Carceri minorili, la vita sospesa: “Meglio educare che punire” di Enrica Riera Quotidiano del Sud, 21 agosto 2023 Si chiamano “Ipm” e sono gli istituti penali per minorenni, luoghi in cui ragazzi e ragazze scontano la propria pena mettendo in attesa sogni, passioni, vita; in Italia le carceri minorili sono in totale diciassette, da Caltanissetta a Treviso, con caratteristiche e dimensioni anche molto diverse tra loro: al 2022 il numero complessivo di reclusi era 316, col tasso più alto nell’Ipm di Torino (38 i ristretti) e un totale, in tutta Italia, di 8 ragazze detenute, per metà straniere. “Numeri, questi ultimi, significativamente più bassi rispetto a quelli che si registravano in passato”, scrive l’associazione “Antigone”, da sempre a tutela dei diritti e delle prerogative dei detenuti, nel suo ultimo rapporto sulla giustizia minorile. Numeri, ancora, che, per la loro residualità, testimoniano quanto sia fondamentale continuare a dare risposte sul terreno sociale e non penale. Accanto alle carceri minorili, sul territorio nazionale si contano, infatti, anche 637 comunità residenziali disponibili all’accoglienza di minori o giovani adulti sottoposti a provvedimenti penali. Di queste, solo tre - a Bologna, Catanzaro e Reggio Calabria - sono gestite direttamente dal Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia. Le altre 634, censite in un elenco semestralmente aggiornato, sono strutture private che vengono accreditate dal Ministero a svolgere questo compito. A tale scopo, i Centri per la giustizia minorile stipulano convenzioni con comunità, associazioni e cooperative che lavorano con i giovani e sono riconosciute a livello regionale. Le comunità devono presentare un’organizzazione di tipo familiare, impiegare operatori professionali di varie discipline, collaborare con le istituzioni coinvolte, usare le risorse territoriali. Luoghi, pertanto, meno “afflittivi” rispetto alla realtà carceraria tout court, verso i quali la giustizia dedicata ai minori dovrebbe sempre più tendere dal momento che, volendo citare le parole di Patrizio Gonnella, presidente di “Antigone”, “educare è sempre meglio che punire”. “Il 2020 è stato l’anno dell’inizio della pandemia e del lockdown - dice sempre Gonnella nell’ultimo rapporto disponibile sulla giustizia minorile, appunto quello già citato del 2022 - ovviamente i limiti alle possibilità di spostamento delle persone, e tra loro dei minori, hanno ridotto significativamente, rispetto al passato, tutti gli indici di delittuosità. Se guardiamo infatti al numero totale dei minorenni arrestati o fermati dalle forze di polizia, siamo passati dalle 34.366 segnalazioni del 2016 alle 26.271 del 2020, con un calo percentuale del 24%. Non tutto è però esito della pandemia. Il calo, infatti, era già riscontrabile nel 2019 quando le segnalazioni erano state 29.544 con un calo rispetto al 2016 del 15%. Dunque - continua Gonnella - la decrescita era già avvenuta, prima ancora dei divieti introdotti con lo stato di emergenza dato dal Covid. Possiamo quindi ragionevolmente sostenere che la legislazione in vigore dal 1988 (D.p.r. 488), nella parte in cui prevede una procedura prevalentemente finalizzata all’inclusione sociale piuttosto che alla repressione penale, ha indubbiamente favorito un progressivo calo del numero dei reati degli infra-diciottenni. L’educazione, nei tempi medi e lunghi, è - conclude - uno straordinario strumento preventivo. Ben utile sarebbe un’ulteriore accelerazione su quel modello, da sperimentare anche oltre il sistema minorile”. Ma scendiamo nel dettaglio e “analizziamo” l’unico tra le carceri minorili presente in Calabria, quello di Catanzaro, che “Antigone” ha visitato, non a caso, lo scorso anno. Al momento della visita al “Silvio Paternostro” i detenuti erano 13 ragazzi, di cui 8 minorenni e 5 giovani adulti. Otto erano ragazzi di origine straniera. “Il principale nodo problematico è la carenza di spazi per quanto attiene all’edificio prettamente detentivo che è di vecchia costruzione (risale di fatti agli anni ‘30, sebbene diverse siano state le ristrutturazioni seguite nel tempo, ndr). Tra i nodi identificativi - scrive ancora “Antigone” - vi è la possibilità di svolgere l’attività lavorativa dopo un breve periodo di osservazione e la buona integrazione con il territorio. La maggior parte dei ragazzi detenuti lavora e la quasi totalità di questi lo fa internamente all’istituto”. Un’altra criticità riguarda, infine, l’assenza di luoghi di culto diversi da quelli cattolici e, sempre al momento della visita dell’associazione, non accedevano ministri di culto diversi. “Nel corso dell’estate 2021 sono stati effettuati 2 trasferimenti per motivi di gestione dell’ordine interno. La crisi sanitaria non ha inciso sul sistema disciplinare. In caso di isolamento, la persona resta in cella e l’esclusione riguarda solo le attività”, scrive “Antigone”. Che poi aggiunge: “Viene segnalata una rissa nell’estate 2021 e un episodio di autolesionismo”. Tra diritti emersi, dunque, e diritti sommersi si muove l’esistenza di questi giovani detenuti che, troppo spesso, il mondo di fuori guarda ma non vede. Dimenticando che la nostra discendenza è da Caino: nessuno è Abele. Tanti giovani in carcere. “Difficile dare strumenti di cura e reinserimento” di Cristina Bassi Il Giornale, 21 agosto 2023 Il numero dei reclusi di età inferiore ai 30 anni è in costante e rapida ascesa, ma il carcere, nella maggior parte dei casi, li “ignora” o non ha a disposizione persone e strumenti per aiutarne il reinserimento e la cura. “Da 7 mesi mio figlio che ha 23 anni e soffre di disturbi psichici è a Bollate - ha raccontato all’Agi una madre - In tutto questo tempo non ha ancora visto un educatore, uno psichiatra o uno psicologo”. Accanto a lei, sul palco della conferenza “Ragazzi detenuti: problemi e progetti” organizzata a Milano da “Nessuno tocchi Caino - Spes contra Spem”, ha portato la sua testimonianza Stefania Mazzei, madre di Giacomo Trimarco, morto a 21 anni a San Vittore per avere inalato gas butano in quantità letale: “Faccio una distinzione tra i giovani che arrivano in carcere perché si perdono e hanno bisogno di un percorso più rieducativo e quelli che, come Giacomo, ci arrivano con una patologia psichiatrica. Per il nostro vissuto, le famiglie non esistono. È vero che tanti ragazzi non hanno la famiglia alle spalle, ma tanti ne hanno una che vorrebbe essere attiva. Noi abbiamo avuto sempre le saracinesche abbassate: i servizi per la salute mentale sono distaccati e inefficienti, a comparti stagni e così spesso, una volta usciti, i ragazzi ricadono nella rete della giustizia”. Il direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano, conferma l’emergenza. “Quasi la metà dei nostri 840 detenuti ha sotto i 30 anni. Questo è un problema sempre più grave, un dato in forte aumento anche perché viviamo le difficoltà che hanno fuori dal carcere. Noi accogliamo quello che la strada produce. C’è, in particolare, un’elevata concentrazione di ragazzi che hanno problemi di droga, di farmaco-dipendenza e