Carceri: salviamo davvero qualche vita e non bastano certo due telefonate in più al mese Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2023 Lettera-appello di Ristretti Orizzonti, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Associazione Sbarre di Zucchero. È da anni che noi portiamo avanti la battaglia perché alle persone detenute sia data la possibilità di curare gli affetti e rafforzare le relazioni. Abbiamo tirato un sospiro di sollievo a leggere che il ministro Nordio si era reso conto dell’importanza di dare una svolta a tutta la negatività che sta travolgendo le carceri puntando proprio in particolare sull’aumento delle telefonate. Ma poi siamo ripiombati nella dura realtà di proposte inconsistenti, perché crediamo che tutti quelli che come noi entrano tutti i giorni in carcere tale reputino la proposta di aumentare da quattro a sei le telefonate mensili. Ma cosa cambierebbe con due miserabili telefonate in più al mese di 10 minuti l’una in quelle vite di solitudine isolamento lontananza dalle famiglie? Da quando è scoppiato il Covid abbiamo continuato a dire che quelle telefonate in più (concesse dopo le rivolte con cadenza quotidiana o quasi) che avevano salvato il sistema dal disastro, non potevano più essere tolte, anzi andavano potenziate. E invece è successo quello che non doveva succedere: fermata l’epidemia si è deciso di fermare anche molte delle telefonate in più, salvo in quelle carceri dove la forza del volontariato e del Terzo settore, delle persone detenute e dei loro familiari ha trovato una risposta saggia delle direzioni e il buon uso delle loro prerogative per mantenere le telefonate. Sappiamo benissimo che sarebbe importante la modifica della legge, però sappiamo anche che molto si può fare già da ora, e soprattutto che non bisogna mollare la presa, tanto più in un periodo in cui in carcere si manifesta sempre più alto il disagio con suicidi e atti di autolesionismo, uniti alla desertificazione delle estati negli istituti di pena. A chi risponde che ‘hanno sbagliato e devono pagare’ non si ricorda mai abbastanza che secondo la nostra Costituzione le pene devono tendere alla rieducazione e non si rieduca rispondendo al male con altrettanto male. I nostri governanti sembrano ignorare che la pena detentiva consiste nella privazione della libertà e non in altre ‘torture’ che possono spingere anche al suicidio, come la mortificazione degli affetti. Perché qui si fa del male anche ai familiari, che non hanno nessuna responsabilità, anzi hanno bisogno di essere incoraggiati e aiutati. E ricordiamoci che ci sono paesi in cui le famiglie indigenti vengono sostenute dalle istituzioni. Le telefonate le persone detenute in Italia se le pagano: qualcuno non venga a dirci che non si possono creare differenze tra chi può pagarne di più e chi non può, si tratta piuttosto di aiutare e sostenere chi non ha possibilità, tanto più che se queste persone avessero come prescrive la legge un lavoro, questo problema non esisterebbe. Sono anni che Ristretti Orizzonti e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia portano avanti importanti battaglie in particolare sul tema degli affetti (che significa anche colloqui, colloqui intimi, massimo ampliamento dei colloqui con terze persone…). In quest’ultimo anno si è aggiunta poi l’Associazione Sbarre di zucchero, nata in seguito al suicidio di una giovane donna detenuta, Donatela Xodo, una realtà che ha portato in queste battaglie passione, intelligenza e capacità di comunicazione. Insieme chiediamo al Ministro della Giustizia un gesto di cambiamento vero. Chiediamo di sostenere questa nostra richiesta al presidente Mattarella e a Papa Francesco. Ristretti Orizzonti Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Associazione Sbarre di Zucchero Il carcere non sia l’ospizio dei poveri di Stefano Anastasia* La Repubblica, 20 agosto 2023 Se il ministro Nordio vuole mettere fine al sovraffollamento, dovrebbe avere il coraggio di porre limiti effettivi all’uso degli istituti penitenziari. A seguito della tragedia torinese, in cui due donne, a distanza di poche ore, hanno perso la vita in carcere, il ministro Nordio ha fatto due proposte, una per ridurre il sovraffollamento che affligge il nostro sistema penitenziario, l’altra per alleviare le condizioni di isolamento che le persone detenute soffrono: da una parte il recupero di caserme dismesse per i condannati per reati minori, dall’altra l’aumento delle telefonate settimanali garantite alle persone detenute. Sulla seconda c’è poco da dire: è una vecchia rivendicazione dell’associazionismo e del volontariato che si occupa di carcere. Se il ministro intende cambiare questo assurdo stato di cose, secondo cui i detenuti hanno diritto a quattro telefonate al mese di non più di dieci minuti, non ha da fare molto: proporre al Consiglio dei ministri una modifica al regolamento penitenziario. Unica condizione è che sia una cosa seria e non la presa in giro annunciata da qualche velina ministeriale, per cui le telefonate passerebbero da quattro a sei al mese, quante ne fanno già la maggioranza dei detenuti privi di rilievi disciplinari. La comunicazione telefonica fa parte della libertà di corrispondenza garantita dalla Costituzione anche ai detenuti, tanto che ogni notte possono scrivere ai loro cari senza censure che non siano decise dall’autorità giudiziaria. Perché non possono chiamare tutti i giorni, e magari più volte al giorno i loro familiari? Più complicata, invece, è la questione delle caserme, e non solo per le difficoltà pratiche del trasferimento dei beni dalla Difesa alla Giustizia, per la necessità di riadattarle, per il reperimento del personale, ma per la discutibile efficacia del provvedimento. Il sovraffollamento penitenziario non è un accidente contingente. Da trent’anni, salvo momenti eccezionali, la popolazione detenuta è sempre e costantemente cresciuta, nonostante la stabilità o il calo dei reati, l’aumento delle alternative al carcere (i cui beneficiari equivalgono alla popolazione detenuta) e l’aumento della capacità ricettiva del sistema penitenziario di circa il 40%, da 36 mila a 51 mila posti detentivi. Trovarne altri non cambierà la situazione: saranno presto saturati dall’esercito dei disperati di riserva su cui il sistema penitenziario ha potuto contare finora, assorbendo più detenuti, nonostante altrettanti condannati per reati minori potevano andare in alternative al carcere. Il nodo da sciogliere è cosa vogliamo che sia il carcere. Oggi è l’ospizio dei poveri, i non assistiti da uno Stato sociale in disarmo, che finiscono in carcere perché, come dice il direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano, “noi non possiamo rifiutarci di accoglierli”, come fanno quasi tutte le reti di protezione esterne. L’alternativa all’ospizio dei poveri è il carcere della extrema ratio auspicato dal cardinal Martini e da allora vagheggiato senza successo nei programmi ministeriali. La crescita delle alternative al carcere è il risultato di quei programmi, certo encomiabili, ma insufficienti. Se il senso comune resta ancorato alla identificazione della pena con il carcere, se per ogni problema sociale governo e Parlamento non sanno far altro che minacciare un nuovo reato o una pena più dura, se i servizi sociali territoriali continueranno a essere depauperati, i più poveri dovranno andare in galera e le alternative serviranno solo a sottrarre ai rigori del populismo penale le persone con mezzi e risorse per cavarsela altrimenti. Dunque, se il governo vuole mettere fine al sovraffollamento, dovrebbero avere il coraggio di porre fine alla bulimia penale di questi decenni, ponendo limiti effettivi all’uso del carcere (escludendolo per i reati non violenti o lasciando in sospeso l’esecuzione di pene minori che non possano essere eseguite in condizioni dignitose), restituendo così al territorio i suoi problemi, ma dandogli al contempo i mezzi per gestirli con un’efficace politica di sostegno e integrazione sociale. *Docente di Filosofia e Sociologia del diritto all’Università di Perugia e Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio Il carcere è degrado e quell’orologio fermo segna il luogo fuori dal tempo di Vincenzo Di Paolo L’Unità, 20 agosto 2023 Continuiamo a riempire le carceri generando contesti di sofferenza, in cui spesso è difficile riconoscere persino dove sia lo Stato di diritto. Gli orologi sui muri del carcere di Monza, lungo il corridoio che separa le diverse sezioni, sono fermi e segnano ognuno un’ora diversa. Non funzionano. O forse funzionano benissimo, e sono lì a ricordarci che nel carcere il tempo assume un senso diverso. Sono lì a interrogarci. Siamo alla ricerca del senso vero del vivere e ci chiediamo se esista davvero un destino di eternità per l’uomo. Se questa eternità si concretizzi già nei nostri giorni. Il carcere è la condizione di chi vive un tempo sospeso, un tempo che può durare settimane, mesi, anni. Una vita sospesa che intanto passa. Mentre percorro quel lungo corridoio, in visita all’istituto di pena monzese insieme a Nessuno tocchi Caino, sono perseguitato da questo pensiero e non riesco a capire se quegli orologi fermi indichino già un principio di eternità o ne siano la negazione, o molto più banalmente siano un segno della condizione di degrado di quel luogo e della difficoltà di gestione e cura che ne deriva. Il carcere di Monza, come molte altre strutture in Italia, sorge fuori dalla città, lontano dal centro, lontano da tutti gli altri luoghi di vita. È relegato lì, ai margini. Per raggiungerlo bisogna perdersi tra la tangenziale e qualche capannone industriale. Una distanza che riflette bene il distacco sociale verso questa realtà, verso chi la abita e la vive. Quello che succede dentro le carceri sembra non interessarci. Ci indigniamo per qualche giorno o per qualche ora quando la cronaca ci propone casi eclatanti di rivolte, abusi, torture, suicidi. Ma torniamo presto a non curarcene. Nella casa circondariale di Monza sono presenti 669 detenuti, a fronte di una capienza massima regolamentare di 411 posti. Del totale dei detenuti presenti, 407 scontano una condanna definitiva sotto i quattro anni. Sono persone che potrebbero quindi accedere, secondo la normativa, a misure alternative. E che non riescono però a farlo perché mancano le condizioni, gli spazi, i luoghi per realizzarle e renderle attuabili. Quella del sovraffollamento è l’urgenza prioritaria da affrontare. La struttura, che pure regge rispetto ad altri istituti, non riesce a garantire condizioni accettabili e dignitose. Il carcere è degrado. Miseria. Ma anche molta umanità. A Monza l’ho trovata negli occhi e nelle parole del comandante degli agenti penitenziari, nel suo modo di porsi con ciascun singolo detenuto, nella professionalità con cui resiste ai problemi che quotidianamente è chiamato ad affrontare. Il carcere è disperazione. Sofferenza. Ma anche speranza. A Monza l’ho vista nello sguardo di giovani detenuti che hanno voglia di riscatto e desiderio di vita. Mi chiedo perché, se la pena debba svolgere una funzione riabilitativa e rieducativa, continuiamo a riempire le carceri generando contesti di sofferenza e degrado, in cui spesso è difficile riconoscere persino dove sia lo stato di diritto. La sofferenza di un detenuto è il degrado di uno Stato. E noi dovremmo costruire un modello diverso e alternativo, rispondente davvero ai dettami costituzionali. Il fatto è che la nostra società continua a vedere la pena come aspetto punitivo. E quindi il carcere diventa luogo perfetto per realizzare un fine vendicativo nei confronti di persone che saranno costrette a portarsi dietro il proprio reato, anche dopo aver scontato tutta la pena inflitta. Perché la condanna è anzitutto morale. E abbiamo la convinzione che un individuo sia soltanto ciò che ha commesso, dimenticandoci invece che ogni uomo è un’infinita possibilità e che uno Stato di diritto, laico e democratico, deve perseguire l’obiettivo di un reinserimento sociale del condannato, garantendo la sicurezza sociale. Sicurezza che non viene costruita attraverso il sistema delle carceri, che diventano spesso luogo di educazione alla criminalità o che producono l’effetto di peggiorare, anziché migliorare, l’inclinazione di un soggetto che ha commesso reati. Non serve un sistema penale migliore. Serve qualcosa di meglio del sistema penale. Quegli orologi restino lì, appesi a quel muro. A ricordarci che lo sguardo eterno sulla vita è in fin dei conti la possibilità di riscatto quotidiano per tutti. E che nessuno di noi ha il potere di impedirlo o negarlo ad alcuno. Patronaggio: “Il carcere così è criminogeno. La politica decida di agire” di Nello Scavo Avvenire, 20 agosto 2023 “Serve anche un ponte di solidarietà tra chi sta dentro e chi sta fuori. La riforma Cartabia è un primo passo per una detenzione alternativa”. “Scongiurare eventi drammatici ed estremi”. Con queste parole il procuratore generale di Cagliari, Luigi Patronaggio, ha lanciato l’allarme sulle condizioni dei detenuti in Italia. Un passato da magistrato antimafia, poi procuratore di Agrigento in prima linea nelle inchieste sul traffico di esseri umani, Patronaggio in questa intervista richiama non solo la politica e la magistratura alle proprie responsabilità. Ogni estate si rinnova l’allarme per la situazione delle carceri, ma si tratta di una emergenza solo “di stagione”? Assolutamente no! Le carceri italiane registrano criticità croniche che si acuiscono in estate quando gli spazi di detenzione ristretti diventano, per il caldo e per la mancanza di idonei servizi igienici, invivibili. Sono a conoscenza di istituti penitenziari dove è possibile fare la doccia una volta alla settimana o a turni prestabiliti. Ma la vera criticità delle carceri italiane è la mancanza di una efficace assistenza socio-psicologica che accompagni percorsi di riabilitazione e reintegrazione sociale. Durante il Covid alcuni gravi episodi avevano riproposto il tema della detenzione e delle sue finalità. Cosa è cambiato da allora? Il Covid ha evidenziato la fragilità dell’assistenza sanitaria nelle carceri dove ancora oggi, pur con delle eccezioni, la presenza costante in istituto di un medico nelle 24 ore non è un dato affatto scontato. Va inoltre registrata la presenza assolutamente episodica della componente medico psichiatrica. L’emergenza Covid evidenziò inoltre uno spinoso problema, tutto italiano, quello del doppio binario trattamentale, cioè del regime differenziato fra detenuti comuni e detenuti per gravi delitti di criminalità mafiosa o terroristica. Problema che ha tragicamente messo in luce come la ferita delle stragi mafiose degli anni ‘90 non si è mai rimarginata e che non è mai avvenuta una pacificazione sociale con il reale superamento dell’emergenza mafiosa, con la spiacevole conseguenza di una non sempre giustificata disparità di trattamento fra detenuti, come sottolineato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo e dalla stessa Corte Costituzionale. Spesso da magistrato si è trovato a occuparsi di persone che erano già passate dal carcere senza tuttavia “cambiare vita”. Così come è concepita, l’esecuzione della pena riesce a offrire percorsi di vita alternativa o è esso stesso un propellente per la recidività? Il carcere è spesso un luogo che, per mancanza di progetti di vita realmente alternativi, diventa luogo esso stesso criminogeno. La mancanza di una occasione di qualificazione lavorativa, unitamente alla mancanza di una valida rete di sostegno socio-assistenziale, è forse il dato più allarmante della vita carceraria. Nei giorni scorsi lei ha paventato il rischio di “eventi estremi e drammatici”. A cosa si riferiva? Il numero allarmante dei suicidi in carcere in questi ultimi tempi deve far prendere atto della grande debolezza strutturale del sistema. Di fronte ad un uomo o a una donna che rifiutano la vita per disperazione non possiamo voltarci dall’altra parte. C’è una responsabilità politica e sociale, che investe in parte anche la magistratura, cui non possiamo sottrarci e che ci impone di agire. Cosa manca al sistema penitenziario italiano per essere davvero “riabilitativo”? Due sole parole: risorse economiche e risorse di personale. Occorrono educatori, assistenti sociali, psichiatri e psicologi. Occorre inoltre la creazione di un ponte di comunicazione e solidarietà fra chi sta dentro e noi tutti che stiamo fuori. Ci sono reati per i quali il carcere potrebbe essere evitato o sostituito da altro genere di percorso? Da questo punto di vista la riforma Cartabia, con l’ampliamento della possibilità di ricorrere alle cosiddette misure sostitutive, rappresenta un primo passo per una detenzione alternativa e più leggera. Quello che preoccupa è il numero elevatissimo di soggetti deboli presenti in carcere: extracomunitari, tossicodipendenti, emarginati, nuovi poveri, soggetti con problemi psicologici e talvolta anche con problemi psichiatrici. Questi soggetti oggi non hanno una concreta e reale possibilità di reinserimento, situazione questa che impone a tutti noi, cioè alla cosiddetta comunità dei liberi, dei regolari e dei sani, ad assumerci le nostre responsabilità non più procrastinabili. Dap e Garante dei detenuti: altre grane per il ministro Nordio di Giulia Merlo Il Domani, 20 agosto 2023 Mentre le carceri