Lo Stato moralizzatore e il confine del diritto penale di Massimo Donini L’Unità, 1 agosto 2023 Dal decreto “anti-rave” al decreto “Cutro” per perseguire gli scafisti in tutto il mondo, al reato “universale” di maternità surrogata, l’azione dell’attuale maggioranza sembra orientata da spinte emotive del momento e improntata su valori nazionali, familiari e securitari. Dov’è l’annunciata svolta liberale? Due modelli politici e culturali illustrano le tendenze legislative in materia penale. La definizione dell’etica pubblica attraverso il diritto. Accade spesso che la legge penale sia usata sempre più come sostitutivo dell’etica pubblica, per introdurre o rafforzare nuove regole di condotta e renderle così davvero cogenti, in quanto una qualsiasi possibile trasgressione ha bisogno della sanzione più stigmatizzante per essere presa sul serio: “se non è penale si può commettere”. Infatti, tutte le morali tradizionali (cattolica, laica, liberale, socialista-solidarista, comunitaria etc.) sono etiche private di fronte allo Stato. L’unica etica pubblica rimasta è il diritto, che unisce mediante regole davvero “comuni” i diversi suoi destinatari, che sono magari tra di loro “stranieri morali” l’uno all’altro: pensiamo alla bioetica, al fine vita, alla tutela dell’embrione, all’aborto etc.: quando subentra alla bioetica, il biodiritto deve offrire una disciplina che, privilegiando anche soluzioni più orientate in una direzione, consenta alle opposte visioni la libertà di esprimersi: per es. l’aborto liceizzato non obbliga nessuno a praticarlo, e lo stesso vale per l’eutanasia, che fra l’altro non sacrifica persone innocenti, ma solo il titolare del bene che vi rinuncia. Il diritto, dall’illuminismo in poi, si dice che (e non è detto che ciò sia sempre vero) nella sua laicità non obbliga in coscienza, ma solo al rispetto esteriore di precetti ai quali le condotte siano conformi. Ma allora come si ottiene che i precetti vengano osservati: solo con la paura? Effettivamente il ramo dell’ordinamento più temibile del sistema è quello penale, e in sua assenza molti pensano che tutto si possa commettere pagando un prezzo, come un risarcimento, o una sanzione di natura amministrativa. Invece lo stigma e le conseguenze penali destano apprensione. Il diritto penale esprime un vero prohibiting, un divieto non patteggiabile, perché se si tratta di regole pur sempre aggirabili “pagando una sanzione” quasi che fosse un onere, come nel diritto civile o amministrativo, la Kulturnorm di riferimento non è avvertita come così cogente. Là è sempre un pricing che viene in gioco. Nel penale no, l’imperativo appare più “categorico”, ma proprio per questo più vicino alla morale, a un’etica pubblica, tuttavia non veramente coscienziale. Muovendo da queste premesse “socio- politiche” è cresciuto nel tempo il molo delle concezioni della pena di tipo espressivo: la pena serve ad esprimere nella coscienza collettiva il sentimento di biasimo verso la violazione della norma o il disvalore dei fatti vietati e commessi, ma anche per orientare i consociati e lo stesso autore dell’illecito, al fine di un riconoscimento dei valori protetti. Non è uno strumento orientato a cause e risultati, ma orientato a uno scopo. Già questo fatto giustificherebbe la sanzione. Gli altri obiettivi (rieducazione, risocializzazione, prevenzione effettiva) restano tendenziali. La punizione per la sua inosservanza avrebbe perciò uno “scopo autonomo” di rafforzamento del precetto, al di là dei risultati, della loro empirica verifica, che in realtà non è veramente misurabile. Queste forme di “eticizzazione” del rapporto con le norme giungono a postulare presso alcuni sostenitori della c.d. prevenzione generale positiva “integratrice” che il fine della pena e del diritto penale consista nel ristabilimento dei precetti, nell’educazione alla fedeltà all’ordinamento. Oppure che tutto l’apparato punitivo sia esso stesso parte di un complessivo orientamento culturale ai valori. Il modello di Licòfrone. Le “norme” in una concezione liberale. Le concezioni liberali sono opposte a questa visione molto “communitarian”. Oggi la ragione pubblica è molto, troppo spesso declinata in termini penalistici, partendo dalla tabuizzazione di comportamenti interdetti davvero solo se criminalizzati. Di qui la ineludibile centralità del discorso penale nella cultura quotidiana, il valore “costituente” del penale. Contro questa tendenza va ricordato che la società è “aperta”, e non totalitaria, perché osserva il modello “contrattualistico” di Licòfrone. Licòfrone era un sofista minore, del IV secolo a.C., allievo di Gorgia. Un passo della Politica di Aristotele (Aristotele, Politica, libro III. 1280 b 8) lo ha, non sappiamo se meritatamente (sul contrattualismo di Licofrone R.G. Mulgan, Lycophron and Greek Theories of Social Contract, in “Journal of History of Ideas”, XL, 1979, 121 ss.), consacrato come sostenitore del contratto sociale (bottom up), opposto alle visioni più “statalistiche” (top down) della fonte del diritto: il contratto non è fonte di una giustizia intrinseca, “non rende buoni e giusti i cittadini”, ma ha natura convenzionale. Questa visione demitizza immagini troppo sacrali della giustizia, che tendono a essere sempre particolarmente autoritarie (cfr K. Popper, The Open Society and its Enemies (1966), tr it. La società aperta e i suoi nemici, Armando, 1998, vol. I, 148 ss.): la concezione contrattualista si oppone a quella dello Stato educatore, che appare illiberale. Secondo un’interpretazione liberale, lo Stato non è educatore, né uno Stato etico (un modello che da Platone passa attraverso Hegel, e da noi Gentile), ma uno Stato che protegge beni e persone (anche) dal crimine, senza tuttavia volere educare mediante le pene. Solo lo Stato che ri-nasce da un contratto assicura ai singoli contraenti un valore originario che non potrà. dissolversi nell’organismo totalitario del diritto pubblico. Il prezzo di questa libertà è che non esistono “verità di Stato”. Anche le sentenze dei giudici, per es., non accertano tali verità quando si occupano di grandi fenomeni (mafia, terrorismo etc.), perché non devono scrivere la storia generale, ma accertare singole responsabilità. Quando però la ragione pubblica diventa penalistica ed etica mediante un programma di moralizzazione, dove il contratto sociale è riempito prima dal legislatore come educatore e poi dal potere giudiziario come braccio armato dei precetti, ma per criminalità, si profila una dimensione illiberale del progetto. La stessa razionalità del disegno ne esce alterata: nato come extrema ratio rispetto all’efficacia preventiva delle sanzioni extrapenali, il diritto penale ritorna prima ratio per tutelare le stesse norme-precetto, più che per prevenire eventi e fatti lesivi. Il penale può persino diventare una religione di massa, criterio di tutti i valori e disvalori. Questa dialettica, tra nonne di fonte sociale, oppure di fonte statale alla base della legge più autoritaria come quella penale, accompagna senza sosta il nostro discorso, ma non è possibile risolverla eliminando uno dei due termini del conflitto ideologico. Sarebbe preferibile che la società avesse una propria etica condivisa: ma, se ciò non accade, lo Stato deve intervenire. Come fotografare tale dialettica nell’immediato presente? Il governo introduce con decreto-legge un reato “universale” dove la morte non voluta anche di una persona, unita almeno a lesioni gravi a un’altra persona, è punita fino a trent’anni di reclusione, più di un omicidio doloso, se realizzata nell’ambito di un’attività anche solo di trasporto e ingresso illegale di stranieri mettendo in pericolo la incolumità dei trasportati. Il governo, parimenti, progetta di rendere perseguibile ovunque sia commesso nel mondo il reato, già punibile oggi a richiesta del Ministro della Giustizia se commesso all’estero, di maternità surrogata (utero in affitto): se fosse un “reato universale” si dovrebbero punire gli stranieri (per es., ucraini, inglesi, americani) che lo realizzino anche nei loro territori dove è permessa la maternità surrogata (come accade per la tratta di esseri umani, la pirateria o il genocidio). L’aberrazione di questo esito ha fatto correggere il progetto, ora approvato alla Camera, limitando la pena ai soli cittadini italiani che lo commettano all’estero. Ma allora si tratta di un reato nazionale, non certo universale, punito secondo il criterio della nazionalità. Sarà così uno “statuto personale” a seguire il cittadino nel mondo, come nel Medioevo: l’esatto contrario della universalità, tanto sbandierata in funzione simbolico-espressiva . Sempre il governo annuncia di ridurre ulteriormente, invece, gli spazi del reato di abuso di ufficio (art. 323 c.p.), già oggi praticamente ricorrente in modo esiguo in sentenze definitive di condanna dopo la drastica riforma del 2020, quanto alle ipotesi di favoritismo, ma contestato ancora spesso, e dunque più minacciato che applicato. L’abrogazione secca da un lato appare simbolica, ma dall’altro ci renderebbe tutti più esposti alle prevaricazioni della P.A. (cfr L’Unità, 22 giugno 2023): una delle tipologie di illeciti oggi rientranti nel reato, e di cui troppo poco il governo pare avvertito. Sul piano delle scriminanti, poi, abbiamo appreso dal Comitato nazionale di bioetica (sollecitato dal governo) che il rifiuto di alimentazione forzata espresso da un detenuto in piena lucidità, durante lo sciopero della fame, e prima di una eventuale perdita di coscienza, potrebbe essere neutralizzato dalla facoltà del sistema di intervenire per salvare il detenuto da una compromissione finale della sua vita: ciò che costituisce l’esatto contrario del principio basico delle DAT (testamento biologico), vale a dire il rispetto della volontà di rifiuto di ogni terapia salvavita, se espresso in forme proceduralizzate, prima della perdita di coscienza o della capacità di intendere e di volere. Ci vorrà tempo per una valutazione della politica criminale e dei diritti complessiva della attuale maggioranza, senza far cenno adesso agli aspetti processuali: è nominata una commissione per la riforma dell’intero codice. Fin da ora, tuttavia, dopo i primi vagiti penalistici del decreto anti-rave, emerge una linea di intervento orientata da spinte emotive del momento e da una ripetuta narrazione ideologica a sostegno di valori nazionali, familiari, della sicurezza pubblica e della tradizione. Una ideologia simbolica e nazionalista. In attesa di una diversa svolta di ispirazione “liberale” (salvo vedere se per tutti, o per certi tipi d’autore), possiamo dire che la legislazione attuale conserva la tendenza verso un diritto penale come etica pubblica e una concezione “espressiva” della pena, mentre propaganda una visione più liberale e contrattualistica delle regole. Appartengono a quest’ultima l’idea (generica) di depenalizzare vari reati, quella più concreta di diminuire il controllo di legalità della magistratura su politica, P.A. e impresa, nonché di svincolare l’azione penale dall’idea ingestibile dell’obbligatorietà, che la rende effettivamente funzionale solo a un programma di eticizzazione coatta. Quanto questa dialettica interna alla maggioranza sia manifestazione di un garantismo dei potenti o delle élites, o davvero costituzionale e pluralista, è presto per dirlo. Giustizia, deserto in tribunale: manca un quarto del personale di Francesco Grignetti La Stampa, 1 agosto 2023 Tra i magistrati quasi 1.500 unità in meno. Nel 2022 bocciato il 95% degli aspiranti. Un piccolo segnale di ottimismo, ieri alla Camera: viene votato, con parere favorevole del governo, una proposta dei Cinque stelle, firmata dall’ex magistrato Federico Cafiero De Raho, che chiede più concorsi e più assunzioni nella Giustizia. Sia di personale amministrativo, sia di magistrati. “I problemi della giustizia si risolvono con gli investimenti, non con le leggi per l’impunità”, dice Cafiero De Raho. Parole ineccepibili. Ma il problema è qui e ora. Ed è una catastrofe. “Non bisogna essere esperti di scienza delle organizzazioni per comprendere che senza risorse umane, strumentali e finanziarie adeguate non si possono ottenere buoni risultati. Per molti anni si è praticata una linea di intervento sulla giustizia affidato a riforme a costo zero. Per decenni le assunzioni di personale sono rimaste bloccate”, denunciava Pietro Curzio, presidente della Cassazione, all’inaugurazione dell’ultimo anno giudiziario. I vuoti in organico sono talmente clamorosi, infatti, che c’è poco da meravigliarsi se le performance del processo in Italia sono pessime. Siamo la pecora nera d’Europa. Giusto per ricordare qualche numero: nelle cancellerie manca il 25% del personale e il buco si allarga dato l’alto tasso di pensionamenti; quanto ai magistrati, a fronte di un organico di 10.558 unità, risulta scoperto il 13,7% dei posti. In sostanza mancano 1.458 magistrati rispetto alle piante organiche, già sottostimate in partenza. Uno dei problemi atavici è che i concorsi per magistrati sono complessi e lentissimi. Ne è perfettamente consapevole il ministro Carlo Nordio. Il quale ripete ad ogni occasione: “Dalla pubblicazione del bando al conferimento della toga, se tutto va bene, passano 4-5 anni. La filiera burocratica rappresenta un forte impedimento”. Non soltanto i tempi sono lunghissimi. Ma capita regolarmente che non siano coperti nemmeno tutti i posti a disposizione. Si lamenta a tutti i livelli che la preparazione dei candidati è scarsa. E di sicuro c’è il problema, terribilmente concreto, che i neolaureati in giurisprudenza non sono pratici in prove scritte. Qualche