psichiatrici. E tanti stranieri che non hanno i documenti con cui non si può nemmeno impostare un percorso. Difficile proporre modelli perché c’è un conflitto con le istituzioni: famiglia scuola e, a maggior ragione, la giustizia. Una situazione peggiorata dopo il Covid”. Per questo Siciliano porta avanti da febbraio il progetto “Reparto La Chiamata” in collaborazione con lo psichiatra Juri Aparo che col suo Gruppo della Trasgressione è impegnato da anni anche con i più giovani. Non nasconde le difficoltà. “Il percorso è iniziato a febbraio, ma manca ancora un vero ingaggio: si fatica a portare le persone a cui viene richiesto un impegno. Il grande numero dei ragazzi rende tutto molto difficile perché si potenziano tra loro tutti i meccanismi negativi. Siamo comunque riusciti ad avere un finanziamento dalla Regione e due educatori di comunità che stanno provando a stabilire delle regole. L’obbiettivo è creare un posto dove si possa essere protagonisti del cambiamento a partire dalla cura, anche quella dei luoghi. Troppo presto per un bilancio, ma i primi frutti li stiamo vedendo”. Sono coinvolti anche gli agenti della polizia penitenziaria. Michela Morello, comandante di San Vittore: “Il personale gestisce persone differenti e, attraverso l’esperienza, cerca di avere una modalità di approccio individuale. Molti ragazzi sono giovanissimi ed entrano in carcere subito dopo il loro arrivo in Italia e, nel giro di poco tempo, il personale deve capire chi ha di fronte e studiare la modalità adatta. La migliore per evitare il conflitto che può nascere anche da un problema generazionale. Serve capacità di ascolto per contemperare le nostre esigenze educative con le esigenze dei ragazzi”. Suor Anna Donelli, che da anni lavora a stretto contatto coi giovani detenuti, sottolinea che “hanno bisogno di benevolenza e fiducia, ma anche di fermezza. Spesso arrivano per stupidate e hanno bisogno delle regole basilari. Mi colpisce che quando li incontro dopo che sono usciti, mi chiedano di portare saluti e ringraziamenti agli agenti che hanno dato loro spiegazioni in un certo modo. Loro che fuori non hanno avuto riferimenti negli adulti, ritrovano nei poliziotti il padre che è mancato”. C’è anche, secondo Antonella Calcaterra, avvocato e consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Milano, la necessità di un dialogo maggiore tra il dentro e il fuori. “A San Vittore sono in corso diversi progetti educativi, anche dedicati ai ragazzi con problemi psichiatrici, ma durano 24 mesi: quando finiscono bisogna riproporli e riavere un rifinanziamento. Ma tale e tanto è il problema che bisogna attivare risorse fisse, con interventi non solo progettuali, da attingere della sanità regionale per detenuti con questo tipo di problemi”. Il pubblico ministero Francesco Cajani che partecipa anche al progetto “La Chiamata”, sottolinea quanto sia importante il ruolo dei magistrati. “Ai giovani che ho conosciuto a San Vittore mi presento divcendo che la mia funzione costituzionale è fare bene le indagini, a volte chiedere il carcere e faccio di tutto per farlo al meglio perché credo che sia un male necessario. A furia di assolvere alla mia funzione costituzionale, però, mi sono stufato di mandare la gente in prigione. Quest’anno ho passato 5 mercoledì a Opera a leggere Delitto e castigo con i giovani studenti in Legge, familiari delle vittime della criminalità organizzata ed ex criminali. Alcuni di questi hanno detto di essere cambiati per avere visto un magistrato, Alberto Nobili nel caso specifico, comportarsi in un certo modo. Non si può pensare che chi mette in carcere non debba essere coinvolto in quello che succede dopo”. Riforma Nordio, Marcello Maddalena: “Così si stravolge la Costituzione” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2023 “Il pm non può essere sullo stesso piano della difesa”. Sono in pensione, sono stati di correnti della magistratura diverse, ma sono uniti da una preoccupazione: la separazione delle carriere di pm e giudici che il centro-destra con renziani e calendiani vuole realizzare in questa legislatura che, paradosso della vita politica, è segnata da un ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che è stato un magistrato, un pm, per la precisione. E al loro ex collega hanno scritto oltre 300 magistrati a riposo che si chiedono se “il vero intento sia quello di consentire al governo di controllare l’azione del pubblico ministero”. Tra i firmatari gli ex pool di Mani Pulite Gherardo Colombo, Francesco Greco, Piercamillo Davigo, Alberto Nobili, in prima fila contro la ‘ndrangheta in Lombardia, l’ex Pg e l’ex avvocato generale della Cassazione, Giovanni Salvi e Nello Rossi, l’ex procuratore di Torino Armando Spataro. La lettera è stata promossa dagli ex giudici milanesi Gianluigi Fontana e Luigi Caiazzo e l’ha sottoscritta anche l’ex procuratore generale di Torino, Marcello Maddalena. Procuratore, perché la separazione delle carriere, come si legge nella vostra lettera, “stravolgerebbe l’attuale architettura della costituzione”? La Costituzione ha previsto che giudici e pubblici ministeri facciano parte di un unico ordine giudiziario con un unico Consiglio superiore comune ad entrambi e non ha posto alcun divieto al passaggio da una funzione all’altra. Qual è stato lo spirito costituente? Quello che accomuna le due funzioni, di pm e giudice, e le rende, entrambe, incompatibili con quella della difesa (di qualsiasi parte, imputato, indagato, parte civile, persona offesa) è il “principio di verità”. Il pubblico ministero ha come scopo la scoperta della verità (che può essere anche l’innocenza dell’indagato o dell’imputato, essendo tenuto - per esplicita disposizione di legge - a svolgere accertamenti di fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini) ed il giudice deve accertare la verità. La difesa delle parti private non è tenuta a ricercare e sostenere la verità. Ne discende che, se si esce da questa architettura costituzionale, e si mette il pubblico ministero sullo stesso piano della difesa delle parti, il pubblico ministero diventa una sorta di “difensore” o “avvocato” dell’accusa, come pretendeva Silvio Berlusconi. Infatti la separazione delle carriere era un progetto di Berlusconi… Vero, ma a essere onesti c’era anche da prima, è sempre stato un cavallo di battaglia delle Camere penali. Perché? Ritengo che ciò sia un portato della “concezione agonistica” del processo importata dal sistema anglosassone, per cui il fulcro del processo è la risoluzione di un conflitto “tra parti” (accusa e difesa) mentre il principio che storicamente ha sempre ispirato la nostra cultura giuridica è quello secondo cui il processo è lo strumento per l’accertamento della verità. I sostenitori della separazione delle carriere sostengono che, in particolare i giudici dell’udienza preliminare, fanno un “copia e incolla” delle richieste dei pm. Cosa ne pensa? Semplicemente che non è vero. Basti pensare al recentissimo caso del sottosegretario Andrea Delmastro. Ma se ne potrebbero citare centinaia. Un pm separato sarà agli