scoppiano, il ministero è fermo sulla nomina del nuovo Garante delle persone detenute, già prorogato da due anni. I sindacati di polizia penitenziaria, invece, stanno chiedendo la rimozione del vertice del Dap, Giovanni Russo, nominato da Nordio appena 8 mesi fa. Nell’estate dell’emergenza carceri, con circa 9 mila detenuti in più rispetto alla capienza e suicidi da nord a sud, il ministero della Giustizia è in difficoltà anche sul fronte di chi è chiamato a gestire il settore. Sia sul fronte della tutela dei detenuti che su quello del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il Garante - La prima grana, che è anche politica, riguarda l’ufficio del Garante delle persone private della libertà. Il mandato degli attuali componenti, Mauro Palma, Emilia Rossi e Daniela De Robert è scaduto ormai da due anni e via Arenula doveva procedere alle nuove nomine. Tuttavia, la scelta dei componenti è ferma da luglio e ormai bisognerà aspettare settembre per risolvere un problema che minaccia di essere l’ennesimo scontro sui nomi, anche se uno dei requisiti è che si tratti di personalità “indipendenti” e che vengano scelte in accordo tra maggioranza e opposizione. I nomi sul tavolo erano stati individuati in Felice Maurizio D’Ettore, ex deputato di Forza Italia e poi passato a FdI ma anche professore di diritto privato a Firenze, per il quale Nordio aveva riservato la presidenza; il magistrato in pensione Carminantonio Esposito e - su proposta dei 5 Stelle e in particolare dall’ex pm Roberto Scarpinato - il professore Mario Serio, ordinario di diritto privato comparato a Palermo oggi fuori ruolo. La rosa di nomi, tuttavia, ha sollevato immediatamente un vespaio di polemiche. Tre le critiche principali, mosse soprattutto dal Partito democratico e da Verdi e Sinistra: la mancanza di attenzione alla rappresentanza di genere, la provenienza nettamente politica del possibile presidente ma anche la scarsa aderenza ai requisiti di legge dei curriculum e, nel caso di uno dei componenti, la mancanza del requisito di legge di non avere in atto rapporti con la pa. Il decreto istitutivo, infatti, prevede che i membri dell’ufficio vengano scelti tra “non dipendenti delle pubbliche amministrazioni” e “che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti alla tutela dei diritti umani”. Il risultato è stata l’impasse: i nomi devono passare per il consiglio dei ministri, ma per ora la pratica è ancora ferma a palazzo Chigi, dove si sono svolte alcune riunioni per ora infruttuose. Il Dap - Come se non bastasse, anche una categoria storicamente vicina all’elettorato di destra si sta rivoltando contro il ministero. I sindacati della polizia penitenziaria, verso i quali il sottosegretario Andrea Delmastro è sempre stato attento, hanno ormai ingaggiato uno scontro contro l’attuale vertice del Dap appena nominato, il magistrato Giovanni Russo. Addirittura, arrivando a chiederne la cacciata. “Non tolleriamo quindi più il silenzio assordante dei vertici del Dap di cui da settimane abbiamo chiesto l’avvicendamento”, ha fatto sapere il segretario generale Osapp Leo Beneduci. E il segretario del sindacato di Polizia penitenziaria (Spp) Aldo Di Giacomo ha anche proposto come nomi alternativi quelli di “magistrati di grande esperienza come Sebastiano Ardita e Nicola Gratteri: entrambi hanno la capacità, ampiamente dimostrata in numerose e difficili circostanze, di garantire quella svolta rivendicata dal personale penitenziario, innanzitutto per assicurare l’incolumità fisica dello stesso personale”. Ad aver fatto saltare ogni rapporto sarebbe stato il fatto che, secondo i sindacati, il Dap avrebbe scaricato sulle organizzazioni periferiche “la propria inefficienza”, lasciando gli agenti senza mezzi e in balia del sovraffollamento e di strutture non adatte a gestire i detenuti con gravi patologie mentali. Il clima è esplosivo ma le soluzioni mancano. Nordio ha proposto di trasferire i detenuti meno pericolosi nelle ex caserme, ma l’operazione - di cui si discute da vent’anni - è complicata perché gli edifici sono di proprietà di altri ministeri e hanno spesso già altre destinazioni d’uso. Intanto, è l’accusa dei sindacati, via Arenula ha perso il controllo delle carceri. Punì sindacalista per le denunce sui morti nel carcere di Agusta: il Dap condannato Il Dubbio, 20 agosto 2023 Il giudice del lavoro di Siracusa ha condannato il ministero della Giustizia-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e la Casa di reclusione di Augusta per condotta antisindacale nei confronti di un dirigente nazionale del Sippe, Sebastiano Bongiovanni, agente penitenziario in servizio nel carcere di Augusta. Il sindacalista, nei mesi scorsi, si era reso protagonista di alcune denunce, attraverso comunicati stampa ed interviste rilasciate agli organi di informazione, legate alla gestione della struttura, tra cui l’organizzazione del lavoro, e aveva chiamato in causa l’amministrazione penitenziaria sollevando il caso dei due detenuti morti in ospedale per le conseguenze di uno sciopero della fame. Al dirigente del Sippe, affiliato al Sinappe, nel maggio scorso è stata comminata una sanzione disciplinare che il giudice del Lavoro di Siracusa ha annullato, condannando il Dap e la Casa di reclusione di Augusta al pagamento delle spese sostenute dal Sippe per un importo di 1.500 euro. “Il Tribunale di Siracusa - affermano il presidente del Sippe Alessandro De Pasquale ed il segretario generale del Sinappe Roberto Santini - ha accolto in pieno il nostro ricorso con una decisione che, oltre a non avere precedenti nel Corpo di Polizia Penitenziaria, conferma il principio di libertà sindacale che si è tentato di ledere”. Secondo il giudice, Sebastiano Bongiovanni “si era limitato a denunciare con post e comunicati stampa - in qualità di dirigente sindacale e non nelle funzioni istituzionali lavoratore dipendente - le condotte poste in essere dall’Amministrazione nei suoi confronti, con espressioni sì aspre ma non eccedenti i limiti dell’esercizio del diritto di critica e della libertà sindacale”. La vicenda non è finita qui: il sindacato svela che la direzione del carcere di Augusta ha notificato a Bongiovanni un altro rapporto disciplinare per un’intervista che il sindacalista, nelle sue funzioni, aveva rilasciato al quotidiano nazionale La Repubblica. “Abbiamo già dato mandato al nostro legale - concludono i due sindacalisti - affinché valuti ogni possibile azione e nelle sedi opportune perché siamo davanti ad un comportamento antisindacale senza precedenti”. Scendono in campo i capi dei pm: “La riforma non s’ha da fare” di Piero Sansonetti L’Unità, 20 agosto 2023 Un gruppo di circa 320 magistrali in pensione ha scritto una lettera al ministro Nordici per chiedete che sia bloccata la rinforma della giustizia Gli ex magistrati pretendono che dalla riforma sia espunta la proposta di legge costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, cioè quel provvedimento, garantiste, che renderebbe finalmente operante l’articolo 111 della Costituzione restituendo ai cittadini il pieno diritto alla difesa, che oggi è sospeso. L’articolo 111 prevede che le sentenze siano decise da un giudice “terzo e imparziale”. Il terzo vuol dire distinto sia dalla difesa sia dall’accusa. Chiaro che se invece è un collega o della difesa o della accusa non è terzo. Può essere anche imparziale ma terzo non è. Tra i trecentoventi magistrati ci sono i nomi più celebri dei Pm che negli ultimi anni hanno tenuto le prime pagine dei giornali e i primi piani in Tv. I vecchi magistrati del Pool di Milano, Davigo e Colombo, l’ex Procuratore di Milano Greco, e poi Caselli, Petralia, Spaiato e persino l’ex procuratore generale della cassazione Giovanni Salvi. Intervengono a gamba tesa sull’attività legislativa. È loro diritto? In quanto ex magistrati, e dunque privati cittadini, è loro diritto. Pero chiunque abbia una certa dimestichezza con la politica capisce che questa lettera è l’atto formale di fondazione di un partito vero e proprio che si pone l’obiettivo di imporre e guidare la politica della giustizia e la definizione dei limiti dello Stato di diritto. Questo partito esiste da tempo, e ha il suo centro propulsore nell’Anm (l’associazione nazionale dei magistrati, struttura sindacale, anticostituzionale ma sopportata dalle istituzioni, che da anni svolge un ruolo politico molto attivo) ma non si era mai dichiarato e presentato al pubblico in forma così solenne. I firmatari della lettera, almeno i più famosi, sono quasi tutti Pm, perché - questo è noto - sono i Pm, e non i giudici, la spina dorsale del partito dei magistrati. Così come è noto che questo partito, che oggi esce allo scoperto, dispone di molti strumenti politici dal momento che controlla quasi tutta l’informazione giudiziaria e la direzione di molti giornali (a partire dal Fatto Quotidiano che ne è l’organo ufficioso) e una parte consistente del Parlamento, istituzione nella quale dispone anche di un vero e proprio gruppo parlamentare, cioè i 5 Stelle, e di pezzi consistenti dì diversi altri gruppi. Il nuovo partito, guidato dai Pm in pensione, nella sua lettera, contesta l’ipotesi della separazione delle carriere tra Pm e giudici con questi quattro argomenti. 1) Si perderebbe la cultura comune della magistratura, e cioè l’amore per l’accertamento della verità 2) L’Italia perderebbe una sua peculiarità assoluta 3) la separazione delle carriere intaccherebbe l’autonomia dell’ordine giudiziario; 4) la separazione dei Csm provocherebbe danni, inasprendo il ruolo del Pm: perché oggi il Pm non è giudicato per il numero di condanne che ha ottenuto. Vediamo bene questi quattro punti. Sull’amore per la verità c’è molto da discutere. Il 40 per cento delle persone messe sotto processo dai Pm, e trascinate per anni nel fango delle inchieste, risulta innocente. Così come risulta innocente circa un quarto delle persone messe in custodia cautelare, spesso per molti mesi (qualcuno anche per anni). Ci sarà pure amore per la verità, ma allora le cifre dicono che c’è poca professionalità Sulla peculiarità, non c’è molto da discutere. “Peculiarità italiana” vuol dire semplicemente che nel mondo occidentale e democratico solo da noi non c’è la separazione. Non è una bella peculiarità. Così come non è bella la peculiarità determinata dal fatto che siamo l’unico paese senza salario minimo. È la stessa cosa: semplicemente siamo i peggiori. Terza questione. L’autonomia dell’ordine giudiziario non verrà in nessun modo messa in discussione. Giudici e Pm resterebbero autonomi. Anzi, più autonomi. Perché sarebbero indipendenti anche gli uni dagli altri. Ai Pm verrebbe a mancare quella consuetudine, o anche amicizia e complicità, soprattutto coi colleghi Gip, che conferisce loro un enorme potere nella fase delle indagini, e che spesso permette loro di incarcerare persone innocenti o di tenerle per anni a processo pur in assenza di prove. Non perderebbe autonomia nessuno, perderebbero il loro strapotere i Pm. (I quali peraltro perdono autonomia e indipendenza, violando così la Costituzione, quando si costituiscono in correnti e poi in associazione politica; penso all’Anm. L’associazione politica viola la norma costituzionale che impone ai Pm di rispondete solo alla legge). Infine c’è l’obiezione dei Pm che non sono giudicati dal Csm sulla base delle condanne che hanno ottenuto. Vero. Spesso Pm che hanno ottenuto pochissime condanne in rapporto agli avvisi di garanzia, o agli arresti, o anche ai rinvii a giudizio dei quali sono stati promotori, ottengono ottime promozioni. Ma questo non è un bene. È un modo per spostare la giustizia fuori dal processo. Io ti afferro e ti rovino. Se poi tra dieci anni ti assolvono, poco male, io la pena te l’ho già inflitta. Il partito dei Pm, con questa lettera, rende esplicita la sua idea politica. Quella di costruire una forma di democrazia che abbia un pilastro centrale nella magistratura e un potere, quello giudiziario, sovraordinato rispetto agli altri, scassando così il vecchio stato liberale e la struttura. dello Stato di diritto. Per fare questo bisogna impedire che ai Pm sia tolto il potere politico, attraverso la separazione delle carriere. È legittima la loro opinione. Sarebbe interessante sapere se esiste ancora una componente trasversale della politica, saldamente democratica, in grado di opporsi e di far fallire questo disegno. Io non sono sicuro che esista. Nordio: “I dissensi nel governo sulle riforme della giustizia? Frottole colossali” di Davide Varì Il Dubbio, 20 agosto 2023 Parlando a Cortina all’evento “Una montagna di libri” il ministro chiarisce i punti più caldi ed elogia Giorgia Meloni paragonandola a De Gasperi. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, parlando a Cortina all’evento “Una montagna di libri” e presentando il suo ultimo libro “Giustizia”, ha colto l’occasione per puntualizzare una serie di aspetti ed è ritornato su temi che in queste settimane sono state al centro di un acceso dibattito. Su tutte le riforme della giustizia e “le storie su dissensi eventuali all’interno del governo: sono frottole colossali. C’è stata una assoluta unanimità, seppure dopo una certa discussione”. Il ministro ci ha tenuto a ribadire gli ottimi rapporti con Giorgia Meloni, che lo ha voluto a via Arenula, elogiando le doti della presidente del Consiglio: “È una donna che ha un’energia e una grande capacità di concentrazione, di sintesi e di visione politica. Caratteristiche che distinguono lo statista dal piccolo politicantee, secondo me, bisogna risalire ai tempi di De Gasperi per trovare una personalità simile a Girorgia Meloni”. Ha poi sottolineato che “le riforme della giustizia sono così necessarie ma anche così imponenti, almeno secondo il mio modo di vedere, che c’è ancora molto da fare”. Il primo “pacchetto” di riforme “adesso all’esame del Parlamento posso dire che è stato molto soddisfacente”, ha spiegato. “Abbiamo già consegnato come ministero al presidente del Consiglio un cronoprogramma. Ci sarà un altro pacchetto di proposte in autunno, tra ottobre e novembre, e poi un altro ancora in a primavera”, ha quindi annunciato Nordio. Le intercettazioni sono l’altro punto caldo e Nordio ha chiarito: “La riforma sulle intercettazioni telefoniche e ambientali dovrà essere e sarà molto più radicale perché, lo ripeto ancora una volta, è una barbarie la situazione in cui ci troviamo. Finiscono sui giornali le conversazioni più strane che niente hanno a che vedere con le indagini. Io sono contrario alla diffusione illegale e illecita di intercettazioni che dovrebbero restare segrete. Il fatto che siano necessarie per le indagini, ovviamente per i reati più gravi, è normalissimo. È banale dire che servono, ma quello che non è ammissibile è che poi le cose che non c’entrano niente con le indagini, e anche quelle che c’entrano e dovrebbero restare riservate, finiscano sui giornali”. Infine, parlando delle intercettazioni “a strascico” ha ricordato che “nel 99,9% di casi non c’è una condanna che venga fondata solo sulle intercettazioni. Certo che le intercettazioni sono utili, ma non devono finire sui giornali, questo è il nostro obiettivo”. Il ministro della Giustizia è ritornato anche sulla questione carceri e sovraffollamento: “Costruire nuove carceri in Italia è impresa impossibile perché intanto se scavi trovi subito un coccio etrusco e si ferma tutto per 10 anni, e poi perché c’è la burocrazia. Quindi la costruzione ex novo presuppone almeno, e mi tengo stretto, un limite di 10 anni che è incompatibile con le urgenze che abbiamo”. “Se non possiamo costruire nuove carceri, e non possiamo, dovremmo cercare di usare quelle strutture che sono compatibili con la sicurezza del carcere. E noi le abbiamo già individuate, sono mesi che lo predico, abbiamo un sacco di caserme dismesse che con modeste ristrutturazioni possono essere adattate a una struttura di reclusione. Le tempistiche? L’importante è cominciare, quando individueremo i progetti io credo che entro un paio di anni potremo già vedere i primi risultati”, ha concluso. L’allure giustizialista e il patto tra Governo e magistrati di Alberto Cisterna L’Unità, 20 agosto 2023 C’è una strategia di rinegoziazione degli ambiti di influenza e ingerenza tra politica e toghe, che sta mettendo in confusione sia le vestali del giustizialismo ancien regime, sia i garantisti di stampo tradizionale che restano interdetti dai segnali contrastanti dalla maggioranza di governo. Minaccia tempesta la ripresa dell’attività politica e sotto molti versanti. È chiaro, ormai, che nella maggioranza di governo si fronteggiano fazioni tra loro diverse e in disaccordo su temi essenziali per la tenuta della compagine. Sul versante economico le iniziative della premier su salario minimo e sulla tassazione degli extraprofitti bancari sono state dichiaratamente assunte senza alcun dialogo con gli altri partiti della coalizione, anzi volutamente a loro insaputa. Sul versante giudiziario l’erosione degli spazi di agibilità politica del ministro Nordio e l’adozione di provvedimenti di stampo neo-giustizialista segnano fratture e cesure inevitabilmente destinate ad allargarsi quando mai fossero davvero presi in esame gli assi portanti della promessa riforma della giustizia. Senza parlare del default sulle politiche migratorie, certificato dalle cifre