I volontari contro Nordio: “Due telefonate in più non aiutano i detenuti” di Claudio Laugeri La Stampa, 22 agosto 2023 La denuncia in una lettera di tre associazioni dopo l’annuncio di modifica della normativa. “Amplieremo i colloqui telefonici dei detenuti. sono scintille preziose nel ravvedimento di chi sta espiando la pena, soprattutto in un momento delicato per le ragioni che conosciamo”. È la vigilia di Ferragosto. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio è appena stato in visita al carcere Lorusso e Cutugno di Torino, dove pochi giorni prima una detenuta si era impiccata e un’altra aveva deciso di lasciarsi morire. Per la disperazione. Le parole del Guardasigilli vengono accolte con speranza da carcerati e operatori volontari. “Abbiamo tirato un sospiro di sollievo a leggere che il ministro Nordio si era reso conto dell’importanza di dare una svolta a tutta la negatività che sta travolgendo le carceri puntando proprio in particolare sull’aumento delle telefonate”, scrivono Ristretti Orizzonti, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Associazione Sbarre di Zucchero in una lettera indirizzata allo stesso Nordio, al presidente della Repubblica e a Papa Francesco. Stato d’animo stroncato dalla notizia che la riforma ipotizzata dal ministro porterebbe a “aumentare da quattro a sei le telefonate mensili” per i detenuti, esclusi quelli che scontano pene per reati gravi e violenti. Una proposta bollata come “inconsistente”, facendosi ambasciatori del pensiero di “tutti quelli che come noi entrano tutti i giorni in carcere”. La spiegazione è offerta con altrettanta schiettezza, mista a un po’ di risentimento per una sorta di promessa tradita: “Ma cosa cambierebbe con due miserabili telefonate in più al mese di 10 minuti l’una in quelle vite di solitudine isolamento lontananza dalle famiglie?”. Quelle chiamate ai familiari sono una conquista avvenuta in tempi di Covid, anche se poi “è successo quello che non doveva succedere: fermata l’epidemia si è deciso di fermare anche molte delle telefonate in più, salvo in quelle carceri dove la forza del volontariato e del Terzo settore, delle persone detenute e dei loro familiari ha trovato una risposta saggia delle direzioni e il buon uso delle loro prerogative per mantenere le telefonate”. Alla fine, l’apertura di Nordio è diventata un boomerang. Il carcere è un ambiente particolare, dove tutto è amplificato. E l’esasperazione è pane quotidiano in una situazione (che dura da qualche lustro) di sovraffollamento e difficoltà ad assecondare le richieste di lavoro dei detenuti. E questa ipersensibilità riverbera anche fuori dalle celle. “Qui si fa del male anche ai familiari, che non hanno nessuna responsabilità, anzi hanno bisogno di essere incoraggiati e aiutati - scrivono le tre associazioni. E ricordiamoci che ci sono Paesi in cui le famiglie indigenti vengono sostenute dalle istituzioni. In Italia, le persone detenute si pagano le telefonate. Qualcuno non venga a dirci che non si possono creare differenze tra chi può pagarne di più e chi non può, si tratta piuttosto di aiutare e sostenere chi non ha possibilità, tanto più che se queste persone avessero come prescrive la legge un lavoro, questo problema non esisterebbe”. Una questione di prospettiva. C’è chi pensa che i detenuti “hanno sbagliato e devono pagare”. Principio sacrosanto, ma come ricordano le associazioni è da contemperare con il precetto dell’articolo 27 della Costituzione “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La lettera chiede al ministro “un gesto di cambiamento vero” e punta a ricevere il sostegno del Colle e del Vaticano, non confidando troppo “nei nostri governanti”: a dire dei firmatari, “sembrano ignorare che la pena detentiva consiste nella privazione della libertà e non in altre “torture” che possono spingere anche al suicidio, come la mortificazione degli affetti”. Il pacchetto diffidenza è servito. Poco importa se la situazione non è mai migliorata nonostante i governi di tutti i colori che si sono susseguiti negli ultimi vent’anni. Adesso, la macchina scassata della Giustizia è finita in mano a Nordio. E tocca a lui aggiustarla. Il prelievo ai detenuti di parte dello stipendio per il fondo delle vittime? È incostituzionale da 30 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 agosto 2023 La proposta del sottosegretario alla giustizia Ostellari si scontra con la sentenza numero 49 del 1992 della Consulta. Trattenere tale onere dovrebbe ricadere su tutta la collettività e non solo sui detenuti lavoratori. Per questo si configura una violazione dell’art. 3 Costituzione. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, ha annunciato l’istituzione di un fondo a favore delle vittime dei reati, finanziato tramite una parte della retribuzione dei detenuti, nota tecnicamente come “mercede”. Questa iniziativa ha suscitato qualche timida polemica, specialmente a causa dei miseri stipendi che la maggior parte dei reclusi percepisce e che ancora vengono chiamati mercede. Come evidenziato da Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, si tratta principalmente di retribuzioni modeste derivanti da attività quali “scopino”, “portavitto”, “spesino” o la rammendatura di federe e lenzuola. Ma c’è anche dell’altro, che questa volta ha scovato la redazione di Ristretti Orizzonti: già 30 anni fa, la Corte Costituzionale, con la sentenza numero 49 del 1992, ha dichiarato incostituzionale tale trattenuta. Per avere una comprensione più approfondita, è necessario esaminare il percorso legislativo riguardante la retribuzione dei lavoratori detenuti. L’intento iniziale del legislatore nel 1975 era di regolare due diversi livelli di compensi all’interno della retribuzione: la remunerazione, che rappresentava la parte effettivamente ricevuta dal detenuto (ridotta opportunamente di una o più quote), e la mercede, che rappresentava l’intero compenso dovuto per la prestazione (calcolato per ciascuna giornata lavorativa in base alla categoria di appartenenza). Secondo questa previsione normativa, la differenza tra remunerazione e mercede non aveva significato nel caso dei lavoratori detenuti; tuttavia, nel caso di imputati e condannati, veniva applicato un meccanismo di decurtazione che riduceva la remunerazione a sette decimi della mercede. I tre decimi differenziali erano destinati alla Cassa per il soccorso e l’assistenza alle vittime del reato, mentre la parte relativa alla retribuzione degli imputati veniva accantonata e versata all’avente diritto in caso di proscioglimento o assoluzione, o alla stessa Cassa in caso di condanna. La riforma introdotta dalla legge n. 663 del 1986 ha poi abrogato la disposizione relativa ai tre decimi destinati alla Cassa, comportando la scomparsa della distinzione tra mercede e remunerazione (attualmente, entrambi i termini rappresentano lo stesso valore economico della prestazione lavorativa). Tuttavia, al posto della Cassa, i tre decimi venivano comunque trattenuti a favore di Enti o Regioni. Negli anni successivi all’entrata in vigore della legge Gozzini, che ha riformato tale disciplina, la Corte Costituzionale ha emesso due sentenze di particolare rilevanza in materia. Richiesti di decidere sulla costituzionalità della trattenuta dei tre decimi (art. 23 O.P.), e sulla compatibilità della normativa che consente una retribuzione inferiore ai livelli salariali previsti dai contratti collettivi di lavoro (art. 22 O.P.), i giudici della Consulta hanno raggiunto una soluzione di compromesso nella sentenza n. 1087/1988. In sintesi, non hanno rilevato violazioni costituzionali nell’articolo 22 O.P., ma hanno riconosciuto l’applicabilità delle garanzie costituzionali anche al lavoro penitenziario, pur ritenendo ragionevole una differenza di trattamento economico tra lavoro interno ed esterno. In pratica, la Corte ha stabilito che l’art. 22 O.P. (che prevedeva una decurtazione fino a due terzi) si applicava solo ai lavori domestici dipendenti dall’amministrazione penitenziaria, riconnettendo la norma agli standard di proporzionalità e sufficienza dell’articolo 36 della Costituzione. Questo significa che tale disciplina non si applica ai soggetti che svolgono lavoro extramurario, ai quali verrà corrisposta una retribuzione conforme ai contratti collettivi di lavoro. Ma passiamo alla sentenza decisiva. La pronuncia n. 49 del 1992 ha risolto definitivamente la questione sulla legittimità costituzionale dell’art. 23 O.P. Con la scomparsa del vincolo di solidarietà tra autori e vittime del reato e la soppressione della Cassa per il soccorso e l’assistenza alle vittime, è emersa un’ingiustificata disparità di trattamento tra detenuti e cittadini. La Corte ha stabilito che, in assenza di destinazione specifica delle trattenute a favore delle vittime, queste hanno scopi di beneficenza pubblica. Poiché tale onere dovrebbe ricadere su tutta la collettività e non solo sui detenuti lavoratori, si configura una violazione dell’art. 3 Costituzione, con un’ingiustificata discriminazione tra detenuti e altri cittadini. Riportiamo direttamente i passaggi dei giudici costituzionali, i quali hanno ritenuto che “essendosi sostituiti alla Cassa enti portatori di interessi plurimi, sono venuti meno la specifica destinazione delle trattenute di cui trattasi al soddisfacimento dei bisogni delle vittime delle azioni delittuose e il vincolo di solidarietà tra detenuti e vittime dei delitti, sicché le trattenute sono dirette a soddisfare finalità di beneficenza pubblica. E siccome il relativo onere deve gravare sull’intera collettività e non solo sui detenuti che lavorano, sussiste violazione del richiamato art. 3 Cost., ponendosi un’irrazionale ingiustificata discriminazione tra i detti detenuti e gli altri cittadini”. Di conseguenza, dopo questa pronuncia, è stato riconosciuto ai detenuti lavoratori il diritto di ottenere i tre decimi della mercede precedentemente trattenuti. Questi importi, un tempo destinati alla Cassa per il soccorso e l’assistenza alle vittime, e in seguito alle Regioni ed enti locali dopo l’abrogazione, vanno ora ai detenuti lavoratori. In sintesi, il Consiglio dei ministri non può approvare la proposta del Sottosegretario Ostellari. Se lo facesse, il Presidente della Repubblica avrebbe difficoltà a promulgare una legge incostituzionale. Ma sicuramente, di questo, ne è già a conoscenza il ministro della Giustizia Nordio. O almeno è auspicabile che lo sia. Antigone: il sottosegretario Ostellari dovrebbe impegnarsi ad aumentare il lavoro in carcere, non togliere i soldi ai detenuti antigone.it, 22 agosto 2023 Il lavoro in carcere è uno degli strumenti principali di reintegrazione sociale. Lavorare, guadagnare, imparare una professione, può essere l’elemento che consente alle persone detenute di rompere con il proprio passato criminale, portando così ad un abbattimento della recidiva. Tuttavia il lavoro in carcere è poco. Le nostre rilevazioni ci dicono che, nel 2023, solo il 33% delle persone detenute ha un impiego, fra l’altro non particolarmente qualificato. La maggior parte di loro lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e per poche ore al giorno o per periodi brevi, così da distribuire le opportunità lavorative - e di guadagno - tra più persone possibili. Solo il 2,5% lavorano poi alle dipendenze di un datore di lavoro esterno, con professioni che possono accompagnarli anche a fine pena. Il lavoro è dignità, emancipazione sociale. Il lavoro deve essere reddito altrimenti si torna ai lavori forzati. I prelievi forzosi dagli stipendi dei detenuti che lavorano per darli alle vittime hanno già subito nel 1992 la censura della Corte Costituzionale. Non si vede perché far gravare l’onere generico della restituzione alle vittime sui detenuti che lavorano. Viene violato il principio di uguaglianza oltre che l’articolo 36 della nostra Costituzione in materia di dignità del lavoro. I risarcimenti alle vittime sono già decisi nei procedimenti penali e civili. Lavorare e guadagnare per un detenuto significa, soprattutto per chi proviene da contesti di marginalità e povertà, poter avere qualche soldo per acquistare beni al sopravvitto (ad esempio i ventilatori per combattere il grande caldo che in carcere si vive), per far fronte alle spese di mantenimento che ogni detenuto deve all’amministrazione penitenziaria a fine pena e per aiutare i familiari fuori. Per questo il sottosegretario alla Giustizia Ostellari farebbe bene ad occuparsi di come incentivare l’aumento delle opportunità di lavoro - cosa che lo stesso ministro della Giustizia Nordio ha dichiarato più volte essere una priorità del governo - anziché proporre di togliere soldi ai detenuti lavoranti. Ne guadagnerebbe la sicurezza di tutti. Inoltre a proposito delle telefonate. Pensare a una modifica della norma regolamentare estendendo da 4 a 6 telefonate mensili significa non cambiare le regole già in corso. In moltissimi istituti sono già sei. Coraggio, ci vuole coraggio. Vanno previste telefonate quotidiane per evitare solitudine, depressione, abbandono. Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Nessuno Tocchi Caino: risarcire vittime dei reati con lavoro detenuti? Ma il “lavoro vero” in carcere non c’è… di Alessio Di Florio notizienazionali.it, 22 agosto 2023 Il tema delle condizioni delle carceri italiane e di chi vi è recluso o vi lavora è argomento caldo in queste ultime settimane. Non solo per le alte temperature, che colpiscono una popolazione già stremata e in difficoltà per condizioni a dir poco critiche. Vari sono stati i suicidi e i tentati suicidi di detenuti. Il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari ha proposto di istituire un fondo a a sostegno delle vittime di reati “da alimentare con una piccola parte degli stipendi dei detenuti che lavorano”. Su questa proposta è intervenuta la storica militante radicale e presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini, impegnata da decenni sul rispetto dei diritti umani negli istituti detentivi italiani all’Adn Kronos. Rita Bernardini dichiara di essere favorevole, “prima però diamogli un lavoro che oggi non c’è” a chi è detenuto. “Chi conosce quale sia la condizione dei detenuti che lavorano in carcere sa che è assegnato al lavoro solo il 25-30% dei ristretti, che un detenuto lavora in media 2-3 mesi all’anno per poche ore al giorno, che il salario si aggira in media, per i mesi che si lavora, intorno ai 150-200 euro (tranne che per i cuochi e gli addetti alla Manutenzione Ordinaria Fabbricato che fanno anche turnazioni più lunghe con un lavoro più stabile) e che dal salario vengono immediatamente trattenute le quote per il mantenimento - sottolinea la presidente di Nessuno Tocchi Caino - poi ci sono i lavori più remunerati (ma sempre di salari bassi parliamo) come quelli alle dipendenze di cooperative o imprese esterne o per le lavorazioni gestite dall’amministrazione penitenziaria: in tutto si tratta di circa duemila detenuti, cioè del 3,4% della popolazione ristretta”. La proposta di Ostellari non sarebbe una novità assoluta: Rita Bernardini ricorda che “già oggi lo stipendio del detenuto può sempre essere trattenuto fino a un quinto se il creditore (il ministero o le vittime di reato) agisce per il recupero del credito”. “La maggior parte dei detenuti non ha la possibilità di lavorare in carcere e quando lo fa prende compensi miserrimi - testimonia Rita Bernardini - migliaia sono coloro che non hanno nemmeno di che vestirsi, con cosa lavarsi, con quali soldi telefonare alle famiglie” e “da anni sento parlare di lavoro in carcere, ma la realtà è che si fa di tutto per ostacolare il lavoro vero, il lavoro serio tanto che ogni anno non viene nemmeno speso l’intero ammontare dei fondi della Legge Smuraglia per gli sgravi fiscali alle imprese che assumono detenuti”. Abolire le prigioni è ragionevole. O almeno... di Andrea Pugiotto L’Unità, 22 agosto 2023 Le morti per suicidio confermano che la detenzione è una punizione essenzialmente corporale: privazione di libertà personale, sovraffollamento, patologie psico-fisiche. 1. Entrare in carcere e non uscirne vivi. È il tragico fai-da-te che, goccia a goccia, produce gli effetti di una clemenza atipica: intervenendo prima o dopo la condanna, infatti, la morte del reo estingue - rispettivamente - il reato o la pena (arti. 150 e 171 c.p.). Attraverso il suicidio, “decidi tu quando” (Sandro Bonvissuto, Dentro, Einaudi 2012). Non c’è nulla di esistenzialmente insondabile in questi gesti estremi, se commessi dietro le sbarre. Il punto, semmai, è di non sprecarne gli insegnamenti. Vediamo quali. 2. Per una volta, le parole del ministro Nordio sono a calibro: “Ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, per la giustizia e mia personale”. Nelle relazioni con l’altro, infatti, custodire qualcuno significa preservarlo, provvedere alle sue necessità, accudirlo (“perché sei un essere speciale/ed io avrò cura di te”, come canta un ispirato Franco Battiato). Non diversamente, sugli apparati dello Stato che hanno in custodia decine di migliaia di individui grava il primario compito di salvaguardarne l’integrità, perché si tratta di soggetti pur sempre titolari di tutti i diritti fondamentali non incompatibili con lo stato di detenzione: in primis, la vita. Dichiarando inviolabile la libertà personale, l’art. 13 Cost. proprio questo intende tutelare: l’indisponibilità e l’intangibilità del corpo comunque ristretto. Della sua morte dietro le sbarre, quindi, è lo Stato il responsabile, anche solo per omissione. La drammatica questione dei suicidi dietro le sbarre rivela così la sua autentica natura. È questione politica? Certamente. E questione legata all’amministrazione della giustizia? Senza dubbio. È una gigantesca questione umanitaria? Anche. Ma, prima di tutto, è una questione di legalità (costituzionale, legislativa, regolamentare) violata 3. C’è di più e di ancora più grave. Quando la macabra hit parade dei suicidi in cella raggiunge vette da record (85 nel 2022, mai così tanti; già 47 ad agosto 2023), il problema tracima e rischia di travolgere la legittimazione degli apparati coercitivi dello Stato. Il diritto, infatti, serve a domare la violenza attraverso il monopolio statale della forza legittima, posto a tutela dell’incolumità dei cittadini, siano essi liberi o incarcerati. Se lo Stato viene meno a tale compito è il contratto sociale a saltare, poiché l’obbedienza alle leggi e la lealtà dei cittadini non trovano più corrispettivo. Ciò è lampante se la morte segue un pestaggio o una tortura per mano di agenti penitenziari, perché “la divisa non è uno scudo penale, non è un fattore di immunità. La divisa, semmai, è fonte di accresciuta responsabilità” (Patrizio Gonnella). Ma non è diverso quando un detenuto si suicida, se quel gesto estremo è riconducibile ad una detenzione non conforme all’ordinamento penitenziario. Essere incarcerati, infatti, non può voler dire essere condannati a venire maltrattati, isolati dai propri familiari, stipati in celle sovraffollate dove si sopravvive a stento, vedersi preclusa ogni offerta trattamentale, patire la pena extra-ordinaria dell’abbruttimento, dell’umiliazione, della perdita di sé, fino ad essere indotti a togliersi la vita. In entrambi i casi - morte subita o autoindotta - la dinamica è sempre la stessa: si entra in carcere e non se ne esce vivi. Anche così cresce il deficit di legittimazione che erode progressivamente le istituzioni, come in altri aspetti - egualmente essenziali - del contratto sociale: si pensi alla rappresentanza politica, deteriorata dalla crescita esponenziale dell’astensionismo elettorale. Sono crepe allarmanti, avvisaglie di possibili cedimenti strutturali. 4. Le morti per suicidio, inoltre, confermano che la detenzione è una punizione essenzialmente corporale, cioè primitiva: privazione di libertà personale, sovraffollamento, negazione della relazione sessuale, patologie psico-fisiche, autolesionismo e - appunto - suicidi. Per quanto ogni atto estremo faccia storia a sé, tutti i suicidi sono agiti all’interno di un regime detentivo, che non si può ridurre a fondale, rappresentando la concausa essenziale di tali scelte tragiche. Studi epidemiologici sulle morti in carcere confermano tale nesso causale. Per parte sua, il Comitato Nazionale di Bioetica ha parlato di fenomeno suicidario aggravato dal marcato sovraffollamento degli istituti di pena e dall’elevato ricorso all’incarcerazione (cfr. parere del 25 giugno 2010). Se ne mostrò persuaso anche l’allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, denunciando pubblicamente che quella carceraria è “una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”, allarmante “per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo”. Era il 28 luglio 2011: parole inascoltate, come lo fu il suo conseguente messaggio alle Camere. Nel frattempo, dal 2012 ad oggi, in galera si sono verificati 715 suicidi. Del resto, sono altre le parole che compongono l’attuale vocabolario carcerario. Pena sta per sofferenza, prima ancora che per sanzione. Espiare è una forma verbale punitiva e patibolare. L’azione penale è obbligatoria perché il pan-penalismo tutto persegue, scaricando poi quel tutto nel carcere. La certezza della pena, da garanzia formale di prevedibilità della sua misura edittale, oggi invece esprime l’ingiunzione a che la condanna sia espiata dietro le sbarre fino all’ultimo giorno. Una pena che per i detenuti più pericolosi deve tradursi in carcere duro, come viene chiamato impropriamente - ma eloquentemente - il regime detentivo speciale del 41-bis. Un’incarcerazione così non può che essere predatrice di vite. 5. Nella loro drammaticità, i suicidi in carcere certificano il fallimento storico dell’istituzione carceraria e della pena, qualunque sia la sua funzione (retributiva, preventiva, rieducativa, di difesa sociale). E quanto i movimenti abolizionisti sostengono, da sempre. Come già accaduto per la schiavitù, i lavori forzati, la tortura e (nella maggior parte dei paesi aderenti all’ONU) la pena capitale, così anche il carcere sarà, prima o poi, riposto tra gli arnesi dismessi dalla storia del diritto penale. In questa prospettiva abolizionista, non è più sufficiente perseguire la morte della pena di morte (l’abolizione universale della pena capitale). Né la morte della pena fino alla morte (l’abrogazione dell’ergastolo). Né la morte della morte per pena (la prevenzione dei decessi dietro le sbarre). Va definitivamente decretata la morte della pena tout-court, identificata nel carcere come luogo di morte: del diritto, dei diritti, delle persone detenute cela una contraddizione logica. Perché se il carcere è morte, allora il suo superamento definitivo esige la morte della morte, che non è cosa possibile né concepibile. L’abolizionismo inciampa così in un paradosso, che ne rinvia l’affermazione a un tempo impolitico. 6. Qui e ora, più che abolirlo il carcere va ridotto a extrema ratio: è questo il filo da tessere, tenue ma tenace. Il carcere, cioè, va progressivamente svuotato e mai più riempito di nuovo, riservandolo ai casi in cui non siano efficaci altri strumenti di tutela per beni ritenuti essenziali. Lo impone la Costituzione, che non conosce il lemma “carcere”, parla di “pene” al plurale e concepisce la detenzione “non come “punto d’arrivo”, ma come punto da cui “ripartire”“ (Giovanni Maria Flick). Su cosa e come fare per riuscirci disponiamo già di preziosi manuali d’istruzioni, prodotti dal lavoro collettivo dell’Ufficio del Garante nazionale (presieduto da Mauro Palma), degli Stati Generali sull’esecuzione penale (presieduti da Glauco Giostra) e della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario (presieduta da Marco Ruotolo). Tradurli finalmente in leggi, regolamenti, circolari, è il vero modo per riparare all’evidente fallimento dello Stato davanti ai troppi Miche, cui hanno aperto la cella quando ormai era già tardi. La “certezza della pena”? È incostituzionale di Michele Partesotti Il Domani, 22 agosto 2023 Nel programma del governo è presente una riforma del sistema penale e penitenziario che dovrebbe portare all’effettività della pena. Se le parole hanno un senso, questo significa che chi viene condannato dovrà scontare tutta la pena in carcere. Vorrei però ricordare alcuni dati sul sistema nazionale italiano. Mentre oltre la metà dei condannati a pene ordinarie sono recidivi, solo due su dieci di quelli che vengono sottoposti a misure alternative fanno poi ritorno in carcere in seguito a nuove condanne. Inoltre, una persona in carcere costa circa 130 giuro al giorno, cifra che potrebbe essere benissimo utilizzata per potenziare le misure alternative fornendosi di un’adeguata sorveglianza, oltre che per la formazione in carcere. Intanto, se è vero che durante il picco della pandemia è diminuito l’affollamento, oggi siamo in pieno recupero, col 5,3 per cento di incremento (dati Istat) negli ultimi due anni ed un aumento dei posti dell’1,5 per cento. Nelle carceri femminili poi, con lo stesso trend, i posti disponibili sono addirittura diminuiti del 3,2 per cento rispetto al 2019. Quindi, a proposito di pene detentive c’è un falso assioma che è opportuno sfatare riguardante l’efficacia della certezza della pena. Ma intanto la propaganda gioca sul pregiudizio e coltiva la paura su ogni notizia di cronaca nera. Invece la dura realtà è che vi è una proporzione diretta tra il tasso nazionale di affollamento ed il numero di suicidi, questo perché, com’è risaputo, le condizioni delle carceri sono spesso inumane. Poi c’è da segnalare che la percentuale di revoca di misure alternative al carcere per comportamenti recidivi si aggira intorno al 5 per cento; dunque, non è tale da portare a definire queste misure pericolose, ma anzi al contrario è una dimostrazione del fatto che sono importantissime per il recupero del 95 per cento dei condannati a cui vengono comminate e anche per assicurare il buon funzionamento del sistema carcerario. Per cui, mi chiedo a che pro accanirsi sull’effettività della pena, nettamente in contrasto con l’art. 27 della Costituzione, visto che per recuperare il condannato, è indispensabile modulare e moderare la pena in base al grado di recupero di ogni carcerato? In carcere le donne scontano una “doppia pena” di Eleonora Lorusso Donna Moderna, 22 agosto 2023 Dopo i recenti suicidi di due donne in carcere, parla Daniela De Robert, componente dell’Autorità Garante per i diritti dei detenuti, che lancia una proposta. A pochi giorni da suicidio di due detenute nel carcere delle Vallette di Torino, il tema del sovraffollamento delle strutture penitenziarie italiane resta in primo piano. “Ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, per la giustizia e mia personale”, ha commentato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, dopo la morte di Susan John, la donna nigeriana di 43 anni lasciatasi morire di fame e di sete, e di Azzurra Campari, la 28enne italiana trovata impiccata nella sua cella. Le donne in carcere hanno meno diritti - Il Ministro Nordio ha anche avanzato una