ordini del governo? È uno sviluppo possibile, non automatico. Anche per questo i nostri padri costituenti hanno previsto un unico ordine, comprensivo di pm e giudici, ed un unico Csm. Ammesso - e non concesso - che dopo la separazione si abbia un secondo Csm (per i pm), non sarebbe la stessa cosa, perché l’imparzialità (che è l’essenza del giudicare e del ricercare la verità) è unica e non può essere diversa a seconda delle funzioni. La magistrata Alessandra Galli: “Carriere separate? Nordio e i politici vogliono mani libere” di Marco Grasso Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2023 Firmataria dell’appello al ministro: “Si vuole limitare l’operatività dei pm e far sì che i governi condizionino le loro scelte”. “Non è affatto detto che dalla separazione di giudici e pm nascano magistrati più equilibrati. La contaminazione non intacca l’autonomia. Al contrario, si impara a valutare le cose da una prospettiva diversa. Lo dico per esperienza personale e familiare. Io sono stata nella mia carriera pubblico ministero e giudice, penale e civile, un percorso che mi ha arricchito. Soprattutto, ho avuto l’esempio mio papà: era stato pm e poi giudice, prima di essere assassinato stava rientrando in procura”. Dopo aver vestito per anni la toga a Milano, Alessandra Galli è fra gli oltre 320 magistrati in pensione firmatari di un appello contro la separazione delle carriere promessa dal ministro Carlo Nordio. È figlia del giudice Guido Galli, ucciso il 19 marzo del 1980 all’Università Statale di Milano da un commando di Prima Linea. Perché questo appello? “Abbiamo alle spalle anni di esperienza, il lavoro che abbiamo fatto non ce lo dimentichiamo. Siamo preoccupati per il futuro e abbiamo sentito il dovere morale di fare sentire la nostra voce”. Nella vostra lettera menzionate il pericolo che il pm finisca sotto controllo politico, il grande ‘non detto’ della riforma... “Sono pochissimi oggi i casi di magistrati che passano da una funzione a un’altra. La vera domanda è: quali sono i veri obiettivi della separazione delle carriere?”. Che risposta vi date? “È una scelta politica, di bandiera. E non si dica che è per l’attuazione dell’articolo 111 della Costituzione, che vuole parti uguali davanti al giudice imparziale. Le parti sono già uguali perché uguali sono i poteri processuali di accusa e difesa davanti al giudice. L’obiettivo è limitare l’operatività dei pm e far sì che i governi ne condizionino le scelte”. In che modo? “Nell’architettura della riforma il giudice resterebbe la figura autonoma dagli altri poteri, cosa che lascerebbe aperta la domanda sul pm: a quale potere dovrebbe rispondere, se non a quello politico? Questo però è uno scenario che profila due grandi rischi”. Quali? “Il primo è un indebolimento complessivo della magistratura: da un lato avremmo un pubblico ministero che risponde a input politici, e non a logiche di autonomia e indipendenza; dall’altro verrebbe minata l’autorità e il ruolo del giudice stesso, che si troverebbe a giudicare solo quello che viene proposto da questo tipo di pm”. E il secondo rischio? “Sganciando la posizione del pm dalla cultura della giurisdizione, comune oggi a tutti i magistrati, si finirebbe per avere una figura che risponde a logiche di polizia, una sorta di avvocato dell’accusa. La conseguenza sarebbe la diminuzione delle garanzie per i cittadini”. Insomma prefigurate un esito contrario a quello dichiarato dai sostenitori della riforma... “Il refrain della separazione delle carriere va avanti da molti anni. L’argomento principale è la commistione tra pm e giudici, ma basta guardare ai fatti: assistiamo tutti i giorni a casi di giudici che non si fanno problemi a smontare gli impianti accusatori delle procure. Una riforma simile non inciderebbe sui veri problemi della giustizia, a cominciare dai tempi dei processi”. Il ministro Nordio accompagna questa proposta ad riforme, dall’eliminazione dell’abuso d’ufficio alla limitazione delle intercettazioni. C’è una logica che tiene insieme tutto? “Il disegno è quello di una politica che vuole riprendersi gli spazi che le sono stati sottratti sull’onda degli scandali emersi negli anni Novanta, ma non si ha il coraggio di reintrodurre apertamente la vecchia norma sull’immunità parlamentare. Si vogliono mani libere per sottrarre l’operato della politica al controllo di legalità”. Lei è stata presidente del collegio della Corte d’appello di Milano che nel 2013 condannò Silvio Berlusconi per frode fiscale. Con la riforma sulla separazione delle carriere sarebbe ancora possibile un processo del genere? “Di per sé la separazione delle carriere, come ho già detto, non ha alcun senso, il suo effetto sarebbe indifferente. Se invece la si intende come un progetto più articolato e complessivo per sottoporre i pm al potere del governo, allora certo che cambierebbe l’esito di una vicenda simile. Il governo dell’epoca, peraltro, intervenne con varie leggi ad personam per intralciare quel processo, basti ricordare il lodo Schifani, il lodo Alfano, la norma sulle rogatorie internazionali e infine anche la modifica della prescrizione, che fece sì che l’ex presidente del Consiglio fosse condannato solo per due delle cinque annualità originariamente contestate, essendo parte delle accuse andate prescritte. Tutto questo dimostra una volta di più la resistenza a farsi processare da parte di chi ricopre quel tipo di cariche”. Ha citato la prescrizione. La maggioranza di destra, insieme a Iv e Azione, è pronta a tornare alla vecchia norma, cancellando la Spazzacorrotti di Bonafede e l’improcedibilità della Cartabia. Che ne pensa? “L’Unione Europea negli anni ha ripreso più volte l’Italia per l’eccessivo numero di processi che vanno in prescrizione, soprattutto in materia di reati corruttivi. Per questo erano intervenuti prima il ministro Orlando e poi Bonafede. Questo accordo largo mostra come un alto tasso di prescrizione, come fosse l’ultimo santo a cui votarsi, è interesse un po’ di tutti. Di tutti, a eccezione dei cittadini perbene e dei magistrati che lavorano per niente. Più in generale, mi sconvolge anche un altro aspetto: si continuano a fare riforme senza aspettare di vedere che effetto hanno quelle precedenti. È un atteggiamento schizofrenico”. “Nuove tecnologie contro i femminicidi. Sì al carcere preventivo per gli stalker” di Fabrizio De Feo Il Giornale, 21 agosto 2023 La coordinatrice forzista di “Azzurro donna”: “Risposte più rapide in caso di denuncia. Rafforzare le misure cautelari e bloccare i beni”. Onorevole Catia Polidori, lei da anni si occupa di violenza sulle donne come coordinatrice nazionale di Azzurro Donna. Perché questo fenomeno si inasprisce durante il periodo estivo? “Le ragioni sono da ricercare nel tempo libero in più che i mariti, partner o stalker hanno mediamente a disposizione. Si esce di più la sera e le donne sono più esposte a fattori di rischio. Probabilmente incide anche un abbassamento della tutela soprattutto nel mese di agosto, durante il quale diventa difficile prendere in esame ogni caso con la tempestività