snocciolate dal ministro Piantedosi a Ferragosto, e che registra il cupo silenzio del fronte leghista. Per la giustizia il tempo delle dichiarazioni e degli annunci si è rapidamente consunto dopo essere andato a infrangersi nelle resistenze di una premier che invero non ha mai assunto una postura garantista negli ultimi anni, pur avendo fatto parte di uno dei più controversi governi a trazione berlusconiana. Anzi si intravedono nelle iniziative del presidente del Consiglio le tracce di una nuova allure giustizialista, parzialmente diversa da quella che ha trovato la sua massima espressione nei governi Conte della scorsa legislatura. A settembre - dopo rave party, incendi, intercettazioni e frattaglie varie - si annuncia una nuova stretta penale sull’immigrazione clandestina. Il continuo ricorso alla legislazione penale per dare l’impressione di porre rimedio a problemi ormai strutturali della società italiana e non solo tende a far slittare la politica nelle mani dei pubblici ministeri e, quindi, del potere giudiziario. A seconda della risposta che le procure della Repubblica e la polizia giudiziaria - che solo da esse dipende - vorranno dare alle sollecitazioni del governo sulle emergenze di volta in volta sul tappeto si potrà misurare il successo o meno delle politiche securitarie messe in campo. In altre parole, come l’efficacia dell’azione di governo in materia di scuola, lavori pubblici, previdenza, sanità e altro dipende dal coefficiente di consenso che riscuote del Deep State della pubblica amministrazione e nei piani alti e medio-alti della burocrazia, così gli arsenali dell’ordine pubblico e della sicurezza in tanto possono essere orientati verso le insorgenti istanze della maggioranza in quanto gli uffici giudiziari vi prestino attenzione e cura. Il discorso rischia di essere scivoloso e merita qualche chiarimento. Nella stagione 2008-2009 furono varati i famosi pacchetti-sicurezza che contenevano nuovi illeciti penali praticamente rimasti tutti sulla carta. Simulacri corrosi dal tempo a esempio della sostanzialmente impotenza del legislatore sul versante penale, malgrado le stentoree enunciazioni della Costituzione. E questo si è ripetuto più volte nel tempo. Per carità nessuna forma di disobbedienza, ma se le procure non investigano, non conferiscono deleghe e non coltivano la repressione di alcuni fenomeni - orientando l’enorme discrezionalità di cui, di fatto, dispongono - le leggi sono praticamente carta straccia destinata all’oblio. Ecco il neo-giustizialismo presenta, rispetto alle forme tradizionali di questa ideologia, una sostanziale differenza: non intende concedere carta bianca al potere giudiziario nella fideistica convinzione che le toghe purificheranno il mondo, ma è piuttosto convinto che occorra ricercare il consenso della magistratura inquirente per poter conseguire obiettivi di notevole impatto mediatico e politico. In filigrana comincia a delinearsi la strategia di una complessiva rinegoziazione degli ambiti di influenza e ingerenza tra politica e giustizia. Qui si abroga l’abuso d’ufficio o si archivia il traffico di influenze, lì si apre ai modelli repressivi tradizionali dell’armamentario antimafia e si differisce sine die una profonda riscrittura dell’ordinamento giudiziario. Una strategia che sta vistosamente mettendo in confusione sia le vestali del giustizialismo ancien regime, sia i garantisti di stampo tradizionale che restano interdetti dai segnali contrastanti che provengono dal governo e dalla sua maggioranza. È un crinale che, a tutta evidenza, vuole rimodulare la separazione dei poteri dello Stato e immagina di attuare una pericolosa annessione di componenti non secondarie del potere giudiziario in un nuovo modello consociativo fondato su logiche di scambio a corrente alternata. Se per tre decenni circa si è passivamente assistito a una pretesa esondazione della magistratura a spese della politica e dell’amministrazione, la nuova rotta appare segnata dall’idea di poter negoziare con la parte più organizzata e mediaticamente robusta del potere inquirente (in primo luogo quello antimafia) per realizzare una cogestione mite delle politiche penali. Aver cancellato una pur controversa sentenza della Cassazione in materia di intercettazioni con un decreto legge si erge a manifestazione solo più appariscente di questa strategia che, invero, corre molto più silenziosamente e dovrà confrontarsi anche con le scelte che verranno operate a breve dal Csm sul versante della riforma dell’organizzazione degli uffici di procura. Una questione di straordinario rilievo politico e istituzionale quasi del tutto silenziata e sulla quale, a esempio, si registra un’importante presa di posizione del procuratore nazionale Melillo (“Per un nuovo modello di organizzazione degli uffici del pubblico ministero” intervento nei “Lavori preparatori Circolare sull’organizzazione degli Uffici requirenti”, Sala Conferenza del Csm, Roma, 14 luglio 2023). Il modo in cui le procure saranno regolate in futuro può essere decisivo per il successo o il fallimento di questa nuova forma di appeasement che la politica ricerca con il potere giudiziario. Così Nordio vuole insegnare ai pm come fare i magistrati di Giulia Merlo Il Domani, 20 agosto 2023 Il ministro ha chiesto di aprire un procedimento contro le toghe che indagano sull’inchiesta Open. Sembra aver preso gusto a utilizzare lo strumento, come se non avesse perso lo spirito da pm. Il vero fronte di scontro tra governo e magistratura inizierà il 6 settembre: mezzogiorno di fuoco in commissione Affari costituzionali alla Camera, da cui cominceranno le audizioni per la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. L’aria, però, è già irrespirabile alla vigilia. Se la separazione delle carriere era attesa in quanto parte del programma elettorale del centrodestra, secondo le toghe è stato il complessivo atteggiamento il ministro della Giustizia - ed ex pm - Carlo Nordio ad alzare il livello dello scontro. In particolare, con l’utilizzo di quello che sembra essere diventato lo strumento preferito del guardasigilli, che del pm non ha perso il piglio: la richiesta di apertura di procedimenti disciplinari davanti al Csm per i magistrati che, secondo lui, non hanno operato correttamente. Come il ministro ha ben spiegato per difendersi dalle critiche, la sua non è formalmente un’ingerenza nell’operato dei magistrati e nemmeno potrebbe esserlo, perché il ministero della Giustizia non può agire direttamente. La procedura, infatti, prevede che il ministro mandi i propri ispettori e che avanzi la richiesta di procedere con l’azione disciplinare al procuratore generale di Cassazione, che ne è titolare davanti al Csm. Tuttavia, in meno di un anno a via Arenula Nordio ha utilizzato questo strumento in modo incisivo, quasi a voler rispolverare il suo istinto da magistrato nel sindacare sull’operato degli ex colleghi. Non potendolo più fare personalmente, la strada è quella di inviare gli ispettori del ministero e poi, nel caso, chiedere il procedimento disciplinare. “Le mie ispezioni straordinarie si contano sulle dita di una mano. O poco più”, ha risposto il ministro al Corriere della Sera, spiegando però la stua strategia: “È vero invece che ho annunciato ispezioni nei casi di fughe di notizie e di diffusioni di intercettazioni riservate, che per fortuna in questi mesi sono diminuite. Forse anche per effetto di questa deterrenza, che evidentemente funziona”. Diversa è invece la lettura che ne dà la magistratura associata, in particolare le correnti progressiste di Area e centriste di Unicost. La presidente di Unicost, Rossella Marro, ha sottolineato “i rischi connessi ad una invasione nell’autonomia ed indipendenza della magistratura” in caso di azioni disciplinari promosse dal ministero, che quindi “dovrebbero essere esercitate in casi estremi, mentre stiamo assistendo ad un uso frequente”. Secondo Area, il messaggio sottostante alle ultime iniziative disciplinari di via Arenula è “di non disturbare i potenti”. Open - Non a caso, l’ultima iniziativa riguarda l’inchiesta Open, in cui è indagato anche l’ex premier Matteo Renzi, accusato di finanziamento illecito. Il ministero ha richiesto di aprire un procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici ministeri di Firenze Luca Turco e Antonio Nastasi, con lettera inviata al pg di Cassazione il 23 luglio. Secondo il ministero, Turco e Nastasi avrebbero commesso “grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile” perché non hanno distrutto, come disposto da una sentenza di Cassazione, un’informativa della Guardia di Finanza. Pur nominando un consulente per la distruzione, ne hanno conservato copie per inviarla al Copasir, depositarla davanti al gip e per aprire un altro procedimento penale. Inoltre, secondo via Arenula, il pm Turco avrebbe tenuto un “comportamento gravemente scorretto” nei confronti di Marco Carrai, “divulgando dati e notizie sensibili e riservati” che provenivano da supporti informatici sequestrati “illegittimamente”. Spetterà alla procura generale di Cassazione valutare come procedere, certo è che se la vicenda arriverà davanti alla sezione disciplinare ci sarà un’altra fonte di possibile imbarazzo. La sezione, infatti, è presieduta dal vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, che prima di venire eletto dal centrodestra era stato avvocato di Alberto Bianchi, presidente di Open, nel processo fiorentino. Proprio questo è il caso che ha fatto muovere Area, con un duro comunicato contro il ministro in cui si legge che Nordio, “ancora una volta, strumentalizza il potere disciplinare per colpire gli autori di scelte giudiziarie sgradite” e “confonde la sede disciplinare con i rimedi giurisdizionali che fondano le garanzie del nostro sistema giudiziario”. Un atto intimidatorio, insomma, parte di una strategia più complessiva iniziata a Milano. Uss - L’uso insolito del potere di ispezione ministeriale e poi la richiesta di provvedimenti disciplinari, infatti, è cominciata con il cosiddetto caso Uss, dal cognome dell’imprenditore russo fuggito dai domiciliari, la cui sparizione ha aperto un caso diplomatico con gli Stati Uniti. Anche in questo frangente il ministro ha preso carta e penna e scritto al pg di Cassazione. Caso eclatante perché il sindacato ministeriale ha riguardato un atto giurisdizionale motivato e non il comportamento processuale dei magistrati, il ministero ha indicato in sette punti le ragioni per cui i tre giudici milanesi della Corte d’appello che ha concesso i domiciliari a Uss si sono resi responsabili dell’illecito disciplinare. Sette punti in cui il ministro ha sindacato la valutazione del provvedimento da parte dei magistrati, entrando nel merito del caso Uss e scrivendo che “non valutando i predetti elementi, risultanti dagli atti, dai quali emergeva l’elevato e concreto pericolo di fuga dell’Uss” i magistrati “tenevano un comportamento connotato da grave ed inescusabile negligenza”. Anche in questo caso come per Firenze, la decisione di procedere spetta al pg di Cassazione, ma il caso milanese ha dato il via a una pesante mobilitazione delle toghe contro il ministro, accusato di invadere indebitamente il campo processuale e l’indipendenza dei magistrati. Cospito - Del resto, pur senza promuovere iniziative di ispezione o disciplinari, il ministro ha da subito dimostrato di non aver ancora dismesso la toga per infilarsi la giacca del guarda sigilli. Anche nel caso dell’anarchico Alfredo Cospito e delle comunicazioni del Dap rese note da esponenti di FdI, Nordio era pubblicamente intervenuto in parlamento con una difesa tutta in punta di diritto del suo sottosegretario Andrea Delmastro, arrivando a dire che “sulla segretezza degli atti decido io” e non le norme di legge. Anche in questo caso provocando una levata di scudi da parte dell’Anm. Non certo il miglior clima con cui ripartire a settembre, aggiungendo al fuoco anche la separazione delle carriere. Uno, nessuno e Carlo Nordio: tutte le contraddizioni del Guardasigilli di Sergio Rizzo L’Espresso, 20 agosto 2023 Liberale, ma eletto con FdI. Ex magistrato, ma spesso in contrasto con i colleghi (e con le sue passate opinioni) da quando è nel governo Meloni. Ne denuncia le ingerenze, ma ha riempito il dicastero di toghe. Tra bocconi amari e scivoloni imperdonabili, ecco le due facce del ministro. “Sono iscritto all’Associazione Luca Coscioni e credo che la vita sia un diritto disponibile del singolo. Credo che ognuno abbia il diritto di morire in pace e come preferisce”. Parola di Carlo Nordio, 76 anni da Treviso, ex magistrato e ministro della Giustizia del governo di Giorgia Meloni: liberale, ma eletto con Fratelli d’Italia. Nel suo caso i “ma” sono tanti. Così tanti da rischiare di diventare troppi. Il governo vuole la legge per far istituire il reato universale di maternità surrogata, “ma” l’Associazione Coscioni, cui il ministro rivendica con orgoglio l’appartenenza, è radicalmente contraria. Nordio si professa - nella stessa intervista a Domenico Basso del Corriere del Veneto, dalla quale sono tratte queste dichiarazioni - “visceralmente nemico di ogni forma di dittatura” al punto da avere scritto un libro “sulle ragazze del Soe, che hanno organizzato la Resistenza in Francia e sono state uccise dalla Gestapo”, “ma” è stato eletto in un partito che tracima di nostalgici del Ventennio e sta in un governo la cui presidente fatica a pronunciare la parola “antifascista”. Si potrà dire che in Italia non è poi così inusuale passare sopra alle convinzioni personali quando c’è di mezzo la ragion politica. Giusto. Se non ci fossero ben altri “ma” decisamente più pesanti, almeno per un magistrato considerato tutto d’un pezzo che, da quando ha la toga, non cessa di denunciare lo strapotere dei pubblici ministeri, le inefficienze della giustizia e la presunta incongruenza della carriera unica dei giudici. “Nordio lamenta in continuazione l’ingerenza dei magistrati nel processo legislativo della giustizia”, ricorda Enrico Costa, figlio di quel Raffaele Costa liberale e pioniere ormai più di trent’anni fa della guerra agli sprechi pubblici. “Poi però”, aggiunge il parlamentare di Azione (partito di opposizione che, peraltro, ha avuto talvolta parole di apprezzamento per Nordio), “è lui stesso che alimenta quella ingerenza”. E fa il caso dei decreti delegati della riforma del Csm della precedente responsabile del ministero, Marta Cartabia, ancora da emanare. C’è da rivedere il meccanismo anacronistico con cui si valuta il lavoro dei magistrati? E c’è pure da stabilire come si riduce il numero assurdo dei magistrati (200) che si possono collocare fuori ruolo per ricoprire altri incarichi istituzionali meglio pagati e soprattutto esterni da procure e tribunali? Roba indigeribile per il corpaccione della magistratura, che non ne vuole sapere. E così i decreti, che dovevano essere pronti entro giugno, slittano di altri sei mesi e vengono affidati a una commissione di 26 persone: di cui 18 magistrati. Con una decina di loro già fuori ruolo, che facendo parte di una commissione che deve decidere di tagliare i fuori ruolo, non sono esattamente nel campo dell’imparzialità. Per non parlare della bozza che riguarda la revisione del sistema di valutazione dei magistrati, il 96 per cento dei quali oggi ha il bollino di bravo bravissimo. Dice che le “gravi anomalie” per cui un magistrato è passibile di valutazione negativa si producono solo quando c’è una “marcata preponderanza” di fallimenti della sua attività giudiziaria. Significa che per meritarsi una macchiolina sul curriculum un magistrato dovrebbe toppare almeno metà dei procedimenti. Complimenti. La riforma Cartabia concede poi due anni per rivedere le nuove norme sul processo penale. E anche qui, affonda Costa, “ecco pronta una commissione ministeriale con più di 40 persone, di cui ben 29 magistrati”. Alla faccia del famoso rischio d’ingerenza… Il succo è che un ministro-magistrato con il proposito di allontanare quanto più possibile i magistrati dal ministero ha invece rimpinzato il ministero di magistrati. Su Repubblica, Liana Milella ha dato conto lo scorso maggio dell’intenzione di ingigantire ancora il plotone dei togati fuori ruolo in servizio al ministero, nel tentativo di non perdere i finanziamenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza destinati alla giustizia. Anche perché - se è vero ciò che denuncia Costa, secondo cui dei 411 milioni destinati all’edilizia giudiziaria non sarebbe stato utilizzato nemmeno un euro - la situazione è tutt’altro che rosea. Per giunta, l’obiettivo della riduzione dell’arretrato, una delle condizioni principali poste dall’Europa per dare il via libera agli interventi in questo settore, sembra molto lontano dall’essere raggiunto. Soprattutto nella giustizia civile, dove a fronte di un abbattimento delle cause pendenti del 40 per cento, nel 2022 non si è arrivati che a un misero 6 per cento. Così, per cercare di recuperare i ritardi nell’utilizzo dei fondi, ora si ingaggia un altro direttore generale in forza nello staff di Nordio, presumibilmente con i galloni da vicecapo di gabinetto. E siamo a quattro. Un capo e tre vice. Il capo si chiama Alberto Rizzo, magistrato e tecnico: manda avanti la macchina del ministero e i maligni sospettano che sia ormai sazio dell’esperienza. La vicaria