Maggioranza già in trincea sulla separazione delle carriere di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 23 agosto 2023 Sono gli azzurri a spingere di più la riforma, vista come l’occasione per ritrovare centralità. Politica e giustizia incrociano ancora una volta i loro destini. Al termine della pausa estiva si potrebbe assistere a una accelerata sul tema della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, con una singolare competizione interna alla maggioranza. Forza Italia vuole giocare una partita da protagonista e uscire dall’angolo di “alleato minore” in cui è stata relegata. L’assist è stato fornito dall’iniziativa degli oltre 300 magistrati (penalisti, civilisti, giudici e pubblici ministeri) ora in pensione firmatari di una lettera in cui si “diffida” il ministro della Giustizia Carlo Nordio affinché non alteri la Costituzione con l’attuazione del “divorzio” tra giudici e pm, il cui iter riformatore è stato già calendarizzato. Tra i sottoscrittori del documento, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo, Armando Spataro e Marcello Maddalena. La levata di scudi delle toghe in congedo sembra però aver già innescato una sorta di un effetto galvanizzante per la maggioranza. Lo vedremo comunque alla riapertura delle Camere. Forza Italia potrebbe considerare alla portata la riforma sulle carriere separate. Ma anche i maggiori azionisti del governo, Fratelli d’Italia e Lega, sarebbero tentati di andare in trincea, accelerando il percorso in Parlamento a dispetto delle iniziali previsioni di Palazzo Chigi. Da Forza Italia sono partiti in questi giorni messaggi molto chiari e non con un solo destinatario. Le parole dei parlamentari azzurri sono state indirizzate tanto alla magistratura a riposo, promotrice dell’appello a Nordio, quanto agli alleati. Tommaso Calderone, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia a Montecitorio, considera l’iniziativa delle 300 toghe un tentativo “per frenare la proposta di legge” a sua prima firma sulla separazione delle carriere. “Le firme - aggiunge - si raccolgono nei condomini, per fare togliere le biciclette dagli androni, non per fermare le primarie prerogative dei parlamentari. Per quanto mi riguarda il documento dei magistrati in pensione è tamquam non esset. Andremo avanti più spediti di prima. La separazione delle carriere è un punto fondamentale del programma di Forza Italia, una riforma fondamentale per avere, finalmente, una giustizia efficiente, giusta e trasparente. In quanto parlamentare devo rendere conto a decine di milioni di italiani che vogliono questa riforma e che sono certamente molti di più di 300 unità”. Molto critico anche un altro esponente azzurro di peso, Maurizio Gasparri, che parla addirittura di “aggressione alla sovranità del Parlamento”. “Il dibattito politico istituzionale italiano - dice - resta sempre sbilanciato. Per qualche giorno avremo ancora pagine intere sul libro del generale Vannacci, testo che non passerà certamente alla storia come “I promessi sposi” o “Il Gattopardo”, mentre è passato quasi sotto silenzio un testo, quello sì pericoloso, un atto di grave intimidazione nei confronti del Parlamento, sottoscritto da alcune centinaia di magistrati in pensione, che punta, come al solito, ad impedire al Parlamento di esprimersi sulla riforma della giustizia. In particolare questi ex magistrati ordinano di non procedere alla annunciata riforma della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri”. Gasparri è netto e annuncia battaglia: “Questa ulteriore aggressione alla sovranità del Parlamento sarà respinta. Questa riforma “s’ha da fare”. E non saranno i fogli d’ordine dei “padroni della verità” a bloccare il libero Parlamento italiano. Noi rispettiamo la legalità repubblicana e la sovranità delle istituzioni democratiche. Questo manifesto- appello rappresenta un atto grave, ben più inquietante di un ufficiale in cerca di improbabile gloria. Eppure se ne parla troppo poco. Noi ne parleremo. Anche in Senato”. Sul tema si registra per Fratelli d’Italia un passaggio sfumato della ministra del Turismo, Daniela Santanché: “Le riforme promesse, come quella in senso presidenziale, quella dell’autonomia differenziata o la separazione delle carriere per i magistrati, si faranno, a differenza degli ultimi quarant’anni, perché adesso c’è una donna come premier”. Il ministro leghista delle Infrastrutture e vicepremier, Matteo Salvini, parlando della vicenda del generale Vannacci, ha aggiunto che “sulla riforma della giustizia si procede spediti e checché ne dica qualche benpensante sulla colonna di qualche giornalone la separazione delle carriere tra chi indaga e chi giudica è assolutamente sacrosanta e propria di un paese libero”. Nell’appello inviato al ministro della Giustizia i magistrati in pensione sostengono che l’annunciata riforma sulla separazione delle carriere “stravolgerebbe l’attuale architettura costituzionale che prevede non solo l’appartenenza di giudici e pm ad un unico ordine giudiziario, indipendente da ogni altro potere, ma anche un unico Csm”. Inoltre aggiungono che “i giudici guardano alla rispondenza agli atti e alla logica degli argomenti delle parti, e non certo alla posizione di chi li propone: se fosse fondato questo sospetto, anche il giudice dell’impugnazione non dovrebbe far parte della stessa carriera del giudice del precedente grado di giudizio”. Intanto la ripresa dei lavori parlamentari è vicina. Il 6 settembre nella commissione Affari costituzionali della Camera, presieduta dall’azzurro Nazario Pagano, saranno esaminate le proposte di legge sulla separazione delle carriere (a firma di Enrico Costa, Roberto Giachetti e Jacopo Morrone). Nello stesso giorno è prevista l’audizione del presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco, del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia e del coordinatore dell’Ocf Mario Scialla. Forza Italia, desiderosa di guadagnare maggiore agibilità politica, potrebbe fungere da traino. La “provocazione” della magistratura, con l’appello a Nordio, rischia dunque davvero di rafforzare la centralità della separazione delle carriere nell’agenda politica. Prevedere quando la riforma andrà in porto non è possibile. Di sicuro nel governo e nella maggioranza si dovrà giocare a carte scoperte. Più galera contro i femminicidi: la ricetta di Delmastro è un’illusione di Alberto Cisterna L’Unità, 23 agosto 2023 L’idea secondo la quale la pena funzioni come deterrente è fallita in questo campo come in tutti gli altri. E allora? Io dico: sanità e psichiatria. In un paese che non conosce l’amaro calice dei bilanci e non riesce a puntare lo sguardo verso il passato per evitare nel futuro i medesimi errori, è difficile dire se la legge sul cosiddetto “Codice rosso” abbia o meno sortito qualche effetto positivo. In un’ottima intervista, un magistrato prestigioso, come Paola Di Nicola Travaglini, ha preso atto del drammatico fallimento di quella legge quanto meno in relazione ai casi più recenti di donne uccise malgrado avessero denunciato i loro persecutori, molestatori, picchiatori. È chiaro che lì qualcosa non ha funzionato ed è evidente che ministero della Giustizia e Csm avranno modo di accendere un faro per verificare se quei femminicidi siano episodi purtroppo sfuggiti a ogni accorta diligenza ovvero se qualcuno ha mancato nella catena di comunicazione e di attuazione del protocollo previsto dal Codice. Ma può anche darsi che tutta l’impostazione della legge sia sbagliata e che le recenti proposte del Parlamento per una sua ulteriore modifica non riusciranno a evitare un ulteriore, clamoroso fallimento. La consigliera Di Nicola ritiene che la legge abbia comunque offerto un rimedio a tante situazioni a rischio, prevenendo la commissione di ulteriori, più gravi epiloghi. È una considerazione confortante che, inevitabilmente tenuto conto che si tratta di una contabilità “negativa”, manca di una riprova che possa far comprendere se la rarefazione della violenza non sia altro, in molti casi, che una sua astuta, repressa postergazione. Il meschino rinvio di un’esecuzione visceralmente concepita, perseguita, immaginata come ineluttabile. È vero, come si sostiene nell’intervista, che occorra agire sulla formazione dei magistrati e della polizia giudiziaria anche al fine di evitare che subdole o inconsce pulsioni sessiste prevalgano nella ponderazione, soprattutto iniziale, delle denunce e delle dichiarazioni. Ma sullo sfondo forse, c’è altro e di parecchio più preoccupante. Come per gli incendi, per gli omicidi stradali, per le risse tra giovani (e in molti altri casi), anche per la violenza di genere la concezione classica per cui nel diritto penale, la sanzione sarebbe destinata a esercitare una funzione dissuasiva, generale o special preventiva, appare giunta al capolinea, sino a varcare le soglie della propria bancarotta ideologica. Un fallimento di portata epocale con il quale sia le frustrazioni giustizialiste che le preoccupazioni garantiste si rivelano ancora incapaci di fare i conti in modo appropriato. Non si riescono a tracciare nuove vie, a intercettare nuove soluzioni se non irrigidendo le pene, anticipando la soglia della rilevanza penale, fagocitando la prevenzione nel perimetro di nuovi reati. Strade che il Codice rosso ha in parte già percorso e che il progetto di riforma Buongiorno, non senza coerenza, intende ulteriormente battere nella convinzione che inasprire, tracciare, monitorare possa arginare la strage di donne che, con cadenza impressionante, si consuma negli ultimi anni. Se la prospettiva del carcere, finanche la minaccia dell’ergastolo (grazie a una giurisprudenza che dilata la contestazione della premeditazione) non riesce a porre un freno alle violenze e agli assassini è giunto il momento di interrogarsi in modo profondo, non retorico, né demagogico o emozionale, secondo quali assi cartesiani si debbano descrivere le relazioni interpersonali di genere nella società italiana del terzo millennio. In una recente sentenza di assoluzione dall’accusa di stupro di gruppo, i giudici del Tribunale di Firenze hanno additato gli imputati come “condizionati da un’inammissibile concezione pornografica delle relazioni con il genere femminile”, concezione che li ha indotti a ritenere sussistente il consenso della vittima. Di fronte a questa nitida fotografia del flettersi della coscienza sociale verso modelli inadeguati di interazione tra i generi - capaci addirittura di condizionare le aule di giustizia nell’affermazione circa la sussistenza dei reati - è forse giunto il momento di approcciare la questione anche da altri versanti. Messa da parte la sempre auspicabile palingenesi culturale della società - di cui, però, non si rinviene traccia - è probabilmente giunto il tempo di considerare determinate categorie di comportamenti illeciti per quel che essi effettivamente esprimono ovvero gravi devianze psicologiche, se non psichiatriche da curare, correggere, attutire, mitigare. È evidente che è di ostacolo a questa impostazione un retaggio storico importante, pesante come un macigno che guarda con giusto sospetto a qualsivoglia generalizzazione o diffusione dell’approccio terapeutico perché, nel tempo, esso è stato adoperato come strumento di repressione del dissenso, delle minoranze, come forma di crudele eugenetica sociale e politica (la tragedia racconta da Vladimir Bukovskij e Semen Gluzman, “Guida psichiatrica per dissidenti”, 1979). Ma si dovrà pur serenamente discutere se sia lecito - in una società che registra una spesa annua per ansiolitici e ipnotici-sedativi per centinaia di milioni di euro (v. “L’uso dei farmaci in Italia”, Rapporto Aifa 2022, pag. 318 ss.) e che conosce il discontrollo psicologico alla base di tanta violenza - marginalizzare il disagio psichiatrico dei carnefici che uccidono mogli, fidanzate, compagne, talvolta madri e lasciare, come