidesse di aiutarli anche con piccole somme avrà poi la ricevuta del pagamento e i ringraziamenti per il gesto compiuto. “Gli unici frigoriferi disponibili sono all’interno delle celle più grandi, che contengono fino a 10-12 persone - ha detto Ravagnani - Tra le principali cause di queste problematiche vi è il sovraffollamento e la mancanza di fondi adeguati per far fronte a tutte le necessità dei detenuti”. Venezia. Detenuti realizzano shopper con il Pvc che copriva il restauro di un Tiziano di Barbara Ganz Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2023 I ricavi delle vendite copriranno i costi degli interventi di manutenzione annuali della pala d’altare ai Frari, ritornata ai colori originali. Un telo esteso più di 50 metri quadrati, usato per coprire i lavori di restauro della pala de L’Assunta - capolavoro di Tiziano Vecellio ora tornato a impreziosire l’abside della Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia - recuperato e affidato alle mani dei detenuti del carcere maschile di Venezia che, con il supporto della cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri, hanno realizzato più di 100 borse shopper. È una iniziativa di economia circolare e al tempo stesso sociale quella messa in atto a Venezia. Lo scorso autunno era tornata allo scoperto l’opera, con la pala d’altare e la cornice marmorea che la circonda, per quattro anni nascosti da un telone in plastica PVC che ne riportava una copia fedele e occultava il ponteggio necessario per il restauro che è stato interamente finanziato da Save Venice. Ora quella riproduzione dell’Assunta è stata reimpiegata per produrre borse, ognuna delle quali riporta stampato un pezzetto del dipinto di Tiziano o della cornice. Ogni borsa è un pezzo unico, in vendita all’interno della basilica dei Frari a un prezzo che va da 40 ai 60 euro in base ai motivi riportati nella stampa. In un’ottica di upcycling - non semplice riciclo, ma recupero e riutilizzo virtuoso secondo i migliori principi della sostenibilità - i proventi dalla vendita delle borse saranno destinati a contribuire ai costi degli interventi di manutenzione annuali della pala d’altare tizianesca. Non solo; la loro realizzazione ha comportato una mole di lavoro che ha contribuito a sostenere l’operato dei detenuti del carcere veneziano che le hanno prodotte, nell’ambito di un più ampio progetto di inclusività sociale. Il capolavoro tizianesco era stato oggetto di un complesso intervento il cui obiettivo primario è stata la messa in sicurezza del sito, del dipinto e il restauro sia del dipinto che della cornice lapidea.La pala dell’Assunta, dipinta su 20 assi di legno di pioppo bianco è uno dei dipinti su tavola più estesi al mondo, e misura 6,90x3,60 metri. Aveva subito un importante restauro a inizio ‘800, poi ancora a metà degli anni ‘70 del ‘900: ora si presenta con colori vibranti e luminosi, come probabilmente l’aveva pensata Tiziano nel 1516 quando gli venne commissionata da Frate Germano, superiore del Convento dei Frari. Da allora i frati della Comunità ne sono custodi vigili e premurosi e negli anni a venire ne avranno in carico la cura. L’intervento di restauro aveva coinvolto in primis Padre Lino Pellanda e la comunità della Parrocchia dei Frari e quindi il Patriarcato di Venezia, la Soprintendenza ai Beni artistici lagunari e la direzione lavori affidata a Giulio Manieri Elia - direttore delle Gallerie dell’Accademia di Venezia - e il Laboratorio Scientifico della Misericordia che, assieme, hanno condiviso e sostenuto l’intervento certosino dei restauratori Giulio Bono per la parte pittorica e Egidio Arlango per quanto riguarda la cornice marmorea. Tutti gli interventi sono stati eseguiti in situ per non sottoporre il capolavoro ad eventuali stress ambientali. Tra le scelte operative più significative, quella di smontare l’organo Mascioni risalente agli anni Venti del ‘900, che era stato installato dietro alla pala ed ancorato a essa con tutte le conseguenze che ciò comportava: dalle vibrazioni all’invasione di tarli all’impossibilità di rimozione della pala stessa in caso di necessità. L’organo, smontato, restaurato e poi ricomposto, è stato donato alla Chiesa di Santa Maria Ausiliatrice di Jesolo. Altra novità emersa grazie al restauro sono due angeli nei “pennacchi” ai lati della cornice lapidea, quasi del tutto “spariti” prima della pulizia ed ora nuovamente visibili e ben delineati, forse anch’essi opera di Tiziano. Catanzaro. Il Garante comunale Giacobbe in visita al carcere: sollecitati interventi urgenti catanzaroinforma.it, 24 agosto 2023 “Lavori in via di ultimazione ma sono necessari altre migliorie strutturali”. Nella lunga mattinata di ieri 22 agosto 2023, presso la Casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro si è tenuta l’istituzionale visita ispettiva del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del comune di Catanzaro, Luciano Giacobbe che accompagnato dalla sua collaboratrice, l’avv. Sonia