Passano da quattro a sei le telefonate mensili dei detenuti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2023 Annunciato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, dopo il suicidio di due donne detenute a Torino, e confermato dal sottosegretario Andrea Ostellari, è pronto per la presentazione in Consiglio dei ministri, forse già il primo dopo la pausa estiva, il provvedimento che aumenta il numero di telefonate che potranno essere effettuate dai detenuti. Si passerà da quattro a sei al mese, con la possibilità per i direttori degli istituti di aumentarne il numero in casi motivati. Dalla misura saranno esclusi i detenuti con particolari condizioni restrittive. Il provvedimento prende atto del ritorno, nella gran parte delle carceri, delle regole antecedenti al periodo Covid. Se nella fase dell’emergenza sanitaria, infatti, era autorizzata una telefonata quotidiana con i familiari, negli ultimi mesi la chiamata è tornata a essere possibile solo una volta a settimana e per una durata non superiore a io minuti, anche se una circolare del Dap di poco meno di un anno fa riconosce uno spazio di discrezionalità ai direttori per estendere numero e durata. Va ricordato che nel pacchetto di misure prefigurato dall’ultima commissione di riforma dell’ordinamento penitenziario, nella passata legislatura, trovava posto anche una “liberalizzazione” delle telefonate per i detenuti appartenenti al circuito di media sicurezza in assenza di particolari esigenze cautelari e da realizzare attraverso telefoni mobili senza scheda e accesso a internet, con possibilità di chiamare solo numeri autorizzati. Ostellari: “Più telefonate in carcere e un fondo per le vittime con lo stipendio dei detenuti” di Davide Varì Il Dubbio, 19 agosto 2023 “Il provvedimento è pronto e potrebbe essere approvato già nel prossimo Consiglio dei Ministri: le telefonate dei detenuti comuni ai loro congiunti passeranno da quattro a sei al mese, con la possibilità, per i direttori degli Istituti penitenziari, di aumentarne il numero in situazioni particolari, quale ulteriore strumento trattamentale. Nulla cambia per chi sconta una pena per reati più gravi”. Lo ha dichiarato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, che parla di “diritti, ma anche rispetto delle regole, comprese quelle che esistono già, come la circolare che disciplina le sezioni a media sicurezza. Più lavoro, più attività di rieducazione, ma niente sconti per chi crea disordini e mette in pericolo l’incolumità del personale e del resto della popolazione detenuta”. Ostellari, al Messaggero, ha annunciato l’istituzione di “un fondo per le vittime dei reati da alimentare con una parte degli stipendi di chi sta scontando una pena”. I fatti di questi giorni, ha sottolineato, “ci impongono una riflessione sul futuro del sistema carcerario. Che a mio avviso non può prescindere da due parole chiave: regole e diritti”. Ovvero “bisogna offrire ai detenuti strumenti per far sì che non tornino a delinquere. Penso all’attività lavorativa: il 98% di chi vi partecipa, una volta fuori, non rientra nel circuito criminale”. Bisogna far sì “che le imprese siano al corrente dei vantaggi, anche fiscali, che ottengono assumendo detenuti. Per questo abbiamo dato vita a una cabina di regia con il Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, per rilanciare il ruolo del mondo produttivo nella rieducazione. Un’operazione a lungo termine in cui crediamo molto”. Quanto alle regole, “per prima cosa bisogna applicare le circolari che già esistono. Come quella che, negli istituti di media sicurezza vieta ai detenuti di spostarsi nei corridoi o da una cella all’altra liberamente, salvo quando si esce per svolgere altre attività. Nessun intento punitivo: va garantito il rispetto e l’incolumità di chi nelle carceri rappresenta lo Stato. Dalla polizia penitenziaria ai medici e agli educatori: tutti devono essere nelle condizioni di poter svolgere serenamente il proprio lavoro. La “sorveglianza dinamica”, introdotta in passato, è stata un fallimento”. Fondo risarcimenti da stipendi detenuti, Imma Conti: “Bene la proposta di Ostellari” di Davide Varì Il Dubbio, 19 agosto 2023 Per la presidente dell’Associazione Donne Giuriste Italia (Adgi) efficace la proposta del sottosegretario alla Giustizia di fondo costituito dal contributo del lavoro dei detenuti renderà efficace la sentenza al risarcimento nei confronti delle vittime. La proposta del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari che intende istituire un fondo a sostegno delle vittime di reati, “da alimentare con una piccola parte degli stipendi dei detenuti che lavorano”, viene commentata positivamente dall’avvocata penalista Irma Conti, presidente dell’Associazione Donne Giuriste Italia (Adgi) che all’Adnkrons dichiara: “Un fondo costituito dal contributo del lavoro dei detenuti renderà efficace la sentenza al risarcimento nei confronti delle vittime. Basti pensare che la condanna alla pena edittale riguarda lo Stato, mentre quella del risarcimento la vittima, che è destinata a rimanere sempre sulla carta nei casi più gravi quando la condanna ad una pena notevole esclude la possibilità di risarcire. Già per questo la proposta del sottosegretario Ostellari sarebbe estremamente efficace”. Per l’avvocata Conti questa proposta “contribuisce al recupero del condannato il fatto che il detenuto possa lavorare e, non da poco, anche al fine di escludere la recidiva. Insomma, una vita dietro le sbarre non deve essere privata della dignità del lavoro anche per il sicuro effetto sociale cui è strettamente connessa la funzione rieducativa”. La presidente Adgi ritiene infatti che la creazione di attività lavorative in carcere favorisca il reinserimento nella società del detenuto. “Anche altre nazioni consentono addirittura di espiare interamente la pena lavorando all’esterno - ricorda Conti - Ovviamente in tal caso si dovrà tenere conto sempre del reato e della entità della pena: non vedo perché concedere benefici nei casi più efferati, e parlo dei femminicidi in primis. Del resto se ben è stato fatto ad inserire le misure di prevenzione anche per gli stalker, parimenti renderei omogenea la fase della esecuzione della pena, inserendo tali reati tra quelli ostativi”. Il sottosegretario Ostellari ha annunciato che il provvedimento è “pronto e potrebbe essere approvato già nel prossimo Consiglio dei Ministri: le telefonate dei detenuti comuni ai loro congiunti passeranno da quattro a sei al mese, con la possibilità, per i direttori degli Istituti penitenziari, di aumentarne il numero in situazioni particolari, quale ulteriore strumento trattamentale. Nulla cambia per chi sconta una pena per reati più gravi”. Ostellari, al Messaggero, ha annunciato l’istituzione di “un fondo per le vittime dei reati da alimentare con una parte degli stipendi di chi sta scontando una pena”. I fatti di questi giorni, ha sottolineato, “ci impongono una riflessione sul futuro del sistema carcerario. Che a mio avviso non può prescindere da due parole chiave: regole e diritti”. Ovvero “bisogna offrire ai detenuti strumenti per far sì che non tornino a delinquere. Penso all’attività lavorativa: il 98% di chi vi partecipa, una volta fuori, non rientra nel circuito criminale”. Bisogna far sì “che le imprese siano al corrente dei vantaggi, anche fiscali, che ottengono assumendo detenuti. Per questo abbiamo dato vita a una cabina di regia con il Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, per rilanciare il ruolo del mondo produttivo nella rieducazione. Un’operazione a lungo termine in cui crediamo molto”. Quanto alle regole, “per prima cosa bisogna applicare le circolari che già esistono. Come quella che, negli istituti di media sicurezza vieta ai detenuti di spostarsi nei corridoi o da una cella all’altra liberamente, salvo quando si esce per svolgere altre attività. Nessun intento punitivo: va garantito il rispetto e l’incolumità di chi nelle carceri rappresenta lo Stato. Dalla polizia penitenziaria ai medici e agli educatori: tutti devono essere nelle condizioni di poter svolgere serenamente il proprio lavoro. La “sorveglianza dinamica”, introdotta in passato, è stata un fallimento”. “Meno soldi