sempre, ai giudici il compito di coniugare la repressione carceraria con un incerto percorso trattamentale e terapeutico. Per poi restare impotenti davanti alle croci e lamentandosi semmai di qualche scarcerazione o mitigazione di pena. Ecco il femminicidio, il corpo delle donne - come accade praticamente sempre nella storia dell’umanità - è di nuovo la pietra d’inciampo di culture retrograde e di impostazioni ideologiche destinate al fallimento. Pena, processo, carcere (anche e soprattutto qui) mostrano la loro irrecuperabile arretratezza che imporrebbe scelte diverse, magari per dire anche una profonda riscrittura e rimodulazione della disciplina del trattamento sanitario obbligatorio (Tso), oggi in gran parte inutile e adoperato in modo talvolta discutibile, che potrebbe costituire, sulla scia della legge Basaglia, l’occasione per garantire al profondo disequilibrio emotivo e psicologico dei carnefici una prospettive di cura e di mitigazione del disagio capace di salvare vite innocenti. Educare o punire: ora la politica studia la stretta sui reati di genere di Davide Varì Il Dubbio, 23 agosto 2023 Dopo lo stupro di Palermo Salvini rilancia la castrazione chimica. Il Pd: “Non è la risposta adeguata”. Pene più severe. Ma anche prevenzione, educazione, formazione. Quando si parla di lotta alla violenza di genere i due termini del dibattito non si escludono, soprattutto in vista di un patto bipartisan che potrebbe accelerare i lavori sulle norme anti-femminicidio contenute nel ddl Nordio-Piantedosi-Roccella. Un pacchetto approvato all’inizio dell’estate in cdm, che prevede tra le altre cose il rafforzamento delle misure cautelari e l’individuazione di “reati spia” su cui agire tempestivamente. Già assegnato alla Commissione Giustizia della Camera, nelle intenzioni della maggioranza il ddl potrebbe ottenere il via libera con un iter più rapido. Ammesso che tutte le forze politiche convergano sul disegno di legge e riconoscano “l’urgenza delle nuove misure”, sottolinea il segretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che punta ad approvare la legge entro Natale. Ad invocare una corsia veloce è anche la ministra della Famiglia, Eugenia Roccella. E il segnale di apertura è arrivato domenica scorsa dalla segretaria del Pd Elly Schlein, che ha dato piena disponibilità “a migliorare ed affinare” la legge. “Ci stiamo a lavorare in fretta, ma ci preoccupa che non abbiano ripreso le nostre indicazioni sulla prevenzione. E senza questa parte temo che arriveremo sempre in ritardo”, sottolinea Schlein. Per la quale le norme penali non bastano, “serve un grande cambiamento culturale e vanno messe risorse in legge di bilancio per la formazione, anche a partire dalle scuole”. Una prima risposta sul punto è arrivata dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, che ha annunciato l’intenzione di avviare negli istituti scolastici campagne simili a quelle contro il bullismo o per la sicurezza stradale. Prima con un’iniziativa che si terrà il 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, e poi con un ciclo di incontri volti a “diffondere tra i giovani la cultura del rispetto” attraverso la testimonianza diretta delle vittime. Di “educazione all’affettività” nelle scuole parla anche la senatrice Cecilia D’Elia, vicepresidente della commissione bicamerale d’inchiesta sui femminicidi e prima firmataria di un disegno di legge sul tema. Mentre il deputato di Fratelli d’Italia Riccardo Zucconi fa sapere che il governo “sta lavorando a misure e pene più severe affinché si riesca, una volta per tutte, ad arginare questo schifoso fenomeno”. A dettare l’agenda, ancora una volta, è la cronaca. E in particolare l’arresto di sette ragazzi per violenza sessuale di gruppo ai danni di una 19enne a Palermo. Una notizia che ha scioccato l’opinione pubblica, e in seguito alla quale Matteo Salvini rilancia il ddl sulla castrazione chimica. “Se stupri una donna o un bambino hai evidentemente un problema: la condanna in carcere non basta, meriti di essere curato”, dice il leader della Lega e vicepremier. A cui risponde Laura Boldrini: “Strillare di “galera buttando via la chiave” e di “castrazione chimica” - scrive la deputata dem - può fruttare un po’ di facile consenso politico, ma non risolve assolutamente nulla”. Valente (Pd): “Sì al testo del governo, ma serve agire contro il sessismo” di Shendi Veli Il Manifesto, 23 agosto 2023 Parla la senatrice del Partito Democratico, ex presidente della Commissione d’inchiesta sui femminicidi. Il disegno di legge del governo sul contrasto alla violenza maschile è stato approvato in Consiglio dei ministri a giugno, ora si parla di accelerare i tempi di votazione in Parlamento. Senatrice Valeria Valente, come si comporterà il Pd? Il provvedimento è buono, sicuramente migliorabile ma noi siamo pronti a collaborare. Sopratutto perché il 70% del testo di quel ddl trae spunto dalle relazioni conclusive della Commissione d’inchiesta sui femminicidi e da un precedente provvedimento varato dal governo Draghi. La maggioranza attuale ha calcato un po’ la mano su alcune misure che personalmente mi convincono poco, ma l’impostazione generale è la stessa. Mi sembra, da parte di questo governo, un gesto, non dico di umiltà, ma quantomeno di riconoscimento del lavoro svolto in precedenza su questi temi. Poi ci si specula sopra, si fanno dichiarazioni roboanti ma la sostanza della legge è condivisibile e saremmo incoerenti a non votarla. Se ci sarà spazio per gli emendamenti cercheremo di rafforzare gli aspetti della prevenzione. Anche se rimane una legge focalizzata sul penale, inserire troppe variabili espone al rischio di non avere più i numeri per farlo passare. Cosa pensa delle leggi più recenti, il Codice rosso del 2019 e il rafforzamento approvato lo scorso maggio per iniziativa della senatrice leghista Giulia Bongiorno? Noi come partito Democratico ci siamo astenuti su entrambe le iniziative. Il Codice Rosso ha delle buone intuizioni, come quella di voler accelerare i procedimenti per violenza domestica e quella di investire nella specializzazione del personale giuridico e delle forze dell’ordine. Entrambe le intuizioni però non vengono perseguite in maniera efficace dalla norma. Il testo del governo riuscirà a colmare queste lacune? Una norma, da sola, non può risolvere i problemi. Sicuramente sull’aspetto penale e punitivo si faranno dei passi in avanti. Ma le leggi vengono applicate dalle persone ed è sulla formazione delle persone, così come sulla battaglia culturale contro stereotipi e pregiudizi, che c’è ancora tanto da fare. Le dichiarazioni che ho sentito in questi giorni mi trovano in profondo disaccordo. Valditara ha proposto di parlare di violenza di genere nelle scuole il 25 novembre (Giornata internazionale contro la violenza maschile, ndr) ma è evidente che un giorno all’anno non sposta nulla. Salvini ripropone il leit motiv della castrazione chimica come se gli autori delle violenze fossero uomini malati, quando sono invece espressione di una cultura sessista. Cosa impedisce all’Italia di avere una legge che istituisca l’educazione sessuale nelle scuole? Nemmeno il Pd è riuscito a farla quando è stato al governo. Nel 2017 quando eravamo al governo abbiamo emanato delle linee guida, firmate dall’allora ministra dell’istruzione Fedeli. Il problema è che l’autonomia scolastica rende difficile monitorare la ricezione effettiva di queste indicazioni. Con la Commissione d’inchiesta femminicidi abbiamo avviato un’indagine su come scuole e università si siano adeguate alle direttive, ne emerge che troppo spesso è tutto lasciato alla sensibilità del singolo dirigente d’istituto o insegnante. Bisogna approfondire questa indagine e trovare gli strumenti per rendere più cogenti queste disposizioni. Si esita anche perché il tema dell’educazione sessuale può essere divisivo per l’opinione pubblica? A volte si evoca lo spauracchio della teoria gender, ma non si tratta di questo. Nemmeno io sono d’accordo a insegnare il gender negli asili, qui si tratta di fornire un’educazione alla differenza tra i sessi e al rispetto. Alla gestione della rabbia e dei sentimenti. Su questo non credo ci sarebbero divisioni ma la politica deve assumerlo come priorità. “Reati di genere, a noi toghe serve una formazione ad hoc” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 23 agosto 2023 Mi, la corrente moderata dell’Anm ammette di fatto che l’ordine giudiziario non è ancora del tutto pronto a contrastare il fenomeno. “Sì anche a un monitoraggio”. I reati in materia di violenza di genere e domestica tornano ad essere un tema di discussione al Consiglio superiore della magistratura. È stata infatti richiesta questa settimana da parte dei togati di Magistratura indipendente l’apertura di una pratica dedicata ai gruppi di lavoro che presso le Procure si occupano di tali reati, con lo scopo di modificare le circolari vigenti al riguardo. I togati di Mi, Paola D’Ovidio, Maria Luisa Mazzola, Maria Vittoria Marchianò, Bernadette Nicotra, Edoardo Cilenti, Eligio Paolini e Dario Scaletta, hanno poi chiesto al Comitato di presidenza del Csm anche la possibilità di creare una Commissione permanente per effettuare il monitoraggio delle problematiche derivanti proprio dai reati contro le vittime vulnerabili. Le cronache dell’ultimo periodo, con efferati fatti di sangue pur in presenza di pregresse denunce da parte delle vittime, descrivono un agire in “ordine sparso” dove molto è lasciato alla sensibilità degli inquirenti. La violenza di genere e domestica, “un’emergenza sociale tragica ed inquietante”, come disse anni fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, continua purtroppo ad essere contrastata in maniera non soddisfacente. È ormai chiaro che da un lato serve elaborare profili organizzativi degli Uffici per assicurare specializzazione, tempestività e coordinamento con le forze dell’ordine e la Rete sociale e territoriale, ma dall’altro è urgente garantire una formazione specifica per chi si occupa di questi reati. Formazione che non è solo specializzazione, dovendo puntare ad una cultura condivisa nella tutela delle vittime. Per i magistrati, come ricordato da più parti, la formazione non può essere soltanto normativa o giurisprudenziale ma “empatica”, finalizzata dunque ad una migliore comprensione delle problematiche sollevate dalle persone offese che non vanno mai lasciate sole o abbandonate, come spesso capita, dopo la denuncia. Un concetto ribadito in una recente intervista dal procuratore di Tivoli Francesco Menditto, che ha proposto di rendere la formazione “obbligatoria” per pg, pm e giudici. “Si porta spesso a sottovalutate le denunce delle donne ritenendo siano il frutto di una litigiosità di coppia”, ha scritto ieri Fabrizio Cicchitto sulle colonne di Libero, suggerendo la creazione presso polizia e carabinieri di nuclei composti solo da personale femminile, “il più sensibile, anche emotivamente, a mobilitarsi a difesa delle donne che denunciano una situazione di pericolo”, per il contrasto a tali reati. Sul fronte magistrati, dal 2010, il Csm ha affrontato il tema incentivandone la specializzazione sia in campo civile che penale. E nel 2014 ha condotto per la prima volta un monitoraggio degli Uffici in tale ambito. A distanza di dieci anni, come detto, continuano ad esserci situazioni fortemente disomogenee sul territorio nazionale in materia di violenza familiare. Se presso i Tribunali più grandi, quelli che hanno più sezioni civili/penali, sono previsti modelli di specializzazione che accorpano le materie in base ad aree omogenee, per esempio i delitti a danno dei soggetti deboli con quelli di femminicidio, il discorso è diverso nelle piccole realtà dove ciò non è numericamente possibile. Dal punto di vista normativo, invece, le ultime modifiche hanno rafforzato le tutele processuali delle vittime di reati violenti con l’introduzione del