Mirarchi, è stata finalizzata ad accertare e fare il punto sulle attuali condizioni di vita delle persone detenute, sulle condizioni sanitarie e strutturali dell’Istituto penitenziario del capoluogo regionale, ciò dopo le formali richieste di informazioni e di intervento rivolte dal Garante, anche di recente nel corrente agosto, a seguito delle costanti visite istituzionali, degli incontri con i dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, dei colloqui con i detenuti, degli accessi diretti nei luoghi di detenzione della Casa Circondariale di Catanzaro (celle, servizi e spazi ricreativi) e a seguito dei confronti sinergici con il direttore della Casa Circondariale di Catanzaro, con la Polizia Penitenziaria, i funzionari giuridico- pedagogici ed con il direttore e personale sanitario che, evidenzia il Garante, lavorano con impegno considerato le carenze strutturali, organiche e le limitate risorse finanziarie con le quali operano. Il Garante denuncia: “La carenza di personale sanitario e di reparti per detenuti con patologie psichiatriche; - la difficoltà a comunicare con la guardia medica nei casi di necessità stante la carenza di personale medico H24 all’interno dell’Istituto penitenziario; - la mancanza di percorsi di sostegno psicologico per i detenuti, in particolare per quelli con disturbi psicologici o clinico-psichiatrici”. Riguardo alle dette problematiche il Garante: “esorta le istituzioni ad intervenire anche con un aumento della pianta organica presso la Casa circondariale di Catanzaro” ed evidenzia che: “sarebbe auspicabile, perché urgente e necessario, un servizio di continuità di sostegno psicologico che potrebbe rivelarsi particolarmente opportuno per quei soggetti con situazioni di fragilità, basti pensare che secondo la Simpse (società italiana di medicina e sanità penitenziaria) oltre il 70% dei detenuti ha disturbi psicologici o clinico psichiatrici”. Infatti, spiega il Garante, che: “presso la Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro il nodo più problematico riguarda senza dubbio l’assistenza sanitaria, pertanto è opportuno intervenire al fine di mitigare le gravi difficoltà gestionali sia del comparto medico-infermieristico che di quello della sicurezza”. Quanto ai reparti di osservazione psichiatrica la situazione è ancora critica per carenza di personale sanitario specializzato e infermieristico - dichiara Luciano Giacobbe - e in queste condizioni curare il disagio psichico diventa problematico. La situazione merita di essere attenzionata anche in ragione del fatto che l’ATSM di Catanzaro costituisce l’unico luogo dedicato all’osservazione e alla cura psichiatrica per i 12 istituti della regione Calabria che ospitano quasi 3.000 detenuti; l’altra ATSM di Reggio Calabria “Giuseppe Panzera” è in fase di ristrutturazione ed in attesa di personale specializzato. Tali criticità, ad oggi irrisolte, di detenuti con patologie psichiatriche in fase di esecuzione della pena aggravano il loro stato di salute e contribuiscono all’incremento di atti di autolesionismo che negli ultimi mesi in Calabria sono aumentati in modo esponenziale, sottolinea il Garante. È chiaro che l’autolesionismo e i suicidi costituiscono due fra gli argomenti più delicati da trattare nel discorso sul carcere. Difatti, il suicidio di una persona privata della libertà costituisce il fallimento più evidente del ruolo punitivo dello Stato ed uno Stato che nel punire non impedisce la morte del condannato perde parte delle funzioni che ne giustificano la potestà punitiva. Da qui emerge, dichiara il Garante comunale, l’inadeguatezza del carcere ad affrontare il disagio delle persone che sono collocate al suo interno. L’Italia è tra i paesi al mondo con i più bassi tassi di suicido ma tali tassi aumentano in modo esponenziale sino a diventare fra i più alti a livello europeo fra le persone private della libertà personale. Una distanza, chiaramente, che pone dei gravi interrogativi, sia sulla qualità delle nostre prigioni e sull’efficacia dei programmi di prevenzione adottate e sia sulla funzione rieducativa della pena. In aumento invece sono i suicidi tentati e l’autolesionismo. A riguardo, avendo già invitato le istituzioni competenti in tal senso, auspico - dice il Garante comunale - che il mio Ufficio possa attuare un protocollo d’intesa con gli organi preposti al fine di individuare le modalità più veloci ed efficaci di comunicazione e di scambio informazioni per la prevenzione delle condotte suicidarie e dei gesti autolesivi delle persone private della libertà personale nel territorio del comune di Catanzaro. Durante la recente visita istituzionale del 22 agosto 2023 - il Garante spiega che - sono state anche acquisite informazioni utili circa le modalità di funzionamento delle Sezioni dell’Istituto Penitenziario catanzarese ed a tal proposito il Garante comunale segnala tra le principali criticità: “ carenza di agenti di polizia penitenziaria rispetto al