mese fa, all’ultimo concorso per magistrati, su 6.661 concorrenti sono stati 3.513 quelli che si sono tirati indietro alla terza prova e non hanno consegnato alcun elaborato; soltanto in 3.147 hanno consegnato. Una sorta di caporetto. Al penultimo concorso, nel 2022, hanno bocciato il 95% dei candidati perché non sapevano né elaborare né comprendere un testo scritto: su 3.800 candidati alla fine sono passati appena in 220. E 90 posti a disposizione sono restati scoperti. In quella commissione d’esame c’era Luca Poniz, magistrato a Milano ed ex presidente dell’Anm: “Centinaia - raccontava - erano i temi imbarazzanti, in un italiano primitivo, senza alcuna logica argomentativa, quasi non valutabili, privi dei requisiti minimi, con refusi ed errori, concettuali e di diritto. Viene da chiedersi come sia possibile a questi livelli”. Il problema a questo punto è diventato un’emergenza anche dell’Associazione nazionale magistrati. “Abbiamo deciso - racconta il presidente Giuseppe Santalucia - di fare incontri, in vista di collaborazioni future, tra l’Anm e alcune università, perché è un problema strategico la formazione negli atenei dei futuri magistrati”. È un tale dramma, l’inesorabile allargamento dei buchi di organico dei magistrati, non risolvibile con alcuna scorciatoia, che su questo tema si registra la prima convergenza tra Anm e ministro, altrimenti ai ferri corti su tutto. L’associazione aveva proposto di moltiplicare le commissioni per velocizzare gli esami e di affidarsi all’informatica. Ed ecco che Nordio ha fatto un esperimento in un recentissimo piccolo concorso per magistrati, limitato alla provincia di Bolzano dove occorre essere bilingui. “È un esperimento pilota con l’assunzione di magistrati attraverso concorsi telematici”, ha spiegato il ministro. In pratica la prova scritta si fa via tablet e non con il tradizionale foglio di carta. Si vedrà se questo favorisce i tempi di esame da parte dei commissari. Il ministro ha promesso all’Anm una velocizzazione del concorso in magistratura a partire già dal prossimo, con la digitalizzazione massiccia anche per la formazione dell’elaborato scritto e della correzione. Con Marta Cartabia qualcosa era già cambiato: il concorso si fa solo con laurea e senza sottostare a un tirocinio obbligatorio, la commissione d’esame era stata suddivisa in più sottocommissioni per aumentare il numero dei magistrati-esaminatori, e c’era la possibilità per i membri di commissione di chiedere un’aspettativa così da dedicarsi a tempo pieno alla correzione. Naturalmente, più magistrati messi a fare i concorsi significa meno magistrati in prima linea. Ma tant’è. Sveltire i concorsi a questo punto è la priorità delle priorità. Nordio, intanto, ha lanciato anche qualche frecciatina ai suoi ex colleghi perché “troppo esigenti” agli esami. Di contro, Santalucia ci tiene a ribadire che “sarebbe un grave errore scendere sotto certi standard. Il magistrato che vince il concorso deve essere all’altezza delle aspettative che lo Stato ripone in lui. Sarebbe inaccettabile il lassismo. E peggio ancora sarebbe ipotizzare vie di aggiramento del concorso”. Considerando il potere che lo Stato dà ai magistrati, civili o penali, difficile dargli torto. Ufficio del processo, un flop costoso di Paolo Pandolfini Il Riformista, 1 agosto 2023 Doveva essere la panacea per gli atavici problemi della giustizia italiana, ad iniziare dalla lentezza dei processi, ed invece si sta rivelando uno dei flop più clamorosi e costosi degli ultimi anni. Stiamo parlando dell’Ufficio del processo, la task force che avrebbe dovuto affiancare i giudici per agevolarli nella scrittura delle sentenze così da abbattere l’arretrato e permettere all’Italia di ottenere gli agognati fondi del Pnrr. A regime dovevano essere assunti, con contratto a termine di tre anni ed uno stipendio netto di circa 1700 euro al mese, ben 16mila giovani neolaureati. Numeri mai raggiunti a causa di defezioni continue. Alla fine dell’anno scorso, ad esempio, i componenti dell’Ufficio del processo erano 11mila. Adesso sono poco più di 9mila. Ma il loro numero è destinato a scendere nei prossimi mesi. Che l’Ufficio del processo non avrebbe funzionato lo ricorda l’ex componente laico del Consiglio superiore della magistratura Stefano Cavanna, avvocato d’impresa e molto vicino all’attuale ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. “Era il 2021 e fummo chiamati a via Arenula dove fu illustrato al Comitato paritetico sull’organizzazione degli uffici, di cui facevo parte come componente della Settima commissione del Csm, la soluzione che il Ministero aveva individuato per abbattere l’arretrato nei tribunali”, sottolinea Cavanna. “Il piano - prosegue - era incentrato sull’assunzione di questi 16mila neolaureati, non solo in giurisprudenza ma anche in economia, informatica e scienza politiche, che avrebbero dovuto aiutare i magistrati a `scrivere il fatto della sentenza’ e che avrebbero `drogato la macchina’ per tre anni e poi sarebbero stati mandati a casa”. “Io strabuzzai gli occhi, insieme agli altri presenti, e chiesi: `Scusate, non pensate che sia un po’ difficile che un neolaureato in economia (ricordando come ero io neo laureato in giurisprudenza con 110 e lode ma privo di qualsiasi idea concreta di cosa significasse lavorare) possa scrivere adeguatamente ‘il fatto di una sentenza’ considerando che la ricostruzione del fatto, come insegnavano i grandi avvocati, è certamente la parte centrale e più importante della decisione? E poi, chi formerà questi ragazzi per poi doverli licenziare dopo meno di tre anni? Non pensate che sarà difficoltoso il reclutamento nel Nord Italia dove già il fenomeno è presente drammaticamente per il personale amministrativo pur riferendoci a lavoro a tempo indeterminato?’. Chiesi poi se qualcuno avesse pensato al rischio di rivendicazioni sindacali, secondo me giuste, al termine del periodo di impiego previsto”, aggiunge Cavanna. “Non ci fu data alcuna risposta soddisfacente e l’Ufficio del processo passò anche se il Csm aveva espresso criticità al riguardo”, conclude laconicamente l’ex laico del Csm. La conseguenza di quella scelta frettolosa ha costretto la settimana scorsa il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto ad annunciare che il target della riduzione del 65 percento delle cause pendenti entro il 31 dicembre dell’anno prossimo, concordato con Bruxelles, sarà impossibile da raggiungere. Anzi, in ben 45 tribunali - fra cui i più importanti del Paese, Bologna, Milano, Roma, Napoli - l’arretrato invece di diminuire starebbe addirittura aumentando. Una beffa. Eppure il Piano era chiaro: la lentezza processi, ritenuta “eccessiva”, deve “essere maggiormente contenuta con interventi di riforma processuale e ordinamentale”. “A questi fini - si poteva leggere nella nota inviata alla Commissione europea - è necessario potenziare le risorse umane e le dotazioni strumentali e tecnologiche dell’intero sistema giudiziario”. Il “fattore tempo” doveva però essere affrontato tramite riforme tecnico-processuali, e quindi a costo zero. Le risorse stanziate per il comparto giustizia furono così destinate esclusivamente alla creazione dell’Ufficio per il processo da intendersi come “un team di personale qualificato di supporto, per agevolare il giudice nelle attività preparatorie del giudizio”, quali “ricerca, studio, monitoraggio, gestione del ruolo, preparazione di bozze di provvedimenti”. Niente di specifico venne dedicato, invece, alla digitalizzazione dei tribunali. A distanza di due anni aver puntato tutto sull’Ufficio del processo si è rivelato allora fallimentare. L’attività del giudice ordinario, esame del fatto, applicazione del diritto, motivazione dei provvedimenti, non è quella del giudice della Corte costituzionale, da dove veniva la ministra Marta Cartabia, la prima fautrice dell’Ufficio del processo. Alla Consulta il giudice può anche fare il supervisore dei suoi assistenti di studio a cui delegare tronconi della propria attività (a un componente dello staff l’istruttoria, a un altro la ricerca giuridica, a un altro ancora la scrittura della bozza del provvedimento) per poi compiere egli la sintesi finale. Nei tribunali è diverso. Anche perché i ritmi di lavoro non sono confrontabili. “L’ufficio del processo? Io preferisco chiamarlo `ufficio del paggetto’, dove i suoi componenti vanno a fare le fotocopie per i magistrati”, aveva detto lo scorso anno, quando era all’opposizione, Andrea Delmastro, attuale sottosegretario alla Giustizia e plenipotenziario di Giorgia Meloni a via Arenula. Toccherà ora a Carlo Nordio riscrivere il Piano. Una nuova grana per il ministro della Giustizia di cui nessuno sentiva certamente il bisogno in questo momento. Abuso d’ufficio, cancellazione a rischio: “Nessuno a Palazzo Chigi vuole immolarsi” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 1 agosto 2023 Si va verso una tipizzazione del reato, la cui abrogazione, in maggioranza, è invocata ormai solo da Forza Italia. Non sarà affatto facile per il Guardasigilli Carlo Nordio portare a compimento la riforma della giustizia. I segnali che arrivano in questi giorni di caldo torrido dai Palazzi romani non sono infatti dei migliori. Ieri mattina, ad esempio, il testo della riforma, approvato il 15 giugno scorso dal Consiglio dei ministri, non era ancora depositato in Commissione giustizia al Senato, dove è prevista la sua discussione. Gli esperti di dinamiche parlamentari non ricordano un tempo così lungo per incardinare un disegno di legge governativo. Il “problema” sarebbe l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, il reato “evanescente” come ha sempre dichiarato Nordio, che rischia di complicare fin da subito ogni progetto riformatore. Se le opposizioni, tranne Italia viva, sono compatte nel non volerne l’abrogazione, il discorso è molto diverso nella maggioranza di governo. Forza Italia è per la sua cancellazione totale, Lega e Fratelli d’Italia sono invece più riflessivi. Il partito della premier Giorgia Meloni, in particolare, in questo momento non ha alcuna intenzione di andare allo scontro con la magistratura, contrarissima ad ogni ipotesi di abrogare il reato, e quindi con il Quirinale. Per quanto riguarda le toghe, durante una recente audizione il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo aveva sottolineato che “il venir meno della possibilità di sanzionare condotte abusive rappresenterebbe un vulnus agli obblighi internazionali sottoscritti dall’Italia in tema di corruzione con la convenzione di Strasburgo”. Melillo era stato molto critico la classe politica, ricordando che gli amministratori che lamentano “la paura della firma” sono quelli che governano, “quelli che invece passano all’opposizione sono spesso i promotori delle denunce che sollecitano l’intervento del giudice”. In altre parole, la battaglia politica viene ormai fatta a colpi di denunce. Molto critico era stato anche Danilo Ceccarelli, vicecapo della Procura europea. “L’abrogazione tout court dell’abuso d’ufficio non sarebbe conforme alla normativa internazionale ed europea”, aveva ricordato il magistrato, aggiungendo che questa fattispecie di reato esiste in 20 dei 22 Stati che aderiscono alla Procura europea. L’abolizione del reato andrebbe anche nella direzione opposta a quella indicata dalla Commissione europea nella proposta di direttiva sulla lotta alla corruzione. Senza contare, poi, un parere autorevole come quello del professore Gian Luigi Gatta, consigliere giuridico della ministra Marta Cartabia, secondo il quale l’abrogazione dell’abuso d’ufficio lascerebbe “intollerabili e irragionevoli vuoti di tutela”, come quello, individuato dalla Cassazione, che riguarda i casi di chi turba i concorsi pubblici. Con queste premesse, nessuno a Palazzo Chigi ha voglia di immolarsi per il classico reato dei colletti bianchi e dunque della vituperata casta. “Il nostro elettorato non capirebbe”, dice un parlamentare di Fd’I che vuole rimanere anonimo. A via Arenula, allora, per evitare l’impasse si starebbe lavorando ad una mediazione che troverebbe sponde anche in Parlamento. Non più abolizione tout-court, come vuole Nordio, ma una maggiore e più dettagliata “tipizzazione” delle condotte penalmente rilevanti. In soccorso potrebbe arrivare la giurisprudenza della Corte di Cassazione che si va man mano consolidando. Il procuratore generale Luigi Salvato, anch’egli intervenuto sul punto, ha precisato che l’ultima formulazione del reato, quella del 2020, ha escluso la configurabilità del delitto qualora “la condotta del pubblico ufficiale costituisca espressione di discrezionalità amministrativa o anche tecnica, richiedendo la violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa fissate dalla legge, specificamente disegnate in termini completi e puntuali”. Secondo Salvato, l’attuale formulazione “ha ritenuto irrilevante l’eccesso di potere, sotto forma di sviamento, laddove il potere risulti caratterizzato dalla presenza di margini di discrezionalità” e “ha ritenuto irrilevante la violazione delle norme solo procedimentali, come l’adozione di un provvedimento recante una motivazione incompleta ovvero insufficiente, in violazione del generico obbligo di motivazione”. La tesi di Salvato è corroborata dai numeri: nel 2022 c’è stato l’80 percento di archiviazioni. Le condanne, l’anno prima, erano state una ventina circa. In questa partita il calendario avrà comunque un ruolo determinante in quanto la discussione si preannuncia lunga e complessa. Pur non essendo stato ancora depositato il testo della riforma in Commissione giustizia a Palazzo Madama, c’è già una lunga lista di emendamenti che attendono il via libera. La presidente della Commissione Giulia Bongiorno (Lega) ha già fatto sapere informalmente che non ci saranno voti a scatola chiusa. Viste le scadenze autunnali, con la difficile legge di Bilancio da approvare, tutto fa presagire che si arriverà con calma ad una sintesi che accontenti tutti, ad iniziare proprio da Nordio. La politica recuperi l’etica pubblica e non scarichi sulle toghe le sorti dei suoi di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 1 agosto 2023 I legislatori decidano dove fissare l’asticella dell’etica pubblica: possono attivare un giudizio di responsabilità politica anche per fatti che non hanno rilevanza penale. In un corso della Scuola Superiore della Magistratura Anna Maria Testa, grande esperta di comunicazione, in un breve efficacissimo intervento videoregistrato ci ammoniva: “In comunicazione non esiste “Tu non mi hai capito”, c’è solo: “Io non mi sono spiegato, mentre avrei avuto la responsabilità, da comunicante, di farmi capire”. Da almeno trent’anni, in saggi su riviste giuridiche, libri, interventi in convegni e contributi giornalisti affronto il tema “responsabilità penale/responsabilità politica”. Da ultimo ho svolto alcune considerazioni al riguardo su La Stampa del 27 luglio. In quest’ intervento evidentemente non mi sono spiegato, se su questo giornale l’ottimo Errico Novi il 29 luglio mi ha rivolto una garbata critica sotto il titolo “Caro dottor Bruti Liberati, perché affidare alla stampa il potere di rovinare la carriera dei politici?”