ai detenuti che lavorano”. La follia leghista di Frank Cimini L’Unità, 19 agosto 2023 Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari annuncia che sarà costituito un fondo per le vittime dei reati da alimentare con una piccola parte degli stipendi dei detenuti che lavorano. “Credo che sia un bel segnale che chi con i propri comportamenti ha offeso la collettività violando la legge contribuisca risarcire in qualche modo chi da quel comportamento è rimasto offeso” aggiunge Ostellari dopo aver premesso che i fatti questi giorni, ovvero i tre suicidi “ci impongono una riflessione sul futuro del sistema carcerario che a mio avviso non può prescindere da due parole chiave, regole e diritti”. Insomma a fronte di reclusi che scelgono di togliersi la vita perché non reggono un sistema penitenziario e condizioni di detenzione a dir poco inique a pagare il conto deve essere la popolazione carceraria che lavora. Siamo a una sorta di pizzo di Stato sugli ultimi, nella Repubblica del vittimario anche se Ostellari bontà sua ammette che il 98 per cento dei reclusi che lavorano poi una volta fuori non rientra nel circuito criminale. E di conseguenza, stando al ragionamento “dell’illuminato” sottosegretario alla Giustizia questi detenuti devono pagare un prezzo ulteriore accettando di buon grado la decurtazione del salario. Vale a dire di essere ulteriormente sfruttati. E devono dire grazie a chi li sfrutta a cominciare dalle imprese che assumendo detenuti hanno diritto a forti sgravi fiscali. “Più lavoro, più attività di rieducazione, ma niente sconti per chi crea disordini e mette in pericolo l’incolumità del personale e del resto della popolazione detenuta” continua il ragionamento. Non conta niente invece il fatto che spesso gli agenti di polizia penitenziaria accusati di aver picchiato e torturato i reclusi nel corso delle rivolte o anche in assenza di eventi di questo tipo dopo un po’ di tempo vengono reintegrati in servizio e rimessi addirittura nella stessa struttura dove avevano operato in precedenza. “Chi si comporta bene” avrà diritto a sei telefonate al mese invece di quattro è la proposta che dovrebbe già passare nella prossima riunione del consiglio dei ministri Da un lato il bastone, dall’altro la carota. E la giustizia a doppia velocità, due pesi e due misure. Le responsabilità di un sistema che funziona male e crea ulteriori ingiustizie viene scaricato quasi interamente sui detenuti. Di provvedimenti di amnistia di sanzioni diverse dal carcere non se ne parla a meno di non considerare credibile la proposta di Nordio relativa all’utilizzo delle caserme peraltro di difficile se non impossibile fattibilità nell’immediato. “Il carcere è obsoleto, Susan voleva solo vedere il suo bambino. Un detenuto in comunità costa meno che in cella” di Roberto Giachetti Il Riformista, 19 agosto 2023 Rita Bernardini è una storica militante radicale, Presidente di “Nessuno tocchi Caino”. La battaglia per il mondo carcerario, per i diritti dei detenuti, è stata una battaglia condotta con forza da Marco Pannella. E in Rita c’è la stessa determinazione, la stessa passione, la stessa dedizione che si traduce in visite quotidiane nelle carceri non solo per capire quale sia la condizione dei detenuti e dei “detenenti” (copyright Pannella), ma anche quali possano essere i modi attraverso i quali rendere più dignitosa la vita di tutti i reclusi. In questi giorni si parla stranamente molto di carcere: forse perché ci sono stati tre suicidi in poche ore o perché essendo Ferragosto le notizie scarseggiano. La vicenda di Susan, detenuta nel carcere di Torino, morta dopo uno sciopero della fame e della sete, quindi largamente prevedibile, al contrario di chi si mette un cappio al collo e si suicida, come la definiresti? “È l’orrore del silenzio, anche delle istituzioni. Questa donna chiedeva di poter vedere il suo bambino, capisci? È mancato il dialogo, i garanti non sono stati informati. Susan si trovava in una zona del carcere, l’articolazione di salute mentale, “isolata”. Ha rifiutato il ricovero in ospedale. Occorreva quindi che tutti fossero mobilitati, dal garante, agli psicologi, per tentare di salvarla. Ma questo non è stato fatto e Susan è morta nel silenzio. Questa vicenda ti dà la cifra di quello che è diventata (e peggiora ogni giorno di più) questa istituzione obsoleta che è il carcere”. Vorrei che tu ci parlassi di un’esperienza, quella del gruppo “Le ragazze di Torino”. Un gruppo che è molto attivo, che ha fatto molte battaglie e che ha sposato un’iniziativa che tu hai ideato e io ho presentato in Parlamento, che è quello della Liberazione Anticipata Speciale... “Sì, sono molto attive dentro il carcere, ma anche fuori, perché Marina e Stefania, le prime che si sono messe in contatto con me, finalmente sono uscite dal carcere e stanno lavorando, ma non si sono dimenticate delle loro compagne. Mara Marina, così le piace essere chiamata, si sta anche laureando, oltre che lavorare: sta facendo un percorso eccezionale. Chiedono spesso che tu le vada a trovare, sei il loro idolo”. Appena potrò camminare. Il fatto che Marina e Stefania lavorino non dovrebbe essere un’eccezione perché è quello che la nostra Costituzione prevede: se si finisce in carcere o si accede a pene alternative perché si è commesso un reato, dovere dello Stato e della comunità è di recuperare queste persone per consentire il loro reinserimento nella società... “È previsto proprio dall’ordinamento penitenziario con i Consigli di aiuto sociale che però non ci sono: dal 1975 nessun Governo ha mai voluto attivarli senza peraltro mai abrogare le norme che li prevedono. È la legge, lettera morta”. Se in carcere ci fossero le persone che ci devono stare e non ci fossero le tante persone che non dovrebbero starci, il problema del carcere in questo paese non esisterebbe o addirittura ci sarebbero energie e risorse per consentire che diventi molto di più un luogo di recupero e di reinserimento sociale. Penso ai tossicodipendenti o ai tanti casi psichiatrici che sono reclusi perché non c’è l’alternativa... “Certo e accanto a questo va considerato l’errore di aver smantellato o depotenziato i centri di salute mentale sul territorio e i SERD. Così nessuno intercetta più i casi critici per fare prevenzione. Il tutto per “risparmiare”, scaricando il disagio sociale sulla collettività e, alla fine, spendendo molto di più”. Vedo un problema di fondo però, che è nelle istituzioni: il Ministro Nordio di fronte a quello che è accaduto ha fatto delle dichiarazioni che a me hanno fatto venire la pelle d’oca. Per risolvere il problema del sovraffollamento Nordio vuole utilizzare le caserme. Io sono d’accordo con i sindacati degli agenti di custodia, che hanno detto sì, ma hanno chiesto di avere ulteriore personale apposito. Servono soggetti qualificati per gestire una situazione che diventa ancora più complicata. In generale penso che la via sia però opposta: noi dobbiamo fare in modo che in carcere ci siano meno persone possibili, cioè che ci siano tutta una serie di alternative al carcere che consentano di espiare la pena, soprattutto per coloro che devono starci poche settimane, pochi mesi, forse anche pochi anni... “Il ministro Nordio, purtroppo, fino a questo momento ha fatto tutto il contrario di quello che ha detto in questi anni. Ma vediamo il bicchiere mezzo pieno. Il suo messaggio, inviato alla comunità penitenziaria dei 189 istituti, è stato un’innovazione; io non ricordo Ministri della Giustizia che si siano rivolti con un messaggio alla popolazione che abita le carceri; quindi, questa è una cosa sicuramente positiva. L’altra cosa positiva è l’impegno che ha preso pubblicamente di aumentare le telefonate che i detenuti possono fare, non è secondario anche se pensiamo al numero dei suicidi e degli atti di disperazione che si verificano nelle carceri. E poi Veniamo alle caserme. Tutti i Ministri della Giustizia, quando si trovano di fronte al problema del sovraffollamento, soprattutto nelle dichiarazioni fatte all’inizio del mandato, propongono di usare le caserme, come se fosse un problema solamente di avere un luogo fisico e come se quel luogo fisico non dovesse essere poi abitato da tutto il personale che è