numero dei detenuti presenti con enorme difficoltà di gestione dei detenuti soprattutto in ordine alle numerose richieste di prestazioni sanitarie da effettuarsi all’esterno della casa circondariale e al di fuori della città di Catanzaro”. A tal proposito, l’avv. Luciano Giacobbe sottolinea che: “sarebbe auspicabile prevedere oltre un aumento di personale anche, quando e se possibile, un “accesso preferenziale” dei detenuti presso le strutture sanitarie presenti nella città anche al fine di arginare l’attuale problema della carenza di organico del personale di polizia penitenziaria e quindi consentire un rientro degli stessi in istituto in tempi brevi per garantire la loro presenza”. Il Garante evidenzia che sono in essere lavori di ristrutturazione in via di ultimazione in alcune celle e nelle docce comuni e segnala la necessità di ulteriori interventi strutturali all’interno della casa circondariale del capoluogo calabrese e di maggiori risorse economiche per far fronte ai bisogni primari del detenuto. Il Garante parla anche di necessarie dotazioni di elettrodomestici, nelle celle - spiega- non è previsto un frigorifero a causa di un eventuale eccesso di consumo elettrico e spiega che attualmente i detenuti usufruiscono di un congelatore comune in cui riporre pile refrigeranti da utilizzare in proprie borse-frigo per le bevande; negli spazi adibiti a lavanderia, in alcune sezioni, vi sono lavatrici e asciugatrici non funzionanti o non perfettamente funzionanti. Il carcere - conclude il Garante - deve diventare realmente il luogo di risocializzazione e di inserimento sociale e per questo con il mio Ufficio cercherò di vigilare affinché gli enti preposti possano potenziare specifici programmi contenenti attività di tipo culturale, ricreativo, sportivo, religioso e lavorativo. Volterra (Pi). Il teatro dei detenuti-attori interroga la realtà. Dove forse i veri prigionieri siamo noi di Lorenza Cerbini Corriere della Sera, 24 agosto 2023 Nel carcere toscano il regista Armando Punzo presenta “Atlantis”, il nuovo spettacolo realizzato con la Compagnia della Fortezza. “I primi uomini si svegliano in un mondo primitivo ancora malleabile e in uno stato in divenire. Viaggiano per il paese lasciando nella loro scia sentieri sacri conosciuti come vie dei canti o piste del sogno”. Sono questi alcuni passi di “Atlantis”, opera ultima della Compagnia della Fortezza guidata dal regista Armando Punzo e presentata in anteprima nel carcere di Volterra. Non poteva essere che quello il luogo, tra quelle mura in cui i detenuti-attori sviluppano le loro performance. Per Punzo è l’ennesimo successo in una carriera onorata con il Leone d’Oro. Notizia recente, statuetta consegnata il passato 17 giugno, accompagnata da una motivazione lunga e articolata e che nella parte finale recita così: “Lo spirito e la fantasia non hanno sbarre che contengano ma, soprattutto, siamo certi che siano gli Altri i prigionieri condannati ad un perimetro? I nostri limiti, le paure, il bisogno di affermazione sociale, la cecità verso il prossimo; rendere visibile il non palpabile, l’inconsapevole: un’utopia culturale di cui Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza sono le fulgide incarnazioni”. Un premio importante, l’occasione per ribadire la necessità di un teatro stabile all’interno del penitenziario volterrano. “Il bando è stato vinto dall’architetto Mario Cucinella - dice Punzo -. Spero che i lavori inizino presto”. Le domande del bambino - Con Atlantis, Punzo porta in scena l’uomo che non si accontenta di lasciare posto alla vita ordinaria e si “interroga sulla permanenza per dare un senso all’essere nato, al percorso di vita, alla morte”. Con l’opera precedente, Naturae, Punzo affrontava il tema della felicità. “Con Atlantis la domanda è successiva: possibile in qualche modo lavorare permanentemente sulla felicità? O siamo uomini in preda alle nostre passioni, emozioni, a una vita ordinaria? Possiamo costruirci?”. Atlantis ha richiesto un anno di lavoro e la lettura di moltissimi testi dai diversi saperi fino ad arrivare alle teorie del cosmologo John Barrow. Il risultato? “Siamo tanto presi dalla nostra vita ordinaria che diventa incomprensibile connettersi con quella parte di umanità, come ad esempio i fisici quantistici, che ancora oggi continuano a cercare, ponendosi domande sull’esistenza e sulla materia”. Se Barrow invita a prendere sul serio “le domande del bambino”, quelle semplici nella forma, ma complesse nella struttura: (perché fa buio?), Punzo sceglie di lottare contro l’ordinario per “ricreare un altro mondo”. Porsi domande è scavare nell’ordinario, è fare dei “buchi nella realtà”. Sul palcoscenico assumono la forma di enormi piattaforme scure ruotate da esseri in frac e smoking, ingessati nell’uniforme delle grandi occasioni in cui è necessario apparire impeccabili. Pubblico ammesso nel cortile del penitenziario dove gli attori si muovono come i pianeti di un astrolabio. Le celle