dovuta”. Il governo ha già inasprito le pene. Ora lei si prepara, con altre colleghe di Forza Italia, a presentare una proposta di legge che punta a sfruttare maggiormente le tecnologie... “L’obiettivo è arricchire la proposta del governo. Il ddl contro i femminicidi consegnatoci dal ministro Roccella è già in commissione e se fossimo tutti d’accordo potrebbe essere approvato già in sede redigente. Dopo l’istituzione del numero anti-violenza e stalking, il 1522, e la legge sullo stalking presentata da Forza Italia negli anni del governo Berlusconi, presenteremo una proposta di legge a settembre che terrà conto dell’evoluzione tecnologica e dell’innovazione: credo che, in questo momento, le app che seguono le donne in videochiamata nelle strade più pericolose, le geolocalizzano e mettono a disposizione operatori con cui stare al telefono debbano diventare applicazioni statali. Oggi sono su base volontaria. Si tratta di una misura sostenuta con forza da Antonio Tajani e che ho già anticipato al ministro Roccella. Dobbiamo stare al passo con la tecnologia, soprattutto se può aiutare la prevenzione”. Cos’altro si può fare per aiutare le donne a sfuggire alla violenza? “Nel caso di stalker e di violenza tra le mura domestiche credo sia necessario rafforzare le cautele e aumentare la velocità di risposta, soprattutto nell’intervallo di tempo che va dalla presentazione della denuncia all’applicazione delle misure interdittive. In certe situazioni la tempestività, l’attenzione e la sensibilità, in termini di accoglienza e di ascolto, da parte di chi riceve la denuncia diventa fondamentale per impedire che ci possa essere un ripensamento”. È possibile tradurre in pratica l’esigenza di tempestività? “Il primo punto è creare una corsia preferenziale per chi vuole denunciare, senza lunghe attese. Bisogna rafforzare le misure cautelari: si propongano subito arresti domiciliari o carcerazione preventiva, con le dovute valutazioni sulla fondatezza della denuncia indipendentemente dalla tipologia di aggressione e si richieda il blocco dei beni personali, in forma cautelativa, per eventuali risarcimenti perché normalmente chi commette il crimine fa sparire quello che ha o chiude i conti, lasciando la vittima senza alcun sostegno. In alternativa bisogna agire con l’applicazione immediata del braccialetto elettronico. Ma c’è tanto altro su cui si può lavorare: dall’eliminazione delle riprese video che inibiscono la vittima alla creazione di case protette, dall’introduzione del reato di bullismo a tutte le età fino al sostegno economico per le spese legali”. Ci sono le condizioni per far sì che questa proposta possa assumere carattere bipartisan? “Sicuramente sì, è già accaduto in passato, accadrà anche stavolta. Quello della violenza sulle donne non è un tema sul quale ci possiamo permettere di dividerci o di far prevalere l’egoismo di parte”. Grosseto. La caserma trasformata in carcere. Ma sarà caso isolato di Alessandro Di Maria La Repubblica, 21 agosto 2023 Il 26 settembre la firma per il passaggio della Rotilio Barbetti tra il ministero della Difesa con la presa in consegna di quello della Giustizia. Le caserme del Demanio dismesse da trasformare in carceri, in modo da provare a risolvere il problema del loro sovraffollamento. È uno dei cavalli di battaglia del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ma com’è la situazione in Toscana? Quanto può essere percorribile una strada che si annuncia con non pochi ostacoli? La situazione più chiara, ma che potrebbe essere anche l’unica, è a Grosseto, dove l’ex caserma Rotilio Barbetti è avviata a diventare il nuovo carcere del capoluogo maremmano. Un lavoro lungo, cominciato nel 2019, ma che il 26 settembre vedrà messo tutto nero su bianco con le firme a Firenze dei verbali per il passaggio tra il ministero della Difesa, con la presa in consegna da parte del ministero della Giustizia. “È uno dei cavalli di battaglia di Fratelli d’Italia, da sempre portati avanti in città, sia dal sottoscritto in veste prima di amministratore locale, e adesso anche da parlamentare” spiega Fabrizio Rossi, deputato FdI, coordinatore regionale del partito e assessore all’urbanistica del Comune di Grosseto. Ma Grosseto rischia di essere una goccia nel deserto. Un’altra possibilità potrebbe esserci con la caserma Santa Chiara a Siena, mentre a Firenze, nonostante l’idea piaccia al sindaco Dario Nardella, risultano dismesse la caserma di Rovezzano, già però destinata a ospitare un comando Nato, e l’ex caserma Lupi di Toscana, che è passata di proprietà al Comune e dove comunque sono previste case, alloggi per studenti e un centro commerciale. Un’idea, quella di Nordio, che piace anche al Garante dei diritti dei detenuti della Toscana, Giuseppe Fanfani, anche se con dubbi realizzativi: “La proposta mi trova d’accordo, ma ho le stesse perplessità dei sindacati della polizia penitenziaria: serve comunque una ristrutturazione. E poi ci vorrebbe più personale. Per non parlare delle condizioni di sicurezza, sia dei detenuti, che degli agenti stessi”. Bologna. “Non abbiamo più posti. Ma lasciare i minori in strada è un fallimento di tutti” di Emanuela Giampaoli La Repubblica, 21 agosto 2023 Intervista al direttore del Ceis Giovanni Mengoli che a Bologna ospita 102 ragazzi stranieri, con posti già in deroga, sempre pieni. “È un fallimento, una grossa sconfitta, ma non si poteva fare altro, concordiamo con il Comune. Non abbiamo più posti, nemmeno per i minori non accompagnati. Nessuno vorrebbe mandare in strada questi ragazzi ma in certi casi è meglio dire di no”. È netto padre Giovanni Mengoli, presidente Gruppo Ceis che a Bologna ospita 102 ragazzi stranieri, con posti già in deroga, sempre pieni. Perché questo è un caso in cui bisogna dire no? “Perché l’accoglienza è un sistema, noi siamo l’ultima ruota del carro, c’è il Comune, la questura, la prefettura, l’Asl, la Regione con la formazione, il tribunale dei minori, il garante. Il sistema funziona se tutti fanno la propria parte, se ogni attore si limita a fare lo stretto necessario fallisce. È un no dettato dal fatto che non sono dei pacchetti questi ragazzi e che noi vogliamo assolvere a un bisogno di tipo educativo, che è già complicato così. Sono ragazzi fragili, con problemi di devianza talvolta, quindi vanno seguiti. Sembra che il punto sia trovargli una brandina e basta”. Forse piuttosto che metterli in strada... “Noi non abbiamo messo in strada nessuno, ma i posti non ci sono e non possiamo accoglierne altri. Mi risulta che qualcuno fuori è rimasto, i meno fragili, i più grandi, diciassettenni che per la vita vissuta è come se ne avessero 20 di più, poi è lo stesso un fallimento. Abbiamo ragazzini del 2008 ed è ovvio che non li abbandoniamo. Sono già adolescenti con un piede dentro e uno fuori, a rischio, per farne cittadini di domani, cosa in cui credo, occorre educarli. E noi già fatichiamo così, mancano operatori, ne servirebbero il doppio”. Che percorsi proponete? “La formazione è in carico alla Regione, li preparano per diventare muratori, elettricisti, idraulici, per