previsto. Questa sciocchezza in realtà potrebbe non divenirla se questi luoghi (o altri in disuso e di proprietà pubblica) divenissero posti dove i condannati che non hanno una casa possano scontare la detenzione domiciliare”. Anche perché in galera ci sono anche molte persone che potrebbero tranquillamente stare agli arresti domiciliari ma che non possono semplicemente perché non hanno una casa... “L’altro giorno nella visita a Rebibbia ne ho incontrati diversi. Inoltre, potrebbe essere importante per i detenuti meno pericolosi, tossicodipendenti o altre categorie, tornare a un modello simile agli Istituti a Custodia Attenuata, che non richiedono molte forze dell’ordine, ma personale sicuramente qualificato dal punto di vista psicologico. Fra l’altro costerebbe meno allo Stato inviare un detenuto in comunità anziché in carcere: andrebbero favorite nuove comunità anche di tipo sperimentale: molte comunità, infatti, non raggiungono l’obiettivo di far uscire le persone da dipendenze problematiche perché sono troppo rigide o perché non hanno personale adeguatamente preparato. Per i malati psichiatrici, a parte le REMS destinate alle misure di sicurezza per coloro che sono stati dichiarati incapaci di intendere e di volere al momento della commissione del reato, occorre prevedere comunità terapeutiche assistenziali come quelle che ci sono in Sicilia che sono piccole (al massimo ospitano 20 persone), hanno personale preparato e fondi regionali destinati (e vincolati) al reinserimento sociale di queste persone. Le soluzioni, se ci si mette al lavoro, ci sono. Il primo obiettivo comunque deve essere combattere il sovraffollamento”. Dal carcere del nuovo complesso di Rebibbia che numeri emergono? Qual è la realtà del carcere romano che hai visitato il giorno di Ferragosto? “A Rebibbia c’è una bravissima direttrice, la dottoressa Rossella Santoro, tanto è vero che nello sfacelo generale dei 189 istituti penitenziari Rebibbia la collocherei ben oltre la metà classifica. Ma i numeri sono comunque sconvolgenti: 1506 detenuti per mille posti regolamentari. Il sovraffollamento è del 150%. Tenendo presente che è un grande carcere e che ci sono zone come il 41bis dove il sovraffollamento (purtroppo per loro) non c’è perché sono in isolamento in una cella, in alcune sezioni si arriva anche al 180%, al 200%. A Rebibbia, 321 detenuti devono scontare da un giorno a un anno a 12 mesi, 314 devono scontare una pena residua che va da un anno a due anni. 246 da due a tre anni 190 da tre a quattro anni. Il totale? 971 persone su 1500, quindi, devono scontare una pena sotto i quattro anni. Il che vuol dire che molti di loro potrebbero accedere a misure alternative. Dati analoghi si registrano per Milano San Vittore che ho visitato recentemente”. E gli educatori? “10 per 1500 detenuti. Ogni educatore deve farsi carico di 150 detenuti. Non è possibile, non può fare niente, tanto è vero che abbiamo incontrato, nelle sezioni più critiche, persone che l’educatore non l’hanno mai visto, non sanno neanche chi è. Se andiamo a vedere però anche la polizia penitenziaria, qui scopriamo che il personale previsto, le famose piante organiche, è di 815 agenti, però come forza operativa ce ne sono 705, ma da questi bisogna sottrarre il nucleo traduzioni che in sezione non ci sta”. Sono quelli che portano i detenuti nei vari ospedali, processi… “Esattamente. Poi ci sono le unità dei cinofili, le unità distaccate e scendiamo così a 531, ma di questi 531, 27 sono all’ospedale Sandro Pertini, ma non finisce qui perché ci sono altri 150 funzionari, che in sezione non ci stanno, per cui alla fine scendiamo a 350 unità presenti in sezione per 1500 detenuti! Accade così che il sabato non ci siano più di 20 agenti a presidiare tutto l’istituto. Poi naturalmente non ci sono gli educatori, quindi io ho il sospetto che il sabato gli psicofarmaci circolino di più degli altri giorni, perché bisogna tenere calmi questi 1.500 esseri umani intrappolati. È una situazione esplosiva, drammatica”. Come rispondono gli interlocutori istituzionali? “L’incontro che abbiamo avuto come “Nessuno tocchi Caino” con il capo del DAP, il Dr. Giovanni Russo, è stato veramente importante, perché ha dimostrato di conoscere questa realtà e sa come bisognerebbe intervenire. Naturalmente in alcuni casi bisognerebbe intervenire con modifiche di legge e lui non può farlo: devono farlo Governo e Parlamento. Credo che sulle telefonate il Ministro Nordio abbia ascoltato il capo del DAP, io chiedo al Ministro di ascoltarlo anche su tutto il resto”. Intanto, alla ripresa dei lavori, sarebbe ora che il Parlamento si facesse carico di intervenire, per esempio calendarizzando la legge sulla liberazione anticipata speciale... “E quella di riforma della liberazione anticipata prevista dall’ordinamento penitenziario. Prevede, in sintesi, che si passi dai 45 giorni (già previsti ogni semestre di pena) a 60 giorni di liberazione anticipata per tutti i detenuti che hanno avuto un buon comportamento in carcere. Prevede inoltre che sia direttamente l’istituto a concederla e non il magistrato di sorveglianza già oberato da molte incombenze. L’altra proposta, di liberazione anticipata “speciale”, è di 75 giorni ogni semestre, soprattutto per compensare i due anni terribili che i detenuti hanno vissuto con il Covid”. Ilaria Cucchi: “La persona giusta per il ruolo di Garante dei detenuti è Rita Bernardini” di Liana Milella La Repubblica, 19 agosto 2023 Parole dure su Torino dove la morte delle due detenute è “un suicidio di Stato” e sinonimo di “tragedia”. Quando Nordio cita Norimberga “parla a vanvera”. “Il “buttate via le chiavi” è una bestemmia contro il genere umano”. Sono queste le parole forti di Ilaria Cucchi, la senatrice di Sinistra italiana che annuncia risultati a sorpresa dalle sue visite nelle carceri, e al governo dà un consiglio: “La donna giusta per fare la Garante dei detenuti è Rita Bernardini”. E a Nordio che paragona i suicidi di Torino ai nazisti che si sono tolti la vita nel carcere di Norimberga suggerisce di “non parlare a vanvera”. Per sette anni l’Italia ha avuto la fortuna di avere come Garante delle persone private della libertà - è stato lui a ribattezzare così il Garante dei detenuti - un giurista come Mauro Palma, che ha consumato tutte le sue energie per mettere insieme una potente struttura. Non crede che avrebbe senso sostituirlo con Rita Bernardini, la leader di Nessuno tocchi Caino, da anni impegnata nel mondo delle carceri, salvo forse non avere alcun feeling con questa maggioranza? “Mauro Palma può dire quello che vuole, ma credo che lui sia stato e continui a essere il Garante dei diritti dei detenuti per eccellenza. Non rileva che sia scaduto il suo mandato. Lo è per cultura, sensibilità e competenza. È il suo Dna. Punto e basta”. Sono d’accordo con lei... “Detto questo, non sarebbe per nulla male se ora questa importantissima figura istituzionale fosse rivestita da una donna come Rita Bernardini. Io non sono nessuno per poter dare indicazioni su questo tema così delicato, ma di una cosa sono certa: la maggioranza al governo deve starne fuori. Chi dovrebbe aver voce in capitolo sono le associazioni più importanti che sui temi del rispetto dei diritti umani trovano la loro stessa ragione di esistenza. Comunque la mancanza di feeling con il Governo è un’ottima ragione per nominarla”. È ammissibile invece che si lottizzi anche questo posto? Come sta facendo il Guardasigilli Nordio che all’inizio di agosto ha portato al Quirinale i nomi di Felice Maurizio D’Ettore, in qualità di capo Garante, e oggi ordinario di diritto privato a Firenze (quindi incompatibile), affiancato da Carmine Antonio Esposito, ex presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli ora a riposo vista la sua età assai avanzata e con un ruolo politico di destra in un consiglio comunale in Campania, e Mario Serio, professore di diritto privato comparato a Palermo segnalato da M5S? “La lottizzazione di questo posto è espressione di una gestione di potere. Un vero e proprio ossimoro con lo stesso termine di Garante. L’unico potere che riguarda il ruolo del Garante è mettere a nudo proprio il potere che non rispetta i diritti dei detenuti”. A