come contenitori di pensieri e suoni - La scena successiva è in movimento, il corteo s’introduce in un corridoio del carcere: monologhi all’interno delle celle trasformate in contenitori di pensieri e suoni. Per poi tornare al punto di partenza, dove, tolto l’abito elegante, l’uomo resta nudo nella lotta con se stesso sul pianeta stella. Punzo, pervaso da un ottimismo che si spinge oltre il reale, intravvede “la possibilità di guardare al di là dell’ordinario” perché “proprio attraverso i buchi nella realtà, si fa apparire altro”. Per Barrow i buchi neri inghiottiranno le stelle e la materia. Semplicemente alzando lo sguardo all’insù, sorge il sospetto che possa sbagliarsi e spontanea la speranza che le stelle restino al loro posto, più lucenti che mai, mentre, citando Atlantis, “il senso comune perde il suo senso. Due più due non fa più quattro perché non è più necessario che sia così”. Libertà di parola tra le istituzioni di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 24 agosto 2023 Il dibattito sul volume pubblicato dal generale Vannacci si è svolto attorno alla libertà di espressione di un militare. Il ministro Crosetto, in una recente intervista, ha però richiamato la necessità che i militari ed anche altre categorie di persone come i magistrati (e si possono aggiungere anche, almeno, gli insegnanti) assicurino sempre imparzialità e a tutti eguaglianza di trattamento. E in tal senso essi offrano anche coerente immagine. Si tratta di un punto di vista che non si può non condividere e che è complementare rispetto a quello del diritto ad esprimersi liberamente. Si tratta dei limiti alla libertà di espressione, che specialmente vincolano particolari persone, per le quali, accanto a quello di chi le pubblica, rilevano i diritti di chi riceve la comunicazione delle idee espresse. Importa a questo proposito ricordare che la libertà di espressione assicurata dalla Convenzione europea dei diritti umani, che la Costituzione richiama, “vale non soltanto per le informazioni o le idee che sono accolte con favore o sono considerate inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che urtano, colpiscono, inquietano lo Stato o una qualunque parte della popolazione”. Ma alla libertà di comunicare e ricevere idee e valutazione si aggiungono doveri e responsabilità. Essa perciò non è senza limiti, come accade in generale ai diritti fondamentali quando il loro esercizio deve convivere con diritti ed esigenze legittimi di segno opposto o diverso. E in ogni caso la libertà di espressione non riguarda i discorsi razzisti o che incitano alla violenza o all’odio, fondati sull’intolleranza di genere, xenofoba, antisemita, islamofoba o religiosa. Essi si pongono in diretta contraddizione con i valori fondanti del sistema sociale disegnato dalla Costituzione e dalle Carte internazionali dei diritti che l’Italia ha ratificato. Accade poi che la libertà di espressione si riduca o si atteggi diversamente a seconda della posizione di chi voglia render pubbliche le proprie opinioni; in particolare quando chi si esprime ha obblighi professionali di riserbo, imparzialità, rispetto di chi pensa diversamente, eccetera. Nel caso del libro pubblicato dal generale Vannacci non si tratta di negare alla persona la libertà di esprimere le proprie opinioni, ma di constatare che il farlo è talora incompatibile con il mestiere che svolge e, per guadagnare piena libertà, richiede di abbandonarlo. Nella evoluzione nelle caratteristiche del servizio militare, di può partire da quando Costantino Nigra nel 1861 faceva l’elogio dei Carabinieri “usi a obbedir tacendo”. Ma ora le libertà dei militari sono state riconosciute, dalla Costituzione e da specifiche leggi. Non è solo la libertà di espressione, ma anche ad esempio quella sindacale. Così la libertà di espressione riguarda anche i militari e “l’ordinamento delle Forze armate di informa allo spirito democratico della Repubblica”. Il codice dell’ordinamento militare da un lato riconosce ai militari i diritti che la Costituzione riconosce ai cittadini, ma dall’altro “per garantire l’assolvimento dei compiti propri delle Forze armate sono imposte ai militari limitazioni nell’esercizio di alcuni di tali diritti, nonché l’osservanza di particolari doveri nell’ambito dei principi costituzionali”. I militari sono abilitati ad esercitare il monopolio statale della violenza legittima, insieme alle Forze di polizia. Essenziale è che essi assicurino imparzialità e coerenza di comportamento rispetto alla Costituzione e i valori democratici che le sono propri. Da ciò derivano obblighi di riserbo e modalità di espressione che vanno oltre l’ovvio limite che riguarda gli argomenti di carattere riservato di interesse militare o di servizio per i quali il militare che vuole discuterne deve ottenere l’autorizzazione della sua gerarchia. Si può osservare che gli obblighi e limiti si concretizzano generalmente con riferimento alla specifica posizione del militare. Si