è Giusi Bartolozzi e a lei spetta la responsabilità politica del gabinetto, anche perché, oltre a essere magistrata, è anche politica. Nella scorsa legislatura, infatti, era seduta alla Camera con Forza Italia. Sua una proposta di legge per trasferire il potere disciplinare nei confronti dei magistrati dal Csm a un organismo nominato in maggioranza dalle Camere, cioè dalla politica. Con Nordio c’è quindi una sintonia perfetta. Il secondo vicecapo di gabinetto, Francesco Comparone, invece, è decisamente più in sintonia con il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, ex giovane missino e figlio d’arte: il padre Sandro è stato deputato di An. È l’uomo forte del ministero, Comparone l’ha imposto lui. E questo la dice lunga sui rapporti di potere anche ai vertici del palazzone di via Arenula. Dove il peso del partito di Fratelli d’Italia è tutt’altro che marginale. Per carità: Carlo Nordio è figura di grande prestigio nel centrodestra ed è stato eletto nelle liste FdI. Ma con il partito e l’apparato meloniano il magistrato che al tempo di Tangentopoli mise sotto inchiesta Massimo D’Alema e Achille Occhetto, guadagnando l’apprezzamento della destra, c’entra come i cavoli a merenda. E infatti la marcatura nei suoi confronti è sempre più stretta. I bene informati dicono che volesse nominare Garante dei detenuti l’ex deputata radicale Rita Bernardini, già fra i fondatori dell’Associazione Luca Coscioni. Ma invano. Il posto dovrebbe andare a Felice Maurizio D’Ettore, ex deputato forzista non ricandidato alle politiche con Coraggio Italia e traslocato prima delle elezioni nelle schiere di Giorgia Meloni. La solita storia. Pure sulla inquietante vicenda delle notizie riservate sul caso Cospito - usate per attaccare la sinistra dal deputato meloniano del Copasir, Giovanni Donzelli, cui le aveva a quanto pare spifferate il sottosegretario meloniano Delmastro - ha dovuto masticare amaro. L’informativa al Parlamento era assolutoria ben oltre l’accettabile, per un magistrato della sua esperienza. La stessa esperienza che avrebbe dovuto evitargli uno scivolone imperdonabile come quello del paragone fra i suicidi a ripetizione nel carcere di Torino, dove le condizioni di detenzione sono disumane, e quelli dei gerarchi nazisti Hermann Göring e Robert Ley. Pensando forse di chiudere così un’altra pagina vergognosa per la giustizia italiana. Sentite qua. L’ultima suicida alle Vallette, una nigeriana di 43 anni che si è lasciata morire di fame, era secondo Nordio “sotto strettissima sorveglianza”. Ma in questi casi, dice il ministro, “non c’è sorveglianza che tenga. Anche al processo di Norimberga due persone si sono suicidate nonostante avessero lo spioncino aperto 24 ore su 24”. E c’è stato pure chi non ha mancato di sottolineare l’apparente contraddizione fra la sua riforma della giustizia appena presentata al Senato, che limita la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, e il decreto con cui il governo renderebbe invece più agevoli le intercettazioni a carico di mafiosi e terroristi. Contraddizione che a ben vedere, in effetti, non esiste. Mentre esiste un suggeritore del decreto governativo che, però, non è Nordio. Si tratta del sottosegretario alla Presidenza, Alfredo Mantovano, magistrato, ex deputato di An, potente alter ego di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Definirlo ministro-ombra della Giustizia sarebbe troppo. Ma quando Nordio ha proposto di riformulare con la sua riforma anche il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, da lui ritenuto troppo fumoso, è bastato il niet di Mantovano (“Ci sono altre priorità”) per far evaporare istantaneamente l’idea. Facile trarre le conclusioni. Nella riforma dell’ex magistrato veneto - liberale e socio della Fondazione Casa dei liberali che porta il nome di Luigi Einaudi - resta l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Vero. Ma su quello Meloni & c. non hanno niente da dire. Quanto alla mitica separazione delle carriere, per cui il Nostro ha quasi perso la voce, siamo ancora sulla Luna. Riforma prescrizione tra manine e manone: far luce sulla magistratura ministeriale di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 20 agosto 2023 Intanto, ricapitoliamo. La prescrizione versione Alfonso Bonafede fu una idea che perfino il partner leghista dello sciagurato “Conte 1”, per bocca di Giulia Bongiorno, dichiarò solennemente -pur votandola- di voler riscrivere appena possibile. Magistratura, per converso, entusiasta. Arrivano (per fortuna) Draghi e Cartabia e, pur a Parlamento invariato, sono tutti d’accordo (tranne i 5 Stelle) che quell’orrore dell’imputato a vita vada quanto prima cancellato. La Commissione Lattanzi sforna una soluzione che piace a tutti: si torni alla prescrizione come appena (2017) riformata dal Ministro Orlando, per di più con alcuni apprezzabili miglioramenti. Ma i 5 stelle minacciano la crisi se non si trova una soluzione che salvi loro almeno la faccia. Nasce così il lodo Cartabia: resta l’interruzione bonafediana della prescrizione con la sentenza di primo grado, però compensata dalla prescrizione processuale (biennale o triennale ma con mille deroghe) in appello. Per inciso, una soluzione ben peggiore innanzitutto per la weltanschauung (si fa per dire) grillina: tu commetti una rapina oggi, vieni processato con rito immediato, sentenza di primo grado dopo sei mesi, prescrizione in appello dopo tre anni, quindi di fatto prescrizione in tre anni e sei mesi invece degli almeno quindici dell’odiato regime precedente. Ma si sa, primum vivere, e poi Conte è un civilista. Siamo ora al Governo di centrodestra, maggioranza parlamentare ben oltre quella di governo, sul ritorno almeno alla Orlando. E invece, non solo è tutto fermo, ma iniziano a girare voci inquietanti su idee governative circa la decorrenza della prescrizione dalla scoperta del reato, antica passione delle toghe. Rivolta nella stessa maggioranza, in speranzosa attesa di smentite al momento non pervenute. Ed eccoci al punto: quale sarebbe la matrice politica di questa devastante proposta? Quale dei partiti della coalizione di Governo? Esiste un nome, un volto del proponente, un luogo e una occasione dove essa è stata partorita? Il Presidente di ANM, intanto, pur con qualche blando distinguo, puntualmente si compiace e ne “condivide lo spirito”. Autorevoli commentatori parlano di “proposta pacificatrice” tra Ministro e magistratura. Noi penalisti, inascoltati, stiamo da tempo lanciando l’allarme. Ci sono manine e manone che operano, attivissime ed indisturbate, e orientano ed indirizzano quotidianamente la politica della giustizia nel nostro Paese, fuori dalla rappresentanza democratica nei partiti e nei gruppi parlamentari. Vogliamo cominciare a parlarne seriamente? Vogliamo accenderla una volta per tutte questa luce sulla magistratura ministeriale, su come essa opera ed entro quali limiti? E soprattutto, qualcuno ci risponda: perché mai in Italia, caso unico di commistione tra poteri “nell’orbe terraqueo”, si consente alla magistratura di operare così liberamente al governo della giustizia? Calabria. Aggressioni e suicidi in carcere: i dati di un’emergenza infinita di Mirella Molinaro Gazzetta del Sud, 20 agosto 2023 Negli istituti calabresi si sono registrati oltre 330 episodi di autolesionismo. Nelle carceri calabresi manca l’aria. La carenza di personale e le altre criticità strutturali e organizzative rendono la situazione sempre più esplosiva. A fare da corollario a tale contesto ci sono alcuni numeri allarmanti: i dati dei detenuti che si sono tolti la vita, gli episodi di autolesionismo e le aggressioni avvenute all’interno degli istituti penitenziari della nostra regione. L’allarme è stato nuovamente lanciato anche dopo l’ultimo suicidio, avvenuto la scorsa settimana, nel carcere di Rossano. Secondo gli ultimi dati forniti dal Sappe, in Calabria ci sono stati circa 330 gesti di autolesionismo, 10 decessi per cause naturali, 1 suicidio e una settantina di tentati suicidi. Per quanto riguarda le aggressioni, invece, in tutta la regione annualmente si stanno verificando oltre 263 episodi che si concludono con ferimenti. In particolare, ci sono state 23 colluttazioni nell’istituto penitenziario di Castrovillari; 65 a Catanzaro; 13 nel carcere di Cosenza; 16 in quello di Crotone; 6 a Locri; 27 a Paola; 78 nei due istituti di Reggio Calabria; 4 a Rossano e 21 a Vibo Valentia. Non si sono verificati tentativi di evasione. Sardegna: Sdr: assurdo istituire fondo per vittime reati con prelievi sulle mercedi dei detenuti Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2023 Lavori persone ristrette pochi e spesso mal retribuiti. minoranza irrisoria accede a impieghi qualificati. “La proposta del Sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari di istituire un “fondo per le vittime dei reati da alimentare con una parte degli stipendi” delle persone private della libertà denota la scarsa conoscenza della realtà detentiva. In particolare in Sardegna dove su 2.070 detenuti svolgono attività lavorative remunerate in modo adeguato circa 500/600 persone. Le altre o non svolgono alcuna attività perché troppo anziane e/o con malattie invalidanti e/o perché sottoposte a farmaci psicotropi e/o a metadone oppure perché il lavoro viene assegnato a turno, per carenza di fondi. L’unica eccezione è rappresentata dalle Case di Reclusione all’aperto ma anche lì i numeri dei lavoratori sono pochi”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” facendo notare che nelle carceri, non a caso si parla ancora prevalentemente di mercedi, si tratta infatti di remunerazioni per attività maschili e femminili quali “scopina/o”, “portavitto”, “spesina/o” e per chi effettua la rammendatura di federe e lenzuola. Lavorare nelle cucine è invece l’attività più ambita e meglio remunerata ma non si tratta di stipendi fa chef stellati. Senza dimenticare che le mercedi servono a far campare le famiglie fuori dagli Istituti”. “Il Sottosegretario Ostellari ha il merito - osserva Caligaris - di avere posto il dito nella piaga. Il lavoro infatti è quello che può fare la differenza e che può offrire occasioni di riscatto e reinserimento sociale abbattendo la recidiva, ma ritenere che si possa procedere con i prelievi a prescindere dalla tipologia di attività non è proponibile. Basti ricordare che le persone detenute pagano il mantenimento di circa 120/130 euro al mese e chi non lavora dovrà, terminato il periodo detentivo risarcire lo Stato per avergli garantito i servizi durante la reclusione. Per quanto riguarda il cibo si tratta di quasi 4 euro pro die”. “Il punto nodale del lavoro - ricorda l’esponente di SDR - ancora una volta è legato alle possibilità economico-aziendali nelle differenti aree del Paese. Ovviamente nel Centro-Nord le possibilità di accedere ad attività esterne al carcere sono maggiori per la presenza di un numero di medie e piccole aziende in grado di accogliere più persone. Anche realtà come il carcere di Bollate è un esempio virtuoso per l’elevato numero di attività e corsi professionali. In un’isola come la Sardegna il Ministero dovrebbe seriamente investire nelle Colonie Penali. Rendendole luoghi di lavoro qualificato per donne e uomini privati della libertà. Senza un investimento in questo ambito parlare di prelievo di stipendio per chi sconta una pena appare assurdo”. “Benissimo invece aumentare il numero delle telefonate - conclude Caligaris - ma anche in questo caso negare una telefonata o una videochiamata alle bambine e bambini minori dei detenuti dell’Alta Sicurezza, con reato ostativo, non ci sembra rispettare quel principio di equità e considerazione per chi è innocente. A maggior ragione quando si tratta di figlie e figli in condizioni di salute precarie. Anche in questo caso lasciare la decisione a chi dirige l’Istituto sembrerebbe la scelta migliore per non ledere un diritto”. Bologna. Detenuta muore all’Ospedale Maggiore, si farà l’autopsia Corriere di Bologna, 20 agosto 2023 Una giovane di Piacenza di 29 anni, che si trovava detenuta nel carcere bolognese della Dozza, è morta, mercoledì, all’ospedale Maggiore di Bologna dove era ricoverata da qualche giorno dopo un malore accusato in carcere. La madre, assistita dall’avvocato Valter Vernetti di Pavia, ha presentato una denuncia e la Procura di Bologna ha disposto l’autopsia per fare luce sulla vicenda. Patricia Bonora Mos, questo il nome della trentenne, nata in Romania nel 1994, era detenuta da qualche mese alla Dozza per piccoli reati. Il 12 agosto è stata ricoverata d’urgenza all’ospedale, a causa di un malore accusato dopo aver mangiato della carne. In corsia, a causa della sorveglianza, era difficile avere contatti. La madre Gabriela riferisce di aver avuto pareri discordanti dai medici, fino alla comunicazione di un peggioramento, martedì, poi della morte, avvenuta il giorno dopo. E di avere, quindi, presentato la denuncia per capire meglio che cosa può essere successo. “La madre - ha dichiarato all’Ansa l’avvocato Valter Vernetti - è comprensibilmente sconvolta per la perdita della giovane figlia. Da parte nostra non c’è ovviamente nessuna intenzione di accusare o dare la colpa a qualcuno. Si vuole soltanto capire che cosa è successo fra il carcere e l’ospedale dove questa giovane ragazza è morta”. Perugia. Il magistrato di sorveglianza non scrive le ordinanze e finisce sotto procedimento al Csm di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 20 agosto 2023 “Ha violato i suoi doveri di diligenza”. Lui si difende con una perizia psicologica. Lo specialista: “Rifiuta il lavoro, voleva fare il poeta ma ha assecondato il padre”. Scene da teatro eduardiano al Csm. Protagonista un giudice napoletano, Ernesto Anastasio. Magistrato dal 1999, ha un problema: non scrive le sentenze. A centinaia, facendo infuriare gli avvocati. Per questo la Procura generale della Cassazione gli contesta “la violazione dei doveri di diligenza e laboriosità” e ne chiede la sospensione urgente da funzioni e stipendio. Lui si difende, con tanto di certificato medico e perizia psicologica: rifiuta il lavoro perché non è quello che sognava. Voleva fare il poeta, ma il “complesso rapporto” col padre principe del foro lo portò alla giurisprudenza. Con la toga addosso non si sente realizzato. È una vicenda inedita e delicata. Anastasio viene condannato una prima volta nel 2021 alla lieve sanzione della censura per “gravi ritardi” come giudice civile a Santa Maria Capua Vetere. Passa solo un anno e la Procura rileva una nuova “situazione di criticità”: 214 sentenze non scritte nei termini, 252 provvedimenti in sospeso. Anche a Perugia, dove viene trasferito come giudice di sorveglianza, si fa conoscere per “reiterati, gravi e ingiustificati ritardi”: 848 provvedimenti non depositati in un anno; altri depositati 11 mesi dopo la scadenza. Al punto da provocare una protesta collettiva dei detenuti. Il che lo rende, secondo la Procura, “immeritevole della fiducia e considerazione di cui deve godere un magistrato”. Per difendersi, Anastasio deposita un certificato medico e chiede una perizia. Il Csm incarica Stefano Ferracuti, docente di psicopatologia forense alla Sapienza, “di accertare l’esistenza di patologie in grado di incidere sulla condotta del giudice”. Il professor Ferracuti lo visita due volte, sottoponendolo a test mentali. Infine dà il responso: Anastasio non ha “patologie tali da scemare o escludere la capacità di intendere e volere, ma è portatore di un disturbo di personalità. Unito a una serie di difficoltà esistenziali e personali, porta a una oggettiva procrastinazione e irresolutezza nell’adempiere i doveri professionali. Per un verso è completamente consapevole della problematica, per altro verso non è in grado di opporsi a questa sua tendenza interna”. Il perito scopre nell’inconscio del giudice “un problema molto più antico: si trova a svolgere un ruolo professionale che non è in alcun modo soddisfacente per i suoi obiettivi esistenziali, e le conseguenze sono quelle che si rilevano. Si è trovato a fare un lavoro che per lui non genera alcun tipo di soddisfazione personale o esistenziale; i suoi interessi, la sua immaginazione e il suo desiderio di realizzazione sono orientati in altri campi. Ha una notevole intelligenza e cultura letteraria, interessi poetici, ciò che a lui effettivamente interessa, e questo pone un problema complessivo di adeguamento al ruolo, perché è in una parte in cui non si trova bene”. Il giudice non voleva fare il giudice, ma il poeta. “Era molto più dotato per lettere”, dice il perito. Probabilmente si iscrisse a giurisprudenza per seguire le orme del padre avvocato. “Non vive l’attuale lavoro come una forma di espressione di sé stesso, e tende a boicottarlo. In parte consapevolmente, ma non del tutto. Si sente oppresso dal lavoro, vorrebbe farlo ma siccome pensa che non è quello che avrebbe davvero voluto fare, lo boicotta. Lo sa, ma può poco. Si trova a vivere una vita che non avrebbe voluto vivere, non è contento e ha difficoltà a uscirne. Si sta distruggendo”. “Tutto vero - conferma Anastasio. Col professore mi sono sfogato. Vivo questa situazione di dissidio interiore. Il problema è grave, non sta bene che un giudice faccia tutto questo macello di provvedimenti non depositati. Non credo che morirò magistrato, non mi pare plausibile. Ma il mestiere lo conosco, non sono un “idiot savant” (idiota sapiente, ndr) che si diletta a scrivere poesie e combina solo scelleratezze sul lavoro”. Anastasio chiede di continuare a fare il giudice di sorveglianza: “Mi piace, mi sento più motivato”. Secondo il perito, “è inidoneo al lavoro di magistrato. Potrebbe fare il bibliotecario, per esempio”. Ma un giudice non si può demansionare. Dentro o fuori. Il Csm deciderà a settembre. Asti. “Le arringhe difensive non sono un ostacolo, aiutano la giustizia a ricostruire la verità” di Massimiliano Peggio La Stampa, 20 agosto 2023 Il commento delle Camere Penali all’assoluzione dei giudici che sentenziarono senza dare la parola ai legali. Chiesto l’invio di ispettori. La sentenza della Cassazione che ha annullato, con rinvio, la sanzione disciplinare inflitta dal Csm al presidente del Collegio astigiano che, nel dicembre del 2019, in un delicato processo per violenza sessuale a carico di due imputati, diede lettura della decisione prima di ascoltare l’arringa difensiva, suscita reazioni. Avvocati e politici. Il fatto fu eclatante. Il presidente di quel collegio, composto da tre magistrati, pronunciò la condanna prima di dare la parola al legale. Il giudice, accortosi dell’errore, stracciò il foglio della sentenza. Da qui le proteste della Camera Penale che oggi torna sull’argomento con una lettera alla Stampa. Dalla vicenda nacquero due procedimenti: uno penale e l’altro disciplinare del Csm. Il primo è stato archiviato. Il secondo ha distinto le posizioni: nessuna responsabilità per i giudici a latere, condanna per il presidente, ora annullata dalle Sezioni Unite della Cassazione. “Questa decisione - dice Enrico Costa, deputato di Azione - ha certificato che infischiarsene delle argomentazioni della difesa, decidendo senza che neanche siano esposte, non è sanzionabile. Ed è ridicola la motivazione sullo stress addotto dal magistrato nella sua difesa. Cosa significa? Che se un giudice è stressato può fare ciò che vuole?”