. E allora chiedo ospitalità per cercare di raccogliere l’insegnamento della cara amica Anna Maria Testa. Provo a spiegarmi meglio. In sintesi tre punti. 1. Non intendo affidare alla stampa il potere di rovinare la carriera dei politici. 2. Non io, ma la tradizione liberaldemocratica affida alla stampa il ruolo di controllo sull’esercizio di chiunque eserciti un potere pubblico. La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha qualificato la stampa come “cane da guardia della democrazia”. Il giudice Hugo Black nella sua “opinione concorrente” della sentenza della Corte Suprema USA New York Times Co. v. United States, 403 U.S. 713 (1971) scrive: “La stampa è al servizio dei governati e non dei governanti. Soltanto una stampa libera e senza limitazioni può svelare efficacemente l’inganno nel governo”. Una presa di posizione forte, tanto più perché adottata nel pieno della guerra del Vietnam: si trattava della pubblicazione di documenti riservati “Pentagon papers”. Questo ruolo della stampa è così sentito negli Stati Uniti, da essere trasmesso al grande pubblico con i film. Alla vicenda dei “Pentagon papers” si ispira il film The Post del 2017, diretto da Steven Spielberg con protagonisti Meryl Streep e Tom Hanks. La battura finale di Humphrey Bogart nel film L’ultima minaccia (titolo originale Deadline, 1952) diretto da Richard Brooks “È la stampa, bellezza! La stampa! E tu non ci puoi far niente! Niente!” ha assunto un significato di principio, oltre l’occasione specifica in cui è pronunziata. 3. Nelle democrazie è la politica che si assume la responsabilità politica, il “potere” di valutare se dati di fatto pubblicati dalla stampa, da inchieste giornalistiche comportino la “rovina” di una carriera politica, prima, a prescindere e indipendentemente da un’indagine penale, che talora può addirittura non esserci, perché si tratta di fatti e comportamenti ritenuti disdicevoli, ma che non costituiscono reato. Il presidente Nixon si dimette, anticipando una richiesta di impeachment, a seguito dell’inchiesta giornalistica sul caso Watergate. Karl-Theodor zu Guttenberg, già segretario generale del partito Csu, Ministro tedesco della difesa, nel 2011 si dimette da ogni incarico dopo che sulla stampa è stato segnalato il plagio di brani nella sua tesi di dottorato in diritto internazionale di qualche anno prima. Nei confronti di Christian Wulff, già presidente del partito Cdu, ora Presidente della Repubblica Federale Tedesca il 16 febbraio 2012 la procura di Hannover chiede la revoca dell’immunità prevista per il capo dello Stato in relazione ad una indagine per un finanziamento di 500.000 euro con un mutuo a tasso agevolato del 4%, che Wulff avrebbe ottenuto da un amico imprenditore, per la realizzazione di un appartamento in Bassa Sassonia, in cambio di favori. Il giorno dopo si dimette: il 27 febbraio 2014 è stato assolto dal Tribunale di Hannover dall’accusa di corruzione. Helmut Kohl, presidente onorario del partito Cdu, artefice della riunificazione tedesca, si dimette da ogni incarico quando nel 2000 emergono cospicui finanziamenti che aveva ricevuto in nero per la sua carriera politica. È noto quanto abbia giocato nella “rovina” politica di Boris Johnson la notizia diffusa dalla stampa della festicciola svolta a Downing Street in piena emergenza Covid: nessun rilievo penale per il Partygate, semmai alto tasso alcolico. Occorre distinguere con grande cura tra criteri e regole della responsabilità penale e quelli della responsabilità politica. Il codice penale e quello di procedura penale raccolgono e precisano i principi di una tradizione di civiltà: In dubio pro reo. Con la modifica adottata nel 2006 l’art.533 al comma 1 prevede: “Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputati risulta colpevole del reato contestato al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ancora: l’inutilizzabilità processuale di elementi di prova decisivi per la condanna, ma illegittimamente acquisti, porta alla assoluzione. Di più, il principio del ne bis in idem preclude la possibilità di riprocessare l’imputato assolto, quando successivamente emergano anche prove clamorose della sua colpevolezza. All’opposto il principio della intangibilità del giudicato deve cedere alla possibilità di revisione ove emergano prove di innocenza. Criteri e principi sacrosanti, spesso difficili da far comprendere alla pubblica opinione, sui quali dobbiamo sempre vigilare. Ma operano solo nel ben delimitato campo di applicazione della norma penale. Nessuno di questi criteri opera nel campo della responsabilità politica, ove, anzi, operano spesso criteri opposti. Se al di sopra di ogni sospetto deve essere la moglie di Cesare, a maggior ragione lo deve essere Cesare. Occorre che la politica si riappropri del suo ruolo, faccia un passo avanti e valuti comportamenti attribuiti a suoi esponenti secondo il metro dell’etica pubblica, indipendentemente e a prescindere dai profili penali. Sta alla politica decidere dove fissare l’asticella dell’etica pubblica: può attivare un giudizio di responsabilità politica anche per fatti che non abbiano rilevanza penale o all’opposto può non attivare questo giudizio di fronte a fatti penalmente rilevanti, ma ritenuti di non particolare gravità. Solo pochi anni addietro due governi tecnici hanno alzato e di non poco l’asticella del livello di etica pubblica: due ministre dimesse per casi di non particolare gravità. Nella vicenda che coinvolge una attuale ministra la confusione è totale. Laddove la politica, il governo, dovrebbe assumere la responsabilità “politica”, una valutazione autonoma sui fatti, il dibattito in Parlamento si è svolto come in una esercitazione degli studenti di un corso di procedura penale sul “certificato dei carichi pendenti”, sulla “informazione di garanzia” e infine sul “rinvio a giudizio”. Nel mio recente intervento non ho espresso opinione alcuna sul rilievo dei fatti “addebitati” dalla stampa ad una ministra. Ho invece preso atto della motivazione addotta dalla maggioranza: delegare sostanzialmente una scelta squisitamente politica, come lo è la nomina o la sfiducia per un ministro, ad una decisione della magistratura, il “rinvio a giudizio”, per di più in una fase iniziale della procedura giudiziaria. Apparentemente rispettosa della magistratura è una alterazione del rapporto politica giustizia. La vecchia saggezza popolare ammoniva: non mischiate le mele con le pere. Non “mischiamo” responsabilità penale e responsabilità politica, il confine va rigorosamente delimitato. La riforma della giustizia e la giustizia reale: tutto risolto? di Fabio Anselmo* Il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2023 Ci siamo lasciati alle spalle i giorni del ventiduesimo anniversario dei terribili fatti del G8 di Genova. I momenti più bui della storia recente della nostra democrazia perché vi sono stati annientati i diritti fondamentali dell’uomo, in nome di una millantata ragion di Stato cinica e nichilista che si doveva contrapporre, distruggendola, alla cultura rivoluzionaria dei movimenti no-global. La Giustizia genovese ha saputo restituire all’Italia verità e giustizia su quanto accadde, ancor prima di quella europea. La mancanza della previsione del reato di Tortura ha consentito ai responsabili di quei comportamenti criminali di godere della prescrizione. Lo Stato si è fatto da parte lasciandoli al loro posto ed in più di un caso, addirittura, consentendo loro avanzamenti in carriera. Il reato di tortura è stato poi finalmente introdotto anche grazie al sacrificio ed all’impegno di un’altra famiglia devastata dalla violenza di Stato. Oggi se ne reclama la sua abolizione per ragioni di opportunità tanto oscure quanto vergognose. I processi per la Diaz e Bolzaneto sembrano dimenticati. Quella Giustizia non esiste più. Anzi sembra aver avuto la prevalenza un sentimento espressivo di un debito di restituzione verso le istituzioni di appartenenza degli imputati riconosciuti colpevoli ma prescritti, per quei fatti gravissimi. Dopo Lorenzo Guadagnucci, un altro giornalista, colpevole soltanto di aver fatto il proprio lavoro è rimasto vittima di un feroce pestaggio ad opera di 4 agenti di Polizia. Stefano Origone, di Repubblica. Era il 23 maggio 2019: agghiaccianti sono state le sue parole nel ricostruire quanto vissuto. Non intendo ripeterle ma basti solo ricordare che, in quei momenti terribili, ha avuto paura di morire senza nemmeno saperne il motivo. Quel gruppo di agenti che infierì sul suo corpo inerme, lasciandosi andare ad atti inconsulti e vergognosi per le divise che portavano, se l’è cavata con una semplice multa: 2580 euro di pena pecuniaria e null’altro. Giustizia è fatta? Si tratta soltanto di un uso ‘sproporzionato’ della forza? Che vorrebbe dire, viceversa, proporzione? “La corrispondenza di misura fra due o più elementi in rapporto reciproco”. Quale forma di violenza sarebbe stata giustamente reciproca all’attività di cronista che Stefano Origone stava proprio in quel preciso contesto svolgendo? Nessuna. Ipocrisia di sistema. Ma Genova aveva registrato un altro drammatico fatto di cronaca verificatosi il 10 giugno 2018. Jefferson Tomala, padre di origine ecuadoriana di una bimba di soli 2 mesi, stava attraversando una brutta crisi psichiatrica. Minaccia l’omicidio della sua famiglia e si barrica con un coltello nella sua stanza dichiarando disperatamente di volersi uccidere. Ha solo 21 anni e si parla di sottoporlo ad un TSO. La madre chiede aiuto alla Polizia che interviene. Irrompe nella stanza di Jefferson usando su di lui lo spray al peperoncino. Il ragazzo si agita ancor di più e tenta di aggredire i poliziotti. Sono sei i proiettili che gli vengono sparati e la vita di Jefferson Tomala termina. La crisi psichiatrica viene così risolta. Lo sparatore veniva poi processato e assolto per legittima difesa. Giustizia è stata fatta? Le cronache di oggi parlano di una tombale richiesta di archiviazione fatta dalla Procura ligure per le note drammatiche vicende che hanno privato Antonella e Graziano Scagni dei propri figli. Il progressivo degenerare della malattia psichiatrica che affligge il loro primogenito Alberto, li aveva costretti a rivolgersi al Centro di Salute Mentale di Genova ed a richiedere disperatamente aiuto alla Polizia nel terrore che egli potesse passare, nel suo delirio, dalle parole ai fatti. Ciò accadeva nei giorni tra fine aprile ed il primo maggio 2022. Proprio nel primo pomeriggio di quel giorno di festa avviene l’ultima chiamata di Graziano al 113. Quella drammatica telefonata dura oltre 14 minuti. Rimane inascoltata e, la sera stessa, dopo poche ore, Alice verrà accoltellata dal fratello per ben 17 volte. Nessuno interviene. Alice muore e l’autorità giudiziaria non trova di meglio che ‘processarè quei due poveri genitori abbandonati a sé stessi per non aver impedito - non si sa bene come - ad Alberto di uccidere la sorella Alice. Genova forse ha qualche problema con i TSO. Si passa dai sei colpi di pistola sparati a Jefferson Tomala, alla imbarazzante ed assoluta inerzia per i disturbi psichiatrici di Alberto Scagni. Assolto il poliziotto sparatore, ‘condannati’ i genitori dei figli perduti per non aver saputo intervenire e colpevoli di essersi lamentati del mancato intervento dello Stato. Giustizia è questa? Da Genova a Velletri. Sempre in questi giorni caldissimi accade che la Procura di Velletri notifica a Niccolai Francesco un avviso di fine indagini, classe 1984, per omicidio colposo. È accusato di aver causato, in concorso con altri, la morte di una ragazza: era il 28 gennaio 2021, quando, durante una escursione in montagna, Claudia Acciarino cade in un dirupo. La ragazza, ferita, chiama lei stessa i soccorsi che però tardano ad arrivare. La località è a Carpineto Romano, zona Pian della Faggeta, località Monte Semprevisa. Claudia attende invano i soccorsi. Morirà di ipotermia secondaria. Francesco Niccolai quindi, non solo faceva parte ‘dei soccorsi’ ma è stato pure chiamato invano da quella povera ragazza ferita. Egli, pertanto, dovrà risponderne