può pensare per esempio che essi siano più stringenti per chi opera in una delle Scuole militari che si occupano della formazione del personale. La legittimità di limiti alla libertà di espressione per i pubblici funzionari difficilmente comporta definizioni normativamente descritte, ma richiedono sensibilità specifica legata ad ogni vicenda. Essa si applica ben oltre i limiti che operano sul terreno della responsabilità penale o di quella disciplinare. Essa riguarda anche profili di opportunità, che sono meno stringenti ma non per questo meno importanti per chi esercita poteri pubblici. Tra questi, come sopra accennato, si trovano casi di particolare importanza. Non solo per i militari, che comunque sono legati nella loro azione dalla obbedienza gerarchica, ma anche per professioni in cui alla riconosciuta indipendenza si accompagnano aspettative di imparzialità. È il caso degli insegnanti e dei magistrati, la cui libertà di espressione è tanto più ampia quanto più i loro interventi riguardano lo specifico servizio cui sono addetti. Così ad esempio il Codice etico dei magistrati va oltre l’area degli illeciti disciplinari previsti dalla legge e stabilisce che, ferma la libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazione destinate alla diffusione. È questo il riflesso di doveri che nascono dai diritti e dalle legittime aspettative dei cittadini e invitano i magistrati alla autolimitazione. Perché le loro libertà, come quelle dei militari e degli insegnanti, devono assicurare tutela e rispetto alle legittime aspettative di tutti. Scelte che seminano giustizia: strade di pace, oltre le guerre di Francesco Gesualdi Avvenire, 24 agosto 2023 La cifra che viene in mente, quando pensiamo alla guerra, è 2.200 miliardi, corrispondente a quanto gli Stati del mondo hanno speso nel 2022 per il mantenimento dei propri eserciti. In realtà, quella calcolata dall’Institute for Economics & Peace per lo stesso anno, sale a 17mila miliardi di dollari equivalenti al 12,9% del prodotto lordo mondiale. Una cifra comprendente non solo le spese per gli apparati militari e per l’acquisto di armi, ma anche i danni materiali ed umani provocati dalle guerre nonché i mancati miglioramenti economici e sociali che si sarebbero potuti avere se le risorse fossero state usate per fini pacifici invece che violenti. L’istituto che ha effettuato i calcoli ha la sua sede principale a Sydney e come obiettivo quello di esaminare le tendenze in atto nel mondo e nei singoli Paesi rispetto alla pace e alle scelte di morte. I criteri di valutazione utilizzati sono vari. Alcuni più tradizionali, come il livello di spesa militare, di terrorismo, di conflitti armati, di conflitti e crimini interni. Altri più innovativi, come quello di pace positiva, che si configura con la presenza di una serie di condizioni necessarie a garantire relazioni pacifiche all’interno della società. L’Istituto ne individua otto che non pone in ordine gerarchico, ma circolare, ad indicare che sono tutte necessarie per ottenere come risultato una società pacifica. L’elenco comprende la stabilità governativa, la solidità economica, il riconoscimento dei diritti politici e civili, buone relazioni con gli altri Paesi, libertà di stampa, alti livelli di formazione culturale e scientifica, basso livello di corruzione, equa distribuzione delle risorse. Per ogni condizione, l’istituto ha stabilito un sistema di valutazione, che utilizza per passare al vaglio le singole nazioni. Quindi somma tutti i punteggi ottenuti e determina il grado di pace positiva in cui si trova ogni Paese. Da questo punto di vista, lo Stato che si posiziona al primo posto è la Norvegia, seguita da Finlandia e Danimarca, tenendo conto che le graduatorie dell’Istituto vanno sempre dal migliore al peggiore. In termini di pace positiva, l’Italia si colloca al 28° posto dietro al Portogallo e all’Uruguay. Ma non va molto bene neanche in altri ambiti. Ad esempio, si colloca al 132° posto, addirittura dietro alla Cina, per quanto riguarda la politica degli armamenti. Un aspetto che tiene conto della spesa militare, dell’incidenza di personale armato sul totale della popolazione, dell’import-export di armi, dei contributi versati alle missioni di pace delle Nazioni Unite, della presenza di armi nucleari e pesanti. Facendo una media di tutti gli ambiti esaminati, il Paese con la più alta propensione alla pace è l’Islanda seguita da Danimarca e Irlanda, mentre l’Italia si colloca al 34° posto. L’Institute for Economics & Peace pubblica annualmente i risultati delle sue ricerche in un rapporto intitolato Global Peace Index. L’ultimo uscito segnala che nel 2022 lo stato di pace è migliorato in 84 Paesi e peggiorato in 79. Ciò nonostante, il bilancio complessivo è peggiorativo e ciò avviene per il nono anno consecutivo. Diversi conflitti hanno contribuito al risultato. Non solo la guerra in Ucraina, che secondo l’Istituto ha prodotto lo scorso anno 82mila morti, dato