Codice rosso ai fini dell’instaurazione del procedimento penale, accelerando così l’adozione di provvedimenti a tutela delle vittime. Sono stati fatti interventi anche sugli obblighi di comunicazione alla persona offesa circa gli sviluppi del procedimento penale, soprattutto con riferimento alla messa in libertà dell’autore della violenza, e si è ampliato l’utilizzo del braccialetto elettronico. Per quanto concerne l’ordinamento penitenziario, dopo la condanna per tali fattispecie, l’accesso ai benefici penitenziari è poi subordinato ad un periodo di osservazione della personalità. Bisogna però ricordare che grandi passi in avanti sono stati fatti negli ultimi anni. Nel 2017 fece scalpore una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza CEDU Talpis 2 marzo 2017) che aveva condannato l’Italia a risarcire una signora moldava per violenze domestiche. Una sentenza che aveva suscitato grande indignazione, mettendo in luce i ritardi legislativi del nostro Paese sulle violenze domestiche e le violenze di genere. “I pm sono degli influencer. Serve un doppio Csm”, dice Mirenda (Csm) di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 agosto 2023 Intervista al membro togato del Consiglio superiore della magistratura: “Sono favorevole alla separazione delle carriere tra pm e giudici. L’appello dei 300 magistrati in pensione ha il sapore dell’interferenza sul Parlamento”. “I magistrati in pensione firmatari dell’appello contro la separazione delle carriere esercitano un loro diritto legittimo, tuttavia l’intervento ha tanto il sapore di interferenza nel bel mezzo dell’attività parlamentare, da parte di chi ancora si sente ‘superstar’. Da magistrato non lo ritengo un gesto elegante, ma ognuno fa ciò che ritiene”. Così, intervistato dal Foglio, Andrea Mirenda, membro togato del Consiglio superiore della magistratura, commenta la notizia della lettera sottoscritta da circa trecento magistrati in pensione, destinata al ministro Carlo Nordio, contraria all’annunciata riforma della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Già ieri, su questo giornale, il sostituto procuratore di Napoli, Paolo Itri, ha criticato l’iniziativa degli ex colleghi (da Piercamillo Davigo a Francesco Greco, Marcello Maddalena e Armando Spataro), autori di una “battaglia di carattere ideologico”. Itri si è anche detto assolutamente favorevole alla proposta di separazione delle carriere, a dispetto degli scenari apocalittici delineati nell’appello. “Saranno 15 o 20 anni che dico di essere favorevole alla separazione delle carriere”, afferma anche Mirenda. “Sono favorevole perché, come evidenziato dagli stessi firmatari, attualmente solo l’1 per cento dei pubblici ministeri nei primi dieci anni di attività va a svolgere la funzione giudicante e viceversa. La separazione delle carriere non farebbe quindi altro che codificare quanto già avviene nei fatti, restituendo coerenza all’intera architettura istituzionale. Altro che ‘stravolgimento’!”. “Sono dell’idea che ci voglia un doppio Csm - aggiunge Mirenda - perché i pm sono degli influencer straordinari della vita associativa. Hanno più tempo dei giudici e hanno più tempo per fare sindacato. Non è un caso che i capi corrente siano stati tradizionalmente sempre dei pm. Non è che nascano più geniali: semplicemente hanno più tempo”. In un’intervista al Fatto quotidiano, l’ex procuratore di Torino Marcello Maddalena, tra i firmatari dell’appello, ha sostenuto che la separazione delle carriere “stravolgerebbe l’attuale architettura costituzionale”, usando queste parole: “Quello che accomuna le due funzioni di pm e giudice, e le rende, entrambe, incompatibili con quella della difesa, è il ‘principio di verità’. Il pubblico ministero ha come scopo la scoperta della verità e il giudice deve accertare la verità. La difesa delle parti private non è tenuta a ricercare e sostenere la verità. Ne discende che, se si esce da questa architettura costituzionale, e si mette il pubblico ministero sullo stesso piano della difesa delle parti, il pubblico ministero diventa una sorta di ‘difensorè o ‘avvocato’ dell’accusa, come pretendeva Silvio Berlusconi”. “Trovo queste argomentazioni di una povertà giuridica desolante - replica Mirenda - A parte che quella del difensore è una missione nobilissima, perché in uno stato liberale il difensore deve cercare di assicurare l’assoluzione del proprio cliente. Il pubblico ministero certamente è diverso perché non deve per forza condannare ma anche cercare le prove a discarico dell’indagato. C’è però un’eterogeneità nel rapporto tra pm e giudice. Il pm esercita l’azione ed è parte del processo. Il giudice non è mai parte del processo. Come si può dire che facciano parte dello stesso ordine?”. I trecento firmatari ribattono ai sostenitori della separazione delle carriere affermando che anche il giudice d’appello allora dovrebbe appartenere a un altro ordine rispetto al giudice di primo grado. “Uno studente di giurisprudenza che dicesse una sciocchezza di questo genere sarebbe bacchettato - afferma Mirenda - Il giudice di primo grado non è parte del proprio processo. Non è che in appello viene giudicato lui, ma viene giudicata una sua decisione in relazione a parti (pm e difesa) che non hanno nulla a che vedere con lui!”. “Noto, poi, che molti dei firmatari dell’appello - prosegue il consigliere del Csm - sono magistrati che politicamente si sono esposti non poco, schierandosi oppure accettando incarichi extra giudiziari fuori ruolo di assoluto carattere politico. Curioso allora che siano costoro a parlarci del rischio di un pm sottoposto all’esecutivo”. “Insieme alla separazione delle carriere vedrei bene anche una riflessione sull’obbligatorietà dell’azione penale, che andrebbe temperata con indirizzi del Parlamento, che ogni tre, quattro o cinque anni dovrebbe assumere, davanti agli elettori, la responsabilità di raccomandare il maggiore perseguimento di determinati reati rispetto ad altri”, conclude Mirenda. Misure alternative e telefonate, più efficaci e semplici delle caserme dismesse di Arrigo Cavallina L’Arena di Verona, 23 agosto 2023 Preoccupa e addolora l’alto numero di suicidi tra le persone detenute. Recentemente ha avuto rilievo il caso della signora nigeriana che nel carcere di Torino si è lasciata morire di fame e sete. Non a cuor leggero, ma credo sia giusto rispettare la volontà di rifiutare ogni intervento sanitario. Mi indigna invece il silenzio sulle motivazioni, che non si sia cercata la strada di un ascolto dell’eventuale richiesta (vedere il figlio?), che non si sia tentata una mediazione, informando e coinvolgendo anche le figure istituzionali dei garanti dei diritti, tenuti invece all’oscuro. Nella successiva visita il ministro Nordio ha avanzato una proposta che mi pare dimostri tutta l’incomprensione del problema. Per rimediare al sovraffollamento vorrebbe spostare nelle caserme dismesse i detenuti con condanne minori e comprovata non pericolosità. Ora, a parte che dovrebbe dire dove troverà il personale aggiuntivo, che è già drammaticamente carente in tutti i ruoli, va ricordato che per quella tipologia di detenuti la legge prevede il ricorso a misure alternative che non separano ma facilitano il reinserimento sociale, a vantaggio della sicurezza di tutti. Bisognerebbe allora identificare e rimuovere gli ostacoli che ne limitano l’impiego. Inoltre la principale ragione di malessere e di suicidi è la mancanza di comunicazione con i familiari. Un’ora di colloquio per chi può, o solo 10 minuti di telefonata alla settimana lasciano un tempo di solitudine, di mancanza di informazioni, di impossibilità di sfogo delle tensioni, nel quale nascono le decisioni più tragiche. Durante il covid, in sostituzione dei colloqui non più ammessi, erano state moltiplicate le possibilità di telefonare ai familiari. Senza inconvenienti e nemmeno costi per l’Amministrazione. Ma dopo il covid pochissime carceri hanno mantenuto questa disposizione. Le maggiori associazioni di volontariato e le camere penali, con una raccolta di firme, chiedono si torni alla possibilità di telefonate più frequenti come fondamentale contrasto ai suicidi e difesa della vita. Ecco: misure alternative e telefonate. Sarebbero certamente più efficaci e semplici delle caserme dismesse. Cosenza. Gli avvocati denunciano le criticità: qui manca pure l’aria di Antonio Alizzi Il Dubbio, 23 agosto 2023 La relazione del Consiglio Direttivo della Camera Penale di Cosenza è devastante. L’ispezione del 14 agosto scorso dei penalisti cosentini ha messo in luce le gravissime criticità di carattere sanitario all’interno della casa circondariale “Sergio Cosmai” di via Popilia, intitolata all’ex direttore del carcere cosentino ucciso negli anni novanta dalla ‘ ndrangheta locale. La visita, chiesta ottenuta dalla Camera Penale di Cosenza e autorizzata dall’autorità penitenziaria, ha visto la partecipazione del presidente e dei consiglieri, della referente regionale dell’Osservatorio “Carcere” dell’Unione delle Camere penali italiane, della delegata dell’Osservatorio “Carcere” territoriale, del Garante comunale dei detenuti della città di Cosenza e del Garante della regione Calabria. I penalisti cosentini hanno preso atto preliminarmente che i detenuti reclusi al “Cosmai” ad oggi sono 282 nonostante la capienza regolamentare sia stata fissata dal ministro della Giustizia in 218 posti. Un sovraffollamento evidente a cui si aggiunge un altro dato su cui riflettere. Il personale di polizia penitenziaria indicato nella pianta organica ministeriale è di 169 unità, ma in realtà gli operatori in servizio sono 139. Ma la cosa più grave, che è tema d’attualità dopo i suicidi di Torino, è che per l’intera popolazione carceraria sono previsti un solo psichiatra e una psicologa, “che è assente da diversi mesi, mai sostituita, con la concreta impossibilità di procedere sia con la visita psicologica prevista, in ingresso, dal “servizio nuovi giunti”, sia conseguentemente alle prescrizioni di visita specialistica da parte del medico di base carcerario, circostanza di certa gravità in considerazione del fatto che nella struttura di Cosenza sono conclamati (nonostante l’assenza di accertamenti su base psicologica), almeno 30 casi di detenuti con disturbi comportamentali” scrivono i penalisti cosentini nella relazione. Inoltre, le cartelle cliniche dei detenuti, dagli stessi richieste per la tutela dei propri diritti, “sono rilasciate dall’Area sanitaria in tempi non ragionevoli”, mentre “i 52 detenuti stranieri sono privati, ancora oggi, della figura del “mediatore culturale”, circostanza che impedisce loro ogni effettiva comunicazione con il personale intramurario, soprattutto con quello sanitario”. Gli avvocati iscritti alla Camera Penale di Cosenza hanno evidenziato anche un’altra criticità, ovvero che “il diritto, da parte dei genitori detenuti, al riconoscimento dei propri figli è, di fatto, precluso poiché la Magistratura di sorveglianza, per i detenuti definitivi, non ne autorizza la presenza/ traduzione presso i competenti Uffici, né l’Amministrazione comunale di Cosenza acconsente alla dislocazione degli adempimenti burocratici nella Struttura carceraria”. Altro problema rilevato dai penalisti cosentini riguarda le sezioni di “media sicurezza e “alta sicurezza”, dove è stata constatata “la materiale occlusione delle finestre delle celle mediante l’installazione di pannelli opachi di plexiglass, veri e propri muri che - costituendo un “carcere nel carcere”- impediscono anche il minimo sguardo verso il mondo esterno e non consentono l’adeguato ricambio d’aria, con logiche ricadute in termini di igiene e salubrità degli stessi locali, in cui sono ubicati angolo cottura e bagno”. La visita, tuttavia, oltre ad avere uno scopo ispettivo ha permesso ai legali che ogni giorno lottano per difendere i diritti dei detenuti, la sofferenza di chi è recluso dietro le sbarre. E