in un regolare processo. Così, almeno siamo tutti legittimati a pensare. Del fatto ne ha parlato anche qualche giornale. Nulla di tutto ciò: Francesco Niccolai è soltanto un amico di quella povera ragazza e nei momenti in cui si consumava la tragedia si trovava, del tutto ignaro, a Roma per ragioni di lavoro. Si protesta innocente oltreché profondamente addolorato per quella tragica morte e non ha avuto alcun ruolo nei soccorsi per il semplice fatto che fa un altro mestiere. Non solo, ma quel giorno non aveva ricevuto alcun contatto dalla sua amica Claudia. Sono gli stessi tabulati telefonici acquisiti dall’accusa a dimostrarlo. Per la Procura, nonostante tutto ciò, deve essere considerato responsabile di omicidio colposo. Giustizia? Potrei proseguire così, nella narrazione di questi tragici episodi, per tanto tempo. Non serve. Stiamo tranquilli noi avvocati ‘normali’ che calpestiamo quotidianamente le aule dei tribunali. Ora si farà finalmente la centesima “riforma della Giustizia”! Si farà la separazione delle carriere, si abolirà l’imputazione coatta. Si istituirà un tribunale collegiale per le misure cautelari. Si abolirà l’abuso in atti d’ufficio. Si impedirà al pm di impugnare le sentenze di assoluzione. Si renderanno segrete le intercettazioni alle si darà un bel giro di vite. Ogni problema sarà risolto. *Avvocato Penalista Misure di prevenzione: l’Italia finisce davanti alla Cedu di Baldassarre Lauria L’Unità, 1 agosto 2023 La prima sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dichiarato ammessa la causa promossa dai fratelli Cavallotti contro la Repubblica italiana. Gli imprenditori siciliani sono stati al centro di una singolare vicenda processuale che li ha visti, prima, assolti in sede penale dal reato di associazione mafiosa e, poi, destinatari di un provvedimento di confisca dei rispettivi patrimoni personali, emesso nel 2011 dal Tribunale di Palermo, durante la “chiacchierata” presidenza di Silvana Saguto, recentemente condannata dalla Corte d’appello di Caltanissetta per la gestione illegale dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. “Quella dei Cavallotti è la madre di tutte le confische”, diceva la stessa Saguto in una delle conversazioni intercettate. In effetti, per l’importanza delle questioni giuridiche, il caso Cavallotti è adesso il “punto di svolta” del sistema italiano di contrasto all’arricchimento illecito. I fratelli Cavallotti, Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo, attivi nel settore della metanizzazione in Sicilia nella metà degli anni 90, furono arrestati perché ritenuti associati a Cosa Nostra. Secondo i ROS di Palermo gli stessi avevano intrattenuto rapporti di affari con il sodalizio criminale per ripartirsi gli appalti pubblici. Ma, con sentenza della Corte di Appello di Palermo, gli stessi venivano definitivamente assolti: non v’era l’ipotizzato “patto sinallagmatico” con Cosa Nostra, al contrario si accertava lo stato di soggezione alle vessazioni mafiose. La confisca di prevenzione, è noto, viaggia su un binario parallelo al processo penale, al di fuori delle regole del “giusto processo” presidiate dalla Costituzione per l’accertamento penale. Una vera e propria “dimensione spirituale”, dove non c’è un fatto da accertare e/o una colpa da addebitare. Una misura non sanzionatoria, ancorché afflittiva per la perdita definitiva del patrimonio, dunque estranea alla “materia penale”, un tertium genus, di chiara matrice autoctona, anticipatrice di un nuovo e ambizioso corso penale, la confisca senza condanna. Così, per i giudici della prevenzione le imprese dei Cavallotti erano cresciute grazie all’appoggio della mafia nella spartizione degli appalti pubblici, sotto l’egida di Cosa Nostra. Un vero proprio ossimoro giuridico. In effetti, la confisca di prevenzione è una storia di contraddizioni giuridiche, che si è sempre mossa sull’onda emotiva della legislazione emergenziale dell’ormai “atavica” lotta alla criminalità mafiosa. Il codice antimafia del 2011, che ha messo ordine alla frammentaria legislazione in materia, prevede una specifica fattispecie di pericolosità sociale - l’appartenenza all’associazione mafiosa - concetto diverso dalla partecipazione prevista dall’art. 416 bis del codice penale. La semantica non è di facile intelligibilità logica, nel senso che si può appartenere alla mafia senza farne parte. Così, immane è stato lo sforzo della giurisprudenza italiana nel cercare di dare un contenuto uniforme alla norma che non valicasse il limite dell’arbitrio e del pudore intellettuale. Risultati eccezionali sul piano “quantitativo”, ma con effetti devastanti sul piano dei diritti delle persone, senza contare i negativi effetti macroeconomici della pessima gestione pubblica. Gli appartenenti alla mafia sono i “nuovi dannati”, difficilmente collocabili in alcuno dei gironi dell’Inferno di Dante, molto spesso colpevoli di nulla, assolti in sede penale ma contigui o vicini alla mafia. Evidente il rischio di trasmodare nella mera “prevenzione culturale”. Una spirale di presunzioni, espressione di un paradigma giuridico fascista, fondato sulla presunzione di colpevolezza, un terreno estraneo al diritto, coltivato con il pre-giudizio ambientale e con dati empirici di creazione giurisprudenziale. Ora, la Corte Europea vuole vederci chiaro. Nei giorni scorsi la cancelleria della prima sezione ha chiesto al Governo Italiano di argomentare sulle plurime critiche rilevate dalla stessa Corte, con invito a una risoluzione amichevole che eviti il processo. Si assume la violazione del principio di presunzione di innocenza del giudizio di pericolosità sociale, dedotta dagli stessi fatti oggetto dell’assoluzione in sede penale. Si chiedono spiegazioni sulla determinatezza della fattispecie legale di appartenenza mafiosa, alla luce del significativo contrasto giurisprudenziale all’epoca esistente, nonché sulle garanzie difensive assicurate ai proposti. La “palla” adesso è nel campo di un “altro diritto”, quello della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Sotto processo c’è il sistema della presunzione di pericolosità. Sovviene l’anatema di Leonardo Sciascia: “Quando tutto diventerà mafia nulla sarà più mafia”. I diritti fondamentali fermano l’arresto europeo di Dario Ferrara Italia Oggi, 1 agosto 2023 L’esecuzione del mandato d’arresto europeo non può andare a discapito dei diritti fondamentali della persona interessata. Lo ha ribadito la Corte costituzionale con le sentenze 177/2023 e 178/2023 con le quali sono stati decisi due giudizi nei quali la Corte aveva promosso altrettanti rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia dell’Unione. I giudizi riguardavano profili differenti della disciplina del mandato d’arresto europeo. Il primo caso, si legge in una nota della Consulta, riguardava un cittadino italiano con gravi disturbi psichici, la cui consegna era stata richiesta da un tribunale croato, che intendeva sottoporlo a processo per detenzione e spaccio di stupefacenti. La Corte d’appello di Milano aveva chiesto che fosse dichiarata incostituzionale la mancata previsione della possibilità di rifiutare la consegna di una persona affetta da patologie croniche di durata indeterminabile, incompatibili con la custodia cautelare in carcere. Con l’ordinanza 216/2021, la Corte costituzionale aveva a sua volta investito della questione la Corte di giustizia dell’Unione, la quale ha fornito la propria risposta con la sentenza E. D.L. del 18 aprile 2023. Stabilendo che, in ipotesi eccezionali di grave rischio per la salute della persona, i giudici che ricevono la richiesta devono sollecitare le autorità giudiziarie dello Stato richiedente a trasmettere informazioni sulle condizioni nelle quali la persona verrà detenuta o ospitata, in modo da assicurare adeguata tutela alla sua salute, eventualmente anche collocandola in una struttura non carceraria. Soltanto nell’ipotesi in cui le interlocuzioni non consentano di individuare una simile soluzione, l’esecuzione del mandato d’arresto potrà essere rifiutata. Alla luce di queste indicazioni, la Corte costituzionale ha giudicato non fondata la questione sollevata dalla Corte d’appello, ritenendo che il meccanismo configurato dai giudici di Lussemburgo sia idoneo a fornire adeguata tutela al diritto fondamentale alla salute. Nel secondo caso, l’autorità giudiziaria rumena aveva richiesto all’Italia la consegna di un cittadino moldavo per reati di evasione fiscale. La persona in questione, tuttavia, era da tempo radicata in Italia, dove aveva significativi legami lavorativi, sociali e familiari. La Corte d’appello di Bologna aveva pertanto chiesto che fosse dichiarata incostituzionale la mancata previsione della possibilità di rifiutare la consegna di un cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea, ma stabilmente radicato nel territorio italiano, per consentirgli di scontare la sua pena in Italia. Con l’ordinanza n. 217 del 2021, la Corte costituzionale aveva, anche qui, sottoposto il quesito alla Corte di giustizia, la quale con sentenza O.G. del 6 giugno 2023 ha stabilito l’incompatibilità con il principio di uguaglianza davanti alla legge di una normativa che discrimini il cittadino extracomunitario dal cittadino di un paese dell’Unione, escludendo in modo assoluto e automatico che possa essere rifiutata l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo in situazioni come quella all’esame. Sulla base di questa sentenza la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, che disciplina nell’ordinamento italiano il mandato d’arresto europeo, “nella parte in cui non prevede che la corte d’appello possa rifiutare la consegna di una persona ricercata cittadina di uno Stato terzo, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano”, alle condizioni precisate dalla Corte di giustizia, affinché possa scontare la propria pena in Italia, per favorirne il reinserimento sociale. Sussidi e assistenza anche per i condannati in detenzione domiciliare Adnkronos, 1 agosto 2023 “Lo Stato deve garantire misure di assistenza anche a chi sconta una pena in regime alternativo al carcere. In particolare a tutti quei condannati che, sottoposti agli arresti domiciliari e impossibilitati a svolgere una qualsivoglia attività lavorativa, di fatto non sono in grado di procurarsi da vivere, a differenza dei detenuti in carcere a cui sono garantiti tutti i trattamenti assistenziali”. È quanto dichiarato dall’avvocato Massimo Navach, che da oltre trent’anni svolge l’attività forense fra Bari, Roma e Milano e che, con un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., ha permesso al suo assistito G. di riottenere la pensione di inabilità e gli arretrati, che gli spettavano di diritto, dalla revoca della prestazione. Condannato a scontare 30 anni di reclusione agli arresti domiciliari per ragioni di salute, a G. era stata revocata ogni forma di assistenza da parte dello Stato ma, essendo impossibilitato a svolgere un lavoro, non era nelle condizioni di guadagnarsi da vivere. “È per lui e per tutti i casi come questo che mi sono battuto affinché lo Stato garantisse le adeguate prestazioni di invalidità civile. Dopo svariati solleciti all’INPS, che ha frapposto ostacoli al ripristino della pensione di inabilità, siamo ricorsi alla procedura d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per ottenere dal Giudice del Lavoro del Tribunale di Trani il ripristino della prestazione. Una vittoria importante per la tutela dei diritti fondamentali che salvaguarda anche chi, sottoposto ai domiciliari, si trova effettivamente nell’impossibilità di procurarsi i mezzi necessari al proprio sostentamento. Peraltro, la stessa Corte Costituzionale con sentenza n. 137/2021, in riferimento ai principi di solidarietà sociale e di assistenza economica, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 61 co. 2 della legge Fornero, stabilendo che nell’ipotesi di condanna alla detenzione domiciliare, anche nei confronti di soggetti condannati per gravi reati come mafia e terrorismo, si dovesse garantire all’invalido la revoca delle prestazioni assistenziali, così da disporre di sufficienti mezzi per la propria sussistenza. Misura ribadita anche dall’INPS: “nessuna interruzione delle prestazioni assistenziali anche se la pena viene scontata con misure alternative al carcere” sebbene scarsamente applicata. Lazio. Il Garante: “Case territoriali di reinserimento sociale al posto del carcere” garantedetenutilazio.it, 1 agosto 2023 Anastasìa propone di sperimentare localmente l’istituzione di strutture ad hoc, per pene inferiori a un anno. “Ho proposto di sperimentare localmente l’istituzione delle case di reintegrazione sociale dei condannati a pene brevi o brevissime, coordinando le risorse disponibili e potenziando le strutture di accoglienza esistenti”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, al termine del webinar per la presentazione della proposta di legge per l’istituzione delle case territoriali di reinserimento sociale. Il webinar, organizzato dall’Archivio Sandro Margara, dalla Fondazione Giovanni Michelucci, dalla Società della Ragione e dall’associazione Volontariato penitenziario Firenze, si è svolto sabato 29 luglio 2023, nel settimo anniversario dalla scomparsa di Alessandro Margara, magistrato, autore della riforma penitenziaria e della legge Gozzini. Quella delle case di reintegrazione sociale era un’idea di Margara, nell’ambito di una più generale proposta di riforma dell’ordinamento penitenziaria che ora è diventata una proposta di legge ad hoc, primo firmatario il deputato di Più Europa Riccardo Magi. “A partire