sottostimato, ma anche quella in Tigray, nel Nord dell’Etiopia, con 100mila vittime. Nel 2022 i morti dovuti ai conflitti sono cresciuti del 154% in Mali e dell’87% in Myanmar, con un aumento esponenziale delle vittime civili in ambedue i casi. Al contrario, le morti violente si sono ridotte del 91% in Afghanistan e del 63% in Yemen. Nelle sue considerazioni finali, il rapporto sottolinea come violenza e pace siano due fenomeni estremamente contagiosi. I fatti dicono che le scelte di pace o di guerra operate in una nazione influenzano gli orientamenti dei Paesi vicini. Come esempio di influenza negativa il rapporto cita l’Europa dell’Est. L’invasione della Crimea da parte della Russia nel 2014 provocò un aumento delle spese militari in tutti i Paesi dell’area. Non solo in Ucraina, ma anche Bielorussia, Lituania, Latvia ed Estonia. Al contrario l’Africa occidentale rappresenta un esempio virtuoso. La fine dei conflitti in Liberia, Sierra Leone, Costa d’Avorio, ha indotto tutti i paesi della costa occidentale a virare verso una riduzione delle spese militari e di personale armato, liberando risorse per le spese sociali. Il risultato è stato anche la scomparsa del terrorismo jihadista che nei paesi costieri ha prodotto zero morti nel 2022, mentre nei Paesi del Sahel, come Burkina Faso e Mali, ha prodotto rispettivamente 1.135 e 994 morti. La realtà, insomma, ci insegna che se si prepara la guerra si ottiene la guerra e che l’unico modo per ottenere la pace è fare scelte che seminano rispetto, fiducia e giustizia. Migranti. Stretta sui minori da parte del Viminale. Ora saranno gli esami medici a stabilire l’età di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 24 agosto 2023 Addio all’auto-dichiarazione. Allo studio anche metodi per snellire le pratiche di espulsione degli adulti. Una bozza ancora non c’è. Ma le misure che il Viminale intende prendere sui minori non accompagnati dai genitori che sbarcano, o arrivano in altri modi, nel nostro Paese già si delineano. Eccole. A partire da quella che avrà più impatto: eliminare la “presunzione di minore età” degli adolescenti che vengono identificati all’arrivo in Italia. Attualmente viene data per buona la dichiarazione con la quale i ragazzi, che arrivano da Paesi dove a volte non esiste neanche un’anagrafe, si auto-attribuiscono un’età. La gran parte degli adolescenti dichiara di avere 17 anni e così può rientrare nei percorsi dedicati ai minori che prevedono maggiori tutele e opportunità di avere il permesso di soggiorno. Nella stretta annunciata dal sottosegretario leghista Nicola Molteni potrebbe invertirsi l’onere della prova. Ai ragazzi spetterebbe dimostrare di non essere maggiorenni qualora non rientrassero negli indicatori previsti. Principalmente a presumere l’età del ragazzo sbarcato è la misura e l’analisi radiografica del polso. Un metodo utilizzato anche oggi in Italia nei contestati. Al termine della misura si dà un verdetto sull’età presunta. Nel caso fosse più di 18 anni, spetterebbe al migrante dimostrare di non essere maggiorenne. Ma non c’è solo questo allo studio. Si verifica in queste ore la possibilità di “snellire e accelerare” le espulsioni dei migranti adulti. Come? Secondo indiscrezioni, saltando il passaggio giudiziario, cioè senza farli prima comparire di fronte a un giudice che ascolti le loro ragioni, e dando corso invece a un procedimento amministrativo, in analogia con quanto accade per soggetti ritenuti socialmente pericolosi. Del pacchetto potrebbe far parte anche l’espulsione di chi è sottoposto a un procedimento giudiziario che, in Italia, ha diritto a presiedere a tutte le udienze. L’idea è quella di utilizzare la stessa tecnica della quale si è fatto largo uso durante la pandemia: il processo telematico. Lo straniero sotto inchiesta o sotto processo, sarebbe espulso con la garanzia di poter partecipare da remoto alle fasi preliminari o al dibattimento. La Lega spinge affinché si faccia al più presto, anche se il pacchetto potrebbe non essere sul tavolo già nel Consiglio dei ministri di lunedì. Tra le emergenze che il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, intende affrontare c’è quella della carenza di posti disponibili nei centri in cui si identificano i migranti all’arrivo. È lì che si decide chi entra e chi no. Chi resta e chi deve essere espulso. Sono pochi e non reggono l’ondata di arrivi. Per il sottosegretario Molteni i Centri di permanenza per i rimpatri andrebbero raddoppiati. “La sinistra invece li vorrebbe chiudere - ha detto alla Verità -- Ricordo che sono stati creati nel 2017 dall’allora ministro Minniti. Oggi ne abbiamo circa 9 ma vanno implementati”. Nessuna modifica prevista invece sugli stanziamenti, tema sui quali si scontrano in questi giorni, governo e opposizione. Il contributo per i minori non accompagnati resta fermo a fino a 100 euro pro capite. Il Viminale smentisce che con il decreto Cutro sia stato diminuito fino a un massimo di 60. Migranti. Duello