stare in cucina. Chi si impegna, e sono la maggior parte, poi trova un lavoro. Lavori che in Italia non vuole fare più nessuno e che servono. Quando arrivano li alfabetizziamo, c’è chi deve prendere il diploma di terza media, poi per un biennio si formano. E questo deve essere possibile per tutti. Ma ognuno deve fare la sua parte: la nostra è dargli una casa, accompagnarli nella formazione, far sì che la sera rientrino. Qualcuno in questi giorni suggeriva di mandarli in famiglia. Se le famiglie ci fossero, ne saremmo felici, le supportiamo anche, ma sono poche”. Da dove e soprattutto da cosa fuggono questi ragazzi? “Principalmente dalla miseria, qualcuno dalla guerra come i somali, di recente stanno arrivando dal Gambia per via della crisi climatica, molti dalla Tunisia per l’instabilità politica del Paese, poi Albania e Pakistan. L’età media è 16 anni, quasi tutti maschi, ma ci sono anche ragazze, e si può immaginare da quali contesti siano fuggite. Tutti hanno fatto esperienza di violenza e anche su questo bisogna lavorare. Poi c’è un ultimo aspetto, forse il più importante: va ricostruito il senso di un percorso migratorio, dar loro una prospettiva, altrimenti in strada rischiano di finirci comunque”. Tempesta perfetta sulla salute. Aumentano i bisogni, calano i fondi di Eugenia Tognotti La Stampa, 21 agosto 2023 Cresce il divario tra necessità dei cittadini e servizi erogati dal sistema pubblico. Non si si può certo dire che giunga inaspettato il colpo d’accetta sulla sanità pubblica, annunciato dai rumors sulle voci di spesa che giungono dal fragoroso cantiere aperto della prossima manovra economica del Paese. Perché se c’è una costante nell’azione politica di questo governo - come peraltro lasciavano già indovinare le dichiarazioni programmatiche della presidente del Consiglio Giorgia Meloni - è proprio la mancanza di un’agenda lungimirante e ambiziosa per la salute e il benessere dei fratelli e delle sorelle d’Italia. E sì che nei programmi elettorali della destra nazionale era tutto un rincorrersi di promesse che sembravano annunciare un cambio di passo: un sistema di assistenza sociale più forte e capace di aiutare i cittadini ad accedere alle cure di cui hanno bisogno, sviluppando la sanità di prossimità, ripristinando le prestazioni ordinarie e le procedure di screening, abbattendo i tempi delle liste di attesa, estendendo le prestazioni medico-sanitarie esenti da ticket. E, ancora, incrementando l’organico di medici e operatori sanitari, per non citare che una parte del programma. Che cosa è rimasto e che cosa c’è dietro l’angolo, ora, con i tagli in vista? Il taglio dell’assistenza ai pazienti, accettando che i tempi di attesa continuino ad allungarsi? Una drastica riduzione degli investimenti in capacità diagnostiche e nuove tecnologie? Quella che si annuncia per la sanità - se non salteranno fuori risorse aggiuntive e in assenza di miracoli - è una tempesta perfetta per il confluire dell’aumento dei fattori di rischio per la salute, legati all’invecchiamento della popolazione e al forte deterioramento del Servizio sanitario nazionale (Ssn), che non riesce a tener dietro al compito di garantire i servizi, compresi quelli essenziali come ci raccontano tutti i giorni le cronache. Il divario tra i finanziamenti di cui c’è bisogno e ciò che sarà disponibile, a quanto sta emergendo, pone il servizio sanitario nazionale in una posizione pericolosa. La pandemia di Covid-19 ha messo in luce, fin troppo bene, la vulnerabilità dei sistemi sanitari e la necessità di copertura sanitaria universale durante crisi come quella che abbiamo conosciuto, che potrebbe ripresentarsi in futuro, come ci dicono gli scienziati. La sfida che deve affrontare il Ssn è enorme. Ed è davvero curioso che nel discorso pubblico, monopolizzato dai temi, pur importanti, del salario minimo e del cuneo fiscale - non trovi posto l’idea che la salute è un fondamento, una fonte di stabilità economica e sociale, un moltiplicatore delle risorse umane, una chiave per ridurre la povertà. Massimizzarla in tutte le fasi della vita è un diritto fondamentale per tutti e non un privilegio per pochi. Sarebbe forse necessario, a questo punto, che il capo del governo, il ministro della Salute Orazio Schillaci e quello dell’Economia Giancarlo Giorgetti, ne spiegassero la portata all’opinione pubblica senza nascondere la testa sotto la sabbia. Riconoscendo che la mancanza di investimenti ha creato un enorme divario tra i livelli di domanda e la capacità di risposta, un vuoto che significa edifici fatiscenti e ospedali mal attrezzati e obsoleti, posti di lavoro vacanti, medici e infermieri - da cui dipendono giorno dopo giorno, migliaia di anziani, disabili e fragili - che aspettando da anni un adeguamento delle retribuzioni. Si sente, intanto, echeggiare (anzi riecheggiare) la parola “razionalizzazione”. Ben venga, se non significherà solo tagliare, ma puntare all’efficienza e all’appropriatezza. Nel corso degli ultimi anni, i costi sanitari hanno continuato a crescere, spinti da diversi fattori come le transizioni sociali ed epidemiologiche, i cambiamenti nei comportamenti sanitari, l’espansione dell’accesso ai servizi, l’aumento della varietà e del costo dei servizi sanitari, l’adozione di tecnologie nuove e costose. Intervenire sui fattori che contribuiscono all’aumento dei costi non farà altro che bene. Ragazzini con il coltello nello zaino, è allarme per il fenomeno: “Finiscono sempre per usarlo” di Dario del Porto La Repubblica, 21 agosto 2023 Aumentano i giovanissimi che girano con pericolosissime armi bianche, ferendo e uccidendo coetanei per futili motivi: “È una distorta affermazione di sé”. Spiaggia di Marechiaro, Napoli. I primi giorni di luglio. Genny e Tony, diciassette anni entrambi, sono sul lettino di un lido insieme a una comitiva di amici. Venti minuti prima delle sette di sera, il bagnino li invita ad alzarsi perché si avvicina l’ora di chiusura. Per tutta risposta, i due tirano fuori dallo zaino un coltello e feriscono gravemente l’uomo. Nelle chat con una ragazza, uno dei due si vanta: “Gli ho dato due botte io e una il mio amico”. Nel suo decreto di fermo, il pm minorile evidenzia “l’insana cultura pre delinquenziale di portare armi bianche finanche su una spiaggia”. Non succede solo a Napoli o nel Sud, ma in tutto il Paese. Basta scorrere il web per rendersi conto che da Siena a Piacenza, da Roma a Padova, passando per Bari, sempre più giovanissimi impugnano una lama e fatalmente finiscono per usarla. Per commettere un reato, per aggredire qualcuno o anche solo “per gioco”, come un mese fa disse, candidamente, ai carabinieri un dodicenne bloccato nel centro di Napoli mentre puntava l’arma alla gola di un coetaneo. “Negli ultimi anni”, riflette Ciro Cascone, fino a un mese fa, e per otto anni, procuratore minorile a Milano e ora avvocato generale a Bologna, “ho notato una notevole diffusione del fenomeno in tutte le aree metropolitane del Paese. Tantissimi ragazzi escono con un’arma bianca in tasca. C’è chi porta il coltello preso in