dal Covid - ha ricordato Anastasìa nel corso del webinar - ma non solo, anche precedentemente, molti enti territoriali si sono posti il problema dell’housing rivolto alle persone in esecuzione penale che non avevano ragione di stare dentro istituti penitenziari. Ci sono anche esperienze tradizionali più risalenti nel tempo negli enti locali di impegno nell’accoglienza di persone in esecuzione”. Anastasìa ha riferito i dati del Lazio: al 30 giugno erano in esecuzione in carcere 225 persone detenute per pene inflitte inferiori a un anno, 987 quelle con un residuo pena inferiore a un anno. Per Anastasìa, bisogna fare i conti con le risorse che sono innanzitutto spazi, personale, strutture modalità di lavoro e iniziare a lavorare su un’idea di case come strutture destinate a persone condannate a pena brevissime. “Possono essere strutture degli enti locali o del demanio - ha proseguito a tale proposito Anastasìa - in cui possano attivarsi servizi di base che tendenzialmente non costano o costano poco o che comunque si possono fare senza necessariamente assumere personale, ma affidandosi al volontariato. Mi chiedo se intorno a idee di questo genere non ci si possa già lavorare a livello territoriale, ipotizzando delibere degli enti locali e leggi regionali che vadano nella direzione delle case di reintegrazione sociale, fino a quando questa idea riuscirà a sposarsi con una iniziativa legislativa nazionale. Questo - ha concluso Anastasìa - è il percorso su cui possiamo lavorare anche noi garanti che operiamo sui territori”. Liguria. “Diritto alla cura in carcere: sia garantito il numero adeguato di operatori sanitari” genovatoday.it, 1 agosto 2023 Approvato un ordine del giorno del consigliere regionale del Partito Democratico: “La Giunta si impegna a verificare e colmare eventuali carenze”. La Giunta ha deciso di avviare una verifica per controllare se nelle carceri c’è personale sufficiente per garantire un’assistenza sanitaria adeguata, valutando eventuali integrazioni o assunzioni al fine che il diritto alla cura possa essere assicurato a tutti i detenuti in maniera adeguata”, così il consigliere regionale del Partito Democratico Pippo Rossetti dopo l’approvazione in aula del suo Ordine del giorno sul servizio salute in carcere. Il consigliere regionale del Pd poi prosegue: “I servizi di assistenza sanitaria in carcere, che devono essere garantiti dal sistema sanitario nazionale attraverso le Asl e il servizio di salute in carcere, prevede la presenza di diverse figure professionali per garantire la cura dei pazienti, dai medici di base ai psichiatri, psicologi e psicoterapeuti, ma anche infermieri per attività ambulatoriale, gestione emergenze e distribuzione farmaci. La presenza di un numero adeguato di personale sanitario all’interno di una struttura penitenziaria è fondamentale per garantire il diritto alla cura delle persone che stanno scontando una pena. “L’erogazione delle prestazioni di cure primarie - conclude Rossetti - deve essere garantita 7 giorni su 7, possibilmente h24 (in particolare nei penitenziari con più di 250 detenuti) e comunque la presenza di operatori sanitari dovrebbe esserci dalle 8 alle 22. Vista la grave carenza di personale sanitario è necessario capire se all’interno dei penitenziari liguri, c’è personale sufficiente per garantire questo servizio fondamentale”. Napoli. Il Garante Ciambriello scrive al direttore dell’Asl: “In carcere servono medici” anteprima24.it, 1 agosto 2023 Dei 6.704 detenuti campani la metà è presente nelle carceri napoletane di Poggioreale, Secondigliano e Nisida, cioè 3.208 di cui 355 immigrati. In riferimento ad alcune emergenze socio-sanitarie di questi tre Istituti penitenziari il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello ha scritto una lettera al Direttore generale dell’ASL Napoli 1 Ciro Verdoliva facendo delle richieste specifiche, visto che la sanità penitenziaria dipende dalle ASL competenti per territorio. “Le chiedo di verificare se sono presenti in tutti i reparti, anche non sanitari, dei tre istituti penitenziari napoletani i defibrillatori. Le chiedo di assumere medici di reparto e psichiatri. Nella delibera regionale è previsto uno psichiatra ogni 500 detenuti, ma non viene rispettata. Le chiedo infine di voler prevedere una presenza di assistenti sociali, tecnici della riabilitazione e mediatori linguistici nelle carceri. La salute psichica e fisica delle persone diversamente libere è un diritto fondamentale e Costituzionale. La giustizia deve essere in grado di bilanciare le esigenze di tutti e le pene non devono mai essere contrarie al senso di umanità e al patrimonio valoriale della Costituzione”, così Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone private della libertà personale. Bologna. Carcere della Dozza al collasso, Delmastro assicura: “In arrivo 10 agenti” Il Resto del Carlino, 1 agosto 2023 Visita del sottosegretario alla Giustizia col vice ministro Bignami: “Il Governo fornisce risposte immediate dopo anni di abbandoni. Per le ondate di calore non si possono immaginare regole diverse”. Punte di oltre ottocento detenuti, in una struttura che al massimo delle capacità ne può contenere a malapena 500. E oltretutto con una sezione chiusa. Questa la situazione che si è presentata, al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, in visita alla Dozza assieme al vice ministro Galeazzo Bignami, al senatore Marco Lisei e agli esponenti di Fratelli d’Italia Francesco Sassone e Stefano Cavedagna. Una situazione, quella della casa circondariale bolognese, comune a tante carceri d’Italia. E che il Governo sta affrontando lavorando su due binari principali: l’incremento degli organici della Penitenziaria, provata dal turnover delle pensioni; e gli interventi di edilizia penitenziaria, per cui “sono stati immaginati 84 milioni di euro di investimenti”, snocciola dati Delmastro. Che spiega: “Alla Dozza siamo di fronte al solito problema del sovraffollamento, che quando si unisce alla carenza di organico genera un mix esplosivo, ma per quanto riguarda quest’ultimo aspetto ho potuto già oggi (ieri, ndr) dare delle risposte”. Ossia l’arrivo, domani alla Dozza, di “dieci nuovi allievi agenti del 181esimo corso”, come precisa il sottosegretario. Un numero che si inserisce nel piano del Governo, che prevede, in dodici mesi, l’ingresso di 5mila nuovi agenti negli istituti. “È una corsa contro il tempo - commenta Delmastro -. Dobbiamo mettere in sicurezza i nostri istituti e lo si può fare solo assumendo penitenziaria e immaginando 84 milioni di euro per nuova edilizia penitenziaria per contrastare il sovraffollamento”. Soluzioni a cui si è aggiunto l’acquisto di nuove dotazioni: “10.200 scudi anti sommossa, 10.200 caschi, tute operative, divise, 20mila guanti antitaglio, perché mai più un agente dovrà affrontare a mani nude un detenuto con un pentolino di acqua bollente”. E poi formazione, perché i poliziotti penitenziari siano preparati ad affrontare circostanze critiche, sempre più frequenti vista la presenza massiccia di detenuti psichiatrici e con dipendenze. “Stiamo lavorando a protocolli operativi per cui i nostri agenti sappiano in una cornice predeterminata di legalità fin dove spingersi per ripristinare ordine, legalità e sicurezza”, spiega Delmastro, che annuncia anche come sia stato istituito, in questi otto mesi, il “corpo medici della polizia penitenziaria, per dare risposte al benessere degli agenti. Stiamo riscuotendo i dovuti successi, ma è chiaro che dobbiamo recuperare 20-30 anni di abbandoni”. Intanto però, in attesa che gli interventi siano completati, il caldo resta un problema: “Le ondate di calore accadono, ma non possono e non devono mettere in crisi le regole carcerarie. Dobbiamo fare il possibile per rendere la pena meno inumana e meno degradante possibile, ma non penserò mai che con le ondate di calore vadano immaginate regole carcerarie diverse”. E così l’ingresso di nuovi giunti, che in questo momento vengono distribuiti tra i vari istituti di Emilia-Romagna e Marche: “È chiaro però che sono saturi un po’ tutti gli istituti. Quindi mai scelta fu più provvida di destinare 84 milioni di euro per la realizzazione di otto nuovi padiglioni”. Interventi di edilizia penitenziaria legati in parte alla sicurezza, in parte al benessere della polizia: “Mi riferisco alle caserme: un allievo neo assegnato ha diritto ad avere una caserma, perché il suo stipendio mal si concilia con l’affitto, soprattutto in una città capoluogo”. Un progetto a cui si aggiunge il “sogno” di Delmastro: “Nelle città in cui le carceri sono in centro storico, cederle a privati per avere edilizia penitenziaria di cubatura doppia fuori città. Quando l’Europa parla di sovraffollamento penitenziario - chiosa il sottosegretario -, la ricetta della sinistra è un bello svuota-carceri. E questa non sarà mai la ricetta della destra”. Cagliari. In carcere all’ottavo mese di gravidanza, l’appello per il trasferimento L’Unione Sarda, 1 agosto 2023 Preoccupano le condizioni di salute della 32enne. Nella casa circondariale inoltre da mesi non è presente una ginecologa. La donna si trova da venerdì sera in una cella del carcere di Uta. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, rivolgendo un sentito appello al giudice affinché la donna “possa essere trasferita in una struttura adeguata”. Come osserva Caligaris, “la presenza della 32enne, di nazionalità Romo, desta particolare preoccupazione per le condizioni di salute legate all’avanzato stato di gravidanza. La giovane donna, che ha accusato alcune perdite, è stata accompagnata in ospedale già due volte”. Per l’esponente di Sdr, tralasciando l’aspetto delle condizioni igienico-sanitarie “non si può dimenticare che nella Casa Circondariale è assente da diversi mesi la ginecologa. In queste giornate in cui la fanno da padrone il caldo e l’afa, la permanenza in una cella è particolarmente pesante per una gestante. Occorre un atto umanitario e provvedere a trovare una sistemazione alternativa che possa coniugare i bisogni della donna incinta e quelli della sicurezza. Non si può scaricare sul carcere una situazione così delicata”. Lecco. Con penalisti e “Nessuno tocchi Caino” un incontro sul carcere leccoonline.com, 1 agosto 2023 Oggi, 1 agosto, a Lecco si parlerà di carceri e carcerati. In programma infatti in città - ore 15.30, Circolo Arci Promessi Sposi, viale Lombardia 7 - una conferenza promossa dall’Unione Camere Penali Italiane - Osservatorio Carcere con la Camera Penale di Lecco Como e Lecco e Nessuno Tocchi Caino, lega internazionale di cittadini e di parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo. L’appuntamento pomeridiano sarà preceduto, in mattinata, da un accesso proprio alla casa circondariale di Pescarenico. “Il viaggio della speranza: visitare i carcerati” è il tema invece del confronto che vedrà gli interventi di Rita Bernardini, Roberto Rampi, Sergio d’Elia e Elisabetta Zamparutti rispettivamente presidente, membro del consiglio direttivo, segretario e tesoriera di Nessuno tocchi Caino nonché del garante dei diritti delle persone private della libertà della provincia di Lecco Lucio Farina, di Graziana Gatti (componente del direttivo della Camera Penale di Como e Lecco) e di Alessandra Maggi (per la commissione giovani). E poi ancora Monica Piva e Agnese Massaro, portavoce membro del direttivo del CDD Lecco. Modera Stefano Pelizzari, vice presidente della Camera Penale di Como e Lecco. Previsto, in apertura, anche il saluto di Elia Campanielli, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecco. La giustizia penale di Alessandro Manzoni di Mario Taddeucci Sassolini Il Riformista, 1 agosto 2023 Garantismo è un sostantivo che illustra un concetto auto portante: la garanzia compendia al suo interno la necessità di rispettarla. Rovesciando l’argomento: dove non c’è rispetto della norma posta a tutela dell’individuo non può ragionarsi di garanzia. La quale cosa esclude che la dicotomia garanzia/giustizia abbia un qualche senso logico, oltre che giuridico: un processo in esito al quale un giudice giunga ad una decisone nel rispetto delle norme poste a tutela dell’imputato è, al tempo stesso, espressione di giustizia e sigillo di garanzia. Viceversa i termini diventano collidenti nel momento in cui vengono utilizzati come corpi contundenti in un ragionamento pseudo-politico di scarsissima qualità; sicché, secondo la logica di codesti modesti epigoni di Catone, pretendere il rispetto delle regole del giudicare significa sfuggire al giudizio (qualche mente creativa ha partorito filastrocche pre- adolescenziali del tipo “difendersi dal processo e non nel processo”), salvo rammentarsi della centralità del concetto di garanzia quando si rende necessario adattarla alla propria causa. Contro questa volgarizzazione, sempre più incombente, giova ritornare ai fondamentali e, al proposito, soccorre un piccolo, intenso, erudito pamphlet scritto da Gaetano Insolera: “La giustizia penale di Alessandro Manzoni”, Mucchi Editore. Centrale nella narrazione di Insolera è la Storia della colonna infame, cronaca manzoniana del processo milanese contro due presunti untori la quale, nella edizione Quarantana, fu posta in calce al romanzo dei Promessi Sposi. Insolera valorizza questa lettura simultanea, dalla quale cogliere l’idea di Manzoni della giustizia “che nelle mani degli uomini può assumere tutte le imperfezioni: passioni, ferocia, ignavia, falsità. Storture con la tentazione - questa si demoniaca - di usarle per ottenere, con il processo criminale, una verità che corrisponda a quella che si vuole ottenere perché tale deve essere.”