Torino, dove muoiono ingiustamente due detenute di cui presto si dimenticherà il nome, arriva il Guardasigilli Nordio e parla di suicidi inevitabili proprio come dimostra, è lui a dirlo, il caso di Norimberga e dei due gerarchi nazisti suicidi. Secondo lei un ministro che dice questo non dovrebbe correre a dimettersi? “Torino, oggi, è sinonimo di tragedia. Prima che quelle due donne siano ridotte a semplice statistica, occorre puntare il dito sul nocciolo della questione. Si è trattato di due femminicidi di Stato. Quel che dice il ministro Nordio citando a vanvera tribunali della storia non mi interessa. Due donne sono morte. Le loro morti erano ampiamente annunciate. Dovevano essere evitate. Punto e basta. Un Stato civile e democratico non può permettere che accada tutto questo”. In questi mesi da senatrice lei ha fatto molte visite nelle carceri. Che cosa ha visto e alla luce di questa sua esperienza che cosa propone oggi? Una soluzione semplice, concreta, ma che faccia calare la sofferenza di tanti detenuti e li avvii effettivamente a una nuova vita... “La mia modesta storia di neo senatrice è densa di esperienza sul mondo del carcere. Ho fatto numerose visite a sorpresa e realizzato alcune inchieste che presto verranno divulgate. Ma non ho ricette per risolvere questo difficilissimo problema. Quel che so per certo è che non vedo proprio alcuna voglia di risolverlo davvero. Per questo voglio che se ne parli perché così deve essere. Qualcuno si deve vergognare di quello che accade e che ho visto, e lo dico sul serio. Il “buttate via le chiavi” è una bestemmia contro il genere umano”. Il carcere è sempre meno umano, sempre meno conforme ai precetti costituzionali di Andrea Venanzoni Il Riformista, 19 agosto 2023 Il sociologo canadese Erving Goffman è stato il primo, studiando manicomi, caserme e istituzioni carcerarie, nel suo saggio “Asylums”; a delineare la figura della “istituzione totale”. Né, in argomento, possono essere chiaramente obliate le riflessioni del Foucault di “Nascita della clinica” e di “Sorvegliare e punire”. L’istituzione totale, nel caso che ci riguarda il carcere, si presenta come elemento perfezionato di identificazione tra i dispositivi di controllo elaborati dallo Stato e la dinamica di punizione. Nel carcere non c’è solo espiazione; non c’è una mera separazione fisica del corpo del recluso, come quello del malato nell’ospedale, ma si registra anche una asfissiante cappa burocratica, di iper-regolazione e di controllo verticistico che schiude petali carnicini di dominio e di sottomissione spinti entrambi ai loro estremi. Il carcere non solo esercita il monopolio della coazione e della violenza legittima, esattamente come fuori dal suo perimetro fanno le organizzazioni pubbliche, ma impone una sua totalizzante comunicazione: i paradigmi espressivi sono ferocemente centralizzati, e non sono ammesse vulgate alternative. D’altronde, come ha ampiamente dimostrato il criminologo Carlo Serra che al carcere ha dedicato mirabili pagine, molto spesso i detenuti per sfuggire alla ritenzione delle informazioni e alla imposizione di un linguaggio unico sono costretti a ricorrere a forme cruente di comunicazione non verbale, quale ad esempio l’automutilazione. E proprio la comunicazione si rende imperativo normativo, in questa prospettiva. In carcere il diritto, la regola, la norma rappresentano infatti la legittimazione non della salvezza del detenuto, né la garanzia della sua risocializzazione, ma la gabbia teorica dentro cui formulare l’ipotesi complessiva di società violenta, in quanto violentemente plasmata e vissuta. Come ricorda l’incipit di quello straordinario affresco di violenza istituzionale che Franco Volpi inserì tra le scaturigini del nichilismo europeo, “Le 120 Giornate di Sodoma” di Sade, ogni compagine sociale che della ristrettezza faccia suo cardine nodale deve darsi un corpo di regole che non rappresenteranno più elemento di garanzia, quanto piuttosto certificazione dell’uso legittimo della violenza; e se in quelle pagine, i libertini minuziosamente dettano le loro regole, modellate dal flusso di comunicazione iper-centralizzato nelle bocche delle narratrici, nel carcere ogni regola tende a biforcarsi, essendo prima elemento teorico di garanzia e poi, nella pratica, funzione della trasgressione da punire - ogni volta che la regola sia stata violata o semplicemente non obbedita. Lo Stato, e ogni sua istituzione, è un frammento organizzato di violenza. Lo intuì con sconvolgente lucidità il Roland Barthes di Sade, Fourier, Loyola, che lesse in combinato il pensiero di questi tre giganti, in apparenza diversi, ma costruttori di mondi in cui violenza e organizzazione sono unite tra loro in maniera solida e inestricabile. La regola esiste quindi, nel carcere, solo come funzione di esercizio della punizione che essa porta con sé. Non è funzionale al mantenimento della pace sociale, in quanto il sociale in questo spazio conchiuso e iper-regolato non esiste: c’è solo la istituzione nella sua totalità, con i suoi atomi, i suoi granelli di carne. C’è del vero, tremendo, forse insostenibile, in quella frase di Jean Genet che ricordando i bravi borghesi intenti ad applaudire convinti le guardie mentre esse pestavano i detenuti incolonnati verso il carcere, ricorda come poi quegli stessi bravi borghesi siano divenuti nomi su placche commemorative, inghiottiti dalla tenebra di quello spettacolo tremendo di morte che furono Belzec, Majdanek e gli altri campi di sterminio. Il tema è quindi il livello di degrado che un carcere sempre meno umano, sempre meno conforme ai precetti costituzionali, porta con sé, un degrado capace di uscire dal perimetro fortificato delle sue mura e di inquinare la società tutta. Carceri, la svolta parte dall’Università di Franco Prina* La Stampa, 19 agosto 2023 In questi giorni molto si è scritto sulla condizione delle persone ristrette negli istituti penitenziari e, come sempre accade in occasione di tragedie come quella dei suicidi delle due donne nel carcere di Torino, su cosa occorrerebbe fare per evitarle. V’è una strada maestra: quella di incarcerare meno persone, sia depenalizzando alcuni reati, sia estendendo il ricorso a misure diverse dalla carcerazione. Sia e soprattutto prevenendo la commissione di reati da parte di tanti, in maggioranza persone fragili e senza sostegni sociali e psicologici. Una strada che tuttavia pochi sostengono, in particolare a livello politico, per l’impopolarità delle proposte a fronte di quello che è chiamato “senso comune penale” per cui a ogni reato, a volte a ogni sbaglio commesso per ragioni anche banali, deve corrispondere, come unica risposta dello Stato, la chiusura delle persone in quelle mura. Chiunque svolga un ragionamento serio e non occasionale o, peggio, guidato dal mero interesse per il consenso, non può cessare di richiamare l’utopia di una società con meno carcere e più servizi (ma anche più solidarietà) che accompagnino le persone in difficoltà, consapevoli - la storia lo dimostra - che puntare tutto sulla privazione della libertà in luoghi che per loro natura, sempre, producono rabbia, sofferenza, esclusione, non produce minori reati e maggiore sicurezza. Si tratta di un discorso lungo e complesso che non si può esaurire in poche righe e che attiene a scelte politiche di fondo. Nel qui e ora, pur lavorando a quell’orizzonte, è doveroso affrontare la realtà e avere cura di chi, in queste istituzioni dello Stato, vive quotidianamente la condizione di recluso o reclusa, come di chi è impegnato a gestirle. Per fare questo è fondamentale partire da un assunto e una prospettiva: il carcere è parte del contesto, del territorio in cui, nonostante le mura che ne fanno “un mondo a parte”, è collocato. Come si disse tanti anni fa a proposito dell’istituto penale minorile, se il carcere è nella città allora la città deve essere nel carcere, impegnando tutte le istituzioni del territorio a dare un contributo alla vita e al funzionamento di una istituzione che solo con tante presenze e impegni dall’esterno può essere diversa da un mero contenitore di sofferenze e rabbie e realizzare l’obiettivo dell’art. 27 della Costituzione di favorire il reinserimento sociale