cucina, chi quello svizzero, altri uno a serramanico. E spesso parliamo di giovani che non hanno commesso altri reati. Per quelli che hanno già alle spalle un contesto deviante, l’arma serve per prepararsi ad altri delitti, solitamente una rapina. Nella maggior parte dei casi, direi in una percentuale dell’ottanta per cento, i reati che ho visto commettere da minori erano accompagnati dall’uso del coltello”. In alcune realtà si comincia già da piccoli. Valeria Pirone, preside dell’istituto comprensivo Vittorino da Feltre del quartiere San Giovanni a Teduccio a Napoli, racconta: “Sei anni fa mi avvisarono che un bambino di terza elementare, di famiglia problematica, con il padre detenuto, stava minacciando un compagno di classe con il coltello. Arrivai subito, non era una lama piccola, ma un’arma a serramanico. Chiamai subito la polizia e alcuni genitori mi contestarono perché avevo fatto arrivare le forze dell’ordine a scuola”. Non è solo un problema degli ambienti più disagiati, però. “Ci sono altri ragazzi”, sottolinea il magistrato Cascone, “che invece sembrano portare il coltello, almeno apparentemente, solo come strumento di difesa personale. Perché hanno paura e in questo modo di sentono più sicuri. È un errore gravissimo naturalmente, perché l’esperienza ci dice che se hai un’arma finisci prima o poi per usarla. Al tempo stesso però ci restituisce la dimensione della percezione della sicurezza che si respira nella società”. Secondo Maria Luisa Iavarone, professore ordinario di Pedagogia generale e sociale e madre di Arturo, accoltellato gravemente nel 2016 da una baby gang a Napoli, il fenomeno “è trasversale e interclassista, perché deriva da uno schema interpretativo della realtà: un adolescente costruisce l’identità attraverso l’affermazione di sé stesso. Se non ha altre strade, come un genitore autorevole, una scuola efficiente, una politica credibile, resta solo la violenza, perché l’aggressività viene ritenuta sempre pagante, come unico modo per affermare sé stessi”. Spesso, argomenta il procuratore Cascone, la reazione dei ragazzi lascia trasparire “una inconsapevolezza, una leggerezza, che sono tipiche dell’età adolescenziale, sulle quali però bisogna intervenire”. La sanzione prevista dalla legislazione minorile è una contravvenzione e fino a qualche anno fa, aggiunge Cascone, “veniva accompagnata da una valutazione di sostanziale irrilevanza del fatto. Come procuratore, proprio alla luce di quanto stava accadendo, ho voluto cambiare linea, perché è importante far capire ai giovani che non si può uscire di casa con un coltello in tasca. Forse andrebbe fatta una valutazione di politica criminale. Le pene oggi sono irrisorie, non fanno paura a nessuno. Non serve per forza l’arresto, ci si potrebbe inventare altre sanzioni più efficaci, in grado almeno di valere come deterrente. Senza dimenticare”, sottolinea Cascone, “che il lavoro più approfondito va fatto in prevenzione, combattendo la piaga della dispersione scolastica che non esiste solo al Sud”. Per la preside Pirone, “si deve intervenire sin dalla scuola dell’infanzia con messaggi chiari. Altrimenti, se ci si muove dopo diventa troppo tardi. Qualcuno, e mi è capitato anche questo, alle medie passerà dal coltello alle pistole”. Migranti. Tajani: “Presto meccanismi più stringenti sui rimpatri” Il Domani, 21 agosto 2023 Il vicepremier e segretario di Forza Italia in un’intervista al Corriere della Sera parla dell’emergenza migranti, che sta portando i comuni al collasso. “Va applicato quanto prima e se possibile implementato il memorandum europeo che destina 100 milioni alla Tunisia per affrontare questa crisi migratoria. Tutta l’Italia si sta caricando un peso che dovrebbe essere dell’intera Europa, e stiamo lavorando nella Ue per questo”. Ha detto così, al Corriere della Sera, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, rispondendo a una domanda sull’emergenza sbarchi, più che raddoppiati rispetto ai primi sette mesi del 2022. “Il ministero dell’Interno - ha aggiunto - sta provvedendo a una più equa redistribuzione dei migranti, ma abbiamo anche intenzione di inserire meccanismi più stringenti ed efficaci per i rimpatri di chi non ha diritto di essere accolto. Lo faremo prestissimo”. Sugli extraprofitti imposti dal governo alle banche (salvo poi compiere una mezza inversione a U) “non parlerei di scontro ma di diverse posizioni. Con la premier parlo quasi quotidianamente, non c’è un problema di stabilità di governo, ma di idee non sempre coincidenti. Per noi c’è da modificare il decreto, sui tre punti fondamentali: tutelare le banche del territorio, prevedere un prelievo una tantum e che ci sia deducibilità del contributo. Non cambiamo idea e ragioneremo su come fare”. Orizzonte europee - Ma nell’intervista si guarda anche alle elezioni europee. Rispetto invece ai movimenti dei partiti centristi, Tajani afferma: “Il centro siamo noi. Non ci servono altri generali, FI rappresenta il popolarismo in Italia e in Europa col Ppe, io sono vice presidente”. Alle Europee “non è assolutamente in dubbio che FI si presenterà col proprio simbolo e con il nome di Berlusconi e il richiamo al Ppe. Non chiederemo un abbassamento della soglia sotto il 4 per cento. Se personalità vogliono aggiungersi anche come indipendenti possiamo parlarne. Ma FI resta e resterà, non diventerà un taxi per nessuno”. Non fermate la flotta civile che salva i migranti in mare di don Mattia Ferrari La Stampa, 21 agosto 2023 Marinai e attivisti di varie provenienze a bordo della Mare Jonio pronta a salpare da Trapani. La flotta civile per il soccorso ai migranti non può essere fermata. E la Chiesa è con loro. Siamo nel porto di Trapani, a bordo della Mare Jonio, la nave di Mediterranea. Marinai e attivisti di varie provenienze culturali lavorano assieme per preparare questo vecchio rimorchiatore a tornare in mare, il 22 gosto, dopo l’ispezione della Capitaneria. Alla fine della mattinata passano l’arcivescovo di Agrigento Alessandro Damiano e Lilli Genco, responsabile dell’Ufficio comunicazioni sociali della diocesi di Trapani. Dopo di loro arrivano suor Alessandra e gli scout. Alla sera ci ritroviamo a prua della nave e celebriamo insieme l’Eucarestia, credenti e non credenti insieme. A chi legge queste righe sorgerà forse una domanda: cosa ci fa la Chiesa qui in mezzo? Per rispondere dobbiamo riavvolgere il nastro e tornare al 2019, quando Mediterranea era appena nata e il fondatore, Luca Casarini, ha incontrato l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice. “Cosa ti muove?”: è la domanda fondamentale che si pone nella vita di ogni persona ed è la domanda che Lorefice ha rivolto a Casarini. “Non riuscivo a dormire la notte, perché mi si contorcevano le viscere davanti alla sofferenza dei migranti che annegavano in mare o che venivano respinti nei lager libici”: così ha risposto Casarini. A quelle parole gli occhi di Lorefice si sono illuminati e l’arcivescovo ha spiegato a Luca che quel “mi si contorcevano le viscere” corrisponde a una parola greca centrale nel Vangelo, “splagchnizomai”, che