nel documento approvato dal Consiglio Direttivo della Camera Penale di Cosenza si evince anche la sofferenza di chi vive in carcere. “Qui manca l’aria, stiamo male fisicamente e mentalmente, è uno stato di malessere inspiegabile, nonostante gli sforzi della penitenziaria, è come vedere tutto il giorno appannato, chiudete gli occhi e provate a immaginare come abbiamo vissuto nei giorni scorsi, con il grande caldo, senza aria, pensavamo soltanto a sopravvivere giorno dopo giorno, alcuni di noi sono andati in infermeria perché si sono sentiti male, questi pannelli” riferendosi a quelli di plexiglass “sono un inferno che toglie fuori la parte peggiore di noi”. I penalisti cosentini dunque chiedono al Garante comunale e a quello regionale “l’esercizio delle proprie prerogative istituzionali al fine di far ripristinare nella Casa circondariale di Cosenza i più elementari diritti costituzionali”. Catanzaro. Detenuto disabile rifiuta i pasti e i farmaci da 100 giorni di Gaetano Mazzuca Gazzetta del Sud, 23 agosto 2023 Sciopero della fame e dei farmaci perché non può usufruire dell’ora d’aria. Da 100 giorni in sciopero della fame e da settanta ha sospeso anche la somministrazione di farmaci. È la clamorosa protesta messa in atto da un detenuto del carcere Ugo Caridi di Catanzaro. Tutta colpa di un ascensore che impedisce al quarantenne di poter usufruire dell’ora d’aria. L’uomo infatti a causa di una malattia degenerativa è ormai costretto a muoversi con la sedia a rotelle. Senza l’ascensore quindi non riesce a fare le scale che separano la sua cella dal cortile del penitenziario. In pratica è come se il detenuto, che sta scontando un cumulo pena nella sezione ordinaria del carcere, da ormai tre mesi sia stato trasferito al carcere duro, al 41bis senza possibilità di poter usufruire dell’ora d’aria insieme agli altri. Naturalmente il caso è all’attenzione dei vertici del carcere. Purtroppo però la vicenda non sembra essere di facile soluzione. L’ascensore, secondo quanto si è appreso, è stato più volte riparato ma continua a subire guasti periodicamente. Insomma servirebbe un intervento strutturale ma occorrerebbero fondi che l’amministrazione del penitenziario sta cercando di recuperare. I tempi naturalmente non sarebbero brevi. Per sopperire alla carenza, il personale della penitenziaria si è anche offerto di portare in braccio il detenuto dalla sua cella al cortile. Ma il detenuto ha rifiutato questa opzione. Per ben due volte in queste settimane gli ha fatto visita anche il garante dei detenuti per cercare una possibile soluzione alla vicenda, ma ancora si resta in attesa di uno sbocco. Nel frattempo il detenuto continua a rifiutare il cibo e le medicine. Per evitare che le sue condizioni fisiche si aggravino ulteriormente i sanitari in servizio nella casa circondariale lo sottopongono a flebo. Ma ci si inizia a chiedere quanto potrà durare questo stato di cose. L’avvocato difensore, Ugo Custo, si è rivolto anche al Tribunale di Sorveglianza che però poco può fare per risolvere questi endemici problemi del sistema carcerario. Un’altra istanza potrebbe essere presentata nei prossimi giorni. Torino. Tutti i detenuti che necessitano di cure ospedaliere nel “repartino” alle Molinette di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 23 agosto 2023 Dopo settimane di ripetuti appelli lanciati dai sindacati di polizia penitenziaria tutti i detenuti del carcere di Torino che necessitano di cure ospedaliere sono stati ricoverati nel “repartino” delle Molinette. Nei giorni scorsi l’Osapp, a più riprese, aveva lanciato appelli a tutte le istituzioni dal prefetto Raffaele Ruberto al presidente della Regione Alberto Cirio, passando per i vertici dell’amministrazione penitenziaria: “I detenuti ammalati devono essere ricoverati nel repartino istituito per questo scopo presso l’ospedale le Molinette di Torino - ribadiscono dal sindacato. Addirittura nei giorni scorsi si è toccato il record di otto detenuti piantonati nelle corsie dell’ospedale Maria Vittoria con l’impiego di oltre 60 unità di polizia penitenziaria e un forte rischio per la sicurezza interna ed esterna. Di fatto un problema di ordine pubblico”. Adesso la situazione sembra risolta: “Invitiamo tutte le istituzioni a mantenere fermo questo principio considerato che nei giorni scorsi e ancora oggi, a causa della grave carenza di organico, un solo agente di polizia penitenziaria deve controllare circa 160 detenuti dislocati in quattro sezioni diverse con evidenti gravi rischi per la sicurezza e l’incolumità di tutti - attaccano dall’Osapp -. Per questo motivo ci auguriamo che anche tutti i detenuti sottoposti a Tso vengano ricoverati nello stesso repartino ospedaliero”. Treviso. Troppi detenuti con problemi psichiatrici, è allarme in carcere di Milvana Citter Corriere del Veneto, 23 agosto 2023 Detenuti con disagio psichico, altri con problemi di tossicodipendenza. Nella casa circondariale di Santa Bona a Treviso sarebbero oltre 30 su un totale di 215 detenuti. Troppi per poter essere gestiti in sicurezza dalla polizia penitenziaria. A denunciarlo i sindacati di polizia che chiedono lo stato di emergenza delle carceri e nuove leggi. A riportare l’attenzione su una questione già più volte denunciata, l’ennesima aggressione subita dagli agenti del carcere di Santa Bona domenica notte. Ad aggredirli un 36enne con problemi psichici che, già in passato aveva dato in escandescenza. L’uomo, utilizzando dei giornali come innesco ha dato fuoco alle lenzuola e alle coperte della sua cella, provocando subito un fumo intenso e acre. Sette gli agenti che sono dovuti intervenire per domare le fiamme con gli estintori ma soprattutto per calmare il detenuto che li ha ripetutamente colpiti con la gamba di un tavolo. Quando, dopo ore, sono riusciti a bloccarlo, cinque agenti sono dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso per lievi intossicazioni e per un polso fratturato. A scatenare l’ira dell’uomo, secondo i sindacati, sarebbero i disturbi psichici di cui soffrirebbe. Una condizione molto diffusa. “Il 15% dei detenuti di Santa Bona presenta disturbi psichici o ha problemi di tossicodipendenza - spiega Giampiero Pegoraro segretario regionale Fp polizia -. Per queste persone il carcere non è il luogo adatto e la loro, in queste condizioni, diventa una doppia condanna”. Il 36enne aveva già perso il controllo in passato e, date le sue condizioni, è stato spostato in un reparto con maggiore sorveglianza ma non è bastato. Per questo Pegoraro rilancia. “Da quando gli ospedali giudiziari sono stati chiusi e sostituiti dalle Rems (Residenze per le misure di sicurezza) che sono insufficienti, questi detenuti vengono messi in carcere. Ma il carcere di Santa Bona, che è già sovraffollato (la capienza massima sarebbe di 140 detenuti), non può essere la panacea di tutti i mali. Questo crea problemi di sicurezza non solo interna per la polizia penitenziaria, ma anche per la cittadinanza perché quando li si porta in ospedale, spesso aggrediscono il personale sanitario o gli altri pazienti”. Secondo la Fp Cgil serve una riforma del codice penale che consenta di non mandare in carcere chi compie reati minori. “Dovrebbe essere potenziato il servizio di affidamento in prova - conclude Pegoraro -, per chi compie reati, che non siano contro la persona, e per chi ha i residui di pena. E invece dalla politica arrivano solo proclami di inasprimento delle pene”. Il problema delle carceri è aggravato anche dall’afflusso dei profughi che commettono reati, come spiega Leonardo Angiulli, responsabile per il Triveneto dell’Unione Sindacati di Polizia (Uspp). “Molte di queste persone si portano un vissuto complesso e malattie psichiche patologiche che sono difficili da gestire in carcere. E questo si somma a quello che per noi è stato un grande errore, e cioè abolire la medicina penitenziaria e affidare la cura dei detenuti al servizio sanitario nazionale. Questo provoca grandi difficoltà di continuità assistenziale e per quelle situazioni, come il disturbo psichico o la tossicodipendenza che necessitano di interventi tempestivi”. Motivi per i quali l’Uspp chiede che “il servizio sanitario torni ad essere di competenza degli istituti di pena”. “Servono medici e infermieri penitenziari - conclude Angiulli - penso che si possano trovare soluzioni con le aziende sanitarie. In attesa che ciò avvenga con una riforma che richiede tempo e un intervento del legislatore va decretato lo stato di emergenza delle carceri”. Genova. “Tavoli rotti e lancio di cibo”, prosegue la protesta dei detenuti a Marassi genovatoday.it, 23 agosto 2023 Viene contestato l’aumento dei prezzi dei generi alimentari (il “sopravvitto”, beni che vengono acquistati attraverso la spesa interna) e la mancata consegna da parte della ditta appaltatrice. Secondo giorno consecutivo di protesta in carcere. I detenuti contestano l’aumento dei prezzi dei generi alimentari (il ‘sopravvitto’, beni che vengono acquistati attraverso la spesa interna) e la mancata consegna della spesa da parte della ditta appaltatrice. Fabio Pagani, segretario regionale della Uil Pa Penitenziari spiega: “È ripresa intorno alle ore 23.45 di martedì 22 agosto ed è durata circa un’ora. Stavolta tutte le sezioni, si è aggiunta anche la quinta (detenuti appartenenti al circuito alta sicurezza). Dalle celle della prima sezione sono volati lungo il corridoio del reparto pezzi di tavoli, sgabelli e cibo. Non è bastato l’intervento del magistrato di sorveglianza e del direttore dell’Istituto, i due hanno ricevuto e ascoltato una delegazione di detenuti, al momento, però, le rassicurazioni non sembrano essere state considerate sufficienti”. “Occorre immediatamente risolvere la problematica della spesa e del sopravvitto - incalza Pagani - altrimenti a tale problematica potrebbero aggiungersi delle altre richieste e a questo punto sarà difficile una immediata risoluzione. Facciamo un appello al ministro Nordio, gli chiediamo di intervenire con celerità sulla situazione del carcere di Marassi. Una situazione nota, non possiamo permetterci disordini per problematiche non risolte in un istituto che ha una capienza regolamentare/ottimale di 456 detenuti, ma ospita invece 700 persone” “Il ministro della giustizia Carlo Nordio - conclude il sindacalista della Uil Pa Penitenziari - farebbe bene a interessarsi compiutamente alle questioni carcerarie e unitamente a tutto il governo Meloni dovrebbe prendere compiutamente atto della strisciante emergenza penitenziaria varando un decreto legge per metterle in sicurezza, cominciando dal rafforzamento della Polizia penitenziaria. Parallelamente, inoltre, il Parlamento dovrebbe approvare una legge delega per riforme strutturali che ridisegnino il sistema d’esecuzione penale, rifondino il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e riorganizzino il corpo di polizia penitenziaria”. Teramo. Visita ai detenuti di Castrogno organizzata dal Partito radicale. Il Centro, 23 agosto 2023 Venerdì torna l’iniziativa dei Radicali: sette osservatori entreranno nel carcere. Venerdì 25 agosto si svolgerà la visita a detenute e detenuti della Casa circondariale di Castrogno nell’ambito dell’iniziativa “Agosto in carcere” organizzata e praticata in tutt’Italia dal Partito radicale. Lo annuncia in una nota il consigliere generale teramano dei Radicali Ariberto Grifoni, che ricorda: “Alle precedenti iniziative, dallo scorso anno, hanno partecipato: in cinque al “Ferragosto in carcere”, in sette alla “Befana in carcere”, in otto alla “Pasquetta in carcere”. La situazione di questa istituzione cittadina è stata finora osservata da deputati e sindaco, rappresentanti di istituzioni e sindacalisti, insegnanti e avvocati, impiegati presso il tribunale e attivisti nel sociale o studenti universitari, nonché, sabato 29 aprile, dal sottosegretario al ministero della Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, e, circa