proposta per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, ipotizzando di ristrutturare “entro tempi ragionevoli edifici dismessi, magari delle caserme”, e assumendo contemporaneamente nuovo personale, che non sarebbe sottratto alle strutture già esistenti”, ha spiegato il Guardasigilli. Ma i numeri raccontano di una situazione drammatica, per la quale l’Italia è già finita sotto accusa da parte del Cpt, l’organo anti-tortura del Consiglio d’Europa. E dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale arriva un monito: “Le donne nelle carceri sono una minoranza quantitativa, ma anche qualitativa, nel senso che a loro sono offerte anche meno possibilità di attività all’interno delle strutture, che invece dovrebbero essere luoghi di recupero, come afferma la Costituzione”. Carceri sovraffollate oltre i limiti - Come emerso dalle ispezioni del Cpt, il principale problema delle carceri italiane è proprio il sovraffollamento, che avviene quando il 90% dei posti è già occupato. “I dati aggiornati indicano che la popolazione carceraria complessiva in Italia è di 58.047 persone, per una capienza teorica di 51.350 posti, dunque già in esubero. Ma molte case circondariali sono interessate da lavori o ristrutturazioni, quindi i posti disponibili scendono a 47.521. Significa che in media c’è un sovraffollamento pari al 122%”, spiega Daniela De Robert, componente del Collegio dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti. Dove il carcere è più affollato - Il ministro Nordio, nella sua visita alle Vallette all’indomani del duplice suicidio, aveva incontrato il Garante dei detenuti, che aveva sottolineato l’urgenza di un intervento per risolvere il problema dell’affollamento nelle carceri. “Sicuramente c’è un problema di numeri, ma anche di distribuzione sul territorio. Al momento le regioni dove la situazione è più critica sono la Puglia (che con la Basilicata è amministrata da un provveditore unico), con oltre il 150% di occupazione dei posti; a seguire si trova la Lombardia, con oltre il 145% e la Campania, con il 123%. Per paradosso in Sardegna si registra l’88%, dunque una condizione di sottoccupazione - chiarisce De Robert - Anche all’interno dei reparti non c’è una distribuzione omogenea, perché ad esempio ci possono essere sezioni femminili con poche detenute, all’interno di carceri a prevalenza maschile e sovraffollate. Lo stesso vale per reparti per detenuti protetti”. A proposito delle donne, poi, esiste un’altra criticità. Quante sono le donne nelle carceri - “Complessivamente le donne detenute sono 1.488, pari al 4% della popolazione carceraria italiana, distribuite in 49 sezioni femminili all’interno di case circondariali miste (ma di fatto a prevalenza maschile) e 4 istituti esclusivamente riservati a donne: sono quelli di Rebibbia a Roma, di Trani, Pozzuoli e della Giudecca a Venezia”, chiarisce la rappresentante del Garante. Sarebbero una minoranza, dunque, ma è come se scontassero una “doppia pena”: “Fatta eccezione per il carcere di Rebibbia, che non solo è quello femminile più grande d’Italia, ma anche d’Europa e ospita circa 3/400 donne, per gli altri istituti a prevalenza maschile non c’è di fatto un’adeguata offerta di attività per le detenute. Mi riferisco al grosso problema del tempo vuoto che viene trascorso in carcere, il cui compito - non dimentichiamolo - è rieducativo e di reinserimento sociale, come previsto dalla Costituzione”, prosegue De Robert. Le donne scontano una “doppia pena”: gli stereotipi contro di loro - Il problema nasce anche in questo caso dai numeri: “Nella maggior parte dei casi alle donne viene data la possibilità di svolgere attività che si limitano al beauty o all’uncinetto: non è detto che piaccia a tutte, ma soprattutto che possibilità di reinserimento sociale o lavorativo offre? Non può essere l’unica alternativa: perché non pensare a un corso di alfabetizzazione per detenute straniere o di informatica per tutte, dal momento che ormai anche per fare la commessa occorre una conoscenza di base in questo settore?”, chiede De Robert. Nonostante la forte presenza di personale femminile nella polizia penitenziaria, nel personale educativo e nei ruoli apicali (“le direttrici di carceri sono il 70%”) è ancora difficile introdurre un cambiamento: “C’è una fortissima stereotipia al maschile, di stampo antico, che fa sì che il carcere sia un luogo neutro solo in linea teorica. La soluzione potrebbe essere la creazione di classi miste, perché per le attività comuni anche il personale di sorveglianza è già misto, come la maggior parte degli educatori e volontarie”, spiega ancora la rappresentante del Garante. Non solo: “Purtroppo le donne sono spesso colpevolizzare due volte e scontano una doppia pena: oltre a quella per le azioni illegali che hanno compiuto, non sono ritenute buone madri. Questo non accade ai padri”, aggiunge Diana De Marchi, presidente della Commissione Pari Opportunità del comune di Milano. Record di suicidi - Se il doppio suicidio alle Vallette ha riguardato donne, il problema delle morti in cella spinge a trovare una soluzione per tutta la popolazione carceraria. Nel 2022 si sono registrati 84 suicidi negli istituti penitenziari italiani, il numero più alto dal 1990, cioè da quando è iniziata la raccolta dei dati. Significa che lo scorso anno si è suicidato un detenuto ogni quattro giorni e mezzo, secondo l’associazione Ristretti Orizzonti, monitora la situazione nelle carceri. In generale, si sono tolte la vita 15,2 persone in cella ogni 10mila. Si tratta di un dato più alto rispetto alla media europea di 10,43, secondo l’organizzazione spagnola Civio. Anche rispetto ai suicidi tra la popolazione generale italiana, quelli in carcere sono 20 volte maggiori. Le donne che si tolgono la vita e la lettera del magistrato - Secondo un’analisi del Garante dei detenuti, pubblicata lo scorso dicembre quando i suicidi erano 79, è donna il 6% di chi ha deciso di porre fine alla esistenza in carcere. In 6 casi su 10 si tratta di persone italiane. Il numero maggiore di suicidi (avvenuti in 55 strutture su 190 su tutto il territorio italiano) si è verificato a Foggia con 5 casi, 4 sono avvenuti a Milano San Vittore e Firenze Sollicciano, seguite da Roma Rebibbia e Roma Regina Coeli, con 3 episodi. “La donna nigeriana suicida alle Vallette si è lasciata morire di fame e stenti, l’altra si è impiccata. Sono casi eclatanti, ma ricordiamoci che già lo scorso anno un magistrato scrisse una lettera aperta, all’indomani del suicidio di un’altra donna, dicendo di aver commesso un errore, di non essersi reso conto che si trattava di una persona fragile: è responsabilità di tutti farsi carico del problema, senza limitarsi a gridare allo scandalo quando accadono casi del genere”, dice De Robert. Ma come? Servono strutture intermedie gestite sul territorio - “Le misure alternative esistono e occorrerebbe avvalersene di più, per ridurre gli ingressi in carcere e facilitarne le uscite, senza far venire meno la sicurezza, ad esempio creando strutture intermedie sul territorio, gestite dagli enti come Comuni, Regioni o terzo settore. Non occorrono nuove mura di cinta o filo spinato, ma più permeabilità con la società civile, come prevede l’art.17 della Costituzione. Occorre un maggiore scambio e che il territorio intercetti di più le situazioni critiche, prima che queste portino a reati e carcerazione”, propone De Robert. L’esempio virtuoso di Milano - Di esempi virtuosi in realtà ne esistono, come quelli dell’Icam e della Casa famiglia Ciao, a Milano: “L’Icam, l’Istituto a custodia attenuta per le detenute madri, è nato nel 2006 in via sperimentale, da una convenzione tra il Comune di Milano, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e il Tribunale per i minorenni: lo scopo è far sì che le madri possano avere un’alternativa alla carcerazione, in modo da tenere i figli con sé. L’iniziativa ha avuto successo ed è diventata un modello a livello nazionale. Sempre sul nostro territorio c’è anche la casa famiglia Ciao, che ha le stesse finalità. Si tratta di realtà importanti che possono essere replicate in altre regioni, per questo abbiamo sollecitato la Commissione Giustizia in Parlamento, affinché siano acquisiti i dati regionali delle case famiglia presenti in tutta Italia”, spiega Diana De Marchi, che grazie alla delega al Lavoro e Politiche sociali della Città metropolitana di Milano, ha lavorato alla riattivazione dello sportello Lavoro e Diritti presso gli istituti penitenziari milanesi. Lo scopo è proprio promuovere attività che facilitino il reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti e permettere di conoscere i loro diritti. Quali misure alternative esistono - Le alternative alla cella oggi sono rappresentate dalla semilibertà (si esce di giorno per svolgere attività lavorativa, di studio o volontaria, per poi tornare a dormire in carcere); l’affidamento in prova ai servizi sociali (dopo l’attività autorizzata dal magistrato di sorveglianza e dalla direzione, non occorre tornare in carcere); la detenzione domiciliare, sia precedente che successiva al processo. “Quando nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a causa del sistema penitenziario da riformare, si era aperta la strada a misure come la possibilità di scontare gli ultimi due anni di pena ai domiciliari. Ma di fatto ciò non è possibile per chi, per esempio, non ha una casa o un lavoro, oppure ha un pregiudicato in famiglia: si tratta di persone in povertà economica, culturale e relazionale”. La responsabilità della società - “Oltre ai limiti del carcere inteso come istituzione in sé, non bisogna dimenticare le responsabilità della società. Ci preoccupiamo quando un bambino finisce in carcere con la madre, ma non pensiamo a quanto accaduto a Roma nel 2016, quando è stata inaugurata la prima e unica casa famiglia, ricavata da una villa sequestrata alla criminalità. Gli abitanti non la volevano, perché temevano per la sicurezza, per il deprezzamento delle loro case e perché non gradivano che i loro figli potessero frequentare quelli delle detenute. È per questo che insisto: occorre smettere di pensare che il carcere sia un luogo a sé. Le morti che vi sono avvenute devono far interrogare tutti”. Mirabelli. “Processi lenti e pene tardive: così si alimenta la sfiducia. E anche lo Stato è sconfitto” di Valentina Errante Il Messaggero, 22 agosto 2023 Per Cesare Mirabelli, giurista, presidente emerito della Corte costituzionale, non basta l’ennesima riforma, che potrebbe peggiorare la situazione. Perché la lentezza della giustizia, che alimenta la sfiducia e porta alla conseguente vendetta. Riguarda soprattutto un problema organizzativo. Dai processi lumaca alle sentenze creative: le aspettative sono sempre più deboli e aumentano i casi di regolamenti di conti personali. Qual è secondo lei la soluzione? “Intanto bisogna distinguere tra penale e civile e prendere in considerazione in maniera diversa gli effetti. tenendo presente che il civile è altrettanto importante, perché rappresenta i tre quarti dell’attività giudiziaria. Per quanto riguarda il penale, il fatto di farsi ragione da soli ha a che vedere più la vendetta che con la giustizia. L’uso della forza è e deve essere riservato allo Stato. Il problema è ovviamente legato all’efficacia e alla rapidità della sanzione, che interessa innanzitutto le parti offese, ma non solo. Anche per l’imputato la rapidità è importante. Lo abbiamo visto, ad esempio, con il caso Thyssen, con l’ad della società che ha varcato le porte del carcere a sedici anni dai fatti. L’esecuzione della pena, che dovrebbe avere come fine la rieducazione, dopo tanti anni, sembra invece una vendetta Ma anche nel civile i tempi lunghi e i costi d i un processo, possono alimentare la sfiducia, che è generale. E indurre i cittadini a rinunciare ad agire in giudizio per far valere un proprio diritto o a comportamenti opportunistici da parte d i chi è inadempiente, che può contare sulla lunghezza delle cause per continuare ad esserlo. Anche in questo caso la rapidità riguarda sia l’interesse dei cittadini che dello Stato, perché può condizionare l’economia, gli investimenti, ad esempio. Quindi per risolvere questo problema bisogna investire e destinare risorse”. Pensa che sia necessaria una riforma radicale? “Non bisogna illudersi che la modifica delle regole processuali possa di per sé rendere rapida l’attività giudiziaria: comprimere i tempi, per esempio, quelli per gli avvocati di presentare atti e istanze, produce benefici minimi. Il nucleo è invece quello degli aspetti organizzativi e funzionali, che sono più complessi. L’organizzazione richiede analisi, il cambiamento delle norme invece solo che venga scritta la nuova norma e pubblicata sulla Gazzetta. L’organizzazione e la giurisdizione sono un compito istituzionale che la Costituzione assegna al ministero, quindi è un compito costituzionale organizzare sia il personale e la sua amministrazione, sia le strutture serventi. Per esempio l’informatizzazione deve essere adeguata e amichevole. Non può essere scaricata sull’utenza una difficoltà dì approccio. L’accesso alla giustizia deve essere semplice. E ancora nel civile, cause identiche sono spesso assegnate a giudici diversi, con un eccesso di lavorazione e il rischio di sentenze contrastanti. Il penale riguarda più i fatti che il diritto, ogni episodio è unico. Però, per esempio, per quel che riguarda alcuni reati, la giurisprudenza della Cassazione arriva all’ultimo grado per l’interpretazione delle norme