di chi la pena ha scontato. Che questo sia decisivo lo si constata in questi giorni, in negativo, denunciando le gravi carenze di impegno della sanità pubblica responsabile - in carcere - della salute in generale e di quella mentale in particolare. In questa prospettiva che vede l’istituzione penitenziaria come parte integrante del contesto sociale in cui è collocata, un contributo prezioso lo può dare anche l’Università, come da anni va facendo e come meglio e più potrebbe fare. Tre sono i fronti di impegno, che sostanzialmente investono tutte tre le “missioni” che il sistema universitario è chiamato ad assolvere. Il primo luogo l’impegno a garantire il diritto allo studio, costituzionalmente tutelato, a chi ne abbia interesse. Lo studio - in tutti i gradi e livelli - e la cultura sono un potente strumento di riscatto, a partire dall’acquisizione di consapevolezza, di strumenti, di un titolo di studio spendibile nel momento del rientro in società. Su questo fronte da anni molte università italiane - quella di Torino fu la prima in Italia - sono seriamente impegnate. Dal 2018 sono riunite nella CNUPP, la Conferenza Nazionale Universitaria Poli Penitenziari (organo della Conferenza dei Rettori) che conta oggi 43 Atenei che vedono quasi 1. 500 iscritti a corsi di laurea universitari di diverse aree disciplinari, in un centinaio di istituti penitenziari di tutta Italia. Il secondo impegno è quello della ricerca, in particolare sulle difficoltà di chi in carcere vive e lavora, sulle problematiche e i meccanismi di funzionamento delle istituzioni penitenziarie, sui fattori che favoriscono o ostacolano il reinserimento. Molto anche in questo campo si è fatto. Vale come esempio, a Torino, una recente ricerca sulla situazione dei giovani adulti reclusi al Lorusso e Cutugno, curata da Garante comunale e Università che è all’origine di un progetto di attenzione specifica a questa tipologia di detenuti e detenute da parte dell’Amministrazione comunale. Ma occorre ampliare l’impegno coinvolgendo, oltre quelle tradizionalmente impegnate come le discipline giuridiche o sociologiche, altre e diverse discipline presenti nelle Università: la psicologia, la pedagogia, l’antropologia culturale, come pure, per la fondamentale relazione tra spazi e benessere (individuale e organizzativo), l’architettura. Impegnarsi a fare più ricerca - libera e critica - nelle carceri da parte delle Università significa offrire ai decisori e all’amministrazione uno strumento di conoscenza utile a cambiare dinamiche e a individuare gli ambiti in cui lavorare per gli indispensabili miglioramenti del sistema. E infine il terzo terreno di impegno è quello - indicato con una espressione inglese come public engagement - che più ampiamente consiste nell’offerta alla comunità locale e alle sue istituzioni delle competenze e dei saperi che trovano sviluppo nelle Università. Qui davvero si può manifestare la volontà di un Ateneo di essere partecipe dei problemi e delle prospettive di sviluppo del contesto in cui è radicato. Nel caso specifico significa offrire le proprie competenze alle amministrazioni della giustizia e dell’esecuzione delle pene, ad esempio, per la formazione, l’aggiornamento, il sostegno psicologico e per la gestione degli eventi critici del personale. Ma anche organizzare iniziative ed eventi per tutta la comunità dei reclusi, favorendone la crescita culturale e il mantenimento dei legami con quanto succede nel mondo. E, infine, ma forse come impegno più rilevante, promuovere nella comunità di docenti e studenti e studentesse e più ampiamente sul territorio, una maggiore conoscenza e una profonda riflessione sul senso delle pene, sulle alternative alla carcerazione, sulla possibile prevenzione dei comportamenti reato e sull’importanza di favorire il reinserimento sociale di chi è stato condannato. Perché la questione del disagio e delle devianze non può essere “affare” da delegare solamente ad un apparato dello Stato, ma interpella tutte le istituzioni insieme alla società civile. *Sociologo Il carcere è pena alla sofferenza... fino alla morte di Associazione Voci di Dentro vocididentrojournal.blogspot.com, 19 agosto 2023 Tre persone erano in sciopero della fame, 44 hanno usato bombolette del gas o lenzuola, 53 sono morti per altre cause: dall’inizio dell’anno a oggi, sono cento le persone per le quali la pena del carcere è stata una pena di morte. Una pena di morte in un paese dove era stata bandita nel 1889 (con l’eccezione nel periodo fascista) e nei fatti cinicamente reintrodotta nel silenzio generale all’interno di strutture escluse da ogni controllo democratico e dove domina un sistema dispotico. Strutture che sono diventati luoghi di segregazione di persone sofferenti, vittime di disagi sociali ed economici e resi dipendenti da farmaci e sostanze. Persone alle quali sono stati tolti i diritti fondamentali di ogni persona come il diritto alla salute, il diritto alla parola eccetera. Vittime. Come vittime sono state quelle 86 morte “suicide” lo scorso anno. Nient’altro che vittime. Ignorate prima di finire in carcere e ignorate dopo, dentro quelle celle fatiscenti e putride dove la pena è privarle di affetti, amori, lavoro, e infine della vita stessa. Già un anno fa titolammo il numero di settembre di Voci di dentro “Non chiamateli suicidi” e facevamo riferimento al caso di Donatella Hodo trovata senza vita a Montorio. Lo ripetiamo oggi: non sono suicidi, troppo facile imputare tutto alla soggettività, quando ci sono evidenti, chiare e precise responsabilità: nelle morti in carcere c’è uno Stato che non ha rispettato le leggi e non ha rispettato la Costituzione. E intanto, di nuovo, mentre fioccano le solite frasi di circostanza, e appaiono articoli di giornali, riprese e servizi Tv, mentre politici e ministri riciclano vecchie e inutili idee (addirittura le caserme) il tempo passa e nulla cambia se non la solita chiacchiera e propaganda: ennesima conferma che il carcere è solo luogo concentrazionario e di segregazione. E dove si muore perché il sistema carcere (ricordiamolo, a monte c’è sempre un codice Rocco del 1930 e un sistema penale rimasto carcerocentrico) questo produce: cioè, trasforma migliaia di persone in devianti, poi in criminali da incarcerare, quindi in psichiatrici anche loro da incarcerare. Tre persone erano in sciopero della fame, 44 hanno usato bombolette del gas o lenzuola, 53 per altre cause… per tutte le altre 57 mila persone detenute, il carcere è pena alla sofferenza... fino alla morte. Dalle indagini alle sanzioni, cambia ancora il processo penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2023 Pronto il decreto correttivo della riforma Cartabia A settembre l’approvazione. Dalle indagini alle pene sostitutive, passando per la giustizia e la responsabilità degli enti. È ormai pronto il primo intervento correttivo della riforma Cartabia del processo penale. Questo almeno sul piano formale, perché su quello sostanziale va ricordato che il primo decreto legge del governo Meloni stabilì, tra l’altro, il rinvio della riforma (ora in vigore da inizio anno) per scriverne una più articolata disciplina transitoria soprattutto sul versante delle nuove condizioni procedibilità per alcuni reati. Adesso lo schema di decreto legislativo messo a punto dal ministero della Giustizia, che verrà presentato a uno dei primi Consigli dei ministri a settembre, dopo la pausa estiva, interviene su alcuni punti critici segnalati in questi primi mesi di applicazione del nuovo sistema processuale. Centrale nella riscrittura è la materia dei diritti e delle facoltà dell’indagato e della persona offesa in caso di mancato rispetto da parte del pubblico ministero dei termini per la conclusione delle indagini preliminari. Lo schema di decreto, infatti, rivede l’intero articolo 415 ter del Codice di procedura declinando la facoltà del Pm, prima della scadenza dei termini, di presentare al Gip richiesta motivata di rinvio del deposito della documentazione relative alle indagini svolte. In particolare la richiesta è possibile: O quando è stata richiesta l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere o degli arresti domiciliari e il giudice non ha ancora provveduto o