indica l’amore viscerale che caratterizza il cuore di Gesù e che è la chiave di volta della parabola del buon samaritano. Per tutti, credenti e non credenti, quella parabola rappresenta il paradigma della storia. Sul bordo della strada c’è una persona aggredita dai briganti, che oggi sono le guerre, il capitalismo selvaggio, la violenza patriarcale, i respingimenti. Davanti alla persona ferita il sacerdote e il levita, gli uomini religiosi, vedono e passano oltre. Grazie all’indifferenza, alla paura di esporsi, ai compromessi per convenienza, al male è permesso di perdurare. La storia sembrerebbe già scritta, per l’umanità ferita sembrerebbero non esserci speranze. Passa un samaritano, che oggi sarebbe uno straniero, un eretico, un ateo. Egli vede e gli si contorcono le viscere: proprio lui, che non crede in Cristo, prova quello “splagchnizomai” che caratterizza il cuore di Gesù. Egli sente nel suo cuore un amore viscerale per la persona ferita, per questo si fa prossimo, si prende cura di lei e costruisce una rete di solidarietà con l’albergatore. In questo modo il corso della storia cambia: chi era destinato a essere perduto si salva e si salva anche il samaritano, perché l’amore viscerale salva non solo chi è amato, ma anche chi ama. Il samaritano, dice Gesù, ha la vita eterna, la vita piena quaggiù e nell’aldilà, ha la felicità vera, la gioia. Ecco perché Mediterranea e le altre organizzazioni del soccorso in mare, la “civil fleet”, vanno avanti e non possono essere fermate. Ed ecco perché la Chiesa è con loro. È un cammino che vede tanti fedeli, preti, vescovi e cardinali mischiarsi con i ragazzi provenienti da mondi storicamente lontanissimi da loro, fino ai centri sociali. In questo percorso si inseriscono la presenza di Mediterranea all’incontro dei vescovi del Mediterraneo a Marsiglia e la nomina di Luca Casarini da parte di Papa Francesco come invitato speciale del Sinodo universale dei Vescovi. Quando al centro ci siamo non noi stessi, ma gli altri, le persone ferite e l’amore viscerale che ci lega a loro, allora capiamo che dobbiamo prenderci per mano. Così una realtà laica come Mediterranea ha al suo interno il cappellano, una realtà laica come Libera ha come presidente un prete, don Ciotti, e un centro sociale occupato come Spin Time a Roma, dove abitano 400 persone in emergenza abitativa e dove stanno realtà laiche come Scomodo, la Rete degli Studenti e altre, ha una cappellana, Sorella Adriana Domenici. Una mia amica proveniente dai centri sociali lo spiega così: “Nel comune farci fratelli e sorelle degli ultimi ci siamo scoperti anche fratelli e sorelle tra di noi”. Grazie ai migranti stanno crollando anche i muri che noi stessi avevamo eretto nelle nostre città e che ci rendevano prigionieri delle strutture sociali che avevamo costruito. Il Mediterraneo oggi è ben rappresentato dalla parabola del samaritano: persone in cerca di una vita degna che non trovano nei Paesi di provenienza, saccheggiati dal nostro sistema economico, bussano alle nostre porte. La risposta dei nostri Paesi è stata ridurre gli spazi in cui la Guardia costiera può svolgere il suo straordinario lavoro di soccorso e poi, nel 2017, fare accordi con le milizie libiche perché catturassero e respingessero i migranti al posto nostro. Oggi poi si è deciso di estendere questo modello alla Tunisia. Quest’anno sono già più di 1.800 i migranti morti o dispersi nel Mediterraneo centrale, dei quali più di 289 sono bambini. E sono più di 100.000 i migranti deportati nei lager libici dal 2017 ad oggi grazie agli accordi Italia-Libia. Davanti a tutto questo, molti passano oltre. La sociologia definisce questo fenomeno normalizzazione: è stato reso normale che i migranti vengano lasciati annegare o che vengano deportati nei lager libici con i nostri soldi. Molti vedono e passano oltre, per indifferenza, per paura o per interesse, e così diventano complici della violenza dei briganti. Queste persone però non trovano la felicità: non a caso questa è stata definita dagli psichiatri “l’epoca delle passioni tristi”. Finché rimaniamo in questo paradigma, i migranti saranno considerati un numero e un peso e la nostra società continuerà ad essere triste. Chi vive veramente l’accoglienza sa che i migranti sono proprio l’ancora di salvezza che ci permette di salvarci dal naufragio delle passioni tristi in cui ci stiamo inabissando: chi vive veramente l’accoglienza, cioè chi dà carne alla fraternità, sa che l’amore ci dà la forza per costruire un altro mondo possibile, che già sta nascendo, in certe parrocchie come in certi centri sociali. Non siamo in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d’epoca: un mondo è finito e un altro sta sorgendo. Sembra che il mondo che nasce continueranno a costruirlo i potenti, secondo le loro logiche di dominio, e l’epoca delle passioni tristi continuerà. C’è però un modo per spezzare questo dominio: amare visceralmente e così dare carne radicalmente, con i nostri corpi e le nostre relazioni, alla fraternità. Per questo Mediterranea e la “civil fleet”, insieme a tanti movimenti, continuano la loro missione. Perché amando visceralmente ci salviamo, insieme. “La pace è possibile nella giustizia e nella sicurezza”. L’intervento di Zuppi al Meeting di Sante Cavalleri farodiroma.it, 21 agosto 2023 “Pace non significa tradimento. La pace richiede giustizia e sicurezza. Non ci può essere una pace ingiusta, premessa di altri conflitti, c’è un aggressore e un aggredito, e serve una pace sicura per il futuro”. Sono parole del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, che dopo aver presieduto la celebrazione di apertura al Meeting di Rimini, è intervenuto ai lavori descrivendo l’apporto che ciascuno può dare alla pace convertendo il proprio cuore. “L’amicizia sociale ci accende il mondo intorno. La periferia non è solo geografica, ma anche il vicino di casa che evito perché guardo tutto senza amicizia. L’amicizia - ha scandito - non è l’intimismo egoistico, come direbbe papa Francesco, l’amicizia operativa è ‘io sto bene se faccio stare bene, se cambio le cose’”. Il porporato ha osservato come dietro le guerre ci sia in realtà bramosia di possesso. “I beni sono comuni. Alcuni si sono arrabbiati per il passaggio sulla proprietà privata della Fratelli Tutti. Il talento è tuo, ma se non lo usi per gli altri lo perdi” ha proseguito. “I beni - ha proseguito - servono se servono per tutti. L’individualismo imperante delle tante felicità individuali che non troviamo ci fa perdere anche i nostri beni”, ha spiegato. “Spendendo per gli altri i nostri beni trovo il bene comune che è anche il mio. Non ci rimetto, ma trovo cento volte tanto”, ha sottolineato Zuppi. “Papa Francesco ci chiede di non abituarci alla guerra, ha ricordato in proposito confidando “a me ha commosso la commozione di papa Francesco l’8 dicembre a Piazza di Spagna, con lo struggimento del dolore del popolo ucraino”. In vista del Meeting, conversando con Il Sussidiario, Zuppi ha pure esplicitamente criticato l’Unione Europea: “Fa troppo poco, dovrebbe