un mese prima, dal presidente della Regione Abruzzo Marco Marsilio”. La visita di venerdì inizierà alle 9 da parte di sette osservatori: con lo stesso Grifoni ci saranno Manola Di Pasquale, dirigente del Partito Democratico abruzzese; Tommaso Navarra, presidente del Parco Gran Sasso - Laga; Jacopo Di Michele, studente universitario; Totò Iacovoni, dirigente di Rifondazione Comunista; Giovanni Rosci e Marianna Di Addario, della Casa del popolo di Teramo. Successivamente, alle 12,30, si terrà la conferenza stampa nella corte interna della biblioteca Dèlfico per illustrare le impressioni e i dati rilevati nella visita. Torino. “Non faccio parte di nessuna baby gang, ma se sei marocchino è subito colpa tua” di Massimiliano Peggio La Stampa, 23 agosto 2023 Il racconto del diciassettenne astigiano denunciato dai carabinieri di Torino con l’accusa di tentata rapina a una coppia di quattordicenni. “Surreale, mi sembra di vivere in un film. No, no, no... Ma credimi, te lo giuro, è davvero surreale. Io non faccio parte di nessuna baby gang e non vado in giro a rapinare ragazzini. A Torino ci vado solo a trovare la mia ragazza. Tornando in stazione sono stato fermato dai carabinieri: mi hanno identificato, tutto qui. Non sapevo nulla della denuncia”. Diciassette anni, riccioli neri e sbarazzini, radici marocchine. Seduto in cucina, di fronte al papà che ascolta con attenzione ogni parola, racconta del suo sabato trascorso a Torino, lo scorso 19 agosto, sotto i porti di via Po. Secondo i carabinieri, sarebbe un piccolo rapinatore in trasferta da Asti. È stato denunciato per una tentata rapina ai danni di due quattordicenni, con “metodi da baby gang”. Stando ai militari, alcuni passanti sarebbero intervenuti a proteggere le due piccole vittime. Sei andato a Torino a fare razzie? “Non scherzare, io quelle cose lì non le faccio. Mi tengo alla larga dai guai”. Allora com’è andata? I carabinieri ti hanno denunciato per tentata rapina: sostengono che l’episodio sia stato ripreso da telecamere e sono intervenuti dei passanti. Non è uno scherzo... “Di quella denuncia non so nulla. Io e un mio amico, che ha la pelle nera, perché ha genitori nigeriani, stavamo passeggiando sotto i portici di via Po, diretti verso piazza Castello. Faceva caldo, era tardo pomeriggio. A un certo punto lui ha chiesto un euro a due ragazzini. Gliel’ha chiesto così, perché voleva bere un bicchiere d’acqua in un bar”. Ha chiesto un euro ai due ragazzini? Sei sicuro? Magari è stato un po’ sbruffone... “Lo giuro è andata così. Ha solo chiesto un euro. Voleva bere. E non è stato sgarbato”. E loro come hanno reagito? “Prima hanno fatto finta di niente, poi hanno risposto male, insultandoci”. Che cosa hanno detto? “Ci hanno preso in giro dicendo qualcosa del tipo “africani straccioni”, “africani poveracci”. Volgarità del genere. Io ho alzato le spalle, ho detto di prenderla con calma, che non avevamo fatto nulla di male. Poi ho continuato a camminare”. Hanno detto frasi razziste? “Beh, non in modo esplicito ma il senso era quello. Ormai sono abituato, non ci faccio più caso. Tanto se sei marocchino è sempre colpa tua”. E il tuo amico ha reagito? “Macché, anche lui ha fatto una smorfia dicendo a quei due di star calmi, di non insultarci. Ma non ha alzato le mani, né gli ha spintonati. Nulla di nulla”. E non avete tentato di prendere i loro cellulari? “Assolutamente no. Se ci sono le immagini delle telecamere si vedrà che tutto è durato una ventina di secondi. Uno scambio di parole e nient’altro. Nessun contatto, né spintoni, nessuna minaccia. Anzi, sono stati quei due a fare le vittime, attirando l’attenzione della gente. Noi abbiamo continuato a camminare tranquillamente, non siamo fuggiti come è stato scritto sui giornali”. Però sono intervenute delle persone. Le avete viste? “Sì è vero. A un tizio che mi ha chiesto che cosa fosse successo ho riposto qualcosa tipo “una sciocchezza”, “una stronzata” che non meritava nemmeno di essere commentata”. Dopo che cosa avete fatto? “Siamo andati al McDonald’s di piazza Castello, dove mi aspetta la mia ragazza. Volevo salutarla perché stava per partire per il mare. Siamo rimasti lì per un po’, massimo una mezz’ora. Poi io e il mio amico ci siamo diretti verso la stazione, in tutta tranquillità. Tant’è che ci siamo fermati a guardare le vetrine di via Roma”. I carabinieri quando vi hanno fermato? “Qualche minuto dopo, nella piazza di fronte alla stazione di Porta Nuova. Stavano controllando altre persone, non hanno fermato solo noi. Ci hanno chiesto i documenti, preso nota dei nostri nomi, fatto due domande e ci hanno lasciati andare. Poco dopo abbiamo preso il treno per Asti e siamo tornati a casa”. E adesso? “Ecco, adesso mi piacerebbe sapere che cosa succederà con la giustizia, perché di quella denuncia per tentata rapina non ne sapevo niente, l’ho scoperta dal giornale. E giuro i fatti non sono andati così”. Pozzuoli (Na). Per invertire un destino tracciato di Marina Piccone L’Osservatore Romano, 23 agosto 2023 La cooperativa “Le Lazzarelle” valorizza saperi antichi e genera inclusione. Il caffè artigianale, secondo la tradizione napoletana, proveniente dal commercio equo e solidale. E fin qui tutto normale. L’eccezionalità è data dal fatto che questo caffè si produce all’interno del carcere femminile di Pozzuoli a opera della cooperativa “Le Lazzarelle”, un’impresa di sole donne che valorizza i saperi antichi e genera inclusione sociale. La cooperativa è nata nel 2010, quando Imma Carpiniello, Paola Pizzo e Francesca Cocco hanno deciso di realizzare una torrefazione in una vecchia mensa della casa circondariale femminile, loro che, fino ad allora, il caffè l’avevano solo bevuto. “Abbiamo cominciato a studiare”, racconta Carpiniello, presidente della cooperativa, una laurea in Scienze politiche e un master in tutela dei diritti umani. “Ci siamo fatte formare da un vecchio mastro torrefattore. All’inizio non è stato facile, abbiamo bruciato tantissimo caffè”. Le detenute sono parte attiva del processo produttivo. “Tutta la progettazione è stata fatta insieme a loro, dal colore del logo al nome della cooperativa. È uno degli aspetti qualificanti del nostro lavoro”, sottolinea. Nel corso di questi tredici anni, sono state ottantaquattro le donne coinvolte nel progetto, tutte contrattualizzate e con un regolare stipendio, un altro impegno preciso delle fondatrici. “Molte di loro, prima di lavorare con noi, non avevano mai avuto un regolare contratto di lavoro. Con noi imparano un mestiere ma, soprattutto, acquisiscono coscienza dei loro diritti e delle loro potenzialità”. Il carcere femminile di Pozzuoli è il secondo in Italia per numero di detenute ospitate. A fronte di una capienza di novantotto persone, sono presenti 152 donne, di cui venti straniere (fonte Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al 30 aprile 2023). Lo scorso anno ci sono stati trentotto casi di autolesionismo e più della metà fa uso di sedativi o ipnotici. Un mondo complesso. “È più sfaccettato rispetto a quello maschile”, spiega Carpiniello. “Le donne entrano in carcere non necessariamente perché hanno commesso un reato ma perché, magari, si sono trovate coinvolte in una retata o tirate dentro dai loro compagni. Sono spesso vittime di violenza fisica o psicologica e, a volte, hanno un destino tracciato. Lontane dalla scuola, senza un lavoro, rimangono incinte a sedici anni, come la loro mamma e la loro nonna”. La presenza di un figlio è una doppia sofferenza. “Una pena accessoria. I bambini vengono affidati o ai genitori o a una sorella e capita che si dimentichino delle loro mamme, soprattutto quando sono piccoli. Questo distacco procura loro molta sofferenza e le rende irrequiete e instabili”. Il lavoro che le detenute svolgono non riguarda solo gli aspetti professionali ma anche quelli di vita quotidiana, perché “il carcere infantilizza. C’è qualcuno che decide per te, che fa le cose per te, che pensa per te”, continua Carpiniello. E ricorda di quella volta in cui sono andate a Milano per partecipare alla fiera Fa’ la cosa giusta. Con loro c’era anche una detenuta che, ogni volta che la sera rientravano, lasciava aperta la porta dell’albergo. “Quando gliel’abbiamo fatto notare lei ci ha risposto che si dimenticava perché in carcere era sempre la guardia a chiudere le porte. Questo episodio ci ha fatto riflettere. Facciamo molta attenzione a coinvolgere le donne in ogni decisione e in ogni operazione. In questo modo le detenute si riappropriano anche delle competenze più banali e quando escono non devono ricominciare tutto da capo”. Questo sistema ha fatto sì che molte delle donne impiegate nella torrefazione, una volta uscite, si sono reinserite nella società e non hanno più commesso reati. Alcune delle detenute stanno già sperimentando il lavoro esterno. Nel luglio del 2020, infatti, “Le Lazzarelle” hanno aperto un bistrot nella galleria Principe di Napoli, di fronte al Museo archeologico nazionale, dove è possibile gustare piatti preparati con ingredienti freschi e di qualità. Un altro degli obiettivi. “Un progetto sociale nel cuore della città antica per dare la possibilità di conoscere la nostra realtà e per inserirci più direttamente nel mercato”. Attualmente, ci lavorano tre detenute, una in semilibertà e due in affidamento. Anna, quarantacinque anni, dopo cinque anni di reclusione, dal settembre scorso è in semilibertà. Esce alle 7 di mattina dal carcere e rientra alle 22. Dopo il lavoro, va a trovare i genitori, a cui è molto legata. “Fortunatamente, non sono sposata e non ho figli. Sarebbe stato molto più duro”, afferma. “Non sono mamma, ma sono figlia e la sofferenza di mia madre mi lacera il cuore. Lei è libera, ma è come se fosse prigioniera come me. Il dolore che si dà alle persone che si amano è una cosa difficile da sopportare. Nonostante i miei errori, per fortuna, la mia famiglia mi è sempre stata vicina”. Anna ha un fratello, che vive in un’altra città, e una sorella, sposata con due bambini. “Io la ringrazio perché quando c’è stata la disgrazia, come la chiamo io, lei ha sempre garantito la continuità del rapporto con i miei nipoti, che, allora, erano piccoli. Sia lei sia mio cognato hanno continuato a mantenere vivo in loro l’affetto per la zia. Ora loro sono grandi e mi amano come se non ci fosse mai stato il distacco. Sono venuti a trovarmi anche in carcere. Ci sono donne che non hanno nessuno, e per loro è veramente dura. Quando sono entrata in prigione la torrefazione esisteva già e io ho colto al volo la novità del progetto. È una realtà dentro una realtà, un pezzo di mondo vero che non ti immagini possa esistere. Dopo un anno di attività all’interno, ho cominciato a lavorare al bistrot, due anni in articolo 21 e ora in semilibertà. Uscire dopo cinque anni è stata un’esperienza forte, tante emozioni tutte insieme. Mi sembrava di non essere più capace di fare niente, neanche le cose più banali. La prima volta che sono uscita, per esempio, mi creava apprensione anche comprare il biglietto della metropolitana. In carcere ci si disabitua a tutto. Sono sempre gli altri che fanno per te, ti viene tolta l’autonomia. E con il passare del tempo si perde la sicurezza. Subisci una sorta di regressione. È una brutta sensazione. Ora sento che sto riprendendo in mano la mia vita”, continua Anna, a cui mancano tre esami per laurearsi in Economia e commercio. “Ho un lavoro, uno stipendio, lo studio, la mia famiglia. Sto costruendo il mio futuro e mentre lo costruisco lo vedo, e questo mi dà speranza. Si può sbagliare ma si può anche cambiare”. Venezia. Borse per lo shopping con il telo del Tiziano realizzate a mano dai detenuti La Nuova Venezia, 23 agosto 2023 Dopo le celebrazioni, lo scorso autunno, per il restauro della pala dell’Assunta, capolavoro di Tiziano Vecellio tornato a impreziosire l’abside della Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia, l’opera