. E aggiunge: “Chiederò al ministro Nordio di inviare gli ispettori ad Asti per verificare su quante sentenze abbia influito lo stress”. L’intervento “Le Camere Penali stigmatizzarono fermamente l’increscioso accadimento e oggi, a distanza di anni, valgono le medesime riflessioni in allora proposte, potendole contestualizzare anche in riferimento ad alcuni più recenti interventi normativi. La lettura di una sentenza prima delle arringhe difensive significa che i tre Giudici si devono essere riuniti in camera di consiglio per assumere collegialmente la decisione senza che a nessuno dei medesimi sia venuto in mente di non aver ancora ascoltato le ragioni della difesa. È un fatto grave che sottintende la percezione dell’Avvocato come inutile orpello, in spregio del suo ruolo costituzionalmente previsto a garanzia del Giusto Processo e risponde ad un modello culturale che appare progressivamente trovare sempre maggior spazio e che è recisamente contrario, tra l’altro, al modello accusatorio che, come noto, si fonda sul contraddittorio tra le parti. Il problema, infatti, non è soltanto leggere una sentenza senza aver ascoltato l’arringa finale di un difensore, aspetto di per sé di inaudita serietà sotto il profilo del rispetto dei ruoli, bensì decidere senza aver aggiunto al quadro di conoscenze anche le considerazioni che un Avvocato che ha seguito l’intero processo è in grado certamente di offrire. Il processo penale, definito ottimisticamente come “accusatorio”, prevedeva nel 1989, ma ci piace pensare preveda ancora oggi, il contraddittorio tra le parti come il miglior metodo per arrivare alla migliore verità processuale. Il contraddittorio è destinato a trovare spazio essenzialmente in due momenti processuali cardine: la formazione della prova attraverso l’esame e il controesame dei testimoni e le conclusioni delle parti, vale a dire il momento nel quale Pubblico Ministero e Avvocato, su posizioni di parità, valorizzano gli elementi processuali ritenuti più rilevanti al fine di offrire al Giudice tasselli fondamentali per la decisione. Il Giudice che non si accorge, prima di pronunciare la sentenza, che non è stata data parola a una delle parti, ossia che è mancato uno di questi tasselli, non può che essere un Giudice che reputa superfluo il contraddittorio. Giova osservare che, nella deriva antiaccusatoria, il nostro legislatore sta progressivamente demolendo uno dei cardini del processo, vale a dire l’oralità, riducendo gli spazi nei quali le parti, possono offrire elementi di conoscenza al Giudice. Non sono solo gli Avvocati a lamentarsi di questo nuovo, pericoloso, modello culturale, ma anche i Cittadini, che vanno incontro a sentenze fondate su conoscenze sicuramente meno approfondite da parte del Giudice. Chi si confronta quotidianamente con la fallibilità del giudizio umano nelle aule di Giustizia non può che auspicare che il confronto mantenga il suo ruolo cardine nel processo, perché soltanto attraverso l’apporto prospettico di tutte le parti si limiteranno gli errori nelle decisioni. Residua una ulteriore considerazione: la Magistratura italiana riporta un tasso di condanne in via disciplinare realmente minimo e poco comprensibile di fronte ad un sistema al collasso, per qualità e tempi delle risposte, all’interno del quale i Magistrati stessi giocano un ruolo decisivo. Non è più sostenibile che nel nostro Sistema la Giurisdizione domestica, che sia il Csm o la Corte di Cassazione in ultima istanza, continui ad essere gestita con una inaccettabile generalizzata benevolenza tra pari. L’auspicata riforma del Csm è ora una priorità, non solo per il suo corretto funzionamento in tutti i suoi aspetti, quali, tra l’altro, le nomine dei vertici degli Uffici Giudiziari, ma soprattutto per addivenire ad una giustizia disciplinare che realmente funzioni quale primaria garanzia di imparzialità del Giudice. Roberto Capra, Presidente Camera Penale “Vittorio Chiusano” Davide Gatti, Presidente Camera Penale Asti I vitalizi, occasione di costruzione del falso. Insegnamenti per il futuro di Franco Corleone L’Espresso, 20 agosto 2023 Il 2 agosto alla Camera è andata in scena, ad opera dei 5Stelle, una mediocre replica della rancida polemica contro i vitalizi. Lo scopo era quello di montare l’indignazione contro i privilegi, di chi condanna la cancellazione del reddito. La propaganda è uno strumento che va maneggiato con cura, evitando l’uso disinvolto di falsità che disorientano i cittadini e alimentano un clima di odio inutile. La demagogia contro la casta spinse il Parlamento ad abolire i vitalizi nel 2012 e ad instaurare un sistema pensionistico contributivo e legato al raggiungimento dei 65 anni di età. Quindi i vitalizi non esistono più. Nel 2018 la scure si abbatté sugli ex parlamentari con una operazione di ricalcolo retroattivo con il metodo contributivo. L’errore marchiano nell’utilizzo di coefficienti sbagliati ha obbligato l’amministrazione di Camera e Senato a effettuare dei riconteggi. I ricorsi dei parlamentari hanno costretto gli organi di giustizia interna, Consigli di Giurisdizione e Consigli di Garanzia ad assumere decisioni anche tenendo conto delle indicazioni della Corte Costituzionale. Siamo di fronte ad un contenzioso giudiziario, perdipiù affidato, secondo la vigenza della autodichia, a parlamentari che devono resistere a pressioni partitiche ed essere autonomi nel giudizio. Per fortuna nella discussione è intervenuto Piero Fassino a difendere la dignità dei rappresentanti del popolo stigmatizzando l’orgia populista dei 5Stelle e di Fratelli d’Italia. Un connubio che spiega la deriva del Paese e molti accordi sottobanco. La vicenda non merita una particolare attenzione nel merito, ma vale la pena di ricordare che nel 2018 un carneade chiamato Di Maio vomitava verso gli ex parlamentari frasi del genere: “I vitalizi non sono diritti acquisiti, ma privilegi rubati”, “Parassiti sociali che hanno campato sulle spalle di tanta gente”, “Questi ex dis-onorevoli, vitalizio-dipendenti, non conoscono vergogna”. In questi anni sono scomparse figure eccezionali della storia della Repubblica e con ipocrisia sono state celebrate. Il proverbio secondo cui il bue dà del cornuto all’asino, si attaglia a un personaggio che si è accaparrato un ruolo internazionale senza merito e solo grazie a spartizioni di sottopotere. Quali lezioni si devono trarre da questo episodio minore ma non trascurabile? La prima: la ricostruzione di una cultura politica che caratterizzi l’opposizione, capace di contrapporsi alla destra al potere, richiederà intelligenza inedita e pensieri lunghi. La seconda: la consapevolezza che la crisi della democrazia è assoluta, se non irrimediabile, è drammaticamente assente. La terza: il ruolo del Parlamento è inesistente e ridotto a pura caricatura, a luogo di registrazione di decisioni prese altrove, stretto tra decreti e voti di fiducia. Prima di pensare al cosiddetto campo largo, occorre chiedere conto degli errori politici e istituzionali compiuti con il taglio dei parlamentari (sempre ad opera dei 5Stelle) e del delitto di Calenda alle ultime elezioni politiche. Il Pd deve giustificare l’incapacità di imporre la modifica di una legge elettorale che dà la maggioranza alla minoranza. Va ricordato l’ultimo ammonimento di Mario Tronti che auspicava che “nell’irrazionalità della storia” si accendesse una scintilla “capace di incendiare la prateria”. Migranti e sbarchi, svolta sulle regole: nuovi criteri di distribuzione e più “ricambio” nei centri di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 20 agosto 2023 Per l’assegnazione dei migranti non conterà solo la popolazione regionale. La spinta sul turn over. Una correzione in corsa che potrebbe avere conseguenze importanti sulla distribuzione dei migranti nelle regioni: non più in via esclusiva in proporzione rispetto alla popolazione residente, ma d’ora in poi solo in una quota del 70%, perché il restante 30% sarà calcolato anche in relazione alla superficie del territorio. È la novità più incisiva sui trasferimenti di profughi approdati sulle coste italiane negli ultimi mesi, più del doppio rispetto all’anno scorso, tanto da mettere sotto pressione l’intero sistema dell’accoglienza: da quella dei primi momenti dopo il soccorso in mare a quella successiva nei centri abitati. L’iter è contenuto in una circolare che il ministero dell’Interno ha inviato ai prefetti, delegati peraltro a indire i bandi per reperire nuove strutture d’accoglienza. Il nuovo criterio - Le nuove regole per la distribuzione dei migranti sono coordinate dal Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione. La Lombardia è in cima alla classifica dell’accoglienza con il 13% del totale di migranti, ovvero 16.232 dei 128.902 già accolti sul territorio nazionale. Seguono con il 10% e il 9% Emilia-Romagna e Lazio (12.458 e 11.217 ospiti). Con l’adozione del criterio della proporzione collegata alla superficie regionale, si potrebbe avere nelle prossime settimane un aumento di trasferimenti in regioni con minore densità abitativa, come Sardegna e Basilicata - ma al vaglio ce ne sono anche altre - seguita da un alleggerimento della pressione sulle prime regioni. Le decisioni finali spettano comunque al Viminale in virtù di riscontri oggettivi sulla situazione nei territori interessati dalla distribuzione. Turn over nei Cas - Sempre nell’ottica di far calare la pressione sui territori e assicurare un turn over delle presenze nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria), forti di 12mila posti in più dopo l’apertura di nuove strutture, è previsto un censimento delle posizioni degli ospiti (al momento circa 110mila complessivi) per verificare se abbiano ancora i requisiti necessari per essere assistiti. Non sono pochi infatti i migranti che vivono nei Cas ormai anche da due anni e mezzo, con attività lavorative di vario genere all’esterno e relazioni sul territorio, che ora, visto il cambiamento di status, possono richiedere aiuto agli enti locali. Nella circolare del Viminale inviata sia ai prefetti sia al Dipartimento di pubblica sicurezza, come anche alla Commissione nazionale per il diritto di asilo, viene ribadita la massima assistenza a chi è “privo di mezzi sufficienti a garantire una qualità di vita adeguata al sostentamento proprio e dei propri familiari”, ma anche di farla cessare subito per chi è in possesso del permesso di soggiorno, chi ha ottenuto la protezione internazionale, chi ha un reddito minimo garantito, “in un’ottica di corretto utilizzo delle risorse pubbliche, per assicurare il turn over nelle strutture di accoglienza e garantire la disponibilità di soluzioni alloggiative in favore degli aventi diritto”. “Paesi sicuri” - Sulla base degli accordi europei sull’accoglienza cambieranno, e in modo decisivo, anche le regole per chi proviene da “stati sicuri”, nazioni dove non si ritiene ci siano conflitti armati e persecuzioni di carattere politico, sessuale, religioso. Nell’elenco figurano fra gli altri Costa d’Avorio e Tunisia che si trovano al vertice della graduatoria di arrivi nel 2023 (12.290 e 8.097, al secondo e al terzo posto, dietro la Guinea con 12.631), ma con poco più del 10% di riconoscimento delle domande di protezione internazionale. L’Italia, pena la procedura di infrazione Ue, avrà circa un mese per stabilire se queste persone abbiano i requisiti per rimanere nel nostro Paese o debbano essere rimpatriate. Negli hotspot, dove entro settembre ci saranno altri 3.500 posti, verranno create strutture di trattenimento vigilate - ma non come i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) - dove i migranti attenderanno le decisioni delle commissioni del Dipartimento per le Libertà civili (una settimana) e poi quelle definitive dei giudici. Migranti. Non è un’emergenza, ma una scelta politica di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 agosto 2023 Le immagini delle tensioni tra migranti e residenti le abbiamo già viste. Forse la destra spera di vederne ancora. Per non dover parlare di salari bassi, sanità allo stremo e riforme fiscali che favoriscono i ricchi. Per scaricare su qualcun altro le proprie responsabilità. Un’emergenza non può durare trent’anni. Eppure nel 2023 l’immigrazione in Italia è ancora considerata tale. Non è un caso: è una scelta politica precisa. Su cui la destra ha costruito la propria spinta elettorale e a cui il centro-sinistra non ha voluto opporre un modello alternativo. Così l’accoglienza resta ancora un affare del ministero dell’Interno, mentre dovrebbe rappresentare un servizio sociale fondamentale. Il primo canale di inserimento dei nuovi arrivati e, perché no, di contaminazione culturale dei residenti. Un indotto capace di creare occupazione e presenza anche in territori marginalizzati e spopolati. Per farlo, come ogni intervento istituzionale, deve essere programmato. Con tutti gli attori in campo: governo, regioni, comuni, terzo settore, ricercatori, esperti, persone ospitate. Dopo che tra il 2018 e il 2020 erano diminuiti gli sbarchi il governo Pd-5S e quello Draghi non hanno invertito la rotta. L’esecutivo Meloni, invece, ha rifiutato per mesi il dialogo e dichiarato in aprile l’ennesimo stato di emergenza immigrazione. Ha scelto di investire sui grandi centri, quelli “straordinari”. Parcheggi incapaci di garantire crescita, formazione e diritti. Serbatoi di rancore e marginalità per chi è ospitato, motivo di rivalsa per chi vi abita vicino. Le immagini delle tensioni tra migranti e residenti le abbiamo già viste. Forse la destra spera di vederne ancora. Per non dover parlare di salari bassi, sanità allo stremo e riforme fiscali che favoriscono i ricchi. Per scaricare su qualcun altro le proprie responsabilità. Migranti. Accoglienza, i comuni contro Salvini: “Sull’orlo del tracollo” di Adriana Pollice Il Manifesto, 20 agosto 2023 “È tutto saltato, siamo sull’orlo del tracollo”: a certificare il fallimento del sistema di accoglienza organizzato dal governo Meloni è Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato Anci per l’immigrazione. “Siamo nella più grande emergenza mai vissuta, almeno da quando sono responsabile Anci, e non succede nulla: ho visto il ministro Piantedosi a dicembre poi c’è stata una convocazione il 4 agosto e nel mezzo solo un po’ di interlocuzione tecnica”. Eppure la premier e il vice Salvini hanno mostrato i muscoli fin dall’insediamento: “C’è un perverso meccanismo politico - il commento di Biffoni - perché questo è il governo del ‘niente sbarchi’ ma fuori dalla propaganda elettorale, perché loro hanno promesso questo, adesso sono in difficoltà. Ho scritto, così come altri sindaci, al Tribunale dei minori e alla Prefettura: con questi numeri, se ci vengono mandati ancora minorenni non accompagnati, non possiamo garantire che ci siano il rispetto delle condizioni stabilite per legge e la responsabilità è dello Stato centrale. Non ci sono gli hub di primissima accoglienza, non ci sono le risorse per la mediazione culturale”. E infine: “Il decreto Cutro ha peggiorato se possibile le regole del gioco, allontanando dall’accoglienza i grandi player come Arci, Caritas, Comunità di Sant’Egidio”. La conferma a questo drammatico quadro è arrivata ieri dal comune di Bologna: “Abbiamo sotto la nostra responsabilità 510 minori stranieri non accompagnati - ha spiegato l’assessore al welfare, Luca Rizzo Nervo - anche ragazzini di 12, 13 anni. Abbiamo finito tutte le possibilità, strutture, comunità di accoglienza. I bandi vanno deserti”. Per poi attaccare: “Siamo vicini al doppio degli arrivi dello scorso anno ma, ancor più dei numeri, ci preoccupa l’inadeguatezza della pianificazione delle risposte da parte dello Stato. Non ci sono nuovi Cas, si usano quelli esistenti che sono a rischio sovraccarico e con un impatto sociale preoccupante”. Cinque nuclei familiari hanno ricevuto la lettera che li metteva fuori dal Centro di accoglienza straordinaria di Viareggio, mittente la Prefettura di Lucca: “Sono venuti meno i requisiti prescritti per l’accoglienza nei Cas - si legge nella lettera -. Pertanto, si comunica che entro 10 giorni dalla notifica della presente comunicazione questa Prefettura procederà alla cessazione delle misure d’accoglienza”. Sono gli effetti della circolare del Viminale, inviata il 7 agosto. È dovuto intervenire il sindaco, Marcello Pierguidi, per provocare il dietrofront della Prefettura: non dovranno lasciare il Cas fino a che non sarà trovata una sistemazione. La circolare è stata il modo maldestro del governo per accelerare il turn over nei Cas. “Sempre più spesso noi sindaci veniamo lasciati soli. Sono aumentati i flussi e ci vengono scaricati addosso i disagi” l’accusa di Pierguidi. Se nei Comuni dove vengono smistati i richiedenti asilo la situazione è critica, la Sicilia resta la regione in prima linea. I migranti che arrivano a Lampedusa vengono in gran parte trasferiti a Porto Empedocle. Ieri dall’area sbarchi, allestita nella parte terminale del porto per le preidentificazioni, in 700 su oltre mille sono stati portati a Messina e Reggio Calabria con la nave Dattilo della Guardia costiera. Si tratta solo di un turn over poiché sono stati sostituiti da altri 700 arrivati da Lampedusa. Mercoledì le operazioni di trasferimento per 1.200 persone su 23 pullman sono andate avanti fino a sera. Si va avanti a ritmo continuo al punto che è partita la caccia ai bus per non fermare le operazioni nella settimana di ferragosto. I 5S: “L’area retroportuale non ha le caratteristiche strutturali per reggere una situazione di questo tipo in maniera dignitosa. E meno male che qualcuno al governo aveva detto che avevano le soluzioni”. Un mercantile ieri ha soccorso 37 naufraghi (13 i minori) al largo di Pozzallo, dove poi li ha sbarcati la Guardia costiera: sono stati spinti su un barchino per la traversata nel Mediterraneo con bastoni dalle punte metalliche acuminate. “Ai sindaci del Nord che si lamentano per la distribuzione dico che l’Italia è una e deve essere solidale - il commento ieri del sindaco di Pozzallo, Roberto Ammatuna -. Quando, nel passato, tutto il carico era dei comuni siciliani, abbiamo sopportato questo tipo di situazione. I problemi dell’immigrazione non si risolvono con la guerra tra poveri. Nonostante i numeri siano elevati non possono mettere in crisi un paese come il nostro. Mi sembrano atteggiamenti demagogici”. Da Lombardia e Veneto le maggiori lamentele, a cominciare dagli amministratori leghisti. Il governatore veneto Luca Zaia: “Rischiamo di avere le tendopoli”. Ammatuna: “Se si fosse portata avanti una politica dell’accoglienza diffusa non avremmo questo problema, è inaccettabile l’atteggiamento di questi sindaci che portano avanti una politica egoistica”. Ieri pomeriggio erano 300 i migranti presenti all’hotspot di Pozzallo su una capienza di 220 persone, 85 i minori non accompagnati in un altro centro. “La situazione è complicata ma non ci sono criticità particolari - spiega Ammatuna -. Abbiamo avuto anche 500 persone nell’hotspot ora però, a differenza del passato, non si registrano più proteste: mancando gli odiatori di professione, che sono al governo. Stanno facendo un bagno di realtà. Un altro hotspot sarà aperto tra pochi giorni nella zona industriale Modica-Pozzallo con una capienza di 300 persone, resterà in funzione fino al 31 dicembre ma ormai lo sappiamo, serve l’accoglienza diffusa: i grandi centri sono disumani e fonte di corruzione”. A Pozzallo non c’è solo l’hotspot: “Siamo una cittadina di 20mila abitanti, abbiamo anche un centro Sai con una ventina di ragazzi che frequentano le scuole serali, tutti hanno un contratto di lavoro, la gran parte a tempo indeterminato. C’è richiesta di lavoratori da parte delle imprese della zona. Mi pare che questa sia l’unica strada”. Migranti. Perché è giusto vietare la parola “clandestino” di Federico Faloppa* La Stampa, 20 agosto 2023 Chi arriva in Italia per richiedere asilo non può essere chiamato “clandestino”, nemmeno in un manifesto politico. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza depositata il 16 agosto scorso, respingendo il ricorso presentato dalla Lega - che ora dovrà pagare anche le spese processuali - e chiudendo quindi una vicenda iniziata nel 2016. Quando, per contestare l’assegnazione di 32 richiedenti asilo a un centro di assistenza messo a disposizione da una parrocchia di Saronno (Varese), il Carroccio aveva convocato un presidio con cartelli che recitavano: “Saronno non vuole i clandestini”. Grazie a questa sentenza della Cassazione, d’ora in poi - c’è da augurarselo - sarà più difficile abusare di questo termine, costruirvi intorno slogan e campagne elettorali, farne il perno dell’agenda politica. Ed è, questa, una gran bella notizia. Poiché finalmente si potrà tentare di ripulire il discorso pubblico e politico da un termine discriminante, usato scorrettamente, e nel tempo diventato profondamente offensivo per la dignità delle persone a cui viene rivolto e associato, e per l’intelligenza di lettori ed elettori cui, per anni, è stato fatto credere - proprio anche attraverso l’uso di clandestino - che le persone richiedenti asilo fossero illegali o irregolari. E che fenomeni complessi come quelli migratori e legati alla mobilità delle persone fossero riducibili a questioni di ordine pubblico, con le persone migranti o richiedenti asilo a far la parte del cattivo, dell’illegale, del nemico pubblico per definizione. Quando invece non sono loro o il loro status a essere illegittimi, ma l’uso improprio della parola clandestino. Sì, perché il termine è improprio innanzitutto sul piano giuridico: definire persone richiedenti asilo o titolari di protezione internazionale “clandestine” significa innanzitutto (far finta di) non conoscere né l’articolo 10 della Costituzione italiana, sul diritto di asilo, né la Convenzione internazionale sui rifugiati del 1951, né la protezione internazionale prevista dall’Unione europea, che anche il nostro Paese è tenuto a rispettare. È improprio poi sul piano semantico: dare del clandestino a chi ha il diritto di restare nel Paese, il cui status è stato riconosciuto o è in attesa di riconoscimento, è un controsenso che offende tanto la lingua italiana - e l’intelligenza di chi quella lingua vorrebbe vederla usata correttamente, soprattutto da chi fa o orienta l’informazione - quanto il dibattito pubblico, la cui manipolazione è resa possibile anche da abusi pretestuosi come questo. Senza dimenticare che anni di uso disinvolto, inappropriato, e irresponsabile da parte delle istituzioni e dei media hanno prodotto la categoria “antropologica” del clandestino: basta muoversi, mettersi in viaggio, attraversare confini, provenire da alcuni Paesi, essere sprovvisti di un visto - anche perché i visti non vengono più concessi - per essere aprioristicamente bollati come “clandestini”. E per vedersi cucita addosso un’etichetta discriminante e umiliante. Che appiccica sui corpi delle persone quell’idea falsa, infondata, che chi migra per le ragioni più diverse o chi chiede asilo stia comunque e sempre agendo illegalmente, di nascosto, contro le regole. E per questo costituisca un pericolo da cui la comunità deve difendersi, deve respingere: come lo slogan della Lega condannato dalla sentenza vorrebbe far credere. E qui, come giustamente ha evidenziato la Cassazione nelle motivazioni, c’è anche una questione di dignità, negata, e di violenza, agita, e spacciata per libertà di espressione. L’uso di clandestino in riferimento a richiedenti asilo o persone provviste di protezione internazionale per i giudici della Corte non può infatti rientrare nella libertà di espressione perché “il diritto alla libera manifestazione del pensiero… non può essere equivalente a, o addirittura prevalente sul rispetto della dignità personale degli individui”. Non può insomma esporre le persone a discriminazioni e discorsi d’odio, producendo un’evidente - e chiaramente voluta - ostilità verso di loro. Non può insomma sollecitare, e legittimare, reazioni di rifiuto che spesso si trasformano in violenza, non solo verbale. Per questi motivi, non è un caso né tantomeno un capriccio che da almeno una quindicina d’anni associazioni della società civile, e poi con forza l’associazione “Carta di Roma”, chiedono ai media e a chi fa comunicazione pubblica e politica di smettere di usare la parola “clandestino” in riferimento sia ai migranti sia alle persone che arrivano in Italia per cercare protezione. E per fortuna l’appello non è sempre stato vano, se è vero che molte testate giornalistiche lo hanno finalmente bandito dalle loro redazioni, riconoscendone l’inappropriatezza e la connotazione negativa. Tuttavia, malgrado gli sforzi, e un’accresciuta consapevolezza e sensibilità da parte di molti, il termine è sempre lì, pronto a riemergere e a essere brandito come una clava capace di far danni alla lingua italiana, al dibattito pubblico, e soprattutto alle persone che ne vengono colpite. E che per questo continuano a subire la violenza non solo di un certo linguaggio - e di chi ne fa consapevolmente uso - ma anche di una società che nega i diritti e legittima, attraverso le sue ansiogene narrazioni, sistematiche discriminazioni. La Sentenza della Corte di Cassazione non sanerà di colpo vent’anni di cattiva informazione, di slogan martellanti, e di colpevole sudditanza a questi abusi. Ma certo renderà più difficile la vita a chi vorrebbe continuare a maltrattare la lingua, le persone, e la realtà delle cose, e un po’ più di giustizia - forse, c’è da sperare - alle persone offese, al diritto e al dibattito civile nel nostro Paese. *Professore di linguistica all’Università di Reading e coordinatore della Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio Migranti. “Ecco cos’è il piano Mattei”, intervista a Riccardo Noury di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 20 agosto 2023 “Sovvenzioniamo per non far partire i profughi proprio coloro che li costringono a partire. Pensiamo al caso della Tunisia: Saied ha le mani sporche di sangue, ma Meloni ne ha fatto un nostro partner e fidato alleato”. Dai morti nel Mediterraneo ai suicidi in carcere. Continua senza soluzione di continuità la stagione dei diritti umani negati. L’Unità ne parla con Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia. Mediterraneo, il “mare della morte”. Le stragi di migranti si susseguono senza soluzione di continuità. Ma l’Europa e l’Italia continuano sulla linea dei “memorandum fotocopia”: dalla Libia alla Tunisia, e prim’ancora la Turchia... Questi accordi, col prezzo spaventoso in termini di vite umane che fa parte degli allegati non scritti ma preventivati, sono frutto di quella che è un’autentica ossessione della politica interna (che domina quella estera) dell’Unione europea: fermare le partenze di migranti e richiedenti asilo verso l’Europa. A qualunque costo, purché si trovi qualcuno cui affidare, pagando, quel compito. A quegli stati (a volte a pezzi di Stati se non a veri e propri gruppi criminali, come nel caso della Libia) chiediamo di essere la nostra polizia di frontiera. Facendo finta di ignorare, giacché è ampiamente noto, che paghiamo per non far partire proprio coloro che costringono a partire. Pensiamo al caso della Tunisia… Appunto… L’Italia e l’Europa hanno elevato il presidente della Tunisia, Kais Saied, a interlocutore privilegiato nella lotta all’immigrazione clandestina. Dall’osservatorio di Amnesty International, quali sono i tratti caratterizzanti del regime tunisino? Gli ultimi due anni sono stati caratterizzati da un continuo peggioramento della situazione dei diritti umani. Da quando, nel luglio 2021, il presidente Kais Saied ha assunto pieni poteri, la magistratura ha via via perso la sua indipendenza, persone che avevano osato criticare la svolta repressiva sono finite in carcere per accuse inventate (dalla “cospirazione contro la sicurezza dello stato” alla “diffusione di notizie false”), il giornalismo indipendente è sotto attacco ed è stata varata una nuova Costituzione che rappresenta un passo indietro rispetto a quella del 2014. Fine della storia di successo delle rivolte del 2011. Poi, come se non bastasse, all’inizio di quest’anno Saied ha inaugurato una narrazione xenofoba, intrisa di discorsi d’odio. Il 21 febbraio, durante una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale, ha detto che “orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana” erano arrivate in Tunisia, “con la violenza, i crimini e i comportamenti inaccettabili che ne sono derivati”: una situazione “innaturale”, parte di “un disegno criminale per cambiare la composizione demografica” e fare della Tunisia “un altro stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”. Ne è derivata un’ondata di violenza contro migranti e richiedenti asilo dell’Africa subsahariana: arresti e sgomberi forzati, espulsioni, aggressioni in pieno giorno da parte di folle di odiatori fino alle ultime settimane, quando centinaia e centinaia di uomini, donne e bambini sono stati abbandonati in pieno deserto. Si continuano a evocare “Piani Mattei” per l’Africa e a incensare conferenze come quella svoltasi qualche settimana fa a Roma. E i diritti umani? Sono soltanto denominazioni altisonanti per imbellire l’ossessione di cui parlavo prima. Per i diritti umani non c’è spazio, ovviamente, salvo per le loro violazioni. Se poi fosse reale l’intenzione di lavorare seriamente in favore dello sviluppo dell’Africa, contribuendo a creare migliori condizioni di vita favorendo pace e lavoro, impegnandosi davvero a risolvere i conflitti e a porre freno al cambiamento climatico, non basterebbero certo i soldi. Occorrerebbe mutare radicalmente i rapporti con molti dei leader che hanno il potere in quella parte del Sud del mondo, cessare politiche predatorie e neocoloniali. E comunque ci vorrebbero anni. La domanda è: “nel frattempo, che si fa?”. Si continuano a piangere lacrime di coccodrillo per gli oltre 2000 migranti morti finora nel 2023, a svuotare il Mediterraneo dalle navi di ricerca e soccorso in mare delle Ong, a imbastire processi nei confronti dei loro equipaggi, a praticare la politica dei “porti lontani” con l’unico risultato di costringere quelle navi a trascorrere il più lungo tempo possibile nel Tirreno, nell’Adriatico e nello Jonio anziché nel Canale di Sicilia? Nel breve e medio periodo le soluzioni sono altre e a portata di mano. Si chiamano percorsi legali e sicuri, ricongiungimenti familiari, visti d’ingresso, corridoi ed evacuazioni di natura umanitaria. Nel mondo sono in corso 55 conflitti. Cinquantaquattro dei quali “ignorati”. Da tutti, non da Amnesty International. Salvo poi blindare le frontiere per fronteggiare la fuga di quanti da quelle guerre fuggono. In questi giorni abbiamo ricordato il secondo anniversario della seconda conquista del potere, in Afghanistan, da parte dei talebani. Che sono quelli di prima, del periodo 1996-2001: turbanti, barbe lunghe, mitra, fruste e Corano, nella loro edizione. Dopo le evacuazioni della fine di agosto del 2021, la comunità internazionale ha girato le spalle alle centinaia di migliaia di afgane e afgani in pericolo. Faccio un esempio: nell’ottobre 2022 la Germania ha avviato un programma di ammissioni umanitarie che prevedeva l’ingresso di 1000 afgani al mese. Da allora fino a giugno 2023, nessun afgano è mai arrivato in territorio tedesco: quelli cui era stato detto di andare in Pakistan per ottenere il visto sono ancora lì. Quanto accaduto in Sudan, dove è in corso da oltre 100 giorni un conflitto tra esercito e paramilitari per il controllo del territorio e delle risorse, è ancora più assurdo. Tante persone sono bloccate all’interno del paese in quanto prive di documenti. Il motivo? I loro passaporti sono rimasti dentro le ambasciate europee - evacuate in fretta e furia - cui avevano chiesto un “visto Schengen” quando era iniziata la guerra. Poi ci sono i conflitti che si giudicano terminati prima del tempo, e dopo aver chiuso un occhio si chiude anche l’altro. Molte delle oltre 600 vittime del terribile naufragio di giugno nelle acque greche provenivano da Deraa, la città della Siria dove nella primavera 2011 scoppiò la rivolta. Dodici anni dopo, da quei luoghi si continua a fuggire. Amnesty Italia è stata sempre a fianco di Patrick Zaki, festeggiando, come giusto, la sua ritrovata libertà. Non c’è il rischio che ora l’attenzione mediatica, oltre che politica, sull’Egitto dei diritti umani calpestati, venga meno come la richiesta di verità e giustizia per Giulio Regeni? Non vorrei che le istituzioni italiane avessero considerato chiuso il “dossier Egitto” col ritorno in piena libertà di