Schlein-Meloni di Carlo Bertini La Stampa, 24 agosto 2023 La leader Pd attacca: “Governo disumano ferma le navi e crea il reato di solidarietà”. La replica: “Facciamo applicare le leggi”. “È un governo disumano che crea il reato di solidarietà”, sbotta Elly Schlein appena esce la notizia della nave Ong fermata per venti giorni per aver violato la legge Cutro sui salvataggi multipli. “Il governo prima chiede aiuto a Open Arms e poi la multa”, è l’attacco della segretaria dem. Un doppio colpo che va a segno, tanto da provocare una reazione infuriata di Giorgia Meloni. Non solo la premier ribatte colpo su colpo (cosa rara) alla sua diretta concorrente, ma lo fa replicando in prima persona sotto il post uscito sul profilo Facebook di Schlein. “Noi facciamo applicare le leggi, solidarietà è fermare i viaggi della speranza e le morti in mare”, contrattacca Meloni, rivendicando la normativa varata dal suo governo dopo la tragedia di Cutro. Una bordata che letta in filigrana tradisce l’irritazione per essere stata colpita su un tasto dolente, l’esplosione degli arrivi di migranti in terra italiana proprio durante il suo governo. E che nello stesso tempo non fa che accreditare la leader del Pd come unico contraltare preso in considerazione dalla leader di maggioranza. Quindi uno scontro a due denso di risvolti. Che va avanti tutto il giorno in un botta e risposta: “Ho visto che Giorgia Meloni mi ha risposto dicendo che loro fanno applicare le leggi, ma il problema è proprio la legge disumana che hanno fatto il cui unico scopo è rendere più difficile salvare le vite in mare”, la contro-replica di Schlein. Nei palazzi del governo l’irritazione per quella che viene definita “una polemica strumentale” dell’opposizione è forte: se nessuno nega l’emergenza sbarchi, vengono bollate come “falsità” le accuse che il contributo per i minori non accompagnati a favore dei Comuni sia stato abbassato a da 100 a 60 euro pro capite. In realtà questa quota di 100 euro è invariata, è ferma a 60 euro invece per i Cas, i centri di accoglienza straordinaria prefettizi. Insomma i punti di frizione sono molteplici. La richiesta di un tavolo comune per l’emergenza avanzata dai sindaci pare non sarà esaudita, a dispetto dell’appello lanciato ieri anche da Schlein. Che ha dunque buon gioco ad alzare i toni sulla questione, attaccando “il governo disumano che ha scaricato tutto sui sindaci”. Ma sono gli episodi delle navi multate a dare fuoco alle polveri: “Ricevere una multa e un fermo amministrativo per aver salvato più vite umane di quelle “autorizzate” - nota la segretaria dem - è quello che è accaduto a Open Arms per aver soccorso alcune imbarcazioni in difficoltà durante la navigazione verso il porto di sbarco assegnato a Carrara (il più lontano possibile per crudeltà), per un precedente salvataggio. È quello che sta succedendo anche alla nave di Sea-Eye a Salerno, multa e fermo per venti giorni”, alza i toni la leader del Pd. “Reato di solidarietà? - reagisce Meloni - noi facciamo applicare leggi e principi che esistono da sempre in ogni Stato: non è consentito agevolare l’immigrazione illegale e favorire, direttamente o indirettamente, la tratta di esseri umani. Contribuire ad arricchire chi organizza la tratta degli esseri umani non ha nulla a che fare con le parole solidarietà e umanità”. “Allora ci dica - le chiede Elly Schlein -: quelle persone in pericolo andavano forse abbandonate in mare? Il paradosso è che sempre più spesso è la Guardia Costiera italiana a richiedere il loro intervento di supporto: in una missione precedente Open Arms si è trovata a effettuare 7 operazioni di soccorso nella stessa giornata, nell’ultimo mese hanno salvato 734 persone e fornito assistenza ad altre 540 sempre sotto coordinamento della Guardia Costiera italiana”. Come ovvio, al duello delle due leader si associano altri contendenti. Da sinistra, arrivano i colpi di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, il quale invita Meloni a “non fare la guerra alle Ong e ad ascoltare le parole di papa Francesco”. Scende in campo anche Stefano Bonaccini lamentando che manchi un piano condiviso con le REgioni. A dar man forte a Meloni ci pensa Giovanni Donzelli, “questo governo ha evitato che gli sbarchi fossero molti di più ed ha aumentato i rimpatri”. Migranti. Ong, fermate tre navi. Il governo mette a rischio i soccorsi di Giansandro Merli Il Manifesto, 24 agosto 2023 Scontro Schlein-Meloni. La leader Pd: “Governo ha costituito reato di solidarietà”. La premier: “Non è consentito agevolare l’immigrazione illegale e favorire la tratta di esseri umani”. Le organizzazioni umanitarie dovranno decidere se rispondere agli Sos o seguire le indicazioni dell’Italia. Ma la strategia del Viminale non ha effetto sugli sbarchi complessivi, moltiplica solo lo stress della guardia costiera. Non c’è due senza tre: dopo la Aurora Sar e la Open Arms è arrivato il fermo amministrativo della Sea-Eye 4. Tre detenzioni