quando, fuori dai casi di latitanza, la misura applicata non è stata ancora eseguita; e quando la conoscenza degli atti d’indagine può concretamente mettere in pericolo la vita o l’incolumità di una persona o la sicurezza dello Stato oppure, nei procedimenti per i reati più gravi (quelli con più ampi tempi di indagine), provocare un danno concreto, non evitabile attraverso la separazione dei procedimenti o in altro modo, per atti o attività di indagine specificamente individuati, rispetto ai quali non sono scaduti i termini di indagine e che sono diretti all’accertamento dei fatti, all’individuazione o alla cattura dei responsabili o al sequestro di denaro, beni o altre utilità di cui è obbligatoria la confisca. Se il pubblico ministero non ha esercitato l’azione penale, né richiesto l’archiviazione, la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa possono chiedere al Gip di valutare le ragioni del ritardo e, nel caso in cui non siano giustificate, di ordinare al Pm di decidere. Sulla richiesta il giudice, sentito il pubblico ministero, provvede nei 20 giorni successivi. L’istanza è comunicata al procuratore generale presso la Corte d’appello. Quando non ha autorizzato il differimento, il giudice ordina al pubblico ministero di esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione entro un termine non superiore a 20 giorni. Quanto alle pene sostitutive, il cui utilizzo è incentivato dalla riforma, il decreto, oltre a intervenire per sganciare la richiesta dall’assenza di opposizione e ridimensionare la necessità di ascolto delle parti, disciplina espressamente la richiesta in appello, stabilendo l’eventuale (se la Corte d’appello non è nelle condizioni di decidere subito) fissazione di udienza a 60 giorni dalla domanda. Riforma della prescrizione: cosa prevede il nuovo testo e perché Nordio rischia di rompere il fronte garantista di Paolo Pandolfini Il Riformista, 19 agosto 2023 La ‘ciambella di salvataggio’ di Nordio permetterà alle toghe, in caso di un via libera quanto mai difficile da parte del Parlamento, di guadagnare tempo prezioso sulle spalle degli imputati. “È certamente il modo peggiore per ricordare il compianto Niccolò Ghedini ad un anno esatto della sua prematura scomparsa”, ha affermato ieri un parlamentare di Forza Italia che ha chiesto l’anonimato per non esacerbare ancora di più gli animi all’interno della maggioranza che sostiene il governo di Giorgia Meloni. Oggetto del contendere questa volta è la riforma della prescrizione che il ministro della Giustizia Carlo Nordio si appresterebbe a presentare in Parlamento. Il testo, anticipato da Repubblica, prevederebbe l’inizio del decorso della prescrizione non più dal momento del compimento del fatto reato ma dalla sua scoperta. Una bella differenza in quanto darebbe ai Pm un potere discrezionale immenso. “Dal Ministero oggi (ieri per chi legge, Ndr) non è arrivata alcuna smentita”, prosegue l’anonimo parlamentate forzista “e questo non può non creare imbarazzo”. “Forza Italia si opporrà in tutti i modi, anche per rispetto alla memoria di Ghedini, ad una riforma del genere che è la negazione stessa del principio costituzionale del giusto processo. Gli unici ad essere contenti saranno i Pm”, conclude il deputato azzurro. L’anticipazione di Repubblica non era comunque passata inosservata in questi giorni di vacanza. “Non siamo dei passacarte, le leggi le scrive il Parlamento e non i burocrati del ministero”, aveva dichiarato al Dubbio Pietro Pittalis, vice presidente della Commissione giustizia della Camera e sottoscrittore di uno dei dl proprio sulla riforma della prescrizione insieme a Ciro Maschio (FdI) ed a Enrico Costa (Azione). “Sono terminate le audizioni e dalla prima settimana di settembre inizierà l’esame del testo” aveva ricordato sul punto Pittalis. Il sospetto da parte degli esponenti forzisti è che dietro la sortita di Ferragosto sulla prescrizione ci possa essere lo zampino dei magistrati distaccati fuori ruolo a via Arenula. Potrebbero essere loro gli autori di questa riforma che è chiesta da anni a gran voce dai colleghi delle procure. Non è un mistero, poi, che ci siano perplessità sul modo in cui Nordio stia gestendo i dossier più delicati. Il ministro il mese scorso ha firmato il decreto per la super task-force sulla riforma del processo penale. Presieduta da Antonello Mura, capo ufficio legislativo ed ex procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, la task-force è composta quasi esclusivamente da magistrati. Scorrendo i quarantadue nomi che la compongono, trenta sono infatti magistrati, di cui ben dieci in servizio presso l’ufficio legislativo di via Arenula. Fra i non togati si segnala il presidente ed il segretario delle Camere penali, un rappresentante del Consiglio nazionale forense, quattro professori universitari, la segretaria particolare di Nordio. Una composizione che non può non sollevare dubbi circa i ‘rapporti di forza’ al suo interno e che dovrebbe mettere sul banco degli imputati i Pm. Le statistiche convergono da anni ormai sul fatto che la prescrizione in due casi su tre matura durante la fase delle indagini preliminari. Un dato che rendeva inutile il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di assoluzione che in caso di condanna, voluto dall’allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede (M5S). Su questo aspetto lo stesso Consiglio superiore della magistratura in un parere aveva sottolineato che tale riforma non era idonea “ad incidere sul funzionamento del processo penale accelerandone la conclusione, non contenendo alcuna previsione in tal senso”. “A sistema giudiziario invariato, non può non escludersi che i gradi di giudizio successivi al primo, all’esito del quale interverrà la causa di sospensione della prescrizione, si svolgano più lentamente che in passato, venendo meno uno dei principali fattori che determinano, di norma, un’accelerazione dei tempi di definizione dei processi, legato al pericolo di prescrizione del reato sub iudice” avevano aggiunto dal Csm ricordando i pericoli di “un effettivo allungamento dei processi con importanti ricadute sulla posizione delle vittime di reato e degli imputati. Rispetto a primi la domanda di giustizia rischierebbe di trovare definitiva soddisfazione solo dopo il decorso di molti anni dal fatto. Rispetto agli imputati si deve assicura la ragionevole durata del processo e scongiurare che su di loro possano essere riversate le inefficienze del sistema, come accadrebbe se si giungesse a concepire in processo tendenzialmente illimitato”. Criticità che la successiva riforma voluta dalla Guardasigilli Marta Cartabia aveva voluto risolvere, pressata dall’Europa che ha chiesto all’Italia la riduzione de tempi processuali per accedere ai fondi del Pnrr, introducendo l’istituto dell’improcedibilità trascorsi due anni senza che sia stato celebrato l’appello. Alla prova dei fatti, però, più della metà delle Corti d’appello non sono attualmente in condizione di celebrare un processo rispettando tali tempistiche, determinando una “ingiustificata e irrazionale rinuncia dello Stato al dovere di accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità sul piano penale, rispetto ad un reato certamente non estinto”, aveva evidenziato sempre il Csm. Ecco, allora, la ‘ciambella di salvataggio’ by Nordio che permetterà alle toghe, in caso di un via libera quanto mai difficile da parte del Parlamento viste le premesse, di ‘guadagnare’ tempo prezioso sulle spalle degli imputati. Alla faccia dei princìpi liberali e garantisti sempre sbandierati dal Guardasigilli. L’appello di 300 magistrati in pensione a Nordio: “Separare le carriere di giudici e pm stravolge la Costituzione” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 19 agosto 2023 Tra i firmatari della lettera destinata al Guardasigilli anche Francesco Greco e Piercamillo Davigo, oltre alle toghe della stessa generazione del ministro. “Forse l’intento del governo è controllare l’azione del pubblico ministero”. “Siamo magistrati in pensione civilisti e penalisti, giudici e pubblici ministeri, che sentono il bisogno di intervenire contro l’annunciata riforma della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri”. Sono