e invece, forse, occorrerebbe che fosse più sollecita e uniforme. La successione di molti interventi legislativi sui reati crea diverse Interpretazioni e ha effetti anche su indagini e processi. Una stabilità normativa che risponda a razionalità contribuirebbe al miglioramento del sistema”. Quali interventi potrebbero essere incisivi? “Ad esempio, per i magistrati che si trasferiscono in un’altra sede, dovrebbe essere previsto l’obbligo dì continuare il processo. con un’applicazione o con il rinvio del trasferimento. Renderebbe più credibile il processo. Ma sono tante le misure che potrebbero migliorare la situazione”. “Ideologico l’appello contro la separazione delle carriere”. Parla il pm Paolo Itri di Ermes Antonucci Il Foglio, 22 agosto 2023 Il sostituto procuratore di Napoli critica la lettera di circa 300 magistrati in pensione contro la riforma annunciata da Nordio: “La separazione delle funzioni tra pm e giudici è già nei fatti. “Purtroppo il tema della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici è ormai diventato una sorta di totem all’interno della magistratura, nel senso che se ne fa una battaglia di carattere ideologico, piuttosto che di carattere pratico e istituzionale, e l’appello di questi 300 magistrati lo conferma. Io ribadisco di non essere contrario alla separazione, anche se non risolverebbe certamente i problemi della giustizia in Italia”. Così, intervistato dal Foglio, il sostituto procuratore di Napoli, Paolo Itri, commenta la lettera sottoscritta da circa trecento magistrati in pensione, destinata al ministro Carlo Nordio, contraria all’annunciata riforma della separazione delle carriere. Dall’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo all’ex procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, passando per Gherardo Colombo, Giuliano Turone, Francesco Greco, Nello Rossi e gli ex procuratori torinesi Marcello Maddalena e Armando Spataro, le toghe in pensione hanno deciso di scagliarsi in anticipo contro una riforma che ancora non esiste, ma che “stravolgerebbe l’attuale architettura costituzionale”. “Sinceramente - afferma Itri - non riesco neanche a capire il motivo di questa opposizione alla separazione delle carriere, visto che, com’è ben noto, la separazione è ormai nei fatti: la quasi totalità dei pubblici ministeri ha sempre svolto soltanto la funzione di pubblico ministero, perché esiste una serie di paletti che rende ormai estremamente difficile il passaggio tra le funzioni”. Del resto, facciamo presente a Itri, sono gli stressi firmatari dell’appello rivolto a Nordio a premettere che “dalle riforme Castelli e Cartabia già sono stati praticamente eliminati i passaggi da una carriera all’altra”. Il problema, sostengono, è di principio. “Quindi sono loro stessi a dire che la loro è un’opposizione ideologica, non legata a esigenze reali!”, nota Itri. “La riforma potrebbe tranquillamente funzionare - aggiunge il sostituto procuratore napoletano -. Il problema è un altro. Anche il pubblico ministero deve avere delle doti di professionalità e di equilibrio. Se dovessimo avere due Csm che continuano a nominare i capi degli uffici sulla base degli stessi criteri di natura spartitoria e clientelare, il problema sarebbe soltanto sdoppiato. In Italia si pensa di risolvere ogni problema con una legge, quando invece bisognerebbe investire più sugli uomini. Chi mi garantisce che un procuratore della Repubblica nominato in un regime di unità della giurisdizione possa essere più equilibrato di un procuratore nominato in un sistema di separazione delle carriere? Non vorrei che questa contrarietà ideologica alla separazione sia un modo per sfuggire da quelli che sono i veri problemi della nostra categoria”. I sottoscrittori dell’appello sostengono, come sempre, che l’obiettivo della separazione delle carriere è quello di porre il pubblico ministero alle dipendenze dell’esecutivo, anche se nessuno lo ha mai proposto, a partire dal ministro Nordio. “Qui siamo al processo alle intenzioni - dichiara Itri -. Ovviamente va salvaguardata l’autonomia e l’indipendenza del pm dal potere esecutivo, ma queste devono far parte del patrimonio culturale e personale del magistrato. Siamo alla solita questione: bisogna investire sulle persone, non occuparsi esclusivamente delle norme”. Uno dei problemi più evidenti, secondo Itri, è la presenza di criteri spartitori nelle nomine delle cariche direttive e semidirettive. “Questo è il vero problema - ribadisce il pm - e riguarda in primo luogo le modalità con cui vengono eletti i componenti del Csm. Fino a quando i magistrati eletti al Csm saranno ognuno espressione di una corrente, e quindi di un gruppo di potere, chiaramente il problema si riprodurrà. Basta seguire le attività l’organo per rendersene conto, così come basta andare a vedere le volte che la giustizia amministrativa interviene per annullare delle nomine del Consiglio”. Come è possibile rendere i consiglieri indipendenti dalle correnti? “L’unica soluzione è il sorteggio temperato: selezionare un certo numero di magistrati candidabili, sulla base di una serie di requisiti, e poi procedere al sorteggio”, conclude Itri. Separazione delle carriere, Caiazza: “Il ministro ascolti i cittadini, non i veti dei pm in congedo” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 agosto 2023 Il leader dei penalisti: “Il governo rispetti le Camere. Siamo delusi da via Arenula”. “Siamo magistrati in pensione, civilisti e penalisti, giudici e pubblici ministeri, che sentono il bisogno di intervenire contro l’annunciata riforma della separazione delle carriere”: questo l’incipit di una lettera-appello rivolta al ministro della Giustizia Carlo Nordio da parte di suoi ex colleghi in pensione - tra i quali Giovanni Salvi, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Armando Spataro - che a tre settimane dall’inizio delle audizioni sul tema a Montecitorio sono scesi in campo per “fare ostruzionismo” fuori dal Parlamento. A loro replica Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali. Che ne pensa di questa iniziativa? Con tutto il massimo rispetto per le circa 350 autorevoli firme che hanno sottoscritto l’appello, sono depositate in commissione Affari costituzionali alla Camera oltre 75mila mila sottoscrizioni di cittadini italiani favorevoli alla nostra proposta di riforma costituzionale della separazione delle carriere. Osservo poi che la maggior parte dei magistrati che si sono rivolti a Nordio sono ex pubblici ministeri. Era quasi scontato... E dovrebbe farci capire tutto: quello della separazione delle carriere è un tema che non la magistratura nella sua interezza ma quella requirente rifiuta. Occorrerebbe interrogarsi sulla ragione. E qual è? Il sistema a carriera unica consente un condizionamento da parte degli Uffici di Procura rispetto alla fase del giudizio straordinariamente più forte di come sarebbe se ci fossero carriere separate. Vorrei fare una terza considerazione. Prego... Questo appello al momento è quasi inutile perché il percorso di riforma è paralizzato. Era iniziato nel migliore dei modi con la scelta di alcuni gruppi di maggioranza e del Terzo polo di fare propria la nostra proposta, e di depositarla in commissione Affari costituzionali. Dopo di che c’è stato l’annuncio molto generico, da parte dell’Esecutivo, della volontà di inserire nel cronoprogramma sulla giustizia una iniziativa governativa in materia di separazione delle carriere. Che bisogno c’è di questo, se è già pronto il percorso parlamentare? Che risposta si dà? Dobbiamo immaginare che si abbia in testa un’idea di separazione delle carriere diversa dal testo sottoscritto da Forza Italia, Lega, Azione e Italia Viva. A ciò si deve aggiungere che tra i parlamentari c’è malumore per il fatto che loro conducono istruttorie nelle commissioni su alcuni temi, ad esempio sulla prescrizione, e poi arriva l’iniziativa governativa sulla stessa materia. Il deputato Pittalis (FI) ci ha detto che occorre un miglior dialogo tra Esecutivo e Legislativo e maggior rispetto per i lavori delle commissioni parlamentari... Più che mai se parliamo di una riforma costituzionale. Se è vero che a settembre ci saranno le audizioni sulla separazione delle carriere, non dobbiamo nascondere il fatto che quell’annuncio del governo ha paralizzato per mesi il percorso parlamentare. E non sappiamo cosa accadrà. Una cosa è discutere in commissione, altra è portare un testo in Aula. Stiamo assistendo a qualcosa di preoccupante: Nordio ha detto che adesso le priorità sono altre. Ma proprio perché la separazione delle carriere necessita di un lungo iter parlamentare si sarebbe dovuto iniziare da subito a discuterne nelle sedi competenti. Io ho un timore. Che timore? Che l’appello degli ex magistrati si coniughi con una scelta di fatto del governo o di rallentare il percorso o addirittura di scrivere una riforma diversa. Una scelta coltivata a via Arenula? Questo è un altro punto fondamentale. Nessuno sa chi starebbe lavorando a questo fantomatico testo governativo. Non ci risultano accademici coinvolti, né noi siamo stati interpellati. Rimangono i magistrati fuori ruolo del Legislativo e del Gabinetto del ministero. Possiamo mai accettare una eventualità del genere, ossia che siano loro a scrivere la riforma della separazione delle carriere? A inizio anno Nordio ha posticipato l’entrata in vigore della riforma Cartabia per accogliere letteralmente “il grido di dolore delle Procure”. Poco tempo fa la magistratura antimafia si è lamentata di una sentenza della Cassazione sulla criminalità organizzata e il governo, con l’avallo del guardasigilli, ha varato un decreto d’urgenza per rimediarvi. In un quadro simile davvero si può pensare che Nordio abbia il coraggio di fare la separazione delle carriere? La sua è una buona domanda, ma essendo retorica contiene già la risposta. Ed è la nostra grande preoccupazione. Al di là delle schermaglie irrilevanti, ad esempio sul concorso esterno, sugli atti di governo cruciali abbiamo visto un governo pronto appunrto ad accogliere, come ha detto il ministro, “il grido di dolore dei pm”. Mi auguro che adesso non siano pronti ad accogliere il grido di dolore anche delle Procure in pensione. Auspico invece che si accolga quello delle migliaia, anzi dei milioni di cittadini, che in questi trent’anni, anche attraverso i referendum, i favorevoli erano il 90 per cento benché non si sia raggiunto il quorum, hanno di fatto chiesto la separazione delle carriere. Noi sappiamo che questo tema è uno dei pochi di giustizia liberale davvero popolare. Ed è per questo motivo che è temuto. Come replica a chi dice che, con la separazione e i due Csm, i pm avrebbero ancora più potere? Bisogna smetterla di prendere in giro le persone. Questo non è un argomento serio. Chi ci garantisce dal pubblico ministero è il giudice. Il pm può essere anche un poliziotto allo stato puro, un appartenente ad uno squadrone della morte, cosa che comunque non avverrebbe, ma non potrebbe fare nulla perché se il giudice non è d’accordo non può arrestare, non può sequestrare, non può adottare misure di prevenzione patrimoniale. L’Ucpi all’inizio ha investito molte speranze in Nordio. Adesso i vostri toni sono cambiati. Vi sta deludendo? Non possiamo e non intendiamo nascondere tutta la nostra delusione. Noi abbiamo salutato l’elezione di Nordio con entusiasmo. Abbiamo addirittura ritenuto di orientare una nostra astensione in difesa del ministro perché abbiamo capito che le idee liberali sono minoritarie in questo governo. Adesso però stiamo raccogliendo uno schiaffo dietro l’altro: non c’è un solo provvedimento adottato di senso liberale. Siamo sempre pronti a ricrederci e ad essere di nuovo a fianco al guardasigilli, ma per concludere dico: un ministro liberale fa il ministro e accetta di farlo se ti fanno fare le riforme liberali. Può in nome della ragionevolezza scendere a qualche compromesso, ma se non realizza riforme liberali o le pretende o si dimette. Nordio boccia Forza Italia: no all’invio degli ispettori per l’inchiesta sulle stragi di Firenze di Liana Milella La Repubblica, 22 agosto 2023 Con una risposta scritta alla richiesta di Pietro Pittalis, il Guardasigilli sostiene che “non ci sono condotte suscettibili di rilievo disciplinare”. Questa volta il Guardasigilli Carlo Nordio non asseconda Forza Italia nella richiesta di procedere con un’azione disciplinare contro i magistrati della procura di Firenze. Richiesta che gli aveva rivolto il vicepresidente della commissione Giustizia della Camera, Pietro Pittalis di Forza Italia, il 14 luglio, subito dopo l’uscita su Repubblica dell’articolo di Lirio Abbate dal titolo “Con le stragi del 1993 Cosa nostra puntava a indebolire Ciampi per favorire Berlusconi”. Pittalis sosteneva che lì fossero “riportati brani di conversazioni tra soggetti terzi, estranei all’indagine, il cui contenuto non ha peraltro alcuna attinenza con l’indagine stessa e, men che meno, rilevanza sotto il profilo penale”. Di qui la contestazione che fossero stati “divulgati a mezzo stampa atti di indagine e contenuti delle intercettazioni con una violazione gravissima di norme del codice di procedura penale e di quelle poste dall’ordinamento a tutela della privacy e dell’onorabilità delle persone, specie con riferimento ai soggetti estranei all’indagine”. Ma con una risposta scritta lo stesso Guardasigilli, che firma la missiva, sostiene di non vedere “la sussistenza di condotte suscettibili di rilievo disciplinare”. Che avrebbero dovuto colpi i procuratori aggiunti