Patrick Zaki, peraltro attraverso una grazia e non un’assoluzione. Pochi giorni fa, il 14 agosto, abbiamo ricordato un altro anniversario: il decimo dalla “Tiananmen del Cairo”, il peggiore massacro commesso in un solo giorno nel XXI secolo: oltre 900, ma forse più di 1000 manifestanti uccisi nello sgombero di due tendopoli allestite in altrettante piazze della capitale egiziana, dalla Fratellanza musulmana per protestare contro la deposizione, avvenuta il 3 luglio, del loro presidente Morsi. Da lì è iniziato quello che Amnesty International ha definito “il decennio della vergogna”: decine di migliaia di prigionieri che mai avrebbero dovuto entrare in carcere (cito solo i due più importanti: Alaa Abd el-Fattah e Ahmed Douma), sparizioni e torture, militarizzazione degli spazi di libertà, processi farsa presso i tribunali antiterrorismo, censura online e nei confronti della stampa indipendente, provvedimenti vessatori - come i divieti di viaggio e il congelamento dei conti bancari - nei confronti dei difensori dei diritti umani e delle loro Ong. Quindi, il “dossier Egitto” è tutt’altro che chiuso. Come rimane ovviamente aperta e urgente la necessità che un processo celebrato in Italia, alla presenza degli imputati egiziani, affermi la verità e la giustizia per Giulio Regeni. Quando si parla di diritti umani negati, si pensa sempre ad altri paesi. Ma il problema riguarda anche ciò che avviene in Italia, nelle carceri ad esempio... Certo non è l’unico ma questo è un problema storicamente persistente e grave, su cui si è pronunciata anche la giustizia europea rispetto a sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie inadeguate. La cosa ancora più grave, nonostante il tremendo numero di detenuti che si sono tolti la vita - tre, solo la settimana scorsa - è che mai come in questi anni è stata edificata una frontiera - sì, l’ennesima! - tra chi è fuori e chi è dentro. Vi ha contribuito una delle narrazioni in voga di questi tempi: che i diritti non sono innati ma si conquistano comportandosi bene, come bollini di una tessera del supermercato, e si perdono se ci si comporta male. E siccome nelle prigioni ci stanno quelli che “si sono comportati male”, i loro diritti non valgono più. C’è un altro tema di diritti umani che ha a che fare con le carceri. Molte delle indagini in corso così come le condanne sin qui emesse per il reato di tortura riguardano fatti delittuosi accaduti al loro interno... Ora, dopo che ci sono voluti quasi 30 anni per vedere finalmente approvata, nel luglio 2017, la legge sul reato di tortura, in parlamento ci sono i numeri per abolirla. Chi per quei 30 anni si è opposto, con motivazioni pretestuose, al reato di tortura ora è pronto ad abrogarlo. Proposte e disegni di legge di Fratelli d’Italia sono pronti e, per quanto riguarda il Senato, già in discussione. Insieme ad Antigone e A Buon Diritto, Amnesty International farà il massimo perché non si torni così gravemente indietro. Droghe. Inchiesta: benvenuti a Cocainopoli, dove sniffare è legale ma non si deve dire di Gianfrancesco Turano L’Espresso, 20 agosto 2023 Arresti e sequestri record non riescono a fermare lo tsunami di una droga che era per ricchi e ora unisce le classi sociali. Magistratura e forze di polizia lanciano l’allarme. Ma la polvere bianca dà lavoro. E la lotta al riciclaggio si fa per onor di firma. Chi glielo spiega al sottoccupato meridionale senza reddito di cittadinanza incappato in un posto di blocco con i pacchi di cocaina nel portabagagli che lui deve farsi vent’anni di galera mentre i protagonisti della politica, della moda, della pubblicità, ma anche ormai autisti di autobus, lavoratori sotto stress, ragazzetti con 50 euro in tasca, insomma gli utilizzatori finali del suo servizio possono dire ai cronisti scandalisti di farsi gli affari loro? Come dire, a lui e a chi lo arresta, che oltre il dibattito colto tra proibizionisti e abolizionisti c’è una terza via, quella del reale, dove la cocaina è già stata di fatto legalizzata? Prima di gridare all’iperbole, bisogna ascoltare le parole di Francesco Lo Voi. Il 12 luglio scorso il procuratore della Repubblica di Roma in udienza alla commissione parlamentare antimafia, nominata dal governo Meloni senza troppa fretta dopo otto mesi, si è espresso così sulla situazione del narcotraffico nella capitale: “Se non è totalmente fuori controllo, poco ci manca, nonostante l’impegno, le indagini e gli arresti. Lo scenario è veramente preoccupante per la semplice ragione che ad alimentare un’offerta abnorme c’è una domanda abnorme”. Se Roma sniffa, la Madonnina ha sostituito la nebbia con la polvere bianca. “Milano si conferma la capitale della droga. La richiesta è altissima”, hanno dichiarato i magistrati del pool guidato dal procuratore Marcello Viola a commento dell’operazione “Money delivery”, chiusa in primavera con un bottino di 645 chilogrammi di cocaina sequestrato alle filiali lombarde dei clan di Africo. I volumi di traffico erano di tre quintali al mese, depositati in un capannone di Gerenzano (Varese) giusto il tempo di una distribuzione a tamburo battente, spinta da una richiesta forsennata e di fatto incontrollabile. Nord e Sud uniti nella coca mostrano un’integrazione finalmente efficace. Il Mezzogiorno, per lo più, fornisce. Il Settentrione, per lo più, consuma e reinveste il denaro del narcotraffico nelle piazze ricche, perché anche la guerra al riciclaggio ormai si combatte per onor di firma. Lo stato delle cose è descritto nell’ultimo rapporto della Dcsa (direzione centrale per i servizi antidroga), pubblicato il 15 giugno 2023 a firma del generale della Guardia di finanza Antonino Maggiore, sostituito a fine luglio da Pierangelo Iannotti dei carabinieri. Nella prefazione al rapporto di 506 pagine le cifre parlano. Nel 2022 i sequestri di cocaina hanno ritoccato il record italiano del 2021 da 21,39 a 26,1 tonnellate. Gli effetti della pandemia sulla popolarità della coca sono stati irrilevanti. Caso mai, hanno incentivato i consumi. Nel 2018 i sequestri, che sono una quota minima del flusso effettivo, erano a quota 3,63 tonnellate. Un’inezia rispetto a quanto si è già visto nei primi sette mesi di un 2023 che corre verso il nuovo primato nazionale. Fino a pochi anni fa, i sequestri più importanti viaggiavano per quintali. Ora sotto la tonnellata è robetta. I due colpi di aprile e di luglio nelle acque di Catania e davanti a Termini Imerese hanno totalizzato insieme 7,3 tonnellate per un valore di mercato di 1,2 miliardi di euro. Il sequestro di due tonnellate al largo della costa orientale dell’Isola ha illustrato le nuove possibilità offerte dalla tecnologia ai trafficanti. Il carico è stato depositato dalla nave madre in mare aperto dentro involucri impermeabilizzati tenuti insieme da una rete e da galleggianti. Grazie al sistema gps è possibile anche affondare i pacchi, come si è appreso dall’inchiesta “Nuova narcos europea” della direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria contro la cosca Molé, che si serviva di sommozzatori professionisti reclutati a gettone nella Marina militare peruviana, oltre che di chimici colombiani e boliviani con spese di viaggio pagate, per recuperare i carichi sommersi di fronte ai porti di Gioia Tauro e di Livorno. Il sequestro di fine luglio, oltre a stabilire il nuovo record italiano a quota 5,3 tonnellate, ha messo in mostra il collaudato sistema della spezzatura di carico dalla Plutus, salpata da Santo Domingo, a un peschereccio partito dalla costa calabrese. Fra i venti arrestati figuravano italiani, azeri, turchi, albanesi, tunisini, francesi e ucraini. In pratica, la rosa di una squadra di serie A. Ed è ancora nulla rispetto alle 23 tonnellate bloccate tra Belgio e Italia nell’operazione Eureka andata a segno lo scorso maggio su intervento della Dda di Reggio Calabria. Il controvalore della merce è stato stimato in 2,5 miliardi di euro. Sommati agli 850 milioni di Termini Imerese e ai 400 di Catania si viaggia non lontano dai 4 miliardi, che equivalgono a metà della spesa del reddito di cittadinanza nel 2022 secondo le stime dell’Inps. La coca dà lavoro. A tutti. Lavora il sottoproletario mafioso che rischia vent’anni e lavora il centralinista che prende gli ordini al telefono e spedisce un grammo o dieci a domicilio come manderebbe una capricciosa doppia mozzarella. A Ponte Milvio, quartiere della movida di Roma nord, le dosi si ordinavano attraverso la app Session, con i pusher nascosti dietro account falsi e indirizzi ip stranieri (marzo 2023). Idem a Verona, dove la merce ordinata arrivava con i rider (luglio 2023). A Trento è in uso il recapito in tabaccheria del centro, con una riedizione del vecchio fermo posta (ottobre 2022). Il giornale online RomaToday ha spiegato come in cinque clic si possa passare da Instagram all’immancabile Telegram attraverso un “dissing”, un litigio sulla pagina di un influencer. Fino a poco tempo fa, lo spaccio era confinato al dark web. Oggi basta una app di messaggistica istantanea, sul genere di Wickr Me che la controllante Amazon chiuderà alla fine del 2023. Al centro di questo mondo virtuale dove i dettaglianti mostrano fantasia e iniziativa, il ruolo della ‘ndrangheta rimane preminente. Ma i criminali calabresi sanno giocare bene sullo scacchiere delle alleanze. “Per quanto riguarda Cosa Nostra”, sostiene la Dcsa, “le indagini rivelano una sua persistente vitalità, un reiterato interesse al traffico di stupefacenti, una notevole capacità di adattamento ai mutamenti di contesto ed un approccio pragmatico al redditizio “business” del traffico di droga, che genera enormi profitti, a fronte di minori rischi, rispetto ad altri reati tipicamente mafiosi, quali ad esempio le estorsioni”. In ottima forma grazie alla coca sono anche la camorra e le mafie pugliesi. Il controllo del territorio consente una relativa tranquillità nella gestione del traffico. I sequestri sono parte del rischio di impresa e le condanne colpiscono i personaggi apicali difficilmente o in ritardo. Roberto “Bebè” Pannunzi, romano, 75 anni vissuti nella cocaina da quando partì per il Canada dominato dal Siderno group di don Antonio Macrì, è stato spedito in Italia solo dieci anni fa dal Sudamerica dove era diventato il re dei mediatori. Un anno fa, Pannunzi ha ottenuto la revoca del 41 bis, il regime di carcere duro riservato ai grandi boss mafiosi. Gli rimangono diciotto anni da scontare. Forse anche lui era diventato obsoleto, dunque sacrificabile, rispetto al nuovo mondo della coca 2.0 dove, tuttavia, un attracco sul mare serve sempre. “In questa ricostruzione dello scenario operativo”, sottolinea il rapporto della Dcsa, “riveste un ruolo di assoluta centralità il porto di Gioia Tauro, nel quale si concentra l’80,35% dei sequestri di cocaina effettuati alla frontiera marittima, con un’incidenza del 61,73% sul totale nazionale”. In Calabria, ormai, si scherza sull’argomento con i post online dello Statale Jonico: “clamoroso a Gioia Tauro, trovate banane dentro un container di coca”. La satira e il folklore possono essere veri quanto la cronaca. Ci sono i giochi d’artificio sparati in certi quartieri delle grandi città per segnalare un carico andato a buon fine. Ci sono i rilevamenti chimici che hanno tracciato la coca in metà delle banconote sequestrate in Francia, soprattutto i tagli piccoli da dieci e venti euro, e addirittura nell’80 per cento dei dollari in circolazione a New York. Torna alla mente una frase di Pablo Escobar Gaviria. Il capo del leggendario cartello di Medellín, celebrato da film e serie tv, aveva già individuato la radice geografica delle sue fortune quando diceva: “Non c’è società in Colombia che prende più soldi di me dagli Stati Uniti”. E ai suoi tempi la coca era ancora la droga dei ricchi. Il ridere per non piangere è una coperta sottile sul cuore del problema: i consumi. Ai primi di agosto il progetto “Acque reflue” dell’istituto farmacologico Mario Negri ha pubblicato le sue conclusioni sul biennio 2020-2022. L’analisi dei residui metabolici delle sostanze stupefacenti nelle acque arrivate ai depuratori di 33 centri urbani nelle venti regioni italiane mostrano che la cannabis rimane al primo posto, con 51 dosi al giorno ogni mille abitanti. La cocaina segue in classifica con oltre 20 dosi al giorno per mille abitanti a Pescara, Montichiari, Venezia, Fidenza, Roma, Bologna, Merano. I consumi più bassi, compresi tra una e quattro dosi al giorno, si rilevano a Belluno e Palermo. Non solo grandi città, dunque. Anche la provincia si adegua alla moda. Con quali numeri è difficile dire. Il bollettino statistico europeo pubblicato a fine giugno dall’Emcdda (european monitoring centre for drugs and drug addiction) mette la cocaina al primo posto fra le sostanze stimolanti, mentre a livello quantitativo la cannabis è sempre prima in classifica. Nei 27 paesi presi in esame i consumatori sarebbero 23,7 milioni pari all’1,3 per cento della popolazione. Ma sono dati che ruotano intorno all’uso patologico, che è il maggiore responsabile dei ricoveri in pronto soccorso per avvelenamento (27 per cento del totale). L’ultimo rapporto sulle tossicodipendenze pubblicato sul sito del ministero della Salute a fine ottobre 2022 analizza a livello nazionale dei dati rilevati attraverso il Sistema informativo nazionale per le dipendenze (Sind). Dal rapporto è difficile rilevare o anche solo stimare quelli che l’Osservatorio europeo droghe e tossicodipendenze, agenzia dell’Ue con sede a Lisbona, definisce i consumatori sperimentali. Nel mondo degli sperimentatori la cocaina è dovunque. Era nelle feste milanesi con stupro dell’imprenditore Alberto Genovese, che ha invocato la sua dipendenza come attenuante. Era negli incontri privati di Luca Morisi, il tattico della Bestia, la macchina propagandistica della Lega, che è stato archiviato su richiesta della pubblica accusa “per particolare tenuità dei fatti”. Era in menu presso lo chef palermitano Mario Di Ferro dal quale si riforniva il berlusconiano Gianfranco Micciché, più volte parlamentare nazionale e oggi deputato regionale siciliano, ascoltato come semplice persona informata dei fatti. Nessun problema da parte di Micciché ad ammettere l’uso, senza l’ipocrisia di molti colleghi e senza la tigna dell’autista dell’Atac che tre anni fa è stata trovata positiva a un controllo antidroga e negativa al secondo. La donna ha fatto causa all’azienda municipalizzata romana e ha ottenuto un risarcimento di 20 mila euro. Nel frattempo, però, i controlli antidoping a campione dell’Atac hanno portato diciassette licenziamenti. Colpire i clienti del narcotraffico con multe e ammende, perché pensare al carcere è una follia, presuppone un impegno da parte dello Stato che è incompatibile con queste masse di consumatori e con gli standard italiani in generale. Quindi si lascia fare. Chi sostiene la liberalizzazione delle droghe trova un buon argomento nell’impossibilità di contrastare un uso così ampio. Ma legalizzare per stroncare il principale canale di accumulazione finanziaria del crimine organizzato presuppone che i clan accettino più o meno di buon grado la statalizzazione dei loro traffici. Questo non è successo con i tabacchi lavorati esteri (tle), che sono ancora fonte di arricchimento per le mafie dedite al contrabbando. Men che meno accadrebbe con la cocaina. Inoltre bisognerebbe organizzare norme, limiti, verifiche, reti di distribuzione e trovare referenti per l’acquisto fra i padroni del traffico. Ciò significa trattare a viso aperto con criminali efferati che non hanno nemmeno la scusa, concessa ad alcuni capi di Stato attualmente in carica, di essere eletti dalla volontà popolare. Soprattutto la liberalizzazione di una droga cosiddetta pesante creerebbe un problema con l’idea di Stato etico che aleggia dai tempi di Hobbes e di Hegel. La prima vittima casuale di un cocainomane vedrebbe le istituzioni sul banco degli imputati. Non sono cose che uno Stato sedicente etico è disposto a fare, quanto meno non alla luce del giorno. La fascia di insicurezza intanto si allarga. Basta pensare ai casi avvenuti in due delle maggiori località turistiche della Campania. Il primo a Capri nel luglio di due anni fa, quando un bus è precipitato nel vuoto. Il conducente rimasto ucciso, Emanuele Melillo, 32 anni, aveva un’invalidità del 50 per cento e faceva uso di cocaina. Da bigliettaio era stato spostato alle mansioni di autista. Oggi sono sotto processo tre persone fra le quali il medico che avrebbe dovuto sorvegliare le condizioni di Melillo. Il secondo episodio risale a pochi giorni fa quando nel mare di fronte ad Amalfi uno skipper trentenne è stato coinvolto nella collisione che ha ucciso l’editrice di Bloomsbury Usa Adrienne Vaughan. Il giovane è risultato positivo al test della cocaina. Si è solo sfiorata la tragedia lo scorso giugno a Ciampino quando il conducente di un pullman in partenza per una gita scolastica di bambini è stato controllato dalla polizia locale e trovato positivo ad alcol e droga. Insicurezza dovrebbe significare consenso elettorale in discesa. Ma la cocaina non è vista come un tema politico, anche perché in parlamento chi è senza peccato scagli la prima pietra. Allora avanti così, con la coca legalizzata. Basta che non si sappia in giro. Droghe. Inchiesta: dal barista all’impiegato, l’abuso di cocaina