fare molto di più. Deve cercare in tutti i modi di aiutare iniziative per la pace, seguendo l’invito di Papa Francesco a una pace creativa”. Inoltre, “dovremmo cercare una ripresa dello spirito europeo, essere consapevoli di quanto questo sia indispensabile se vogliamo garantire ai nostri figli un futuro di pace. Il problema dei nazionalismi, qualunque essi siano, è che se si collocano in un respiro ampio, universale, prima o poi diventano pericolosi perché contrappongono e dividono” osserva il porporato. Una prospettiva che non è inevitabile, a condizione che prevalga “l’amore per il proprio Paese, che è fondamentale e decisivo per tutti e che dobbiamo aiutarci a difendere”. “Esso però deve collocarsi nel concerto delle nazioni. Mai dimenticarsi di far parte della famiglia umana, o smettere di pensarsi all’interno di questa”. Bielorussia. Il Paese-prigione in piena Europa dove è illegale fare gruppo di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 21 agosto 2023 Reportage dall’”ultima dittatura d’Europa”, un intero Paese dominato da silenzio, ordine e paura. La gente non fa gruppo: c’è una legge contro gli assembramenti che lo impedisce, per prevenire le rivolte. Il dissenso? Sparito: “Arresti continui”. C’è qualcosa che lascia disorientati per le strade di Minsk, come se mancasse un po’ d’aria o la forza di gravità agisse diversamente. Certo sono biondi, parlano a bassa voce, non gesticolano e ridono poco, ma non basta. Al principio si pensa all’asfalto perfetto, ai parchi senza una foglia per terra, a piazze, strade, marciapiedi sovradimensionati, agli autobus elettrici, puliti e silenziosi. Non fosse per il costruttivismo sovietico dei palazzi, sembrerebbe una Svezia senza mare. Il patto sociale con il potere qui si regge su stipendi bassi, ma buoni servizi pubblici e prezzi calmierati che permettono di vivere tranquilli. In Bielorussia non ci sono state le privatizzazioni selvagge della Russia degli Anni 90, qui le grandi imprese sono rimaste statali ed è sopravvissuto un egalitarismo sovietico, senza penurie e con in più le vacanze in Turchia. Ma c’è dell’altro, non tanto nelle cose, piuttosto nelle persone. Ci vuole un po’ per rendersene conto, ma l’intuizione arriva e all’improvviso ci si sente scomodi, in pericolo. Davanti ai tavolini di un pub, si sta esibendo un ragazzo con chitarra e amplificatore. Tutto è come dev’essere: pavimentazione in pietra, edifici restaurati, turisti (russi e qualche kazako) con le tartine di patate nei piatti. Il cantante non è granché, il repertorio neppure, solo canzoni sovietiche Anni 60 e 70 sul mal d’amore. Più che fermarsi, la gente rallenta per sentire la fine della canzone. Due poliziotti lo interrompono, il ragazzo spegne l’amplificatore, ripiega l’asta del microfono, mostra i documenti, non tenta neppure di giustificarsi. I passanti non lo difendono o buttano lì una battuta perché lo lascino andare. Il ragazzo si muove rigido, meccanico, se ne va con i poliziotti a destra e sinistra e nessuno che lo incoraggi. Non i fidanzati che si tengono per mano, non le due amiche, non i due adolescenti, non la coppia anziana… Ecco l’intuizione. In un attimo capisci che sono tutti a due a due. Come protoni e neutroni che vagano allacciati sul marciapiede tenendosi a distanza dall’altro atomo più vicino. Due, due, due. Non di più. Errore, là sono in quattro, ma sono una famiglia. La regola del due è rispettata anche ai tavolini dei ristoranti. Famiglie oppure coppie. Non ci sono gruppi di amici, compagnie niente. Ecco l’atmosfera irreale di Minsk: la gente non si mischia, non si avvicina, non fa gruppo. Non è carattere nazionale, c’è una legge che lo impedisce, una legge contro gli assembramenti per prevenire le rivolte. E, soprattutto, c’è la paura che ha paralizzato il ragazzo. La Bielorussia è da trent’anni l’”ultima dittatura d’Europa”, ora la deriva della Russia con l’elmetto di Putin ne contende il record, ma insomma l’aria resta quella. “Gli arresti sono continui”, ha dichiarato al New York Times mesi fa l’Ong premio Nobel 2021 Viasna. Ricontattati a Minsk nei giorni scorsi hanno risposto: “Troppo pericoloso incontrare giornalisti stranieri e anche inutile. Solo cancellando le sanzioni internazionali potrà riprendere il dialogo internazionale con il governo Lukashenko e quindi anche il nostro col regime”. Il punto di svolta sono state le elezioni del 2020. Un gruppo di esponenti del sistema (un miliardario, un ex ambasciatore e, il più outsider, un blogger) aveva pensato che il padre padrone del Paese, Alexandr Lukashenko fosse pronto a farsi da parte e anche gli elettori ci hanno creduto. Così, quando il risultato di Lukashenko è stato l’80% contro il 19 degli exit poll e il 21 dei sondaggi, i bielorussi hanno osato scendere in piazza, non più due a due, ma in massa. L’Occidente ha reagito con le sanzioni, le ha inasprite nel 2021 quando Lukashenko ha dirottato un volo Ryanair per arrestare un oppositore e ne ha aggiunte ancora nel 2022 quando Minsk ha permesso che dal suo territorio Putin attaccasse l’Ucraina. Risultato: su neanche 10 milioni di abitanti, tra i 200 e i 500mila sono fuggiti all’estero. Un’emorragia che ha azzoppato il Pil. Gli sfidanti originari del 2020 sono ancora in cella, i loro sostituti in esilio (tra loro il volto dell’opposizione Svetlana Thichanovskaya), mentre l’unica candidata ancora in libertà è Hanna Kanapackaja che ricavò (ufficialmente) dalle urne l’1,6%. “Purtroppo — dice al Corriere Kanapackaja — il mio Paese non aveva nel 2020 e non ha oggi una magistratura indipendente, dei media liberi, un ambiente economico concorrenziale ed elezioni oneste. Il presidente è troppo potente e la Russia troppo vicina. Con tutte le truppe di Mosca che vanno e vengono nel nostro territorio si può dire che anche noi, come l’Ucraina, siamo sotto occupazione”. Parole forti da sentire a Minsk, soprattutto da parte di una che l’opposizione all’estero squalifica come “finta”, “funzionale al regime”. Dicono che Hanna Kanapackaja può parlare così perché suo padre è uno dei milionari del cerchio magico di Lukashenko e potrebbe essere una a cui passare un potere di facciata. A parole lei ci prova: “Sarò la prossima presidente bielorussa. Perché è tempo che la Bielorussia abbia una leader donna. Perché, come Lukashenko, voglio un Paese indipendente e pochi apprezzano che la Bielorussa non abbia mai riconosciuto l’annessione di Mosca della Crimea o dell’Abkhazia, ma anche io farei così. Perché voglio difendere le nostre sanità ed educazione gratuite. E poi perché, a differenza di lui, voglio un Paese anche democratico ed europeo”. Davvero pensa che sarà almeno ammessa alla corsa elettorale? “Non so. Prima devo riuscire a far passare un’amnistia per l’ex presidente e i suoi familiari”. Piccole prove di resistenza? Chissà. Forse come quella del cantante di strada. I testi erano innocui, solo cuore e batticuore, ma gli autori? Uno era ucraino, l’altro un contestatore di Putin, l’altro idem per di più fuggito all’estero. Era dunque un oppositore subliminale? Nel dubbio: arrestato.