titolari dell’indagine Luca Turco, Luca Tescaroli e il pm Lorenzo Gestri. Nella replica Nordio ricorda i passaggi dell’inchiesta. Il 5 luglio era stato emesso un decreto di perquisizione, ispezione e sequestro nei confronti tra gli altri di Marcello dell’Utri, decreto impugnato il 12 luglio dagli stessi soggetti interessati. Nel provvedimento, scrive il ministro, “erano riportati riferimenti a conversazioni oggetto di captazione elettronica intercorsi tra gli indagati anche con soggetti terzi”. Ma il ministro aggiunge che “la procura ha segnalato di non poter comunicare ulteriori informazioni a riguardo, ostando a ciò il segreto investigativo”. Di qui la decisione del ministro stavolta di non inviare gli ispettori per ulteriori verifiche, poiché “non appare possibile affermare la sussistenza di condotte suscettibili di rilievo disciplinare poste in essere dai magistrati della procura di Firenze”. Che invece sono stati “colpiti” dallo stesso Nordio per il caso Renzi e l’inchiesta Open con la richiesta di azione disciplinare inviata al procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato. Perugia. Tribunale di Sorveglianza: le richieste dei detenuti e i ritardi del “giudice-poeta” di Cristina Privitera La Nazione, 22 agosto 2023 Attesa la decisione del Csm sulla richiesta di sospensione del magistrato. Il Garante, Caforio: “Un ruolo delicatissimo nella gestione dei già difficili equilibri carcerari”. “L’auspicio è che al magistrato vengano riconosciuti tutti i diritti, ma è necessario un cambio di passo. Anche per lo stesso ufficio che, a parte questo elemento di turbativa, è un’eccellenza”. L’ufficio in questione è il Tribunale di Sorveglianza di Perugia. E l’”elemento di turbativa” è il giudice Ernesto Anastasio che in quell’ufficio è stato trasferito nel 2021 (proveniente dal tribunale civile di Santa Mari Capura Vetere): 54 anni, originario di Piano di Sorrento, appassionato di poesia e letteratura A chiedere il “cambio di passo” è il garante dei detenuti dell’Umbria, l’avvocato Giuseppe Caforio. Il “nodo” sono le lungaggini nella gestione dei provvedimenti da parte del giudice Anastasio: in un anno se ne sarebbero accumulati circa 800. “Il magistrato di sorveglianza - sottolinea ancora l’avvocato Caforio - riveste un ruolo delicatissimo e fondamentale per la gestione dei già difficili equilibri carcerari. Abbiamo massimo rispetto per l’autonomia della magistratura, ma è da troppo tempo che arrivano segnalazioni sull’evasione delle istanze dei detenuti”. Istanze che riguardano le richieste più disparate presentate dai detenuti: salutare la mamma in punto di morte o partecipare a un matrimonio. “Una situazione (i ritardi accumulati dal giudice Anastasio, ndr) che si agginge alle gravi carenze di personale del Tribunale di sorveglianza”. Il presidente dello stesso Tribunale, Antonio Minchella, come il procuratore generale Sergio Sottani, hanno inviato segnalazioni. Richieste di intervento al Csm anche dagli avvocati e da un gruppo di detenuti. Con l’organo di autogoverno della magistratura che è intervenuto e ora valuta la sospensione del giudice dall’incarico e dallo stipendio. Lui, il magistrato, si è presentato davanti al Consiglio superiore della magistratura per “difendersi”: ai colleghi ha raccontato anche della sua passione per la poesia e la letteratura. All’attenzione del Csm anche i certificati medici presentati dal giudice e la perizia assegnata a un docente di psicopatologia forense dell’Università La Sapienza di Roma. Genova. Aumentano i prezzi della spesa in carcere, protesta dei detenuti di Alessandra Rossi Il Secolo XIX, 22 agosto 2023 Una rumorosissima protesta è stata messa in atto ieri sera, alle 23,45, nel carcere di Marassi. I detenuti della prima e seconda sezione - i reparti più grandi dell’Istituto - hanno sbattuto stoviglie e pentolame sulle grate e sulle porte delle celle. La protesta è durata circa un’ora. Lo rende noto il segretario Uil Pa Penitenziari, Fabio Pagani, spiegando che la situazione è stata tenuta sotto controllo dagli agenti, “trattenuti in servizio per fronteggiare eventuali disordini”. La protesta dei detenuti è stata messa in atto per l’incremento dei prezzi del “sopravvitto”, ovvero beni che gli stessi acquistano tramite spesa interna e soprattutto, sottolinea Pagani “fatto grave, per la mancata o meglio ritardata consegna della spesa (generi alimentari) dai detenuti acquistata, da parte della ditta appaltatrice. Se tali informazioni dovessero essere confermate - commenta il sindacalista - chiediamo l’immediato intervento dei vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, in quanto sia la Direzione che il Comando dell’Istituto sapevano di tale, grave problematica e non possiamo permetterci disordini e problematiche non risolte, per un Istituto con una capienza regolamentare/ottimale di 456 detenuti, con presenti circa 700 detenuti. Occorre tenere i riflettori sempre accesi su Marassi”. Per Pagani, “nelle carceri è assolutamente necessaria una task force che si occupi delle diverse emergenze, prime fra tutte la ‘densità detentiva’, gli organici della Polizia penitenziaria e degli altri operatori e i modelli organizzativi. Lo abbiano bene a mente il Ministro Nordio, ma anche il Presidente Meloni, perché i penitenziari potrebbero essere il vero banco di prova del Governo”. Andria (Bat). Le mani della libertà: il progetto senza sbarre di Peppone Calabrese fsnews.it, 22 agosto 2023 Ad Andria il riscatto dei detenuti attraverso la panificazione. Ho appuntamento nella Murgia pugliese con Attilio, un mio amico di Bari. Ci incontriamo ad Andria, dove si trova Castel del Monte, una fortezza del XIII secolo fatta costruire dall’imperatore del Sacro romano e re di Sicilia Federico II di Svevia. L’edificio famoso per la sua pianta ottagonale, domina la sommità di una collina nell’omonima frazione del comune di Andria. Avvistarlo è sempre suggestivo, così maestoso nella sua magnificenza, eppure in perfetta sintonia con la natura, come se quello fosse il suo posto predestinato. Saluto Attilio che, mentre ci incamminiamo verso il castello, mi parla della sua squadra del cuore, il Bari, mentre io gli racconto del Potenza Calcio: condividiamo la stessa passione. Poi ci fermiamo a chiacchierare su una panchina e lui dallo zaino tira fuori un pacco di taralli dicendomi di averli presi in un posto speciale. Visto che sono buonissimi, gli chiedo di accompagnarmi nel luogo in cui li ha acquistati perché vorrei comprarne una confezione da portare a casa. La strada per arrivare è quella tipica delle campagne pugliesi. Incrociamo oliveti, muretti a secco e tenute. Sul cancello di una di queste leggo la scritta “Masseria San Vittore”. Ci viene incontro un signore sorridente in jeans e maglietta e non posso fare a meno di notare la stampa sul la sua t-shirt: “Senza sbarre, a mano libera”. L’uomo si presenta, mi dice di chiamarsi Don Riccardo Agresti e io, incuriosito, gli domando il perché di quella maglietta. Mi spiega che Senza sbarre è il nome di un progetto diocesano nato come risposta ai numerosi problemi legati al carcere. In questo contesto ha preso vita la cooperativa A mano libera che produce, nei locali della masseria, pasta, taralli e prodotti da forno. Una misura alternativa attraverso cui le persone recluse hanno accesso al mondo del lavoro. “Nelle prigioni italiane i detenuti vengono puniti, non rieducati. La questione non va sottovalutata perché il modo in cui trattiamo i condannati delinea il nostro essere civili, la nostra capacità di vivere all’interno di una comunità, senza pregiudizi. Lo scopo del carcere, quello fondante e costituzionale, è rieducare, consentire alle persone che hanno scontato una pena di rientrare in società e di ricostruirsi una vita. Occorre sempre ricordarlo. A causa di diversi fattori non sempre questo avviene, ma credere fermamente nel diritto di chiunque a riabilitarsi ci rende comunque cittadini migliori”. Dopo aver ascoltato con grande attenzione le parole del sacerdote voglio sapere di più del progetto. Lui mi dice che tutto è cominciato all’interno delle comunità parrocchiali della zona, dove era evidente l’assenza dei padri agli incontri dedicati alle famiglie. “Indagando insieme a un altro parroco, ho scoperto che diversi di loro erano reclusi nella Casa circondariale di Trani o in altre carceri d’Italia. Era necessario fare qualcosa per incontrare queste persone e abbiamo deciso di organizzare colloqui più assidui con i detenuti anche per offrire loro una cura spirituale. Dopo qualche anno, quel conforto non era più sufficiente. Serviva qualcosa di più concreto per ridonargli la speranza in un futuro migliore, con nuove prospettive familiari, sociali e lavorative”. Intuisco così lo sviluppo della vicenda e l’idea di formare una comunità negli spazi della masseria. La conferma arriva immediatamente da Don Riccardo che mi spiega di aver chiesto al vescovo, insieme a Don Vincenzo Giannelli, la possibilità di prendere in gestione la Masseria San Vittore per aprire una comunità residenziale e semiresidenziale destinata a persone sottoposte a provvedimento privativo o limitativo della libertà personale. “Nello spirito della frase pronunciata da Gesù “bussate e vi sarà aperto”, Senza sbarre vuole essere un’opportunità, una possibilità per chi si trova a dover subire le criticità del sistema carcerario. Vogliamo essere l’anello di congiunzione tra il dentro e il fuori, provare ad alleviare i disagi che il passaggio comporta. La misura alternativa al carcere, sostituendosi alla pena detentiva e abituando il condannato alla vita di relazione, rende più efficace l’opera di risocializzazione”. Questa storia mi ha rapito e voglio conoscere bastanza i ragazzi. Raggiungo l’orto dove lavorano alcuni di loro, mi presento e chiedo cosa stanno facendo. Si guardano e il più anziano mi invita ad ammirare il frutto del loro lavoro: “Qui era pieno di rovi e immondizia. Lo abbiamo curato con le nostre mani e questo risultato ci gratifica tanto”. In questo piccolo pezzo di terra si producono ortaggi che non saranno venduti ma offerti alle associazioni del territorio come una sorta di risarcimento del danno inflitto alla società. Don Riccardo si avvicina, mi accarezza e io gli chiedo della cooperativa di lavoro nata dal progetto di comunità. Lui mi parla di un incontro provvidenziale con un pastaio che ha donato i macchinari alla masseria e insegnato ai ragazzi le tecniche per preparare la pasta e i taralli. È orgoglioso del loro percorso, dell’interesse suscitato in giro per l’Italia e va avanti spiegandomi i dettagli: “La vita comunitaria nella tenuta si sviluppa attraverso attività strutturate e si svolge secondo un’organizzazione abbastanza rigida. Compiti e responsabilità sono suddivisi tra i partecipanti e non mancano momenti di confronto e formazione”. Prosegue dicendomi che il progetto si basa anche sull’accoglienza dei detenuti all’interno di comunità parrocchiali e che la loro risposta è generalmente entusiasta. “I ragazzi si stanno impegnando tantissimo in un percorso di rieducazione che in carcere è solo un’utopia. Lì i colloqui con gli educatori sono sporadici e insufficienti. La prigione, inoltre, consente a chi vuole continuare a delinquere di instaurare o fortificare rapporti con criminali, piantando le basi per nuovi reati da commettere una volta usciti. Con una misura alternativa come quella che proponiamo noi, invece, questa catena si spezza e le persone coinvolte vengono accompagnate verso una vera revisione critica degli errori commessi. Quella che offriamo è una possibilità di riscatto, l’opportunità di immaginare veramente una nuova vita”. Con gli occhi lucidi per la commozione, saluto Don Riccardo e i ragazzi e gli prometto di tornare presto a trovarli. Milano. Hunters Group e Seconda Chance insieme per dare una opportunità di lavoro ai detenuti econote.it, 22 agosto 2023 Primo appuntamento a Bollate. La società di ricerca e selezione di personale altamente qualificato, già molto attiva in termini di D&I, aggiunge un ulteriore tassello e si impegna, anche attraverso Career Day e sessioni di formazione, offrendo occasioni professionali a chi è in carcere, grazie alla collaborazione con Seconda Chance. Un approccio D&I davvero a 360 gradi e che non si fermi solo al tema del gender equality ma che abbracci, in tutte le sue forme, la diversità comprendendo disabilità, multiculturalità e detenzione. Potremmo riassumere in questo modo l’obiettivo della collaborazione tra Hunters Group (società di ricerca e personale altamente qualificato) e Seconda Chance (l’associazione che fa da ponte tra carceri e aziende e cerca opportunità lavorative per i detenuti). Il primo tassello del progetto: il Career Day nel penitenziario di Bollate. Nei giorni scorsi, è stato organizzato un primo Career Day - che ha coinvolto Hunters Group e due aziende - per aiutare i detenuti a reinserirsi nel mondo del lavoro, anche sfruttando la Legge Smuraglia che offre agevolazioni fiscali a chi assume e che, aspetto ancora più importante, consente ai detenuti di avere una concreta opportunità lavorativa al di fuori delle mura del penitenziario, proprio come un qualsiasi altro dipendente. La rieducazione, che passa anche attraverso il lavoro, è determinante per abbattere il tasso di recidiva che al momento, in Italia, si attesta intorno al 75%. “Questo progetto - spiega Joelle Gallesi, Managing Director di Hunters Group - è, per noi, estremamente importante sia dal punto di vista lavorativo che dal punto di vista