contagia tutta Italia di Paolo Biondani L’Espresso, 20 agosto 2023 Ormai è diventata un prodotto di massa: in poco più di vent’anni i prezzi sono crollati e la domanda è esplosa. Oggi i consumatori sono almeno mezzo milione, con 44mila ragazzi sotto i 19 anni. C’era una volta la droga dei vip, la polvere bianca sniffata nei night, nelle serate esclusive per ricchi e arricchiti: un vizio da privilegiati, concentrati a Milano e in poche altre grandi città, negli ambienti dorati della moda, della pubblicità, della finanza. Oggi la cocaina è un prodotto di massa. In poco più di vent’anni i prezzi sono crollati e la domanda è esplosa. Si consuma ogni giorno, nelle metropoli e nei piccoli paesi, nelle ville di lusso e nei palazzoni di periferia, nelle scuole e negli uffici, in negozi, ristoranti, pizzerie, ospedali, industrie. “Nei nostri centri, a chiedere aiuto, arrivano camerieri da mille euro al mese, studenti del liceo, impiegati di banca, manovali che di giorno si ammazzano di fatica nei cantieri edili e la sera abusano di cocaina, professionisti che non sniffano più per sballarsi, ma per lavorare”, testimonia Achille Saletti, l’esperto che trent’anni fa fece rinascere Saman, la comunità antidroga fondata da Mauro Rostagno che ora fa parte del gruppo Anteo. “C’è un consumo abnorme, inarrestabile. L’Italia è inondata di cocaina, anche nei paesi della provincia profonda”. Secondo Saletti, è la droga dei nostri tempi. “Una volta, negli anni del disastro dell’eroina, i mercati erano separati: spaccio in strada per i tossici, cocaina per l’élite con fornitori fidati e clienti pieni di soldi. Allora era molto costosa e si vendeva a grammi. Ora c’è un pusher unico che spaccia per strada o consegna a domicilio anche bustine da 10 o 20 euro. L’eroina era un problema vistoso, con le siringhe sotto casa e i morti per overdose che creavano allarme sociale. Quell’emergenza è finita con l’Aids. Ed è iniziata la nuova strategia: cocaina per tutti, a prezzi ridotti, senza più tossici nelle strade. Anche le vittime sono meno visibili, perché spesso in apparenza muoiono per altre cause, dall’infarto all’incidente stradale. È la normalizzazione dell’abuso. Con una droga perfetta per le personalità narcisistiche: il disturbo tipico dei nostri tempi, assieme alla depressione”. Il livello di contagio è confermato dai dati del ministero dell’Interno: “La diffusione della cocaina continua a crescere”, si legge nell’ultima relazione al Parlamento, da poco pubblicata. In cinque anni i sequestri di carichi provenienti dal Sudamerica sono quasi decuplicati: tre tonnellate nel 2018, più di 26 nel 2022. Al trafficante la coca raffinata (con una purezza del 70 per cento) costa circa 38 mila euro al chilo. Lo spacciatore la taglia con altre sostanze e la rivende, in media, a 83 euro al grammo, in dosi frazionate. Solo nel 2022 gli italiani, secondo le stime del ministero, hanno pagato per la cocaina “intorno ai cinque miliardi di euro”: quasi un terzo della spesa nazionale per tutte le droghe. I consumatori adulti (“dai 18 agli 84 anni”), sempre stando ai dati ufficiali, sono almeno mezzo milione, con una crescita del 10,8 per cento rispetto al 2021: un aumento dieci volte superiore a qualsiasi altro stupefacente. Il contagio ha una diffusione ancora più rapida e preoccupante tra i giovanissimi (più 23,7 per cento in un anno): oggi consumano cocaina, secondo la relazione del ministero, “circa 44 mila ragazzi tra i 15 e i 19 anni, pari al 2 per cento della popolazione scolastica”. Il comando generale dei carabinieri conferma che la cocaina è un problema grave, cronico, in quasi tutto il territorio nazionale e per le più disparate categorie sociali e fasce d’età. Anche lo spaccio è sempre più diffuso. Nelle dosi sequestrate i laboratori dell’Arma evidenziano, oltre alle sostanze da taglio professionale come la mannite, miscugli improvvisati con calce, zucchero, farina. La mafia resta nell’ombra: spesso è ancora al livello più alto del narcotraffico internazionale, ma è lontana dagli occhi dei consumatori. Molti non vedono neppure lo spacciatore: in strada, a rischiare la denuncia, ci va il ragazzino che compra anche per gli amici, la minorenne mandata a fare la spesa per il fidanzato e la sua compagnia. Il mercato della cocaina sta trasformando città e paesi. Genova è diventata il secondo porto italiano della droga dopo Gioia Tauro. E molte viuzze del centro storico sono invase dagli spacciatori. Quasi tutti giovanissimi: minorenni magrebini o centrafricani, senza lavoro, casa e famiglia, reclutati come manovalanza da trafficanti albanesi o slavi, gli unici ad avere rapporti con organizzazioni mafiose. I consumatori finali identificati dai carabinieri sono migliaia di italiani di ogni livello sociale: il professionista, l’artigiano, l’operaio, lo studente, l’impiegato cinquantenne. Il mercato nero è sostenuto da questa grandissima domanda trasversale. In molte città l’insediamento degli spacciatori è un effetto del degrado e dell’abbandono dei centri storici. Proprio a Genova, secondo le indagini giudiziarie, lo sbarco della cocaina è stato favorito anche da alcuni “camalli” italiani: scaricatori di porto, spesso collegati o imparentati con famiglie mafiose, che gestivano i container con la droga, nascosta tra carichi di caffè, banane o lana grezza. L’attività degli investigatori mostra anche qui un costante aumento dei cocainomani giovani. Ci sono minorenni che si prostituiscono per una dose, come succedeva per l’eroina. I carabinieri continuano a fare controlli e retate, ma gli spacciatori arrestati vengono facilmente sostituiti da altri sbandati. E il mercato non si ferma, giorno e notte. Al massimo, trasloca: d’estate si sposta nei centri turistici della Liguria. Anche gli spacciatori vanno al mare. Pescara è un’altra città devastata dalla cocaina, tanto da essere diventata il più importante centro di spaccio della costa adriatica. Un complesso edilizio chiamato “Ferro di cavallo”, in particolare, è stato per anni un fortino della coca, controllato da due clan di zingari stanziali, secondo le indagini antimafia, sul modello dei Casamonica a Roma. Le telecamere nascoste dai carabinieri hanno identificato una media giornaliera di oltre 1.600 clienti che andavano a rifornirsi in uno dei tanti appartamenti trasformati in covi: un numero di cocainomani che supera la somma di tutti i vecchi e nuovi tossicodipendenti censiti e assistiti dai servizi pubblici territoriali (Serd). Venti persone sono state arrestate per traffico di cocaina e associazione di stampo mafioso: per l’accusa, controllavano un dedalo di appartamenti trasformati in centrali di spaccio 24 ore su 24. Con sentinelle che smistavano i consumatori da una casa-covo all’altra, spiavano le forze di polizia e imponevano l’omertà ai clienti stessi. L’indagine era nata nel gennaio 2020 dall’omicidio di un ragazzo di Pescara, picchiato a sangue. Dopo gli arresti, nel luglio scorso è iniziato l’abbattimento dell’ex fortino. La cocaina, oggi, è la droga regina anche nelle carceri, usata da oltre metà dei detenuti tossicodipendenti. Tra i carcerati con disturbi collegati agli stupefacenti, i cocainomani sono 10.047, quasi il doppio dei consumatori di eroina (5.323). Nelle comunità di recupero, sono ormai quattro su dieci. E tra gli oltre seimila ricoverati negli ospedali per crisi da droghe, quasi un quarto sono cocainomani. Nel 2022 il ministero ha registrato 66 decessi per overdose di polvere bianca o derivati (come il crack): il 22 per cento del totale. Ma moltissimi casi sfuggono alle statistiche. “La cocaina crea complicanze fisiche e psichiche difficili da riconoscere e curare”, spiega Saletti: “A differenza dell’eroinomane, il cocainomane si sente efficiente, integrato, vincente. La crisi arriva tardi, dopo anni di abuso”. Saman aveva creato a Milano, già negli anni Novanta, il primo centro per consumatori non ancora cronici. “Oggi abbiamo 160 assistiti, con un’età media di 38 anni. Con il gruppo Anteo, fondato da uno psichiatra, siamo stati i primi ad aprire comunità con doppie diagnosi: abuso di sostanze e disturbi della personalità. Siamo in Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Puglia, Campania, Sicilia. La tendenza è preoccupante ovunque: vediamo ragazzi con dipendenze e patologie psichiche sempre più gravi. Con la cocaina, arriva in comunità solo chi è alla disperazione”. Egitto. Al-Sisi concede la grazia: Ahmed Douma è libero di Alessandra Fabbretti Il Manifesto, 20 agosto 2023 Dopo dieci anni rilasciato uno dei volti di piazza Tahrir e del contrasto al golpe del 2013. Ma cambia poco: ancora decine di migliaia i prigionieri politici. E continuano i casi di sparizione forzata. Dopo l’ex studente di Unibo Patrick Zaki, il presidente egiziano ha graziato un altro attivista di primo piano, Ahmed Douma. Il provvedimento siglato da Abdel Fattah al-Sisi comprende altri 30 detenuti come ha fatto sapere Tarek Elawady, a capo del Comitato per la grazia. Douma, famoso anche per le sue poesie, ha lasciato ieri mattina l’istituto penitenziario di Badr, al Cairo, dove stava scontando una condanna a 15 anni per aver protestato contro il colpo di stato dei militari guidati da al-Sisi, che nel 2013 deposero il presidente eletto Mohamed Morsi. La sua sembra una storia a lieto fine, ma non è così. Primo perché, come affermarono le organizzazioni per i diritti umani che seguirono il suo caso, tra cui Amnesty International, si trattò di “un processo-farsa motivato da ragioni politiche”. Secondo, perché a fronte della manciata di detenuti che ricevono il perdono, migliaia di prigionieri politici e di coscienza restano in cella. Il Cairo nega, ma per le associazioni si tratta almeno di 60mila persone. Tra loro Alaa Abdelfattah, il volto più noto della rivoluzione pacifica del 2011, che con Douma e centinaia di migliaia di egiziani portò alla fine il regime di Mubarak. Alaa e Douma nel 2013 si ritrovarono insieme a Tora e, nonostante fossero a qualche cella di distanza, riuscirono a scrivere Graffiti per due, una riflessione sulle speranze e i tormenti di una generazione che combina prosa e poesia (il saggio è disponibile in italiano all’interno della raccolta Non siete ancora stati sconfitti, edito da Hopefulmonster). Nonostante la cittadinanza britannica, la mobilitazione internazionale e un rischioso sciopero della fame, Alaa si trova ancora dentro. Eppure il suo avvocato Mohammed Al-Baker, arrestato il giorno del suo stesso arresto, è stato graziato a luglio con Zaki. La discrezionalità delle scelte delle autorità egiziane emerge anche dalle centinaia di casi di desaparecidos: persone arrestate che poi svaniscono nel nulla, magari per ricomparire davanti a un giudice giorni, mesi o anni dopo. Il caso più recente è Ahmed Suleiman Gika, arrestato per la prima volta nel 2015. Convocato dall’intelligence il 13 giugno scorso, è stato “rintracciato” in tribunale il 12 agosto e l’udienza si è conclusa con un ordine di rilascio. Nonostante la polizia al suo avvocato abbia detto il contrario, da allora Gika a casa non è ancora tornato. Ecuador. Carceri in mano alle gang. La battaglia delle madri per sapere dei figli di Elena Basso La Repubblica, 20 agosto 2023 Dal 2019 nei centri di detenzione del Paese sono stati uccisi più di 600 persone: torturate a morte dai capi banda durante le lotte per il potere fra gang rivali. A volte ai familiari viene consegnato solo un braccio, altre volte un piede o un sacco con diversi parti del corpo. Non sanno se appartengano davvero al proprio familiare, è difficile stabilirlo, ma non possono fare altro che andare a casa e seppellirlo. Da anni ormai lo Stato ecuadoriano ha perso il controllo delle proprie carceri, a comandare all’interno sono bande criminali legate al narcotraffico che hanno sempre più potere nel piccolo Paese latinoamericano. Dal 2019 dentro alle carceri dell’Ecuador sono stati uccisi più di 600 detenuti: torturati a morte dai capi banda o massacrati durante le lotte per il potere fra gang rivali. Gli scontri possono durare per giorni e i detenuti uccisi sono decine, a volte centinaia. I parenti dei detenuti comuni, cittadini che non sono legati al narcotraffico, vengono avvertiti da chi abita vicino al carcere quando c’è uno scontro. Le guardie carcerarie si rifiutano di entrare e non sanno dire ai familiari che accorrono davanti al carcere se i loro cari siano vivi. Molto spesso lo scoprono guardando i video del massacro pubblicati online dai capi banda: sono tante le madri che hanno scoperto dell’uccisione del figlio vedendo il suo corpo squartato in un frammento di video. Domenica 20 agosto in Ecuador si terranno le elezioni presidenziali e lo scorso 9 agosto la notizia dell’uccisione del candidato Fernando Villavicencio, freddato da un gruppo di sicari, ha fatto il giro del mondo. Ma l’ondata di violenza cresce nel Paese latinoamericano ormai da anni: i cartelli della droga hanno espanso incredibilmente il loro potere e l’Ecuador è diventato il Paese da cui parte più cocaina verso l’Europa, superando di gran lunga Colombia e Brasile, mentre le carceri del Paese negli ultimi anni sono diventati i principali “luoghi di lavoro” dei narcotrafficanti. Nelle prigioni cercano nuovi membri (o li obbligano a farne parte), pianificano omicidi all’esterno, combattono le gang rivali e, soprattutto, dimostrano la totale inefficienza dello Stato nel combatterli. “Quello che accade nelle carceri è uno dei fenomeni più preoccupanti - sostiene Madelein Penman, ricercatrice di Amnesty International in Ecuador - E non danneggia solamente i detenuti, ma anche migliaia di familiari che vivono sapendo che il loro caro può essere ucciso da un momento all’altro”. Jaime Yépez, detenuto schizofrenico, è stato ucciso il 23 febbraio del 2021 durante uno scontro fra gang. Era detenuto alla Penitenciaría del Litoral, il carcere più pericoloso di tutto il Paese. “Quel giorno sono morti 79 prigionieri. Nonostante fosse mio figlio, non mi hanno avvisata della sua morte fino all’8 di marzo, anche se chiedevo tutti i giorni alle guardie carcerarie se fosse vivo”, sostiene la madre di Jaime, Mercedes Vallejo. Lenin Riofrio invece aveva 22 anni e si trovava nella stessa prigione per aver rubato un cellulare, quando è stato massacrato durante uno scontro avvenuto il 28 settembre del 2021. “Sarebbe uscito di prigione il mese dopo - denuncia sua madre Mayra Rosado - Io cercavo il suo nome ovunque: nella lista dei vivi non c’era, nemmeno in quella dei feriti o dei morti. Nessuno mi aiutava a trovarlo. Sono riuscita a scoprire solo giorni dopo che il corpo di mio figlio si trovava all’obitorio”. Dal momento in cui un detenuto entra in carcere, arrestato magari per il furto di una borsa o per aver partecipato a una rissa, finisce nelle mani delle bande criminali legate al narcotraffico. Per avere un posto letto i familiari devono pagare subito 600 dollari, 25 settimanali per poter ricevere chiamate e altre decine di dollari per il cibo o qualsiasi genere di prima necessità. Così le famiglie devono pagare alle gang una media di 100 dollari a settimana, in un Paese in cui lo stipendio medio non arriva a 300 dollari. Chi non paga viene torturato con qualsiasi sevizia e con la corrente elettrica e, la maggior parte delle volte, giustiziato. Il 30 aprile del 2022 i familiari dei detenuti uccisi hanno formato il Comité de Familiares por Justicia en Cárceles e lo scorso aprile hanno fatto causa allo Stato ecuadoriano. Oggi a farne parte sono 36 persone, soprattutto madri. “Quando accompagniamo i familiari dei detenuti davanti al carcere per sapere se i prigionieri sono vivi o morti, le guardie carcerarie ci attaccano fisicamente o con l’uso di gas lacrimogeni”, testimonia Billy Navarrete, uno dei più conosciuti attivisti del Paese che forma parte del Comitato permanente per la difesa dei diritti umani. La portavoce dell’associazione dei familiari dei detenuti uccisi è Ana Morales, 41 anni, che vive nella città costiera di Guayaquil. Suo figlio Miguel López, è stato arrestato a soli 21 anni. Era appena cominciata l’epidemia da Covid-19, Ana era stata licenziata e lui, appena diplomato, aspettava la sua prima figlia. “Non avevamo i soldi per mangiare”, ricorda oggi la donna. Il 28 settembre del 2021 un’amica di Ana che lavorava di fronte al carcere l’ha avvisata che si sentivano dei colpi di mitraglietta e urla provenienti dalla prigione. Ana si è precipitata davanti al carcere e, con altri familiari, ha chiesto alle guardie carcerarie di entrare per fermare il massacro. “Ci ridevano in faccia - dichiara - E ci dicevano di lasciare che si ammazzassero fra di loro”. Ore dopo sui social è comparso un video caricato da uno dei capi delle gang che comandavano in quel carcere, i familiari hanno iniziato a guardare a turno il cellulare col video. Mentre passava di mano in mano, sono state molte le madri che sono cadute a terra disperate: avevano riconosciuto, fra quei corpi massacrati ed esibiti sui social, il cadavere del proprio figlio. “I nostri figli erano esseri umani - dice Ana commossa - anche se non sono stati trattati come tali. Io non sapevo che fare con tutto quel dolore, non si dovrebbe mai perdere un figlio, soprattutto così. Oggi chiedo giustizia e lotto perché la situazione in carcere cambi e perché nessun’altra madre debba vivere quello che ho passato io”.