. L’attualità del pensiero manzoniano è dimostrata dalla fungibilità di taluni “istituti” che trapassano il tempo senza sostanzialmente mutare. Così la figura del chiamante in correità, reso tale dalla tortura, che nel racconto manzoniano vede Piazza accusare Mora di concorso in unzione e che trova perfetta rispondenza nell’utilizzo della carcerazione preventiva (e nei fini sottesi) in recenti pagine della nostra storia giudiziaria; così, ancora, la tecnica inquisitoria che vuole condurre il dichiarante alla menzogna poiché “volevano che si confessasse bugiardo una sola volta, per acquistare il diritto di non credergli quando avrebbe detto: sono innocente”. Questa immanenza della idea manzoniana di giustizia e del suo articolarsi in forme ancora attuali suona come ammonizione. Ne scorse l’importanza Sciascia nel suo scritto “i burocrati del Male”, introduzione ad una edizione della Storia della colonna infame. A fronte del tentativo, anch’esso attuale, di dare una lettura storicistica alle vicende di giustizia, secondo la quale ciò che è stato (nel passato come nel presente) così doveva essere, Sciascia oppone un grido di allarme evocando “una battaglia che ancora oggi va combattuta: contro uomini come quelli, contro istituzioni come quelle. Poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più - l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione - s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora”. La tortura, la medesima tortura che i personaggi manzoniani subivano “per purgare l’infamia”, c’è ancora ed è rinvenibile in moderne forme di cautela dell’indagato, in taluni istituti “d’emergenza” contrari al senso di umanità ma vissuti come strumenti indispensabili in una società drogata di parole d’ordine volgari, nell’ordinamento penitenziario, nelle scarse risorse investite nell’esecuzione penale e nella scelta di dimenticare il recluso nella sua cella, salvo dolersi se costui nuovamente delinque una volta libero. Questa sorta di macchina del tempo che mette in contatto la Milano del 1600 e i giorni nostri pone a nudo una continuità che dovrebbe far vergognare i diffusori del retrivo pensiero neo oscurantista. La sola idea che certe corticali anomalie si ripetano nei secoli dovrebbe far inorridire chiunque, ma non, evidentemente, i decerebrati cantori della bellezza del suono delle manette. Non esiste antidoto al veleno che si insinua in una società vendicativa, sobillata per ritorno elettorale, se non la scelta di praticare la cultura della conoscenza in opposizione alla negromanzia inquisitoria praticata da legioni di buffoni a pagamento: in questa materia, infatti, non troverete mai idee gratuite. Sono tutte declinate da neo questurini a favore di un sottobosco perverso di nulla essenti, che si nutrono dei mattinali di questura. A 2 euro, in edicola. Poveri e disoccupati, soluzioni diverse di Veronica De Romanis La Stampa, 1 agosto 2023 In questi giorni, l’Inps ha inviato ai percettori del Reddito di cittadinanza considerati occupabili il messaggio di sospensione della misura. Una mossa brutale, ma attesa. Fa parte del percorso di revisione avviata dal governo. La misura, come è noto, non ha portato i risultati attesi: oltre la metà delle famiglie in povertà assoluta non riceve l’assegno e solo una piccolissima percentuale ha trovato lavoro. Queste criticità erano state evidenziate già dall’esecutivo Draghi. L’allora ministro del Lavoro, Andrea Orlando, aveva istituito una commissione (presieduta dalla professoressa Chiara Saraceno) con l’obiettivo di analizzare eventuali modifiche. Il gruppo di studio elaborò un piano d’azione che conteneva diverse proposte. Alcune sacrosante. Solo una piccolissima parte fu, tuttavia, recepita. “I pentastellati avevano la maggioranza relativa. Non le avrebbero votate”. Questa la spiegazione. Eppure, in altre occasioni, il precedente governo aveva mostrato maggiore decisione. Basti pensare che è stato quello che ha posto il numero di questioni di fiducia in media ogni mese più elevato. Ma, tant’è. Torniamo al Reddito. Quando fu introdotto, nel settembre del 2018, Luigi di Maio, in veste di Ministro del Welfare, si affacciò dal balcone di Palazzo Chigi esultante. La Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NaDef) che includeva un disavanzo al 2,4 per cento del Pil (ve lo ricordate? Poi fu tagliato al 2,04 per cento) era appena stata approvata. “Abbiamo abolito la povertà” gridava Di Maio. I deputati eletto con il Movimento radunati in piazza rispondevano “siamo felici, lo dovete essere anche voi” ai giornalisti increduli di fronte a tanta gioia. La Legge di bilancio non era ancora stata ultimata. E neanche mandata a Bruxelles per i consueti rilievi. L’importante, però, era trasmettere una sensazione nuova: quella della felicità per l’avvenuta scomparsa dei cittadini poveri. La misura si rivela, sin da subito, problematica a causa del suo duplice scopo: la lotta alla povertà e quella alla disoccupazione, condizioni che non necessariamente si sovrappongono. Unire obiettivi distinti è stata, tuttavia, una scelta ponderata. Ha permesso di risolvere il problema delle coperture. Se si vuole combattere la povertà, le coperture devono essere di natura ridistribuiva. Ovvero le risorse si prendono da chi le ha e si danno a chi non le ha. Questo tipo di intervento è, però, inviso ai 5 Stelle. Di Maio si è sempre dichiarato contrario ad una eventuale patrimoniale. Ma, allora, dove trovare i soldi? La parola magica è “autofinanziamento”. Le risorse possono essere prese a prestito (leggi maggiore debito). Non devono essere reperite nell’immediato perché verranno generate in futuro. In che modo ? Semplice. Con la crescita derivante dalla creazione di lavoro. Non a caso la misura è stata chiamata “Reddito”. Agli occhi dei pentastellati, il meccanismo è lineare. Lo Stato si indebita. Eroga il sussidio. Il lavoro aumenta: questo passaggio è fondamentale per la sostenibilità finanziaria dell’intero schema. Di conseguenza, salgono le entrate e il debito si ripaga. In sintesi, questa è la storia del cosiddetto moltiplicatore della spesa pubblica maggiore di uno che presuppone un guadagno finale maggiore del costo iniziale. L’evidenza empirica dimostra, però, che simili moltiplicatori non esistono, se non in casi molti particolare e in fasi di forte rallentamento economico. A conti fatti, i sussidi non si autofinanziano, purtroppo. Servono coperture strutturali. Quindi, tagli di spesa o incrementi di tasse. In conclusione, la revisione del Reddito di cittadinanza richiede un’operazione di verità. Da compiere attraverso alcuni passaggi. In primo luogo, il reperimento di risorse certe all’interno del Bilancio dello Stato. In secondo luogo, la separazione degli obiettivi: la lotta alla povertà non può essere combattuta con lo stesso strumento di quella alla disoccupazione. In terzo luogo, l’efficientamento da un lato di servizi sociali, dall’altro di Centri per l’impiego. L’invio di un sms non è, certamente, la strategia migliore. È vero che da qualche parte l’attuale governo deve iniziare, visto che i precedenti non lo hanno fatto. Ma non ci può fermare qui. L’era della povertà educativa di Mirella Serri La Stampa, 1 agosto 2023 Lo studio di due sociologi denuncia l’impoverimento culturale degli italiani. Un popolo di santi, di poeti e di navigatori è ora anche un popolo di ignoranti? Molto peggio, non sappiamo più interagire con la parola. Prendiamo il celebre inizio dei Promessi sposi: “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi... vien quasi a un tratto, tra un promontorio a destra e un’ampia costiera dall’altra parte”. “Promontorio”, “seni”, “catene”, “volge”? Parole rare, inusuali: per la maggioranza degli italiani il notissimo incipit manzoniano - “Ma che è, ostrogoto?”, direbbe Alberto Sordi - oggi suona astruso. È come una lingua straniera per il 70 per cento dei connazionali dai 16 anni in su: proprio così, circa i tre quarti degli abitanti adulti della Penisola attualmente non sono in grado di afferrare il senso complessivo di uno dei capisaldi del nostro insegnamento letterario scolastico. Al massimo ne comprendono quello che i sociologi e gli addetti ai lavori chiamano “codice ristretto”: la parola “lago”, certo, suona familiare mentre sfugge il complesso del discorso, i dettagli e la suggestione del paesaggio. I residenti nello Stivale che oggi posseggono la piena comprensione del testo sono infatti appena il 6 o il 7 per cento della popolazione. Si sta verificando un cataclisma, siamo entrati in quella che le più recenti ricerche sul nostro sistema scolastico chiamano l’era della “povertà educativa”. L’incapacità di misurarci con il mondo che ci circonda e con la sua comunicazione scritta non riguarda solo la letteratura, l’informazione e le arti ma coinvolge pure, è un altro drammatico risvolto, la facoltà di svolgere con padronanza le minime operazioni matematiche, come accedere al proprio conto in banca con il bancomat. Chi sono dunque e come mai sono veramente una pletora i nuovi poveri dal punto di vista culturale? Ne fanno parte i giovani che sui banchi non imparano abbastanza ma pure gli adulti che usciti dalle aule hanno scordato le nozioni di base e che si qualificano come analfabeti di ritorno. L’obsolescenza conoscitiva colpisce come un virus coloro che, pur avendo raggiunto o superato l’obbligo scolastico, hanno buttato alle ortiche le basilari competenze. L’Italia è il paese più scarsamente dotato d’Europa proprio dal punto di vista delle nozioni essenziali e la sua popolazione è incapace di rinnovarsi e di tenere il passo con il progresso scientifico e tecnologico. L’impoverimento culturale oggi continua a essere quasi totalmente ignorato: lo denunciano i sociologi e studiosi di sistemi educativi Orazio Giancola e Luca Salmieri nella ricerca La povertà educativa in Italia. Dati, analisi, politiche (Carocci editore). Un popolo di santi, di poeti e di navigatori è ora anche un popolo di ignoranti? Macché: il morbo contemporaneo è molto più grave dell’ignoranza. Se non conosciamo infatti la storia dell’Ucraina o non sappiamo far di calcolo possiamo facilmente compensare le nostre carenze: possiamo informarci e capire. Però se mancano gli elementi basilari è tutt’altra musica. Siamo di fronte a una gran massa di “analfabeti funzionali” che, diversamente dagli “analfabeti strumentali” - quelli che non hanno mai imparato a leggere e a scrivere -, sono persone che sanno vergare il proprio nome e compitare un breve avviso rivolto al pubblico, ma non sono in grado di farsi coinvolgere dai testi scritti; sanno svolgere una moltiplicazione a due cifre ma non sanno interpretare un semplice grafico (il meteo, per esempio) basato su percentuali. Questo grave handicap conoscitivo domina in Italia nonostante la crescita e l’estensione della scolarizzazione. Com’è potuto accadere? La Penisola è il paese Ocse con la più bassa quota di laureati (18 per cento della popolazione adulta) e il più basso investimento pubblico in istruzione (il 7 per cento della spesa per servizi); si colloca addirittura nella terzultima posizione europea, prima della Grecia e della Romania. Gli insegnanti nostrani sono i meno retribuiti del vecchio continente e i nostri studenti nei test internazionali e nazionali sono scarsi: la colpa di tutto questo bailamme è della scuola? Troppo facile fare del sistema scolastico il capro espiatorio, avvertono i due sociologi. Da tempo si muovono in questa direzione studiosi del livello di Luca Ricolfi, Paola Mastrocola ed Ernesto Galli della Loggia, sbagliando però in maniera clamorosa. I primi due, denunciano Giancola e Salmieri, attribuiscono la decadenza dell’istruzione italiana all’inettitudine degli insegnanti, troppo poco punitivi e troppo superficialmente “democratici” ed egualitari. Docenti che non premierebbero adeguatamente i giovani meritevoli, come si faceva in altri tempi. Un fatto sul quale, spiegano i sociologi, non esistono però concreti riscontri: non vi sono dati comparativi tra il moderno insegnamento e quello del passato. Galli della Loggia lamenta invece la progressiva marginalizzazione dei saperi classici a favore di quelli “pratici” e “tecno-scientifici” (ma, sempre secondo Giancola e Salmieri, le indagini internazionali evidenziano che gli alunni italiani mediamente sono carenti più nella dimensione “pratica” e scientifica che non in quella umanistica). Da cosa dipende allora la diffusa indigenza conoscitiva? La responsabilità delle difficoltà dei giovani nell’apprendimento affonda senza dubbio le proprie radici nelle ristrettezze della famiglia di origine. Ma adesso le più moderne indagini guardano anche al capitale umano e culturale. Papà e mamma vivono in stato di necessità? Non necessariamente accompagnano nella crescita figli disappetenti nei confronti di cultura e di nozioni varie. Anzi, se sono consapevoli dell’importanza dei libri, del cinema e dell’informazione, potranno crescere con il loro “capitale umano” un pargolo vincente nelle aule, nella vita e nelle professioni. Non sempre va così, esiste la sventura del circolo vizioso: le scarse competenze iniziali possono condurre a minori opportunità di svilupparle in seguito. In questo serpentone che si morde la coda sono intrappolati milioni di italiani privi di competenze di base che costituiscono il trampolino di lancio per la conquista del benessere e dell’inclusione sociale. Sono italiani che, proprio per la loro povertà, non riescono ad adeguarsi alla complessità dei cambiamenti sociali, culturali e tecnologici (non sanno usare internet), che non sono in grado di continuare ad apprendere