sociale. Creare un contatto diretto tra aziende e detenuti e dar loro una seconda chance è fondamentale. Durante il primo Career Day abbiamo incontrato profili professionali altamente qualificati che hanno solo bisogno di incontrare l’azienda giusta e tornare in azienda. Questo incontro, e gli altri che organizzeremo in futuro, hanno un duplice scopo: da un lato rappresentano un’opportunità per le imprese di scoprire nuove competenze (che saranno ulteriormente approfondite in incontri individuali per valutare l’inserimento di uno o più detenuti e coprire posizioni vacanti, specialmente in ambito tecnico e di assistenza) e, dall’altro, sono un’occasione per riflettere su quanto sia cruciale, in ogni processo di selezione, valutare talento e competenze e lasciar fuori quei bias che, purtroppo, tutti ci portiamo dietro”. “Seconda Chance è giovane - prosegue Flavia Filippi, fondatrice e presidente dell’associazione - ma è già diventata un punto di riferimento per il mondo degli istituti di pena, dai quali ci scrivono e ci contattano sia i detenuti che i direttori e i funzionari delle aree educative. È impossibile trovare un lavoro a tutti i detenuti che ci chiedono aiuto, e naturalmente tengo a precisare che arrivano ai colloqui con gli imprenditori solo persone a fine pena, ritenute dai vertici delle carceri ravvedute ed estremamente affidabili, oltre che dotate di competenze specifiche e di una grande voglia di riscatto. È normale che la richiesta di lavoro sia superiore all’offerta, ma grazie al connubio con Hunters Group siamo certi di entrare in contatto con un gran numero di aziende dotate di quel qualcosa in più che è proprio quello che cerchiamo per diffondere fatti e non parole”. All’interno del carcere sono presenti figure tecniche altamente specializzate, come gli Installatori di pannelli fotovoltaici, Progettisti CAD, Programmatori Software, Addetti Back Office per la gestione dei flussi energetici, ma anche molti laureandi/laureati in Scienze Umanistiche. Come funziona il processo di selezione in carcere? Questo progetto offre ai detenuti una vera opportunità di reinserimento nel mondo del lavoro. L’iniziativa, infatti, prevede un processo di selezione accurato, una collaborazione diretta tra il carcere, l’associazione Seconda Chance e l’azienda e un sostegno costante durante il percorso di inserimento del candidato. Il processo inizia con un Career Day organizzato all’interno del carcere: vengono preselezionati dai funzionari girudico-pedagogici del penitenziario i candidati più idonei in base al segmento di business delle aziende partecipanti. In una fase preliminare i detenuti preselezionati partecipano ad un momento di formazione erogato dal personale di Hunters Group, su temi quali “come svolgere un colloquio” o “come presentare la propria esperienza professionale”. Dopo la fase di formazione, si svolge un vero e proprio Recruiting Day in cui i Responsabili HR delle aziende aderenti possono presentare la propria azienda, descrivere le opportunità di lavoro disponibili e incontrare i candidati. Al termine di questa prima fase, viene fatto un primo giro di tavolo di presentazione tra i candidati che vengono così valutati secondo le loro competenze per un possibile match lavorativo. In un briefing successivo, il personale di Hunters Group supporta nella identificazione delle risorse più in linea con le esigenze dell’azienda partecipante. Una volta identificata la rosa di candidature, l’azienda può nuovamente incontrare in carcere i candidati prescelti per un colloquio individuale, effettuando quindi un’analisi approfondita delle competenze e delle motivazioni del candidato, sia un approfondimento, da parte del candidato, dell’azienda e del ruolo lavorativo proposto. L’azienda collabora strettamente con il carcere e con Seconda Chance durante tutto il processo di inserimento: la parte burocratica del processo è gestita dal carcere stesso, mentre l’azienda si occupa del contratto di assunzione e Seconda Chance fa da tramite. Ad assunzione avvenuta, l’azienda si impegna a fornire un sostegno costante durante il periodo di inserimento: unico onere del datore di lavoro sarà quello di assicurarsi che il candidato lavori in presenza secondo gli orari previsti. Bari. “Nel Cpr di Palese condizioni inumane”: un 43enne in sciopero della fame di Isabella Maselli Gazzetta del Mezzogiorno, 22 agosto 2023 È in Italia dal 1997, ha moglie e 3 figli piccoli. Durante la pandemia ha perso lavoro e permesso di soggiorno. È in sciopero della fame da alcuni giorni perché chiede una assistenza sanitaria che il Centro per rimpatri di Palese dove è detenuto non riuscirebbe a garantirgli. A raccontare le condizioni in cui è costretto a vivere da tre mesi è lui stesso, 43enne albanese che vive in Italia da 25 anni e che nel 2020 ha ricevuto un decreto di espulsione perché in piena pandemia gli era scaduto il permesso di soggiorno. “Se devono rimandarmi in Albania, lo facciano - dice - oppure mi permettano di tornare a casa dai miei figli e da mia moglie. Ma qui non posso più continuare a vivere. Le condizioni in cui siamo, io e le altre decine di irregolari, sono disumane. L’unica cosa che vorrei è fare una doccia ed essere curato”. È il suo legale, l’avvocato Uljana Gazidede, a riferire la storia di S.B. in una lettera aperta inviata al Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, al prefetto e al questore di Bari, precisando che l’uomo è “in attesa che si concluda il procedimento civile per il riconoscimento della protezione internazionale”. “Da due giorni - spiega l’avvocato - ha iniziato lo sciopero della fame poiché il centro non è in grado di far fronte all’assistenza medica di cui necessita, per un infortunio occorso l’11 agosto, quale conseguenza dell’esasperazione per le condizioni inumane a cui nei mesi precedenti era stato sottoposto”. Esasperato dalla situazione, il 43enne un giorno avrebbe sferrato un violento calcio ad una porta in ferro fratturandosi un piede. Da allora ha un gesso che dovrà tenere ancora due settimane. Nella struttura per i rimpatri, però, “trova difficoltà a svolgere le normali attività di vita quotidiana - spiega la legale - autonomia igienico-sanitaria anche dal punto di vista dell’utilizzo della toilette in quanto il centro è dotato di soli bagni alla turca, per cui necessita di ausili come stampelle o sedia a rotelle che non possono accedere all’interno dei moduli abitativi secondo la normativa vigente, senza i quali lo stesso trova difficoltà a deambulare in autonomia”. Quando alcuni giorni fa il Tribunale ha deciso di prolungare il trattenimento dell’uomo nel centro, il 43enne “ha iniziato lo sciopero della fame” fa sapere l’avvocato, chiedendo al Garante un “intervento al fine di far cessare tale situazione che lede i diritti umani del sig. S., al quale può solo essergli limitata la libertà di movimento e circolazione, null’altro. Tale situazione - conclude il difensore - lede la dignità della persona e si risolve in atteggiamenti inumani e degradanti”. Anni fa la situazione del centro di Palese era stata oggetto anche di un procedimento dinanzi al Tribunale il quale aveva riconosciuto proprio le “condizioni inumane e degradanti” della struttura “di certo non idoneo all’assistenza dello straniero e alla piena tutela della sua dignità in quanto essere umano”. Oggi tornano a denunciarlo i migranti trattenuti al suo interno. “Vivo in Italia dal 1997, qui ho moglie e tre figli piccoli di 2, 5 e 7 anni. Ho sempre lavorato, - racconta il 43enne - in ristoranti, piccole ditte, in campagna, come boscaiolo e con qualche lavoretto edile. Poi quando è scoppiata la pandemia ho smesso di lavorare e nel frattempo mi è scaduto il permesso di soggiorno. Alcuni mesi fa, a tre anni dal decreto di espulsione, sono stato portato prima nel Cpr di Potenza e adesso mi trovo a Bari. Sono sempre sporco, chiediamo anche solo un po’ di candeggina per poter pulire direttamente noi. Poi da quando non riesco a camminare per me è tutto più difficile. Ma sono tanti quelli che stanno male e ognuno reagisce a suo modo. C’è chi si ferisce, chi tenta gesti estremi, chi protesta dando fuoco ai moduli”. Valditara: “Combattiamo la violenza nelle scuole per diffondere la cultura del rispetto” di Flavia Amabile La Stampa, 22 agosto 2023 Il ministro dell’istruzione: “Faremo incontri in classe con le vittime”. Si valutano campagne mirate e un’iniziativa nazionale il 25 novembre. La battaglia contro la violenza sulle donne arriva nelle scuole. Lo assicura il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, che tiene molto a questo progetto e sta lavorando per inserire già dal prossimo anno nelle classi corsi che prevedono incontri con donne che hanno subito violenze. Fa parte della diffusione di quella che il ministro chiama “la cultura del rispetto”. Il primo accenno al progetto in cantiere è di due sere fa, quando il racconto delle chat degli stupratori di Palermo ha scatenato l’ennesima ondata di indignazione che rischiava di finire nel nulla. Anna Paola Concia, ex deputata del Pd, oggi coordinatrice del comitato organizzatore Didacta Italia 2019, la fiera sul mondo della scuola, sul suo profilo Twitter scrive rivolgendosi agli uomini: “A chi si sente indignato per essere paragonato agli stupratori di Palermo. Reagite al racconto che siete tutti uguali. Rigettate quella cultura tossica maschile. Parliamone. Faccio un appello al ministro Valditara sensibile a questo tema”. Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara è davvero sensibile al tema della violenza contro le donne. Un’ora e mezza dopo risponde, sempre su Twitter: “Grazie Paola per questo invito. Certo che non siamo tutti uguali! E la gran parte degli italiani non ha nulla a che vedere con la cultura che genera violenza sulle donne. Dobbiamo comunque lavorare nelle scuole per affermare il valore del rispetto e rigettare i residui di machismo”. E in realtà il lavoro sta già prendendo forma. È lui stesso a raccontare di voler portare la lotta contro le violenze sulle donne nelle scuole, se possibile a partire già dal prossimo anno. “Stiamo organizzando con la ministra Roccella un’iniziativa contro la violenza sulle donne che si terrà il 25 novembre. Sarà una giornata importante che vedrà la partecipazione anche di testimonial”. Ma l’evento del 25 novembre al ministro non basta. La sua idea è di portare la lotta contro la violenza alle donne nelle scuole attraverso campagne simili a quelle contro il bullismo o per la sicurezza stradale. “Come ministero - prosegue Valditara - stiamo inoltre lavorando per fare qualcosa che possa avere un’incidenza più continuativa. Stiamo pensando di organizzare delle iniziative nelle classi come accadrà nel campo della sicurezza stradale dove abbiamo previsto con un disegno di legge approvato il 27 giugno il potenziamento dell’educazione stradale nelle scuole con corsi extracurricolari, o come accade per la campagna di sensibilizzazione contro il bullismo che vede il ministero impegnato nella prevenzione del bullismo, del cyberbullismo e di ogni altra forma di violenza. Più in generale si tratta di affermare e diffondere tra i giovani la cultura del rispetto. Pensiamo a incontri da tenere nelle scuole rendendo protagonisti gli stessi studenti e con l’intervento, fra gli altri, di vittime di violenze che possano testimoniare in modo diretto che cosa significa la violenza contro le donne. L’obiettivo è di riuscire a farlo partire già da quest’anno”. I tempi sono maturi, quindi, per dare concretezza a un’idea che non è nuova, riesce a mettere d’accordo maggioranza e opposizione, e in alcuni istituti è già un progetto concreto. La segretaria del Pd Elly Schlein, a giugno, a margine della presentazione delle proposte del Pd contro la violenza di genere, aveva ricordato la necessità di avere “risorse, la formazione per gli operatori di giustizia, sanità e forze dell’ordine per conoscere la violenza. E l’educazione alle differenze a partire dalle scuole per sradicare la cultura patriarcale di cui le donne sono vittime”. Un appello a investire su formazione ed educazione nelle scuole che ha ripetuto anche due giorni fa dalla Festa dell’Unità. Parole non molto diverse da quelle pronunciate poco prima di Ferragosto dopo l’ennesimo femminicidio, quello di Celine Frei Matzohl, 21 anni, uccisa con nove coltellate dall’ex compagno. Il 73° femminicidio dall’inizio dell’anno in Italia. “È evidente che si debba cambiare la cultura, educando i ragazzi fin da piccoli al rispetto delle donne. Mi auguro che si calendarizzi il prima possibile la proposta di legge della Lega per l’introduzione dell’insegnamento delle pari opportunità nelle scuole”, ha commentato la deputata della Lega Laura Ravetto, responsabile del dipartimento Pari opportunità del partito e prima firmataria della proposta di legge. Oppure, come ha avvertito anche Martina Semenzato, di Noi moderati, presidente della commissione bicamerale d’inchiesta sui femminicidi: “Dobbiamo lavorare su famiglia e scuola per un rinnovato senso al loro ruolo di educatori”. Gestione dei migranti, la rivolta dei Comuni di Eleonora Camilli La Stampa, 22 agosto 2023 Attacchi bipartisan contro l’organizzazione voluta dal governo. Il Viminale ferma i trasferimenti nelle zone sovraccaricate ma rifiuta il dialogo. Il suo cellulare squilla di continuo: le segnalazioni degli sbarchi arrivano ogni giorno, più volte al giorno. Dal suo ufficio di Lampedusa, Filippo Mannino non cela una nota di sarcasmo: “Se si lamentano gli altri sindaci, io che dovrei dire?”