di 20 giorni disposte tra domenica e martedì ai sensi del decreto Piantedosi di gennaio. Nel primo caso, quello dell’imbarcazione veloce di Sea-Watch, le autorità italiane contestano lo sbarco a Lampedusa invece che a Trapani. Cioè il porto assegnato dal Viminale che secondo il comandante dell’Aurora non era raggiungibile per mancanza di benzina e acqua. A bordo aveva 72 naufraghi stipati su una barca lunga 14 metri e larga 5 (non esattamente una nave). In tre sono svenuti per il caldo. Rifiutando lo sbarco a Trapani Sea-Watch avrebbe dovuto rivolgersi, secondo le autorità italiane, a Tunisi. Il porto più vicino, che però non è considerato sicuro. Alla Open Arms e alla Sea-Eye 4, invece, sono contestati i “salvataggi multipli” realizzati senza l’autorizzazione del centro di coordinamento del soccorso marittimo italiano (Imrcc). Per entrambe è andata così: sono intervenute su un barcone partito dalla Libia; l’Italia ha assegnato un porto lontano (rispettivamente: Marina di Carrara e Salerno); risalendo verso nord hanno ricevuto altre richieste di aiuto a cui hanno risposto. Due a testa. Le Ong sostengono di aver chiesto all’Imrcc quali assetti si stessero dirigendo verso i barconi in pericolo. Non avendo avuto comunicazioni sono intervenute, nonostante l’Imrcc insistesse perché andassero “tramite rotte dirette e alla massima velocità sostenibile” nei porti indicati. Sui fermi delle Ong si è scatenata la polemica con il botta e risposta su Facebook tra la leader del Pd Elly Schlein e la premier Giorgia Meloni. “Ricevere una multa e un fermo amministrativo per aver salvato più vite umane di quelle “autorizzate”: il decreto del governo Meloni costituisce il reato di solidarietà”, scrive Schlein. Per un errore, peraltro diffuso tra media e politici, fa riferimento al dl Cutro (20/2023) mentre le detenzioni dipendono dal dl Piantedosi di gennaio (1/2023, tramutato in legge 15/2023). Schlein comunque sottolinea un paradosso concreto: “Sempre più spesso è la Guardia Costiera italiana a richiedere il loro [delle Ong, nda] intervento di supporto”. Effettivamente è successo in diverse occasioni. La Open Arms è stata coordinata fino a sette volte in 24 ore, il 6 luglio. La Ocean Viking addirittura 14 in data 11 agosto. Da qualche giorno, però, non si verificano casi analoghi. Non è da escludere che le autorità italiane abbiano evitato di chiedere aiuto alle Ong per ragioni politiche, dopo che giornali e opposizione avevano sottolineato il paradosso. Sotto il post della segretaria Pd ha risposto direttamente Meloni: “Reato di solidarietà? Facciamo applicare leggi e principi che esistono da sempre in ogni Stato: non è consentito agevolare l’immigrazione illegale e favorire, direttamente o indirettamente, la tratta di esseri umani. Solidarietà è fermare i viaggi della speranza e le morti in mare”. Parole pesanti che da un lato ripropongono il teorema, mai dimostrato, delle Ong amiche dei trafficanti, dall’altro fanno finta di dimenticare che con il nuovo governo gli sbarchi sono più che raddoppiati e nel 2023 le vittime della rotta mediterranea centrale sono almeno 2mila (dati Oim). Fino a ieri i migranti arrivati via mare in Italia erano 105.909, contro i 51.328 dello stesso periodo 2022. Secondo i dati ufficiali, a cui il manifesto ha avuto accesso, quelli soccorsi dalle Ong sono 8.406, l’8% del totale. Tra due e sei punti in meno rispetto alle medie degli ultimi anni. In ordine, le organizzazioni umanitarie che hanno salvato più persone sono Medici senza frontiere (2.813), Sos Mediterranée (1.273), Open Arms (988), Emergency (788), Sos Humanity (696). Ai numeri delle ultime due andranno aggiunti i 40 naufraghi sbarcati ieri a Ortona dalla Ong fondata da Gino Strada e i 57 soccorsi sempre ieri dalla Humanity 1, cui è stato assegnato il porto di Livorno. Dall’inizio dell’anno i migranti soccorsi da guardia costiera e guardia di finanza sono stati oltre 70mila. La prassi di assegnare porti lontanissimi - inaugurata dal Viminale a dicembre 2022, ancora prima del decreto Piantedosi - è stata efficace nel limitare l’operatività delle Ong ma non ha inciso sul numero complessivo degli sbarchi, in aumento non solo dalla Tunisia ma anche dalla Libia. Tanto che ormai il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini (Lega) nemmeno esulta più sui social a ogni fermo delle navi. In pratica la strategia governativa ha semplicemente moltiplicato lo stress delle motovedette italiane di stanza a Lampedusa. Le detenzioni di questi giorni, invece, rischiano di mettere le Ong di fronte a un brutto dilemma: evitare i soccorsi multipli per tornare subito in mare oppure intervenire per salvare i migranti il più rapidamente possibile a costo del fermo. Il naufragio di Cutro ha già mostrato cosa può succedere quando si ritardano i soccorsi. Vale anche in alto mare, dove le persone affogano allo stesso modo. Nonostante i cadaveri non finiscano sulle spiagge e il governo possa far finta di nulla.