lungo tutto il corso della vita. Il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, evoca l’importanza di una scuola fatta di doveri (ha pure parlato dell’importanza delle “umiliazioni” necessarie per i più giovani): ma i doveri di chi governa sono oggi l’aggiornamento e l’abbattimento delle nuove povertà che ci collocano come il fanalino di coda dell’Europa. Così i predicatori sul web nutrono la nuova Apocalisse di Luigi Manconi La Stampa, 1 agosto 2023 Il millenarismo fu un grande movimento di pensiero, ora ha una dimensione caricaturale. Sui canali social spopolano veggenti e mistici: parlano un italiano base e fanno proseliti. In un paesino del Modenese, Angelo, che si definisce “pastore della chiesa acefala”, a chi gli chiede quale sia il suo mestiere, risponde: il predicatore. E un florilegio delle sue parole, agevolmente rintracciabile su internet, può rappresentare un documento antropologico assai significativo del nostro tempo. In un altro tempo, nel XII secolo, il monaco Gioacchino da Fiore elaborò una concezione profetico-apocalittica delle sorti del Cristianesimo, che avrebbe conosciuto, grazie all’opera dello Spirito Santo, una nuova rigenerazione, dando vita a una pagina inedita della storia umana. E oggi? Si sta forse sviluppando in Italia e in Europa un nuovo millenarismo? Ovvero, una mobilitazione collettiva di emozioni e speranze, di aspettative e utopie affidate all’avvento del Regno di Dio? Il millenarismo fu un grande movimento di pensiero che attraversò l’intero Medioevo, incarnandosi in credenze diffuse e conflitti religiosi, in progetti di riforma sociale e di conversione spirituale. Nei giorni nostri si ripropone in forme emulative spesso dozzinali, talvolta grottesche e persino farsesche. Non che non ci siano anche manifestazioni di un certo rilievo umano e devozionale, ma a prevalere sembra essere un visionarismo smandrappato, che si nutre di tutti gli stereotipi della fantapolitica e della fantaecclesiologia. Dunque, come può riscuotere successo? Il millenarismo medievale credeva in un mutamento radicale della società, che avrebbe fatto seguito a veri e propri cataclismi, capaci di sovvertire l’ordine sociale e l’intera architettura delle relazioni politico-militari, confessionali e istituzionali a livello universale. La scansione costituita dalla successione eventi epocali/cambiamenti profondi/instaurazione del Regno della Giustizia si annunciava e si palesava attraverso segnali inequivocabili. Ecco, sono questi segnali che oggi fanno credere ai Nuovi Millenaristi che si stia preparando l’insediamento di un tempo nuovo. È accaduto infatti che - a seguito di una perfidia del destino e di sottili coincidenze e strette concause - nell’arco di meno di un lustro le società occidentali abbiano conosciuto fenomeni terribili e temibili, che ricordano quelli dei “secoli bui”. Tre eventi in particolare: la Peste, la Guerra, il Cataclisma. La Peste ha assunto il nome di SARS-CoV-2, la Guerra quello di invasione russa dell’Ucraina, il Cataclisma si manifesta attraverso il susseguirsi di catastrofi naturali. E si tratta di altrettanti traumi: l’epidemia, come il conflitto bellico, solleva una questione cruciale di vita e di morte, insidia le fondamenta stesse della nostra sicurezza e della nostra incolumità, attenta al nostro futuro. Per alcuni, non pochi, ciò significa, né più né meno, che l’Apocalisse è prossima, se non già in atto. E il Regno di Dio è alle porte. Da qui tutto un accorrere di profeti, veggenti, testimoni, mistici, monaci, eremiti, rivelatori, cenobiti, pastori, predicatori. Tra di loro, un certo numero di donne. Vengono tutti dalla profonda provincia italiana: da Buccinasco, Boretto, Ladispoli, Avellino… E svolgono i più diversi mestieri: impiegato dell’Aci, allevatore, assicuratore. Molti hanno trovato il modo di campare senza ricorrere a un lavoro fisso e l’attività di predicatore riempie le loro vite. Parlano un italiano elementare intessuto di termini dialettali e appesantito da accenti regionali. Hanno tutti una cerchia, più o meno ampia, di proseliti. E dispongono di discepoli, aiutanti, diaconi, perpetue. La loro attività, per così dire pastorale, e la loro predicazione, per così dire religiosa, si svolgono lungo le frequenze delle radio private e ancor più sulle bacheche dei canali social. L’infinito spazio di internet ha preso il posto delle spianate davanti alle grandi cattedrali medievali. Ma internet è, per sua stessa natura, un luogo ibrido, dove c’è tutto. Qui, le prediche simil-evangeliche perdono immediatamente la loro residua innocenza e i tratti della più ingenua fede popolare per mescolarsi col mondo del paranormale, fino alla cartomanzia, non disdegnando di convivere con la ormai secolare osservazione degli ufo. E scatta il cortocircuito. La veggente di Ostuni parla dello Spirito Santo, ma, in realtà, sembra riferirsi a “uno strano essere, con la testa molto grande e gli occhi brillanti”, che, dopo un’amabile conversazione, riprende il suo viaggio su “un grande disco lucente”. D’altra parte, su internet, la Retorica del Miscuglio è tale che questo nuovo millenarismo si alimenta di tutte le teorie della cospirazione. L’avvento del Regno della Giustizia è imminente, dal momento che alla Casa Bianca governano i “rettiliani”, attraverso uno di loro, va da sé, Joe Biden. E il rivolgimento radicale della Chiesa cattolica è richiesto dal fatto che in Vaticano non c’è un Papa, ma un anti-Papa, Jorge Mario Bergoglio. Anzi, no, non c’è nemmeno lui: Bergoglio è stato ucciso e al suo posto - “dai, lo sanno tutti” - c’è un sosia. Ma un sosia (meglio, una sosia), ormai da tempo ha sostituito a Palazzo Chigi l’attuale Presidente del Consiglio. Come si vede, questo millenarismo del XXI secolo ha una dimensione spiccatamente caricaturale, che pure riesce a catturare i sentimenti di centinaia di migliaia di persone. Ed è inevitabilmente trash. Insomma, è come se, oggi, non riuscissimo a prendere sul serio nemmeno l’Apocalisse. Clima, migranti e stampa. L’allergia della destra verso i limiti del potere di Nadia Urbinati* Il Domani, 1 agosto 2023 Ritorniamo sulle parole pronunciate da Sergio Mattarella al Quirinale in occasione della tradizionale cerimonia del Ventaglio con i giornalisti della stampa parlamentare, prima delle ferie estive. Il filo conduttore dei vari temi toccati da Mattarella è stato uno solo: il richiamo rivolto a chi opera nelle istituzioni a riconoscere limiti. Limiti imposti dalla scienza per quel che riguarda il clima, dalle leggi internazionali e di umanità per quel che riguarda le migrazioni, dallo stato di diritto per quel che riguarda le relazioni tra i poteri dello stato e il rispetto della libertà di stampa e di informazione. La scelta di insistere quasi scolasticamente sulla questione dei “limiti” del potere - una questione insieme costituzionale ed etico-politica - ci invita a interrogarci sul carattere di questa maggioranza, la cui postura mostra un’allergia spiccata all’idea che esistano limiti al proprio potere. Come se il potere venuto dalle urne (e da una specifica legge elettorale) giustifichi una prerogativa di assolutezza. Non c’è superiore o uguale autorità rispetto a quella del voto! Quasi che l’articolo 1 della Costituzione, che dichiara la sovranità popolare, non dica immediatamente che questa deve essere esercitata nei limiti stabiliti dalla Carta e dalle leggi conseguenti. Prendiamo un caso esemplare di allergia ai limiti, menzionato da Mattarella. Natura, ecologia e ambiente. Il presidente ha riservato a questo tema il secondo posto per importanza, dopo il commento sulle raccapriccianti immagini di migranti lasciati morire nel deserto tunisino, all’indomani del trattato di partenariato firmato dal governo di Tunisi con l’Italia, per “governare” i flussi migratori. L’emergenza climatica è stata presentata da Mattarella come parte di una più larga emergenza, che diremmo cognitiva. L’appello ad “assumere la piena consapevolezza che siamo in ritardo”, l’esplicita accusa delle “tante discussioni sulla fondatezza dei rischi” e “il livello di allarme” che “appaiono sorprendenti”. Come può il governo intervenire con tempestiva determinazione e prudente lungimiranza se mette in discussione la fondatezza dei rischi? La resistenza dei governanti a credere che ci sia un’emergenza climatica, nonostante i disastri continui e sempre più ravvicinati, mette il dito sulla piaga. Questo governo non ama che vengano posti limiti al potere della maggioranza. Il complotto - La scienza, la ricerca, le conoscenze scientifiche ci mettono a disposizione un corredo di ipotesi testate con dati e con analisi statistiche. Perché non credervi? Perché rappresentanti eletti per ragioni non di scienza ma di opinione ideologica dovrebbero rivendicare anche un’autorevolezza scientifica? Perché invece di riconoscere le conoscenze che hanno, molto spesso limitatissime, si dichiarano scettici? Perché si dicono convinti che ci sia una regia nascosta dietro questi allarmi, come se la scienza sia un’arma di cospirazione? Su quali dati i politici basano queste loro idee? Sarebbe se non altro utile che i cittadini venissero messi al corrente di eventuali conoscenze che solo i politici hanno. E invece, sui siti web dei politici e dei loro fedelissimi si leggono affermazioni di scetticismo che seminano dubbi su chissà quali intenzioni malevoli ai danni del governo. Intanto, sulle TV addomesticate si oscurano le notizie e si dà spazio al dubbio che dietro la “questione climatica” esista una cabala internazionale che cerca di metter in difficoltà il Paese. Povero Paese! *Politologa La libertà femminile che spaventa di Dacia Maraini Corriere della Sera, 1 agosto 2023 Ma perché i femminicidi aumentano? Per me è chiaro: perché aumentano l’autonomia e la libertà delle donne, cosa che per certi uomini spaventati costituisce una ferita talmente profonda che può essere alleviata solo con il sangue. Dispiace sotto le feste tornare a parlare di fatti incresciosi, ma la realtà bussa alla porta e non possiamo non cercare di farla parlare e capire. In pochi giorni ci sono stati cinque femminicidi. Non era ancora passata la memoria straziante della ragazza incinta di trucidata a coltellate dal compagno, che veniamo a sapere di altre giovani assassinate con accetta e coltello. Secondo i dati del Viminale ogni mese vengono uccise otto donne “in ambito familiare e affettivo”. Ultima vittima una ragazza di 17 anni, il cui corpo martoriato è stato gettato in un cassonetto nel quartiere di Primavalle, a Roma. Sempre secondo i dati del Viminale i femminicidi sono in aumento, mentre gli altri delitti sono in diminuzione. Come mai? Nessuno sa dare una risposta. Proviamo a ragionare: queste donne, di solito giovani, non vengono uccise per ragioni economiche, rivalità mafiose, droga, ma vengono massacrate per mano del marito o del fidanzato con cui hanno convissuto e spesso hanno avuto dei figli. Non sono delinquenti, ma mariti, compagni, padri che spesso si autodenunciano e cercano di suicidarsi dopo il delitto. Tutto ciò fa pensare che questi crimini affondino le radici in una questione di identità oltraggiata. Se un uomo riconosce la propria virilità nel possesso di una donna a lui asservita, al primo accenno di autonomia entra in una crisi e non capisce più niente. Pur sapendo che perderà la libertà e i figli avuti da lei, niente sembra potere fermare la furia di un uomo che vede minacciata la propria identità. Ma perché i femminicidi aumentano? Per me è chiaro: perché aumentano l’autonomia e la libertà delle donne, cosa che per certi uomini spaventati costituisce una ferita talmente profonda che può essere alleviata solo con il sangue. Molti non si accontentano di uccidere, strangolare, accoltellare il corpo che dicono di amare, ma lo fanno a pezzi, lo gettano via chiuso in un sacco dell’immondizia. È evidente che si tratta di una profonda crisi esistenziale. Chi crede di avere un diritto naturale alla supremazia di genere, non tollera di esserne privato. Si tratta di un potere profondo e identitario: il potere sacro di riconoscere il proprio io di genere. Sentimento animalesco, preistorico e razzista. Che andrebbe sancito prima di tutto con l’educazione e la cultura. Ma siamo ancora troppo immersi nel patriarcato per trovare un bandolo razionale alla questione. Migranti. L’elicottero e tre navi, il barcone di Cutro fu ignorato da tutti di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 1 agosto 2023 Alle indagini sul naufragio in Calabria contribuiscono le testimonianze raccolte dagli avvocati dei superstiti, che parlano di un velivolo “bianco e rosso” e 3 mercantili “con bandiera italiana” passati accanto al barcone In quanti, comandanti di navi e piloti di elicottero, durante quei quattro giorni di navigazione con mare mosso da Smirne fino a Steccato di Cutro, videro transitare in mare il caicco Summer Love, col suo carico di uomini, donne e bambini in fuga da persecuzioni e povertà, e finsero di non vedere, voltandosi dall’altra parte? “Noi non accusiamo nessuno, abbiamo solo fatto il nostro lavoro”, dicono ad Avvenire gli avvocati Enrico Calabrese e Marco Bona, che assistono le famiglie di 16 sopravvissuti e di 47 vittime del naufragio (in cui perirono almeno 94 persone, compresi 35 bambini, oltre a 30 dispersi e 81 sopravvissuti), precisando l’intento col quale hanno raccolto il materiale probatorio messo a disposizione il 20 luglio della procura di Crotone, che indaga su presunte responsabilità delle autorità italiane nella tragica vicenda. Si tratta delle video-testimonianze di tre sopravvissuti, in base alle quali diverse