. Sull’isola frontiera d’Italia dall’inizio dell’anno sono sbarcati la maggior parte degli oltre105mila migranti arrivati in Italia. “Grazie al supporto della Croce Rossa riusciamo a gestire questo flusso con professionalità. Siamo di fronte a numeri altissimi. Chiunque si sarebbe trovato in difficoltà, ma alcune questioni si potevano affrontate diversamente. Qui ci siamo sentiti inascoltati”. Dopo la decretazione dello stato di emergenza, il sindaco di Lampedusa aveva fatto delle richieste specifiche al governo: una nave umanitaria dedicata al trasferimento dei migranti, così da non affollare i traghetti di linea e decongestionare l’hotspot più facilmente; un elisoccorso per far fronte ai bisogni sanitari dei cittadini e dei migranti; uno smaltimento celere dei rifiuti, in particolare dei barchini utilizzati per le traversate. “Sono richieste che avanziamo da gennaio ma per ora non abbiamo risposte. Ovviamente tutto questo accresce i disservizi dell’isola già gravata dall’aumento degli arrivi”. Quella del primo cittadino della città porta d’Europa è solo l’ultima voce ad unirsi a un coro di critiche per una gestione troppo emergenziale e improvvisata dell’accoglienza in Italia. Con prese di posizione ormai bipartisan, che arrivano da amministratori locali di diversi territori e schieramenti politici. All’estremo opposto della penisola, è Marcello Bano, sindaco leghista di Noventa Padovana, a guidare il fronte del Nord: “Siamo contro gli hub e l’accoglienza diffusa” dice, chiarendo che si opporrà all’uso di palestre, capannoni e uffici per ospitare i migranti. Le scelte, aggiunge, “non ci rappresentano” e mettono in seria difficoltà i territori. Parole che rimbalzano da un comune all’altro, svelando una spaccatura ormai chiara tra il governo e gli amministratori locali. Da destra anche il presidente della Basilicata, Vito Bardi polemizza sui nuovi criteri pensati dal Viminale per la redistribuzione, che non terrà più conto soltanto del numero di abitanti ma anche della superficie dei territori. “Questo parametro penalizzerebbe regioni come la nostra - dice Bardi -. Va bene la solidarietà ma non possiamo reggere numeri importanti”. A Modena, il sindaco Pd Gian Carlo Muzzarelli, dopo gli episodi di violenza in città, parla della “mancanza di un’adeguata rete di accoglienza che possa garantire condizioni dignitose per le persone e non lasciarle in balia della criminalità”. A Milano l’assessore al Welfare Lamberto Bartolé si dice preoccupato per la situazione dei minori non accompagnati: il comune ha in carico un decimo di tutti quelli accolti sul territorio nazionale. Sui minori e non solo, va avanti a distanza anche il botta e risposta tra l’Associazione nazionale dei Comuni (Anci) e il ministero dell’interno, che aveva bollato come “surreali” le proteste di alcuni sindaci. Per il Viminale il tavolo chiesto a gran voce dai Comuni sull’emergenza migranti non è tra le priorità. Intanto, però i trasferimenti nelle regioni che avevano lamentato un carico troppo oneroso per l’accoglienza sono stati stoppati. In particolare, quelli destinati all’Emilia Romagna. I migranti partiti ieri dall’area di pre-identificazione di Porto Empedocle arriveranno in Liguria, Veneto, Lazio ma anche a Catania e Vibo Valentia. Altri, ancora in attesa di trasferimento, per mancanza di pullman disponibili, dovrebbero essere redistribuiti in Piemonte, Basilicata, Umbria, Molise e a Pozzallo. Intanto, un appello ad ascoltare gli amministratori locali è arrivato in queste ore dal meeting di Rimini. Il segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Baturi ha chiesto che il tema venga affrontato con una “politica concertata”. Mentre Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà spiega che “bisogna aiutare i sindaci” e trattare i migranti come una risorsa perché “chi investe nell’umano poi ha un ritorno gigantesco”. L’Arcivescovo di Palermo, Carmelo Lorefice ha, inoltre, ricordato che “le parole d’ordine devono essere: accoglienza e non demonizzare gli uomini e le donne delle ong che oggi si mettono in mare per salvare vite”. Intanto ieri a Lampedusa è arrivato il fermo della nave umanitaria Aurora dell’ong Sea Watch che aveva rifiutato il porto assegnato di Trapani perché troppo difficile da raggiungere. Migranti. Lo stop dai sindaci del Pd e le accuse di contraddizione: “Finite le possibilità” di Claudio Bozza Corriere della Sera, 22 agosto 2023 L’ondata record di migranti colpisce i Comuni, che non reggono. Gori pungola Schlein: “Rinuncia agli slogan”. E Majorino: “Questo è un disastro del governo”. C’è chi è “preoccupatissimo” e minaccia di “incatenarsi piuttosto che piantare tende”, come Marcello Pierucci (Pd), sindaco del piccolo Comune di Camaiore, in Versilia. E chi, invece, pensa di “organizzare un pullman per portare tutti a dormire al Viminale se il governo continuerà a mandarci migranti senza sosta”, è invece lo sfogo dell’assessore al Welfare di Reggio Emilia Daniele Marchi, anche lui dem. Dal Centro al Nord, con il numero di sbarchi che da inizio anno ha raggiunto il record di 102.973, la pressione su paesi e città sta diventando fortissima. E le proteste più dure si stanno levando da amministrazioni locali di sinistra, ancora le più numerose in termini assoluti. Ma la realpolitik di chi governa in prima linea, specie davanti a una pressione di migranti così forte, mette tutti in affanno. E da destra si levano accuse di contraddizione politica. Una contraddizione, dalla sponda dem riformista, sollevata senza molti giri di parole da Giorgio Gori: “È vero, Meloni annaspa sugli sbarchi, giusto dirlo. Ma Schlein rinunci agli slogan”. Il primo cittadino di Bergamo, parlando a Il Foglio, va più nel dettaglio: “La verità è che sull’immigrazione qualunque semplificazione demagogica è inutile. Vale per le sparate di Salvini e Meloni ma vale anche per l’”accogliamoli tutti” che ha sedotto una certa sinistra”. E poi: “È necessario un forte senso della realtà. I valori umanitari sono fondamentali, ma a questi vanno uniti visione di lungo periodo, pragmatismo e capacità organizzativa, non proprio le migliori qualità di Salvini”. Gori si dice poi d’accordo con Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia-Romagna e presidente del Partito democratico, che “ha fatto bene a denunciare che nelle città la situazione è oltre il livello di guardia”. Emblematiche le parole di Luca Rizzo Nervo, assessore al Welfare di Bologna: “Abbiamo sotto la nostra responsabilità 510 minori stranieri non accompagnati. Noi abbiamo finito tutte le possibilità di accoglienza”. A Padova, il sindaco Sergio Giordani la mette così: “Non accetterò hub: il governo smetta di promettere miracoli”. Giordani ha spiegato al Corriere del Veneto di come nel giro di poche ore, chiamato dal prefetto, abbia dovuto usare le palestre per ospitare 60 migranti: “L’accoglienza per la mia città non è mai stata un tabù. La facciamo da anni, diffusa e ben gestita. La vera battaglia è contro i maxi hub che non voglio nel mio territorio: sono nocivi sia per chi vi viene accolto sia per le comunità locali”. Dal fronte Schlein, Pier Francesco Majorino fa un ragionamento diverso: “Questo è un disastro del governo guidato da Meloni, che non ha lo straccio di un piano di accoglienza — attacca il responsabile Immigrazione della segreteria del Pd —. Non è che c’è una contraddizione politica solo se c’è un sindaco di sinistra: sennò diventa il dito che guarda la luna”. Majorino, forte dei suoi 8 anni da assessore al Welfare a Milano, conosce bene il problema: “Sono d’accordo con Mario Morcone, già capo di gabinetto del ministro Minniti che rappresentò una linea molto ferma”. E oggi l’assessore alla Sicurezza della Campania propone una norma che “costringa tutti i sindaci ad accogliere i migranti, senza consentire dei “no” motivati da interessi elettorali”. Migranti, Zaia: “I sindaci infuriati? Hanno tutte le ragioni” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 22 agosto 2023 Il presidente della Regione Veneto: “Tutta l’Africa in Italia non ci può stare. Si rischia di mettere a repentaglio la sopravvivenza delle comunità. Ma Meloni si è mossa bene e Piantedosi dà l’anima”. “Sarà molto meglio che i signori dell’Unione europea rientrino dalle vacanze in fretta, che qui c’è molto da fare...”. Il governatore veneto Luca Zaia lo dice chiaro e tondo: “Questa estate noi la ricorderemo molto bene. Per le grandinate e per i flussi migratori. Ma se la più grande economia del pianeta non è in grado di risolvere ciò che avviene ai suoi confini, forse questo modello di Europa ha fallito...”. Presidente, non c’è qualche responsabilità del governo in questo boom di sbarchi? “Io credo che la premier Giorgia Meloni abbia impostato molto bene i rapporti internazionali da cui dipendono le politiche sull’immigrazione. E il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sta facendo l’impossibile mettendoci l’anima...”. Detto tutto questo? “Io ho il massimo rispetto per chi sta lavorando, non ho la bacchetta magica e di certo non voglio dare lezioni a nessuno. Detto questo, ci vuole un booster. Un acceleratore. E io credo che non possa arrivare da altri parti se non dalla piena consapevolezza dell’Europa rispetto a ciò che sta accadendo da noi. Delle volte, mi viene il dubbio che la distanza fisica impedisca di cogliere in pieno i fenomeni sui territori”. Ce li riassuma... “Se il trend di questi mesi si dovesse confermare, alla fine dell’anno avremmo non i 105 mila arrivati l’anno scorso, ma il doppio. In Veneto sono arrivate circa 9.000 persone, ne mandano qualcosa come 100 al giorno, di media 500 alla settimana. La situazione è alquanto preoccupante. Nei tempi brevi, ma anche in quelli medi e lunghi”. In quelli brevi, cosa teme? “Quelli brevi sono oggi. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas) letteralmente traboccano. Il Veneto non ha mai sbattuto la porta in faccia a nessuno, ospita volontariamente 15 mila ucraini e il nostro modello di integrazione è riconosciuto per essere di alta civiltà ed efficienza. In Veneto risiedono 550 mila migranti che hanno scelto questa terra per il proprio progetto di vita. Il problema è che con i numeri di questi giorni nessuno può garantire più nulla. La misura è colma”. Presidente, perdoni: dire che deve pensarci l’Europa non è come buttare la palla in tribuna? “No. È scandaloso il fatto che ci si rassegni a questo. Ormai lo abbiamo capito tutti: l’Unione europea vive Lampedusa come confine italiano e solo italiano. Non come confine europeo. Quando al confine con il Messico i migranti provano a passare, non pensano di passare in Texas o Arizona: sanno di entrare negli Stat Uniti. A Bruxelles, questo concetto non passa”. I sindaci leghisti sono infuriati. Hanno torto? “Certo che no, hanno tutte le ragioni. Sono loro che si misurano quotidianamente con problemi impensabili, paesini magari piccolissimi in cui arrivando decine di persone da fuori. Ma tutti noi abbiamo in mente e nel dna la sostenibilità dell’accoglienza. Ma l’ospitalità non può prescindere dai servizi. Tutta l’Africa in Italia non ci può stare, non è la dichiarazione di un razzista, perché io non lo sono. Ma è un fatto oggettivo, e di rispetto: nei confronti di chi si ospita e nei confronti dei nostri cittadini. Se no, metti a repentaglio la sopravvivenza delle comunità. Perché bisogna esserne consapevoli: qui rischiamo di dover cambiare il nostro modello”. Di che cosa sta parlando? “Beh, della sanità, che dovrà tenere conto delle caratteristiche della nuova popolazione. Dell’educazione e della scuola, che dovranno tenere conto di chi viene da culture lontanissime. Siamo in grado di farlo? A oggi, no... Ma ‘sto Paese vuol guardare in faccia la realtà? Sennò, meglio che consegniamo le chiavi di casa”. Ci sono notizie dei nuovi Centri di permanenza per il rimpatrio? “Noi non ne abbiamo notizia, ma se è vero che solo l’11% circa ha titolo per restare, tutti gli altri devono essere rimpatriati. Ma su 200 mila persone, come si fa? Come si rimpatriano 150 mila persone? A me pare svuotare il mare con un secchio. Non sto dicendo che sia sbagliato, ma se questi sono i numeri, come facciamo?”