torna a fare parlare di sé con un progetto di sostenibilità ed inclusione. La pala d’altare e la cornice marmorea che la circonda, infatti, per quattro anni sono stati nascosti da un telone in Pvc che ne riportava copia fedele e occultava il ponteggio necessario per il restauro (interamente finanziato da Save Venice). Ora, lo stesso telo, di oltre 50 metri quadri, è stato recuperato e affidato alle mani dei detenuti del carcere maschile di Venezia che, con il supporto della cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri, hanno realizzato più di 100 borse shopper, ognuna delle quali riporta stampato un pezzetto del dipinto di Tiziano o della cornice. Ogni borsa è un pezzo unico e sono in vendita all’interno della basilica dei Frari a un prezzo che va da 40 ai 60 euro. In un’ottica di recupero e riutilizzo virtuoso, i proventi dalla vendita delle borse saranno destinati a contribuire ai costi degli interventi di manutenzione annuali della pala d’altare tizianesca. La loro realizzazione, inoltre, ha contribuito a sostenere l’operato dei detenuti del carcere veneziano che le hanno prodotte. Il capolavoro di Tiziano era stato oggetto di un complesso intervento il cui obiettivo primario è stata la messa in sicurezza del sito, del dipinto e il restauro sia del dipinto che della cornice lapidea che lo circonda. La pala dell’Assunta, dipinta su 20 assi di legno di pioppo bianco è uno dei dipinti su tavola più estesi al mondo. Aveva subito un importante restauro a inizio ‘800, poi ancora a metà degli anni 70 del ‘900 e ora ci è stata restituita con una palette di colori vibrante e luminosa, come probabilmente l’aveva pensata Tiziano nel 1516 quando gli venne commissionata da Frate Germano, superiore del Convento dei Frari. L’intervento di restauro aveva coinvolto in primis Padre Lino Pellanda e la comunità della parrocchia dei Frari e quindi il Patriarcato di Venezia, la Soprintendenza ai Beni artistici lagunari e la direzione lavori affidata a Giulio Manieri Elia, direttore delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, e il Laboratorio Scientifico della Misericordia che, assieme, hanno condiviso e sostenuto l’intervento certosino dei restauratori Giulio Bono per la parte pittorica e Egidio Arlango per quanto riguarda la cornice marmorea. Tutti gli interventi sono stati eseguiti in chiesa per non sottoporre il capolavoro ad eventuali stress ambientali. Tra le scelte operative più significative, si segnala la decisione di smontare l’organo Mascioni risalente agli anni venti del ‘900, che era stato installato dietro alla pala e ancorato ad essa con tutte le conseguenze che ciò comportava: dalle vibrazioni all’invasione di tarli all’impossibilità di rimozione della pala stessa in caso di necessità. L’organo, smontato, restaurato e poi ricomposto, è stato donato alla Chiesa di Santa Maria Ausiliatrice di Jesolo. Fossombrone. “Le voci di dentro” a Cagli, installazione musicale con testi dei detenuti-attori di Elisabetta Marsigli Corriere Adriatico, 23 agosto 2023 L’affascinante evento conclusivo del Festival regionale di teatro in carcere nelle Marche si terrà, oggi (dalle 18 alle 20) e domani (dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 20), al teatro Comunale di Cagli. “Le voci di dentro” è una installazione di teatro sonoro realizzata da Fabrizio Bartolucci e Anissa Gouizi, che ha realizzato il progetto musicale, mentre le voci e i testi sono dei detenuti attori del laboratorio teatrale della Casa di Reclusione di Fossombrone. Il progetto prende a prestito il titolo dall’opera di Eduardo, e in qualche modo anche il muoversi tra sogno e realtà per dar voce al ‘dentro’ personale e collettivo. Un’istallazione teatrale composta da una serie di quadri sonori per voci e suoni appunto che da “dentro” si aprono verso l’esterno per descrivere altri interni. “Si tratta di un lavoro nato in pieno lockdown, quasi come risposta all’impossibilità fisica di fare laboratorio, così come da anni facciamo con i detenuti del carcere di Fossombrone”, spiega Bartolucci che lavora da oltre 10 anni con la sezione di Levante del carcere. Un laboratorio integrato con detenuti, alcuni attori e laboratoristi esterni che produce ogni anno una rappresentazione aperta al pubblico. È di qualche anno fa il docu-video ‘Moliere dentro’ che attraverso “Il malato immaginario” riportava al pubblico l’esperienza teatrale in carcere. La narrazione orale - In questa occasione, dalla lettura del testo teatrale di Eduardo da cui il progetto ha preso a prestito il titolo, si è lavorato sul racconto, con particolare riferimento alla narrazione orale: dalla tradizione letteraria e popolare a storie e personaggi evocati dalla memoria dei partecipanti. Voci e parole hanno costruito, stanza per stanza, una casa raccontata attraverso le immagini sonore. “Casa” è il nome dato all’unica clip nella quale si possono ravvisare dei riferimenti ad un luogo materiale: “sono descrizioni, ricordi, riflessioni, che abitano lo spazio, componendo una scena di parole e musica. Un ponte di immagini sonore che evocano luoghi della memoria, luoghi che erano o che vorrebbero essere, luoghi che risiedono nei ricordi e in proiezioni mentali dove anche la cella finisce per essere inevitabilmente un luogo della mente”. L’ingresso, la cucina, la sala, il bagno, la camera da letto, ogni interno è divenuto occasione di un racconto sonoro personale tra memoria e presente. “Con Anissa, che si è occupata della parte musicale, - conclude Bartolucci - abbiamo creato due percorsi laboratoriali che si sono mossi in parallelo sino a confluire nel prezioso lavoro di montaggio realizzato dagli allievi del Corso di Processi e Tecniche dello spettacolo Multimediale della Accademia di Belle Arti di Macerata”. Ogni traccia vive di un’essenza autonoma, tecnicamente trattata in maniera indipendente dalle altre, ma unita da un filo rosso che accompagna l’ascoltatore. La musica diviene parte del racconto stesso: scompare in altre tracce, facendo percepire la propria assenza, sostituita da effetti sonori che giocano l’elemento descrittivo del non-luogo: una vecchia televisione che narra di un evento sportivo, l’acqua che riempie una vasca da bagno, mentre le voci, in sovrapposizioni polifoniche, trascinano l’ascoltatore in un ambiente plurale che fonde narrazioni ed esperienze personali, anche molto diverse tra loro, in un unico ‘dentro’. Montaggio e design audio sono a cura di Alessia Trasarti, Simone Alvear Calderon, Michele Casalino, Francesca Casalino (dell’Accademia di Belle Arti di Macerata). L’ingresso all’installazione è gratuito e prevede piccoli gruppi. Conciliare i diritti, la libertà non è una clava di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 23 agosto 2023 “Nell’era dei diritti, rivendico a gran voce il diritto all’odio”. Fra le tante affermazioni del generale Vannacci, è su questa che conviene riflettere. Essa mette a nudo infatti una tensione irrisolta fra due valori su cui si fonda la democrazia liberale. Da un lato la libertà di espressione, la tutela di quello che Stuart Mill chiamava il libero mercato delle idee. Dall’altro, l’eguale dignità, la libertà per individui diversi di condurre vite diverse, “senza essere ostacolati, fisicamente o moralmente, dai loro simili” (sempre Mill). La manifestazione pubblica di odio si situa proprio al confine fra queste due libertà: si tratta di un caso limite, in cui il diritto di espressione può degenerare in licenza di umiliazione e molestia, soprattutto se i bersagli sono minoranze socialmente vulnerabili e già discriminate, come gli immigrati o la comunità Lgbtq+. La probabilità che ciò avvenga è forte, in quanto il discorso d’odio contiene spesso (seppure implicitamente) l’istigazione ad agire. Non è facile tracciare un confine chiaro. Costituzioni, Trattati e Convenzioni internazionali pongono limiti abbastanza precisi richiamando, appunto, il concetto di pari dignità: il primo nella lista dei diritti umani fondamentali. Nel caso Vannacci, il ministro Crosetto ha fatto bene a chiedere l’apertura di un procedimento disciplinare: non perché il generale ha espresso dei giudizi personali, ma perché quei giudizi sono fortemente denigratori. Facendosi vanto di essere un servitore dello Stato, il generale ha oltrepassato di fatto il limite che separa il suo ruolo istituzionale da quello privato, gettando ombre sulla sua capacità di esercitare il primo con l’imparzialità prevista dall’ordinamento dello Stato (ad esempio rispetto all’orientamento sessuale). La Corte di Cassazione italiana si è ispirata allo stesso principio quando ha recentemente condannato un partito politico, la Lega, per aver affisso dei manifesti in cui i richiedenti asilo venivano bollati come clandestini: un termine “che ha assunto nell’utilizzo corrente un contenuto spregiativo e una valenza fortemente negativa”, lesiva della dignità personale. Per quanto necessari, i confini fissati dalla legge non bastano oggi per arginare un fenomeno in crescita in tutti i Paesi occidentali. Le categorie più bersagliate dal discorso d’odio sono i migranti, in particolare se musulmani e/o di pelle scura, gli ebrei, la comunità Lgbtq+. I pronunciamenti pubblici di disprezzo tendono a sfuggire alle statistiche, ma costituiscono il retroterra dei veri e propri crimini d’odio: il numero di aggressioni dirette contro le categorie bersagliate si è impennato negli ultimi anni. Dal canto loro, i dati d’opinione segnalano un preoccupante incremento dei sentimenti di intolleranza, delle cosiddette polarizzazioni di gruppo basate su antagonistiche distinzioni fra un “noi” (i supposti normali) e un “loro” (i diversi). Il discorso di un singolo “portatore d’odio” (come Vannacci) è solo la punta di un iceberg. Al di sotto vi sono non soltanto attivisti fanatici pronti ad agire, ma segmenti più o meno ampi di opinione pubblica simpatetica. Il portatore spesso contribuisce a far emergere pregiudizi e forme di intolleranza latenti. Per una società liberale e democratica, questo è il rischio maggiore. Il discorso d’odio agisce come un sasso nello stagno, attiva una spirale di polarizzazione di gruppo, di radicalizzazione dei disaccordi e dei conflitti. La conciliazione fra diritto di espressione e diritto a non essere discriminati e molestati è politicamente possibile solo se esiste un qualche terreno culturale comune, un insieme di norme condivise dai cittadini sui modi ammissibili di confronto pubblico. Anche a prescindere dai suoi contenuti, il discorso d’odio erode il terreno comune e trasforma un’idea (un punto di vista, una visione della società, una identità) in una credenza assoluta, irriducibile, spesso “tribale”. La libertà di espressione diventa una clava che frantuma le basi del regime - liberale e democratico - che rende possibile l’esercizio di quella libertà. Gli Stati Uniti di Trump sono andati molto vicini a questo esito. Il linguaggio del presidente ha sdoganato parole ed espressioni impregnate di fanatismo suprematista. Come si ricorderà, dopo le elezioni del 2020, i proclami rabbiosi di Trump incitarono i suoi sostenitori ad assaltare il simbolo della democrazia americana, il Congresso. Non è facile contenere il rischio di simili circoli viziosi. Il terreno culturale che favorisce la democrazia liberale è fragile e fatica a tenere il passo con i mutamenti sociali, fra cui l’emergenza di nuove sensibilità e domande di riconoscimento pubblico. Quanto tempo ci è voluto per abolire le discriminazioni razziali in un Paese democratico come gli Usa? La sfida da affrontare oggi è quella della diversità. Più precisamente, l’accettazione (e valorizzazione) della diversità: di genere, razza, colore della pelle, età, etnia, religione, orientamento sessuale e così via. Cito di nuovo Stuart Mill: “Perché la natura di ciascuno abbia ogni opportunità di esplicarsi, è essenziale che sia consentito a persone