trecento (320 già solo in tre giorni di firme), non sono (più) giovani, e se saranno forti lo si vedrà a seconda di quanto impatto avrà l’appello che stanno lanciando dalla pensione. Sì, perché questa è la “Generazione Nordio” che scrive a Nordio, sono tutti (come il ministro della Giustizia) magistrati in pensione, toghe già da tempo a riposo, e che dunque ritengono disinteressato il proprio punto di vista nutrito da assai differenti orientamenti culturali, posizioni associative, pregressi incarichi, e a volte persino accesi passati confronti. I promotori (tra i quali il giudice Luigi Caiazzo e il pm Gianluigi Fontana) raccolgono ad esempio l’adesione della prima donna presidente di sezione della Cassazione, Gabriella Luccioli; del civilista presidente aggiunto di Cassazione ed ex commissario Consob, Renato Rordorf, o sempre in Cassazione del procuratore generale Giovanni Salvi; di due capi del Dipartimento delle carceri, Giovanni Tamburino e Dino Petralia; dei magistrati che scoprirono la loggia P2, Gherardo Colombo e Giuliano Turone. Ex pm di Mani pulite, oggi ai ferri corti sul caso Amara, firmano invece all’unisono l’ex procuratore di Milano Francesco Greco e Piercamillo Davigo; i già procuratori di Torino agli opposti dal punto di vista associativo, Marcello Maddalena e Armando Spataro, ex componenti Csm come Vittorio Borraccetti; il giurista di Cassazione Aniello Nappi, e l’ex avvocato generale Nello Rossi; un leggendario presidente di Corti d’Assise come Camillo Passerini; la civilista Elena Riva Crugnola; il procuratore genovese del ponte Morandi, Francesco Cozzi, il pm antimafia milanese Alberto Nobili, o i presidente della Corti d’Appello di Milano e Napoli, Vincenzo Salafia e Giuseppe De Carolis. Dopo aver ricordato che nella quotidianità delle aule “dalle riforme Castelli e Cartabia già sono stati praticamente eliminati i passaggi da una carriera all’altra”, i firmatari additano che l’annunciata riforma, in Parlamento dal 6 settembre, “stravolgerebbe l’attuale architettura costituzionale che prevede non solo l’appartenenza di giudici e pm ad un unico ordine giudiziario, indipendente da ogni altro potere, ma anche un unico Csm”. A chi sostiene che ciò “darebbe un vantaggio al pm rispetto al difensore”, ribattono che “i giudici guardano alla rispondenza agli atti e alla logica degli argomenti delle parti, e non certo alla posizione di chi li propone: se fosse fondato questo sospetto, anche il giudice dell’impugnazione non dovrebbe far parte della stessa carriera del giudice del precedente grado di giudizio. Per contro, è essenziale che il pm abbia in comune con il giudice la stessa formazione e cultura della giurisdizione, godendo anche della stessa indipendenza, perché la sua azione deve mirare all’accertamento della verità, e deve poter essere rivolta nei confronti di chiunque, senza alcun timore. Oggi il pm, proprio perché organo di giustizia, è obbligato a cercare anche le prove favorevoli all’indagato e non di rado chiede l’assoluzione: avverrebbe lo stesso con un pm formato nella logica dell’accusa e del tutto separato dalla cultura del giudice? Ci sorprende che i fautori delle carriere separate non vedano i pericoli”. A meno che, teme la “Generazione Nordio”, “il vero intento sia quello di consentire al governo di controllare l’azione del pubblico ministero”. Così la prescrizione che vuole Nordio dà troppo potere al pm di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 19 agosto 2023 Il diritto di difesa sarebbe indebolito e la norma si porrebbe al di fuori della cornice costituzionale: si rischia di lasciare i cittadini a tempo indeterminato sotto la spada di Damocle dell’iscrizione della notizia di reato. La proposta di riforma della prescrizione preannunciata dal Ministro Nordio risponde all’esigenza, generalmente condivisa, di riordinare una materia che vede tutt’ora applicabili diacronicamente ben quattro diversi regimi, a seconda del tempus commissi delicti: pre-Cirielli, Cirielli, Orlando, Bonafede con il correttivo Cartabia. Se tutti sono più o meno d’accordo sulla necessità di ricondurre a razionalità l’istituto, quando si devono delineare le linee di intervento le opinioni divergono, anche profondamente. Il contrasto nasce dalla mancata comprensione del fondamento costituzionale e razionale della prescrizione, come dimostra la proposta di fissare il dies a quo all’inizio delle indagini. Ciò significa non considerare che la prescrizione comprende in sé due orologi ben distinti, sebbene inscindibilmente connessi: quello che misura il tempo della scoperta del reato e quello che misura il tempo dell’accertamento giudiziale. Non si può obliterare questa duplice natura, sarebbe un gravissimo errore di impostazione trascurare, come sembra fare la proposta Nordio, il tempo della scoperta del reato, così consegnando al pubblico ministero una piena discrezionalità cronologica nel dare avvio al procedimento. Il rischio concreto è quello di lasciare i cittadini a tempo indeterminato sotto la spada di Damocle dell’iscrizione della notizia di reato. Un vero e proprio assurdo giuridico, certamente in contrasto con i valori costituzionali che, invece, la prescrizione intende tutelare. Se si vuole adottare finalmente una disciplina costituzionalmente orientata occorre partire dal presupposto che il tempo della scoperta del reato è funzionale all’effettività del giusto processo. Bisogna avere ben chiaro che l’imputato non ha solo il diritto soggettivo a un processo di durata ragionevole, ma prima ancora deve essergli garantito il diritto a che il processo prenda avvio in un tempo ragionevole dalla presunta commissione del fatto. Un accertamento compiuto tardivamente sconta l’impossibilità del pieno esercizio del diritto di difesa e si pone al di fuori della cornice costituzionale. Qualora si registrasse un eccessivo scollamento temporale fra il reato e il processo, tutto il castello delle garanzie processuali, compresa la concentrazione dell’accertamento, finirebbe per crollare, così come sarebbe vanificata la finalità costituzionalmente imposta alla pena. Non è un caso, dunque, se, anche nel sistema costituzionale statunitense, il right to a speedy trial viene concepito, anzitutto, come il diritto alla rapida apertura del processo, tutelato dalla procedura di dismissal in caso di preaccusation delay. Tracciare il legame inscindibile fra prescrizione e valori costituzionalmente protetti consente anche di svelare il paradosso per cui la durata ragionevole viene normalmente invocata, soprattutto nella prospettiva efficientista, quale controlimite per i diritti del giusto processo. Nel sistema dei diritti costituzionali la ragionevole durata è, invece, il predicato del giusto processo, ne diviene un requisito strutturale che segna il punto di equilibrio democratico nei rapporti fra autorità e cittadino: decorso un certo lasso di tempo o lo Stato è in grado di accertare compiutamente la responsabilità, vincendo la presunzione d’innocenza nel contesto di un giusto processo, oppure l’accusato deve essere per sempre liberato dal giogo della pretesa punitiva che fino a quel momento ne ha condizionato l’esistenza. La prescrizione ha costituito, nei fatti, la sanzione per la violazione del principio costituzionale di ragionevole durata del giusto processo. E come tutte le sanzioni ha operato sia sul piano della prevenzione speciale, bloccando il singolo processo di durata irragionevole, sia sul piano della prevenzione generale, come deterrente per l’eccessiva durata dei processi, come stimolo potentissimo al contenimento dei tempi delle attività processuali. L’oblio dell’interesse punitivo rimane una vera e propria fictio iuris in una società vendicativa poco incline a dimenticare e non fornisce una solida giustificazione politica per l’esistenza stessa della prescrizione. Al contrario, la prospettiva schiettamente processuale è quella che garantisce l’unico vero caposaldo rinvenibile nella Carta fondamentale, il diritto al giusto processo di durata ragionevole anche quale garanzia strumentale rispetto ai diritti di difesa, alla presunzione d’innocenza e alla finalità rieducativa della pena, garanzia strumentale che presuppone ulteriormente