. Migranti. Meloni e il caos in Libia: allo sbando, altro che “piano Mattei” di Alberto Negri Il Manifesto, 22 agosto 2023 L’Italia sta naufragando in Libia per la terza volta in poco più di un decennio. Altro che piano Mattei per l’Africa. L’Italia sta naufragando in Libia per la terza volta in poco più di un decennio. La prima fu quando nel 2011 venne abbattuto - con Francia, Gran Bretagna, Usa, Nato e la nostra attiva partecipazione militare - il regime di Gheddafi che solo mesi prima accoglievamo a Roma come un trionfatore. La seconda avvenne nel 2019: il governo di Sarraj, insediato proprio con l’aiuto italiano - sempre interessato al controllo dei migranti - , fu abbandonato al suo destino già incerto, pur essendo riconosciuto dall’Onu, contro l’avanzata del generale di Bengasi Khalifa Haftar, alleato di Mosca, dell’Egitto, degli Emirati e corteggiato anche da Parigi. Sarraj fu “salvato” dall’intervento militare della Turchia di Erdogan. La terza volta sta succedendo in questi giorni in maniera forse meno eclatante ma sicuramente alquanto ignorata: a cavallo di ferragosto due potenti fazioni di Tripoli si sono affrontate con circa una sessantina di morti. Una lotta intestina, con la partecipazione importante dei salafiti, che fa apparire assai fragile il governo di Daibaba con cui Meloni e company stringono accordi labili che contrabbandano agli italiani come pietre miliari dell’agire del governo. La realtà è ben diversa. Pur essendo l’Italia presente sul territorio libico con la sua intelligence, ben poco può fare - soprattutto da sola - con gli attori protagonisti della vicenda. In primo luogo la Turchia che in Tripolitania vuole dare ulteriore consistenza ai suoi disegni di potenza neo-ottomana e mediterranea e si propone persino di dare vita a un esercito libico unificato. I suoi piani si scontrano - ma in qualche caso anche si incontrano - con quelli della Russia, che oltre alla presenza della Wagner in Cirenaica, è disposta a negoziare con Ankara e con il Cairo. Putin si prepara a incontrare Erdogan per la questione Ucraina e del grano mentre lo stesso reiss turco sta lavorando da mesi a un meeting con il generale-presidente egiziano Al Sisi. I due sono stati divisi dagli sviluppi delle primavere arabe del 2011 quando nel 2013 Al Sisi con il suo colpo di stato fece fuori sanguinosamente i Fratelli Musulmani sostenuti dalla Turchia. In questo quadro libico politico- diplomatico che vede anche la riunione dei Paesi Brics - sempre più lanciati a sganciarsi da quella che considerano come egemonia occidentale e del dollaro - l’Italia e l’Europa non toccano palla. E come loro gli Usa e l’Onu. Visto che proprio ieri il capo del Consiglio presidenziale, Mohammed Menfi, il presidente della Camera dei rappresentanti, Aqila Saleh, e il generale dell’Est Khalifa Haftar hanno annunciato che non parteciperanno a nessun comitato legato alla situazione politica, ad eccezione di quelli aderenti al quadro nazionale interno; un chiaro rifiuto di partecipare a un dialogo che potrebbe essere proposto dalla Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil). Sono circa due anni che l’Onu e gli europei tentato invano di fare andare i libici alle urne. Insomma uno schiaffo al Palazzo di Vetro e alla comunità internazionale “occidentale” che vengono giudicati sia a Ovest in Tripolitania che a Est in Cirenaica come degli intrusi. Cosa significa tutto questo? Non che la Russia, la Turchia o l’Egitto abbiano in Africa tutto questo successo. Anche loro devono avere a che fare con i sommovimenti di un continente dove sono in atto guerre, come in Sudan, rivolte jihadiste (Mali, Burkina), golpe e crisi economiche spaventose, dalla Tunisia al Sahel. Significa però che qui degli interventi occidentali non ne vogliono più sapere. Si è visto recentemente in Niger dove alcune migliaia di soldati occidentali sono accucciati all’aereoporto di Niamey, consapevoli che c’è il rischio che alzando un dito potrebbe finire come a Kabul nel 2021. Del resto come dare torto agli africani e ai leader della regione tra Medio Oriente e Nordafrica che hanno subito per vent’anni i disastri provocati dagli occidentali, dall’ Afghanistan all’Iraq alla Libia. Con i risultati che sappiamo tutti e una consapevolezza comune nel Sud del mondo: che gli Usa con il loro corteo di docili alleati lavorano più per la destabilizzazione che per la stabilità. Una stabilità che non ci può né ci deve piacere perché fatta di autocrati, democrazie calpestate e repressione: ma allo stesso tempo dovremmo anche smettere di volere imporre agli altri dei modelli al prezzo pesantissimo di morti, carestie e tanti, tanti profughi. I risultati sono stati in questi anni peggiori dei mali che volevamo combattere. Un interlocutore di Tripoli è esplicito: “Voi europei siete arenati in una visione assai distante da questi territori”. Vorrei replicare, come ho fatto, che questo non accade da oggi ma che è un a tendenza in atto da molti anni, il frutto avvelenato di una propaganda e di una narrativa distorta che voleva fare dell’Afghanistan, dell’Iraq o della Libia dei modelli poi respinti dalla realtà dei fatti e dal sentire dei popoli. Ma qui, come si usa dire, non c’è peggiore sordo di chi non vuole sentire. Stati Uniti. Carceri, la California combatte le dipendenze con la buprenorfina di Chiara Bernardini lasvolta.it, 22 agosto 2023 Nel Golden State, i detenuti vengono affiancati nel loro percorso di disintossicazione: l’obiettivo è invertire la rotta delle morti di overdose in prigione (aumentate del 600% dal 2001 al 2019). Il caldo è torrido nella prigione statale di Valley a Chowchilla, California. I detenuti si radunano e, rannicchiati attorno a piccole finestre nel cortile, raccolgono dalle infermiere la loro dose giornaliera di buprenorfina. Mostrano le mani per rassicurare gli operatori di non averne presa più del dovuto. Infine, tornano nelle loro celle. Qui, gli ospiti del carcere vengono sottoposti a uno screening iniziale che permette di evidenziare (o meno) l’uso di droghe e avviare un percorso di disintossicazione durante la detenzione. Un percorso basato sulla prescrizione, per l’appunto, della buprenorfina. Si tratta della nuova strategia governativa californiana per aiutare all’interno dei penitenziari statali i tossicodipendenti (di Fentanyl, ma non solo) e accompagnarli in una nuova vita. La scelta della buprenorfina è dovuta al suo essere una sostanza oppioide, prodotta in laboratorio e derivata dalla tebaina, ma priva degli effetti devastanti di quelle sintetiche. Una vera e propria droga, certo. Che, come il Metadone in Italia, se utilizzata nei modi regolarmente prescritti, può portare il tossicodipendente a una maggiore tolleranza dell’astinenza. La decisione ha l’obiettivo di invertire la curva delle morti di overdose all’interno delle carceri statali americane, decessi che dal 2001 al 2019 sono aumentati del 600%. Numeri che preoccupano il governo, tanto che il presidente Joe Biden è già attivo per cercare di aumentare i penitenziari che offrono un vero supporto per la dipendenza di oppioidi. Il trattamento, ancora in fase sperimentale, è attivo soltanto in alcuni Paesi. I detenuti negli Usa, infatti, hanno diritto costituzionale all’assistenza medica, ma la sua qualità può variare da Stato a Stato. Alcuni, per esempio, possono ricevere cure solo se erano già attive prima dell’incarcerazione, altri invece sono sottoposti a spostamenti continui, con l’inevitabile conseguenza che brevi soggiorni portino a cure poco accurate e, quindi, a crisi di astinenza più frequenti. Certo è che si tratta di una grande svolta per il sistema sanitario americano: “Per la prima volta c’è la volontà di espandere l’accesso alle cure nelle carceri - afferma Justin Berk, medico delle dipendenze della Brown University ed ex direttore del Dipartimento penitenziario del Rhode Island - E anche una maggior comprensione del fatto che se vogliamo affrontare la problematica dell’overdose da oppioidi, una delle popolazioni primarie su cui concentrarsi è nei penitenziari”. Non solo medicine, comunque. Insieme all’assunzione di buprenorfina sono previsti incontri comportamentali di gruppo, così che in vista di un rilascio, ogni persona abbia anche la forza di affrontare il mondo esterno che, il più delle volte, rischia di essere fonte di una seconda ricaduta, e detenzione. Il reinserimento sociale, infatti, è uno dei momenti più delicati per i detenuti, specie per i più vulnerabili. Per questo, riprendendo l’esempio della prigione di Valley, al termine della pena chiunque lo necessiti riceve una fornitura per 30 giorni di buprenorfina, così da garantire la continuità terapeutica. Al tempo stesso viene data la possibilità di accedere a una specifica assistenza medica: il Transitions Clinic Network, un insieme di cliniche istituite proprio per intensificare l’efficacia del percorso di disintossicazione. I primi effetti della regolamentazione si possono già vedere con chi ne ha preso parte: per esempio, l’ex detenuta Karen Souder, che dopo la pena è riuscita a ricostruirsi una vita. “Questo farmaco mi dà la possibilità di affrontare la giornata. Oggi lavoro come addetta alle pulizie per le autostrade nel dipartimento dei trasporti della California. Ho ritrovato la felicità di fare anche le cose più banali, da un bagno caldo, alla cura personale - racconta - Il giorno del rilascio sono andata a pranzo da Red Lobster con una donna che mi aveva aiutato a fare un corso di giardinaggio durante la detenzione. Quando siamo uscite dal ristorante, ho riconosciuto tutti i fiori e le piante. È stata una sensazione meravigliosa. Il cielo era blu e abbiamo scattato qualche foto. Non c’erano recinzioni, bellissimo”. Con lei, Sharon Fennix che dopo 40 anni di prigione oggi lavora in una hotline proprio al Transitions Clinic Network di San Francesco. E poi, c’è chi ancora ci sta provando. Trevillon Ward, a esempio, ha dichiarato al New York Times di aver avuto una ricaduta con la droga e di essere tornato in prigione dopo 3 anni dalla sua prima pena. Oggi si trova proprio nel carcere di Valley State, in California. E chissà che magari, questa volta, con il trattamento introdotto e perfezionato negli ultimi anni, possa davvero compiere un passo in avanti. Lui, come tanti altri. Arabia Saudita. Un’altra strage dei migranti: “Crivellati a colpi di mitra” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 22 agosto 2023 Un rapporto di “Human Right Watch” denuncia le guardie di confine saudite. Centinaia le persone uccise alla frontiera con lo Yemen. Ryad nega tutto. L’Arabia Saudita nega ma le prove sulle sue responsabilità nella sistematica morte di migranti stanno diventando ogni giorno più schiaccianti. Le guardie di frontiera del regno wahaabita compiono ogni giorno massacri di migranti che tentano di attraversare il confine settentrionale con lo Yemen. Sperano di arrivare nella ricca Arabia Saudita spinti dalla povertà, sono in maggioranza etiopi che affrontano un viaggio pericoloso, partendo via mare dal Corno d’Africa fino a una frontiera dove ad attenderli c’è molto spesso la morte. Sono in larga parte cittadini etiopi in fuga dalla povertà e dai conflitti che cercano fortuna nella ricca nazione araba e per farlo sono disposti a vivere un’autentica odissea che spesso termina tragicamente. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite, più di 200mila persone ogni anno si mettono in movimento con il rischio di rapimenti e pestaggi lungo la strada, anche la traversata sul mare e pericolosa come dimostra il naufragio avvenuto nel giugno scorso al largo delle coste di Gibuti dove sono morti 24 migranti. “Ma il vero rischio è quello di rimanere vittime delle guardie saudite”, a scoperchiare questa tragica realtà, un rapporto di Human Rights Watch che descrive abusi di diversa entità e natura da parte delle autorità di Ryad. Il documento intitolato They Fired On Us Like Rain, contiene testimonianze esplicite di migranti che affermano di essere stati colpiti e presi di mira con armi da fuoco dalla polizia e dai soldati sauditi. Si parla di terrificanti traversate notturne durante le quali grandi gruppi, tra cui molte donne e bambini, sono finiti sotto il fuoco mentre tentavano di attraversare il confine. Molti di loro vengono picchiati a sangue con mazze e bastoni e trovano la morte nel più barbaro dei modi. Il rapporto, che copre il periodo che va da marzo 2022 a giugno di quest’anno, descrive 28 incidenti nei quali è stato registrato l’uso di armi esplosive e altri 14 relativi a sparatorie a distanza ravvicinata. “Ciò che abbiamo documentato sono essenzialmente uccisioni di massa”, ha spiegato l’autrice principale del rapporto, Nadia Hardman la quale ha anche affermato di aver “visto centinaia di immagini grafiche e video”. Secondo il lavoro di HRW è impossibile stimare quanti migranti siano stati uccisi lungo il confine, infatti la lontananza dei valichi di frontiera e la difficoltà di rintracciare i sopravvissuti rendono arduo riportare dei numeri precisi. Da un minimo di 655 a diverse migliaia. Eppure i rapporti su uccisioni diffuse perpetrate dalle forze di sicurezza saudite erano emersi già per la prima volta lo scorso ottobre in una lettera di esperti delle Nazioni Unite indirizzata al governo di Ryad. Nella missiva veniva evidenziato un modello sistematico di omicidi su larga scala compiuti in maniera indiscriminata, usando artiglieria e armi leggere. Nonostante la natura orribile delle accuse, la lettera è rimasta in gran parte inascoltata. Il governo saudita ha negato, trincerandosi dietro laconiche dichiarazioni secondo le quali sulla base delle limitate informazioni fornite le autorità all’interno del Regno non hanno scoperto informazioni o prove per confermare o dimostrare le affermazioni dell’ONU. Ma il mese scorso, il Mixed Migration Centre, una rete di ricerca globale, ha pubblicato ulteriori documenti sulla catena di abusi e violazioni che avvengono lungo il confine, Anche secondo questo rapporto emerge una realtà drammatica con descrizioni grafiche di cadaveri in decomposizione sparsi in tutta l’area, migranti catturati a cui viene chiesto dalle guardie di frontiera saudite in quale gamba vogliono essere colpiti, e mitragliatrici e mortai usati per attaccare persone terrorizzate. Human Right Watch si sofferma anche su ciò che succede in Yemen dove è stata provata l’esistenza di veri e propri campi di sterminio gestiti dai ribelli Houthi che controllano la maggior parte della zona settentrionale del paese. Le prime notizie risalgono a almeno due anni fa quando decine di migranti morirono in un incendio che distrusse un centro di detenzione nella capitale, Sanaa. Le rotte yemenite sono così disseminate di cadaveri, in particolare nella zona di Monabbih dove i migranti sono detenuti per essere scortati al confine da trafficanti armati che lavorano a fianco delle stesse milizie.