ore prima del naufragio - il caicco venne più volte avvistato. Non solo da un aereo di Frontex, come era già emerso nei mesi scorsi, ma anche da altre imbarcazioni commerciali, almeno tre, e da un elicottero “bianco” con la “coda rossa”. Una unità militare italiana? Nelle scorse ore la Guardia costiera ha fermamente smentito. Ora toccherà al procuratore crotonese Giuseppe Capoccia e ai suoi sostituti vagliare quel materiale ed eventualmente cercare ulteriori elementi di riscontro, nel filone di inchiesta che già vede indagate sei persone (tre militari della Guardia di Finanza e altri tre nomi coperti da omissis) per omicidio colposo in conseguenza di omissione di soccorso. L’altro filone è quello che vede indagati quattro presunti scafisti, rintracciati dopo il naufragio. “Tre mercantili italiani” - In passato i due legali torinesi hanno assistito altre vittime di gravi naufragi, compreso quello della Costa Concordia. Da marzo hanno assunto la difesa di diversi familiari della tragedia di Cutro (un pool di avvocati crotonesi, con Luigi Li Gotti e Francesco Verri, ne assiste altri). “Abbiamo fatto indagini e sentito tantissimi sopravvissuti e familiari”, raccontano Bona e Calabrese, che sono stati in diversi campi d’accoglienza della Germania settentrionale per raccogliere le testimonianze. In particolare, quelle di tre sopravvissuti afghani “sembrano indicare la presenza di un elicottero diverse ore prima che la nave fosse sorvolata dall’aereo di Frontex”, spiega l’avvocato Bona, e sono “sicuramente meritevoli di approfondimento”. I nomi dei testimoni vengono tenuti al riparo dalla ribalta mediatica (“Nel loro Paese, i loro familiari potrebbero essere minacciati”), ma le deposizioni paiono circostanziate e concordanti su più aspetti. In una di esse, un sopravvissuto, che ha perso nel naufragio la moglie e tre figli piccoli, racconta l’odissea: “Abbiamo lasciato l’Afghanistan per motivi di sicurezza, dopo la conquista da parte dei talebani”. Una tappa in Iran, poi i contatti n con uno scafista in Turchia e la partenza da Smirne per l’Italia: “Siamo stati sulla rotta per 4 notti, dal 21 al 25 febbraio”. Un tempo molto lungo, durante il quale è impensabile che nessuno li abbia notati. E infatti: “Durante il viaggio abbiamo visto navi mercantili italiane, con bandiera italiana, passare accanto alla nostra imbarcazione e dirigersi verso la Grecia”, racconta il teste agli avvocati torinesi, ribadendo che “ci sono state tre navi commerciali”. Ora, può essere che chi comandava quelle navi non si sia accorto dell’effettiva situazione del barcone. In ogni caso, sia come sia, ha tirato dritto mentre il caicco navigava con mare forte, con la prua verso la Calabria. I due passaggi dell’elicottero - La testimonianza arriva quindi a sabato 25: “Erano circa le 19, mentre eravamo seduti sul ponte superiore quando un elicottero italiano è arrivato e ha fatto una deviazione sopra di noi. Poi se n’è andato e gli scafisti ci hanno fatto scendere di corsa al livello inferiore. Era un elicottero militare bianco. Nella notte, quando eravamo di nuovo in cima all’imbarcazione, erano circa le 22, l’elicottero ha fatto un altro giro sopra di noi. E uno scafista ci ha detto di nuovo di scendere”. Per ben due volte, dunque, fra le 19 e le 22 del sabato, ossia almeno 6 ore prima del naufragio (avvenuto alle 4 di mattina della domenica) un elicottero “bianco, militare, italiano”, secondo i testimoni, sorvola il caicco. Poi se ne va. A chi appartiene? Chi lo pilota? Riferisce a qualche autorità ciò che ha visto volando a bassa quota sul barcone? Domande finora senza risposta. “Bianco e rosso” - Quando, ascoltando tre superstiti afghani, gli avvocati Bona e Calabrese si sono accorti che l’elemento dell’elicottero ricorreva, hanno provato a vederci chiaro. E hanno mostrato ai testimoni le foto di repertorio di due modelli di elicotteri di diverso colore: uno giallo, come quelli adoperati dalla Guardia di Finanza, e uno bianco e rosso, del tipo in uso alla Guardia costiera. I tre hanno riconosciuto come simile a quello intravisto (descritto come “tutto bianco con una coda rossa e insegne rosse”) il secondo modello. Se quelle testimonianze fossero riscontrate, è il ragionamento di Bona e Calabrese, bisognerebbe quindi “spostare le lancette dell’orologio indietro per quanto riguarda la conoscenza della presenza dell’imbarcazione al largo delle coste calabre da parte delle autorità italiane, in particolare della Guardia costiera”. Sarebbe, argomentano i due avvocati, “un elemento molto importante per valutare le responsabilità penali e civili”, perché farebbe supporre “che quanto accaduto fosse evitabile e scongiurabile”. La smentita e le domande - Nelle scorse ore, come detto, la Guardia costiera italiana ha smentito, “come risulta dagli ordini di volo” delle proprie “basi aeree”, che un suo elicottero fosse in volo in quel tratto di mare. E c’è chi solleva dubbi rispetto alla possibilità, in una sera d’inverno con mare mosso, per qualcuno di individuare con certezza i colori di un elicottero in rapido sorvolo. E se fosse stato un mezzo aereo di un altro Stato? Se si prende per buona la descrizione dei testimoni (“Bianco e coda rossa”), si dovrebbero escludere elicotteri della Grecia, che sono azzurri. Insomma, la vicenda dovrà essere approfondita. Non per il vicepremier e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, per il quale “insinuare che qualcuno non sia intervenuto di proposito, pur capendo il potenziale pericolo, è un insulto non solo alla Guardia Costiera ma all’Italia intera”. Ma gli avvocati torinesi non intendono insinuare alcunché: “Era un nostro dovere deontologico raccogliere quelle deposizioni - dicono ad Avvenire - e abbiamo depositato il tutto in Procura. Altri dovranno decidere...”. Un’altra via per vincere sulla guerra? di Alberto Leiss Il Manifesto, 1 agosto 2023 La guerra in Ucraina ci sta mostrando, forse più degli altri conflitti seguiti al 1945, quanto sia tragicamente assurdo pensare di risolvere i contrasti tra gli Stati, i popoli, le culture, gli interessi economici, le visioni del mondo, affidandosi alla forza delle armi. Uccidendo soldati sconosciuti, ridotti a numeri e sagome da abbattere, e civili ridotti a effetti collaterali. Distruggendo città, campagne (e il grano “dono di Dio”), infrastrutture civili, guerreggiando nei pressi di centrali nucleari…Tutto ciò in un mondo dove molti governi, a cominciare dalla Russia, dispongono di bombe nucleari in grado di eliminarci tutti. Un capo dell’esercito americano ha detto che questa guerra non potrà essere risolta con l’azione militare. Un generale italiano ha affermato che ci vorrà un altro anno di massacri perché sul territorio si creino le condizioni di un negoziato. Se vuoi la pace, devi vincere la guerra? Consola che molti uomini disertino in Russia, e alcuni anche in Ucraina e altrove. È un fatto che molte donne con bambini e anziani siano scappate dall’Ucraina. Molte vorrebbero tornare. Alcune tornano. Molte altre si sistemano nei paesi che le hanno accolte. *** Le opinioni pubbliche oscillano. Hanno paura. Ma è ben presente anche un sentimento di giustizia per cui chi è aggredito ha il diritto di difendersi, e va aiutato. Il pacifismo si attiva generosamente. Ma fatica a ottenere un consenso, a attivare una “mobilitazione” (parola troppo intrisa di un linguaggio militare) in grado di premere su chi avrebbe il potere di agire per un cessate il fuoco. Per passare dalle bombe a qualche scambio di parole, proposte, domande capaci di ascolto. Mi chiedo se non sia venuto il tempo di porre la questione in altri termini, più radicali. La guerra è possibile perché la fanno coloro che la combattono, trovando giustificazioni considerate moralmente alte. È bello morire per la Patria. È ancora più bello morire per la libertà e la giustizia. E invece no. Non è mai bello morire, per nessun altissimo ideale. Ancora meno bello morire avendo messo nel conto di uccidere. *** C’è una radice antropologica della guerra, senza guardare la quale forse non si riesce a uscire dallo schema mentale e sentimentale che la sostiene e la considera giusta. Mi è già capitato di sostenere qui - come ipotesi da investigare - che questa radice ha a che fare con il regime simbolico patriarcale. L’onore virile è alla base del duello, e il duello - Clausewitz dixit - è alla base della guerra (“La guerra non è altro che un duello su larga scala”). Oggi si comincia a vedere anche da parte maschile - ma non basta ancora - che le violenze quotidiane contro le donne, gli stupri i femminicidi, sono agiti da noi uomini. Dipendono non solo da “patologie”, ma da quella cultura patriarcale che ci attraversa, diversamente, tutti. Dovremmo vedere finalmente che anche la guerra è sostenuta da questa visione di noi stessi, degli altri e del mondo. Fare la guerra ci fa orrore, ma ci da anche forza, soddisfazione. Ci legittima come eroi, ci accoglie tra chi ci disprezzava persino se siamo un battaglione glbtqia+, come sta accadendo in Ucraina. *** Della guerra e dei suoi nessi con la virilità abbiamo discusso nella rete di Maschile plurale. Ne è nato un testo-resoconto, “Maschi e guerra”, ed è stato avviato un confronto (“Cominciando a discutere. Noi maschi e la guerra”), disponibili entrambi sul sito della rete. Proveremo a coinvolgere altri, altre, altr*: non cerchiamo adesioni a una tesi. Ma approfondire i sentimenti, le opinioni, le esperienze, le domande. Soprattutto tra chi la pensa diversamente. Iran. Torna furibonda e crudele la repressione contro donne e ragazze di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2023 Come racconta una ricerca pubblicata nei giorni scorsi da Amnesty International, il 16 luglio il portavoce della polizia iraniana Saeed Montazer-Almahdi ha annunciato il ritorno delle pattuglie di polizia per controllare l’obbligo di indossare il velo. Subito dopo hanno iniziato a circolare sulle piattaforme social video che mostravano donne aggredite da agenti di polizia a Teheran e Rasht e forze di sicurezza che sparavano gas lacrimogeni contro persone che cercano di impedire gli arresti delle donne. La nuova fase repressiva in nome della morale, in realtà, è iniziata prima di luglio: certo in forma meno visibile, con agenti e auto della polizia morale privi di identificativi e insegne, con metodi spesso diversi dall’arresto e dal pestaggio. Ma secondo fonti ufficiali dal 15 aprile 2023 più di un milione di donne ha ricevuto “messaggi” di avvertimento via sms, una volta fotografate alla guida senza velo. Sono stati inviati 133.175 sms per chiedere il fermo di veicoli per una durata di tempo specifica, sono state sequestrate duemila automobili e sono stati segnalati alla magistratura di tutto l’Iran più di quattromila casi di recidiva. Numerose donne sono state sospese o espulse dalle università, è stato loro impedito di sostenere gli esami finali e negato l’accesso ai servizi bancari e ai mezzi di trasporto pubblico. Infine, sono stati raccolti 108.211 rapporti riguardanti la commissione di “reati” all’interno di esercizi o centri commerciali. Centinaia di questi sono stati chiusi per non aver fatto rispettare l’obbligo del velo. Ma non basta. Il 21 maggio la magistratura e il governo hanno presentato al parlamento un “Disegno di legge per sostenere la cultura della castità e dell’hijab”. In base a questa proposta, le donne e le ragazze che appaiono senza velo negli spazi pubblici e sui social media o che “mostrano nudità di una parte del corpo o indossano abiti sottili o aderenti” andranno incontro a multe, confische di auto e dispositivi di comunicazione, divieti di guida, detrazioni dallo stipendio e dai benefici lavorativi, licenziamenti dal lavoro e divieti di accesso ai servizi bancari. Il disegno di legge prevede condanne per le donne e le ragazze riconosciute colpevoli di disobbedire alle leggi sul velo “in modo sistematico o in collusione con servizi di intelligence e sicurezza stranieri” a due o cinque anni di reclusione, nonché divieti di viaggio e residenza forzata in luoghi specifici. I gestori di istituzioni pubbliche e attività commerciali private che permetteranno a impiegate e clienti di non indossare il velo all’interno delle loro strutture subiranno a loro volta sanzioni, dalla chiusura a lunghe pene detentive e divieti di viaggio. La proposta di legge contempla anche una serie di provvedimenti contro gli atleti, gli artisti e altre figure pubbliche che disubbidiscono alle leggi sul velo, compresi divieti di svolgere attività professionali, carcere, frustate e multe. Il 23 luglio 2023 una commissione parlamentare ha fatto sapere di aver inviato il disegno di legge rivisto, composto da 70 articoli, alla plenaria del parlamento. Il nuovo testo non è stato reso pubblico. Allo stesso tempo, le autorità continuano ad applicare il codice penale islamico per perseguitare e infliggere punizioni degradanti alle donne che appaiono in pubblico senza velo. Amnesty International ha esaminato le sentenze emesse contro sei donne negli ultimi due mesi, che prevedono l’obbligo di partecipare a sedute di consulenza per “disturbo di personalità antisociale” o di lavare cadaveri in una camera mortuaria o fare le pulizie in edifici governativi. Questo attacco ai diritti delle donne e delle ragazze avviene in mezzo a una serie di dichiarazioni d’odio da parte di funzionari e media statali iraniani, in cui si fa riferimento al non indossare il velo come a un “virus”, una “malattia sociale” o un “disordine” e si assimila la scelta di apparire senza velo a una forma di “depravazione sessuale”. *Portavoce di Amnesty International Italia