diverse di condurre vite diverse. il valore che ogni periodo storico ha acquisito tra i posteri è direttamente proporzionale alla libertà che sotto questo aspetto ha concesso a chi vi è vissuto”. Con buona pace del generale Vannacci, il valore del nostro modello di società dipende dalla misura in cui sapremo rendere “normale” la diversità nel discorso e nelle interazioni pubbliche. Un percorso faticoso, che richiede molto impegno e disponibilità al dialogo, non solo da parte dei “diversi”, ma da tutta la platea dei “tolleranti”. Migranti. L’allarme minori non accompagnati: oltre 20 mila, quasi 9 su 10 maschi di Virginia Piccolillo La Repubblica, 23 agosto 2023 Pochi centri di accoglienza dedicati: in tanti finiscono con gli adulti e gli affidi sono fermi al palo. La dem Zampa, autrice della norma: sulla carta il sistema funziona, ma tutti devono attivarsi Migranti, l’allarme minori non accompagnati: oltre 20 mila, quasi 9 su 10 maschi. Ci ricordiamo di guardarli quasi solo quando li troviamo protagonisti di una tragedia, senza vita sulle spiagge, nelle foto sui giornali. Altrimenti gli adolescenti e i bambini che arrivano nel nostro Paese da soli vengono spesso considerati solo come numeri di un’”emergenza” che contrappone i Comuni al governo. Oggetto di uno scambio di accuse sulla loro accoglienza. E su cosa abbia funzionato nella legge firmata da Sandra Zampa (“del Pd”, si sottolinea al Viminale) e cosa no. Il governo studia un “tagliando” della norma e una stretta sulla verifica dell’età dei migranti, nel decreto scurezza di settembre. Per capire occorre partire da un dato: quanti sono i minori stranieri non accompagnati accolti nel nostro Paese. L’ultimo aggiornamento, al 31 luglio, ne ha censiti 21.710 - alla stessa data del 2022 erano stati 16.470 - con una percentuale di maschi nettamente superiore di bambine e ragazze: una su dieci, appena il 12,8%. La maggior parte, ben il 44,6%, ha 17 anni. Un quarto, il 25,4%, ha 16 anni; poco più di uno su dieci, l’11,9%, ne ha 15. Poi ci sono i più piccoli. La fascia tra 7 e 14 anni è il 16%. Quindi i bimbi smarriti, quelli che hanno da zero a due anni che nel caos delle partenze restano separati da mamme e papà. Sono il 2%. La nazionalità prevalente è egiziana, 24,7%, il 20,4 dalla Tunisia, e poi Guinea, Costa d’Avorio, Gambia. La distribuzione geografica non è omogenea. E questo è il primo problema. Il 23,8% viene accolto in Sicilia, il 12,9% Lombardia e l’8,3% nell’Emilia-Romagna, il 6,7% nella Campania, il 6,3% in Puglia, il 6,2% in Calabria, il 5,8% nel Lazio. Tutti, sottolinea Raffaela Milano di Save the Children “sono in una condizione di particolare vulnerabilità, viaggiano senza adulti di riferimento e per molti il rischio è che se non si attiva subito un’accoglienza e una rete di protezione possano diventare facile preda di circuiti di illegalità e sfruttamento”. La legge Zampa, in accordo con le convenzioni internazionali, prevede che siano considerati minori prima ancora che stranieri. Non sempre accade. Per loro la legge prevede l’accogienza in centri dedicati e con standard di qualità elevati. Prima falla: non ce ne sono a sufficienza e alcuni hanno standard pessimi. La destinazione dovrebbe essere decisa entro 30 giorni: o in affido familiare o in comunità di accoglienza gestite dai Comuni. Ma i centri di accoglienza sono insufficienti e i minori finiscono in quelli per adulti, gli affidi sono fermi al palo, i centri in comunità non sono sufficienti, i tutori volontari, figura adulta di riferimento che dovrebbe essere abbinata a ciascun minore, sono pochi. “La legge sulla carta funziona - assicura Sandra Zampa -. Ma tutti devono attivarsi: il governo nella prima accoglienza, Comuni e Regioni per la parte loro, l ‘autorità dell’infanzia deve pubblicizzare affidi e possibilità di fare i tutori dei ragazzi, la società civile offrirsi di farlo, il fondo per minori stranieri va alimentato e i posti in comunità ampliati. Ciascuno deve fare la sua parte”. Migranti. Hotspot di Lampedusa, voci da dietro le sbarre di Lidia Ginestra Giuffrida Il Manifesto, 23 agosto 2023 Ieri porte aperte alla stampa. I migranti che restano all’interno della struttura sono all’oscuro del loro destino. “Dentro l’hotspot si vive male. I bambini e le famiglie stanno tutti insieme. Fanno dormire fuori anche i minori. Siamo troppi. Qui c’è troppa gente. Noi da qui non possiamo uscire, siamo come in carcere”, racconta Mohamed Belhaj, 35 anni. Il ragazzo, di origine tunisina, è arrivato nell’hotspot di Lampedusa il 2 agosto. “Sono qua dentro da 20 giorni senza sapere dove andrò dopo. Lo chiedo sempre, ma non me lo dice nessuno. Non è la prima volta che provo a entrare in Italia, ho vissuto quattro anni in Sicilia prima di essere rimandato indietro in Tunisia”, continua. Ieri i cancelli della struttura di Contrada Imbriacola erano inusualmente aperti anche alla stampa in occasione della visita del prefetto Filippo Romano e del questore Emanuele Ricifari, entrambi in servizio ad Agrigento. “C’è una situazione di “totale scarico”. Fino a ieri avevamo circa 1.700 persone, adesso poco meno di 500. In giornata ne resteranno soltanto 100 che hanno problemi con le identificazioni, gruppi familiari che devono trovare sistemazione tutti insieme o minori non accompagnati residuali che verosimilmente sistemeremo domani mattina”, dichiara Ricifali. A chi rimane spetterà probabilmente il rimpatrio forzato, soprattutto in Tunisia. Per una “questione di ordine pubblico”, spiega un mediatore presente nell’hotspot, alle persone non viene detto cosa accadrà loro quando saranno portate via dall’isola. Così alcuni restano dentro l’hotspot per giorni con il terrore di essere rimandati indietro. “Vorrei avere i documenti e poter vivere in Italia. Il mio sogno è non essere riportato nel mio paese, la Tunisia: adesso è molto pericolosa”, dice ancora Belhaj. “Io sono partito dalla Libia, il viaggio è stato molto brutto, eravamo in 35. Abbiamo passato due giorni in mare. Una persona è morta, stava accanto alla tanica di benzina ed è morta intossicata. Non ricordo niente del nostro arrivo perché ero troppo traumatizzato dalla scomparsa del nostro compagno. Sto qui dal 14 agosto. Non so niente, neanche dove andrò dopo”, spiega invece Amir Adil. Viene dall’Egitto. “Mia moglie è incinta al quarto mese, non si può muovere dal letto, non riesce a camminare e non può mangiare il cibo che le danno. C’è troppa gente. Sei costretto ad aspettare per fare tutto, anche per andare al bagno. Siamo qui dall’11 agosto, a me dicono che sarò espulso ma io non posso lasciarla da sola”, racconta Ali Alla, marito di Cautag Ajmi, entrambi provenienti dalla Tunisia. Secondo le autorità, però, l’hotspot non è mai stato al collasso da quando lo gestisce Croce Rossa. “Non siamo mai arrivati a riempire completamente la struttura anche se va detto che i numeri sono molto alti”, dice Ricifari. I numeri hanno spesso triplicato, quadruplicato, quintuplicato la capienza effettiva arrivano a riguardare anche oltre duemila persone. Droghe. I dati mettono in difficoltà Mantovano di Stefano Vecchio* Il Manifesto, 23 agosto 2023 Il Sottosegretario Mantovano, presentando la Relazione al Parlamento sulle droghe, elude con imbarazzo ogni valutazione politica sui dati riportati e inneggia alla parola magica: la prevenzione, versione sociale della guerra alla droga. I dati, pur limitati, offrono spunti per una riflessione critica. Il consumo più diffuso sia nella popolazione generale che tra gli studenti, è quello di sostanze alcoliche anche se in contesti diversi: ricreativi per i giovani, privati per gli adulti. Un modello d’uso che interessa persone socialmente integrate, poco rischioso, tendenzialmente autoregolato, che in media non interferisce nella vita delle persone. La sostanza illegale più diffusa si conferma la cannabis: anche in questo caso l’uso è prevalentemente sporadico o occasionale, in contesti di gruppo e ricreativi, mentre una parte limitata di persone la usa con frequenza, ma senza particolari problemi. Una sostanza normalizzata socialmente che i governi si ostinano a rendere rischiosa mantenendola nell’illegalità. Rimane stabile tra i giovani, e limitato ai contesti ricreativi, il consumo delle altre sostanze psicoattive, con nessun particolare rischio o danno se non dovuto al mercato illegale. Alcune novità, riguardano l’aumento dei consumi di oppioidi tra gli adulti, e di psicofarmaci tra i giovani. Sugli oppioidi non sono riportate informazioni su contesti e stili di consumo, né correlazioni con rilevazioni sui rischi o con i dati dei SerD o dei servizi di Riduzione del danno. Rispetto agli psicofarmaci tra i giovani, emerge che in buona parte li reperiscono in famiglia. Le motivazioni indicate - performance scolastiche e stare meglio con sé stessi - pongono, prima che un allarme droghe, diversi interrogativi sul ruolo dei servizi nel dispensare farmaci e interrogano la politica su messaggi e modelli educativi centrati su valori individualistici e competitivi. La maggior parte dei consumatori non si rivolge ai SerD e agli enti accreditati. Va ridefinito il ruolo di questi e gli obiettivi dei trattamenti su una utenza invecchiata, a rischio di istituzionalizzazione. La strada è abbandonare le etichette patologiche e adottare prospettive di empowerment e di inclusione sociale. Spicca l’assenza della parola Riduzione del Danno, innominabile e pericolosa. C’è una rilevazione delle strutture a bassa soglia e delle unità di strada, orfane del nome. Non vengono descritte le attività né valutata l’efficacia di interventi che sono un LEA, pure inattuato, dal 2017 e che intercettano proprio quella maggioranza di persone che usano droghe e che non si rivolgono ai servizi. I dati sulla detenzione confermano quelli del Libro Bianco sulle droghe. Il 34%, un terzo circa dei detenuti, sconta una pena in carcere per droghe. Il danno della legge penale è testimoniato da questa diffusa privazione delle libertà, alla quale si associano le decine di migliaia di sanzioni amministrative. Nonostante i limiti e la mancanza di una valutazione dell’efficacia delle politiche sulle droghe, i dati della Relazione paradossalmente rappresentano una critica chiara alle politiche che questo governo intende perseguire. L’obiettivo di un mondo senza droghe non è stato raggiunto: anzi al contrario le droghe si sono moltiplicate. Come per l’alcol, le persone tendono a elaborare regole informali e collettive di controllo dell’uso di sostanze illegali. Queste sono però ostacolate e rese rischiose da una legge centrata sul modello penale e patologico. È sempre più urgente un cambio delle politiche verso un governo sociale del fenomeno attraverso la decriminalizzazione del consumo di droghe e la regolazione legale della cannabis, garantendo il diritto alla salute delle persone che usano droghe ridefinendo i servizi e gli interventi nella prospettiva della promozione della salute e della Riduzione del Danno. *Presidente di Forum Droghe Cannabis terapeutica, c’è crisi nella fornitura dei farmaci di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 agosto 2023 L’uso della cannabis terapeutica è legale da anni. I medici possono prescriverla per la cura di determinate patologie. Tuttavia, emerge una situazione di crisi nella fornitura dei farmaci cannabinoidi a Foggia e in altre parti d’Italia. Questa situazione preoccupante mette in evidenza la necessità di rivedere il sistema di approvvigionamento e l’accesso ai farmaci necessari per coloro che dipendono dalla cannabis a scopo terapeutico. La città di Foggia sta affrontando un problema urgente: la mancanza di farmaci cannabinoidi utilizzati per il trattamento di varie malattie, tra cui la sclerosi multipla, il dolore cronico e oncologico. A fine luglio, le scorte disponibili erano già esaurite, e il rifornimento effettuato all’inizio di agosto è anch’esso già esaurito. Questa carenza di farmaci evidenzia una possibile mancanza di organizzazione nella gestione del riassortimento dei medicinali. Uno scenario che mette i pazienti in una condizione di grave disagio, con il rischio di interrompere le terapie necessarie per gestire le loro patologie. Tale situazione è stata portata all’attenzione del pubblico grazie all’attivista Andrea Trisciuoglio, membro dell’associazione Luca Coscioni e fondatore di Lapiantiamo. Trisciuoglio stesso soffre di sclerosi multipla e ha denunciato la difficoltà nel reperire i farmaci cannabinoidi necessari per il suo trattamento. Egli ha lanciato un appello alle istituzioni affinché si legalizzi la coltivazione e la trasformazione della cannabis terapeutica. Ritiene che l’autocoltivazione e la produzione locale di cannabis terapeutica possano rappresentare l’unica soluzione per garantire l’accesso continuo al trattamento necessario. Trisciuoglio ha scritto a luglio alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, cercando una soluzione al problema, ma non ha ricevuto alcuna risposta fino ad ora. Ha dichiarato che continuerà a scrivere finché non otterrà una risposta soddisfacente. Questo mette in luce l’importanza di un dialogo aperto tra i pazienti, gli attivisti e le istituzioni per risolvere le sfide legate all’accesso ai farmaci cannabinoidi. Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, ha evidenziato come diverse Asl non stiano più fornendo i farmaci cannabinoidi a malati affetti da varie patologie, tra cui la sclerosi multipla e il dolore neuropatico cronico. Bernardini sottolinea che l’uso terapeutico della cannabis è stato riconosciuto fin dal 2007, ma vi sono state difficoltà nel garantire la continuità terapeutica a causa di varie vicissitudini e di una reperibilità altalenante dei farmaci. La situazione si complica ulteriormente a causa delle leggi regionali che stabiliscono accessi diversificati in base alle patologie ammesse. La situazione critica dei pazienti che dipendono dalla cannabis terapeutica richiede senza dubbio un intervento rapido e mirato da parte delle istituzioni. Germania. Scholz e i suoi ministri alla prova della marijuana, legalizzata. “Mai”, “Una volta sola” di Samuele Finetti Corriere della Sera, 23 agosto 2023 “Signor cancelliere, ha mai fumato uno spinello?” domanda l’intervistatore della tv Sat.1/ProSieben a Olaf Scholz, l’uomo alla guida del governo che ha approvato la legalizzazione della cannabis nel più popoloso Paese d’Europa. Il via libera dell’esecutivo è arrivato una settimana fa, ora la palla passa al Bundestag. Ma presto - probabilmente all’inizio del 2024 - anche in Germania il consumo ricreativo della cannabis non costituirà più un reato. Non significa che sarà del tutto liberalizzato: di paletti ce n’è più d’uno, perché “fumare è comunque pericoloso”, sottolinea il ministro della Salute Karl Lauterbach. E dunque via libera al possesso della sostanza, ma con un limite di 25 grammi a testa; e alla coltivazione, ma al massimo di tre piantine a persona. Legalizzati anche i “cannabis club”, ovvero gruppi formati al massimo da 500 persone cui sarà permesso coltivare le piantine (ma non a fini commerciali) e distribuire un massimo di 25 grammi a testa ogni giorno, e fino a 50 ciascun mese, ad ogni membro. Ancora più rigidi i limiti per chi ha meno di 21 anni: i più giovani potranno riceverne al massimo 30 grammi al mese, e con un contenuto di Thc - il tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis - che non superi il 10 per cento. “Attenzione: il fatto che ne possa avere 50 grammi al mese non significa che debba fumarli tutti”, avverte Lauterbach. Il quale, tuttavia, considera la legge appena approvata “il miglior tentativo di legalizzazione finora” e precisa che lo scopo è anzitutto quello di “ridurre il volume del mercato nero e dei crimini legati allo spaccio di droga”. La riforma, per ora, scontenta sia chi consuma sia chi avversa la sostanza. L’opposizione accusa il governo di voler legalizzare una “droga pericolosa” nonostante il parere di molti medici; mentre i primi membri dei nascituri “club” sostengono che le maglie della legge sono fin troppo strette e che non s’è fatto nulla contro la “stigmatizzazione” dei consumatori. Intanto la stampa ne approfitta per andare a ripescare vecchie dichiarazioni dei ministri o, meglio ancora, per chiedergli direttamente se abbiano mai fatto uso della sostanza in questione. Insomma, Scholz si è mai concesso un tiro? “No, non ho mai fumato erba”, ha risposto il leader socialdemocratico nell’intervista andata in onda domenica sera. Parole che hanno sollevato più di un dubbio, tra cui quello della Frankfurter Allgemeine Zeitung secondo cui “è difficile credere che un vecchio rivoluzionario cresciuto nei Jusos (l’organizzazione giovanile della Spd, ndr) non abbia mai provato un po’ di hashish”. Non che gli altri ministri siano stati più loquaci. Tra un “è una questione privata” e un secco “no comment”, sono pochi quelli che hanno risposto sinceramente. Anzitutto lo stesso Lauterbach, il quale in passato ha candidamente raccontato alla Bild: “L’ho provata in maniera intensiva, perché un buon medico prova tutto. Ma fu la prima e l’ultima volta”. Come lui la ministra degli Esteri Annalena Baerbock, che rimase però delusa e decise che “non fa per me”. Mentre Cem Özdemir, titolare dell’Agricoltura, da buon pollice verde ha ammesso di avere persino coltivato qualche piantina sul suo balcone: “Mettiamola così: non sono del tutto estraneo al fumo dell’erba”. Per l’occasione, vengono rispolverate anche le parole dei leader stranieri, su tutti quelli statunitensi. Barack Obama, ad esempio, scrisse in una vecchia autobiografia di aver fatto “uso frequente” di canne e affini da giovane. E come dimenticare la replica alla fatidica domanda - “l’ha provata oppure no?” - che diede Bill Clinton durante la campagna elettorale del 1992: “Sì, un paio di volte, ma non m’è piaciuta. E comunque non l’ho inalata”. Al che Johnny Carson, leggendario conduttore del Tonight Show, lo bruciò con una battuta: “Questo è il problema dei democratici. Anche quando fanno qualcosa di sbagliato, non riescono a farlo bene”. Iran. Negato il diritto alle famiglie di commemorare i propri cari uccisi durante le rivolte La Repubblica, 23 agosto 2023 Amnesty International: le pratiche repressive della polizia iraniana violano il divieto di tortura. Le autorità iraniane proseguono nella loro campagna di repressione. A quasi un anno dalla esplosione delle manifestazioni in tutto il Paese in seguito alla morte, per mano della polizia, di Mahsa Amini, la ventiduenne arrestata perché non indossava adeguatamente il velo, le famiglie delle persone che hanno perso la vita durante le rivolte “Woman Life Freedom” continuano a subire intimidazioni e divieti anche per le commemorazioni funebri, con il solo fine di imporre silenzio e impunità. Il rapporto. Una nuova ricerca pubblicata da Amnesty International descrive come le autorità iraniane abbiano sottoposto le famiglie dei manifestanti uccisi durante le rivolte ad arresti e detenzioni arbitrarie, imponendo restrizioni alle riunioni pacifiche davanti alle tombe dei propri cari e distruggendo, spesso, le lapidi stesse. Fino a ora nessun funzionario delle forze di sicurezza è stato ritenuto responsabile dell’uccisione illegale di centinaia di uomini, donne e bambini durante la brutale repressione. Per l’organizzazione il dolore e l’angoscia inflitti alle persone dalle pratiche abusive della polizia costituiscono una violazione del divieto assoluto di tortura e di trattamenti crudeli, inumani e degradanti previsto dal diritto internazionale. La crudeltà senza limiti. Nel tentativo di nascondere i crimini, il potere iraniano sta aggravando l’angoscia e la sofferenza delle famiglie delle vittime impedendo loro di chiedere giustizia e verità o addirittura di piantare fiori sulle tombe dei propri cari. Con l’avvicinarsi dell’anniversario della rivolta, le famiglie temono che la polizia utilizzerà le consuete tattiche repressive per impedire loro di organizzare commemorazioni, dice Diana Eltahawy, vicedirettrice regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa. Amnesty ha documentato in questa ultima pubblicazione i casi di 36 famiglie di vittime provenienti da 10 province del Paese che hanno subito violazioni dei diritti umani negli ultimi mesi. Tra queste figurano i parenti di 33 persone uccise illegalmente dalle forze di sicurezza durante le proteste; le famiglie di due persone giustiziate arbitrariamente sempre in relazione alle manifestazioni e la famiglia di un sopravvissuto alla tortura che si è suicidato dopo essere stato liberato. Gli abusi. Le violazioni inflitte alle famiglie delle vittime includono arresti e detenzioni arbitrarie; procedimenti giudiziari ingiusti basati su false accuse di sicurezza nazionale formulate in modo vago, che, in alcuni casi, hanno portato a condanne al carcere e alla fustigazione; convocazioni improvvise e interrogatori da parte della procura o delle forze di sicurezza; sorveglianza illegale e, infine, distruzione delle tombe dei cari. Le storie. Nel luglio 2023, la madre del sedicenne Artin Rahmani, ucciso dalle forze di sicurezza il 16 novembre 2022 a Izeh, nella provincia del Khuzestan, ha scritto su Twitter: “Le autorità della Repubblica islamica hanno ucciso mio figlio innocente, hanno imprigionato mio fratello e mi hanno convocato in procura con l’accusa di aver chiesto giustizia per l’omicidio di mio figlio, al solo scopo di farmi stare zitta. I cittadini iraniani non hanno il diritto di protestare e ogni tentativo di ricerca della libertà viene represso con grande violenza”. “L’assassino di mio fratello”. Nell’aprile 2023, la sorella di Milad Saeedianjoo, ucciso a colpi di arma da fuoco dalle forze dell’ordine a Izeh, nella provincia del Khuzestan, il 15 novembre 2022, ha scritto su Instagram: “Alla persona che, nel giorno del compleanno di mio fratello, mi ha afferrato i capelli, mi ha torturato con un manganello e ha calpestato la tomba di mio fratello davanti ai miei occhi... Qual è il verdetto che ti sei dato per tutto questo? Mi è stato dimostrato chi è l’assassino di mio fratello. La nostra famiglia non ha presentato denuncia in nessun tribunale iraniano perché è inutile andare dall’assassino per sporgere denuncia contro l’assassino…” La repressione sulle cerimonie. Le autorità hanno cercato di impedire alle famiglie delle vittime di tenere cerimonie sulle tombe dei loro cari, anche in occasione dei compleanni. I parenti delle persone uccise che hanno organizzato riunioni, spesso con aria di sfida, hanno raccontato che le forze di sicurezza hanno represso violentemente le cerimonie, picchiando o arrestando arbitrariamente i presenti. Le tombe distrutte. Amnesty International ha documentato la distruzione delle tombe appartenenti a più di 20 vittime provenienti da 17 città. Le lapidi sono state danneggiate con il catrame, la vernice o con incendi dolosi, in alcuni casi. In altri sono state rotte e le frasi incise, che descrivono le vittime come “martiri” o raccontano che sono morte per la causa della libertà, sono state cancellate. Alcune tombe sono state danneggiate dalle forze di sicurezza davanti ai familiari; altre sono state distrutte durante la notte o in momenti in cui nessuno era presente. La tomba di Mahsa Amini. La famiglia della ventiduenne uccisa lo scorso settembre ha parlato pubblicamente dei ripetuti danni alla lapide della ragazza. Le autorità hanno annunciato l’intenzione di rendere il cimitero di Aichi a Saqqez, nella provincia del Kurdistan, dove è sepolta, meno accessibile al pubblico. La tomba di Mahsa Amini in questi mesi è diventata un luogo in cui le famiglie delle persone uccise illegalmente durante le proteste si sono riunite per trovare conforto e solidarietà e confermare la loro determinazione nel cercare giustizia.