il diritto a che l’accertamento abbia inizio in un tempo ragionevole dal reato. I due orologi sono uno il presupposto dell’altro. E la prospettiva processuale non toglie nemmeno un grammo al peso sostanziale di un istituto che comunque produce i suoi effetti sul piano della punibilità in concreto, ossia del diritto penale. Queste sono solo le premesse per ragionare poi sulla compatibilità europea di termini superiori agli 8 anni e mezzo o sulla latente illegittimità costituzionale dei reati imprescrittibili. *Giurista Nordio: “Barbarie che le intercettazioni finiscano sui giornali, serve una riforma radicale” di Francesco Grignetti La Stampa, 19 agosto 2023 Il ministro: “Nuovo pacchetto di misure tra ottobre e novembre prossimi e poi un altro a primavera”. La riforma in materia di intercettazioni “dovrà essere e sarà molto più radicale: è una barbarie che finiscano sui giornali intercettazioni che niente hanno a che fare con le indagini”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio, oggi a Cortina d’Ampezzo ospite dell’evento ‘Una montagna di libri’. Le intercettazioni “sono utili, è ovvio che servono” per le indagini, ma “non devono finire sui giornali”, ha aggiunto il Guardasigilli, tornando a sottolineare la sua contrarietà alle intercettazioni “a strascico”: “Nel 99% di casi - ha detto - non c’è una condanna che venga fondata solo su intercettazioni”. “Abbiamo già presentato un cronoprogramma sulla giustizia”, ha aggiunto Nordio. “Un altro pacchetto di misure tra ottobre e novembre prossimi e poi un altro a primavera”. “Le riforme della giustizia sono qualcosa di così necessario ed imponente che c’è ancora molto da fare”, ha proseguito, sottolineando che “la volontà di procedere con riforme radicali c’è. Questa volta le riforme le faremo sul serio”. Il primo ‘pacchetto’ di riforme approvato lo scorso giugno in Cdm e ora all’esame del Parlamento “è stato molto soddisfacente”, ha rilevato Nordio, ricordando anche che “c’è stato un applauso di consenso al termine dell’esame in Comsiglio dei ministri”. Femminicidi, lo stallo: il ddl è arenato in Parlamento e la commissione non si è mai riunita di Federico Capurso La Stampa, 19 agosto 2023 Qualcuno forse ricorderà la foto della squadra di governo al gran completo, in posa di fronte a palazzo Chigi, il 24 novembre scorso, con il palazzo alle sue spalle illuminato dai nomi delle 104 donne uccise fino a quel momento nel nostro Paese. Segno d’attenzione, promessa di impegno. Eppure, a poco meno di un anno dalla vittoria delle elezioni da parte della prima presidente del Consiglio donna, su questo fronte non resta molto altro da ricordare. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio non si è ancora mai riunita. Il disegno di legge per la prevenzione e la repressione delle violenze di genere, sponsorizzato dai ministri Eugenia Roccella, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, è arenato in Parlamento ormai da mesi e nessuno ha previsto lo stanziamento di risorse finanziarie per dare forza al provvedimento. Il numero di donne uccise nel 2023, nel frattempo, sale a 73. Terminata la pausa estiva, nella prima settimana di settembre la commissione parlamentare sul femminicidio finalmente si riunirà. La sua presidente, Martina Semenzato, di Noi moderati, sottolinea come ci sia “la necessità di intervenire sul concetto culturale e sociale del femminicidio, a partire dalla famiglia e dalla scuola, e di formare gli operatori socio sanitari, così come quelli della polizia giudiziaria e i pm”. Per formare tutte queste persone, insegnare a cogliere i segnali di un pericolo, a non minimizzare, servono però soldi che nessuno, finora, ha previsto. Nemmeno nel ddl presentato dalla maggioranza a giugno, con cui si irrobustisce l’impianto del Codice rosso e si sveltirebbero molte procedure per rendere gli interventi di prevenzione più reattivi. “È ciò su cui lavorerà questa commissione: servono risorse per la formazione”, assicura Semenzato. Se riuscirà ad aprire un varco negli spessi muri del ministero dell’Economia, dove di questi tempi si tengono ben stretti i cordoni della borsa, allora si potrebbe aprire uno spiraglio per inserire un primo stanziamento di risorse all’interno del pacchetto Sicurezza a cui sta lavorando Piantedosi. Semenzato gliene potrà parlare direttamente a Venezia, l’8 settembre, dove il ministro dell’Interno è atteso per partecipare a un evento, al Festival del Cinema, organizzato proprio dalla commissione d’inchiesta sul femminicidio. Alla ripresa dei lavori dovrebbe iniziare anche l’esame in commissione alla Camera del disegno di legge Roccella-Piantedosi-Nordio. Introdurrebbe l’arresto in flagranza differita, la possibilità di intervenire, in caso di reati spia, senza che la donna presenti denuncia, rafforzerebbe l’uso del braccialetto elettronico, ma “il vero tema è riconoscere il pericolo di violenza quando ce la troviamo davanti”, sottolinea l’ex presidente della commissione sul femminicidio, Valeria Valente, del Pd. “E per farlo si devono formare i pm e le forze dell’ordine, e non limitarsi a sveltire le procedure, perché se si subisce una violenza sarà meglio aspettare 24 ore in più e avere un pm specializzato nel trattare questi reati, piuttosto che il primo pm disponibile e non formato”. Nell’attesa, c’è chi prova a smuovere le acque. La deputata leghista Laura Ravetto ha appena presentato una proposta di legge alla Camera per introdurre a scuola l’insegnamento al rispetto della dignità della donna. “Si potrebbe fare nell’ora di educazione civica, a costo zero”, spiega. Meglio ancora, aggiunge, “con un insegnante apposito, ma in questo caso si dovrebbero investire delle risorse”. E questo, a giudicare da come si è mosso finora il governo, potrebbe essere un problema. “Il governo ci dica se chi è innocente deve perdere tutto” di Simona Musco Il Dubbio, 19 agosto 2023 Misure di prevenzione, l’appello di Cavallotti alla premier Meloni in attesa della Cedu: “La legge va cambiata”. “Rivedere la legge sulle misure di prevenzione non vuol dire fare un regalo alle mafie, non significa indebolire la lotta contro la criminalità organizzata. Vuol dire evitare che la vita di persone innocenti venga distrutta nuovamente. Com’è capitato alla mia famiglia”. L’appello a Giorgia Meloni arriva da Pietro Cavallotti, vittima di sequestro da parte dello Stato. Le aziende di famiglia, tra le quali la Comest srl, sono tenute sotto sigilli dallo Stato dal 1999. Durante i lunghi anni dell’amministrazione giudiziaria, sono stati ceduti rami d’azienda, la sede operativa è stata distrutta. Fatti che sono stati oggetto di un esposto da parte della famiglia Cavallotti all’autorità giudiziaria che sino ad ora non ha riscontrato alcun reato nella pluridecennale gestione commissariale. Nel 2011, nonostante il definitivo proscioglimento dall’accusa di associazione mafiosa contestata a Gaetano, Vincenzo e Salvatore Vito Cavallotti, il sequestro si è tramutato in confisca da un collegio presieduto da Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, radiata dalla magistratura e condannata per l’illecita gestione dei beni confiscati alle cosche. Motivo? Vengono considerati indizi di pericolosità quegli stessi elementi che i giudici penali avevano ritenuto incapaci di provare l’accusa di mafia. Ovvero elementi di contiguità con i boss Ciccio Pastoia e Benedetto Spera, vicinissimi a Bernardo Provenzano. Da qui la confisca dei beni, che dopo essere stati per anni in mano dello Stato sono ridotti a macerie. E ciò nonostante i Cavallotti si siano sempre dichiarati innocenti, vittime, semmai, delle estorsioni dei clan. Nel 2016 i tre imprenditori hanno proposto distinti ricorsi (curati da Baldassare Lauria e Alberto Stagno d’Alcontres) in Europa, ricorsi ai quali la Cedu ha risposto ponendo alcune questioni al governo italiano, prima fra tutte se la confisca dei beni a soggetti assolti in un processo penale non violi la presunzione di innocenza. La Corte chiede inoltre di sapere se “le autorità nazionali abbiano dimostrato che i beni confiscati avrebbero potuto essere di provenienza illecita in modo motivato, sulla base di una valutazione obiettiva delle prove fattuali, e senza basarsi su un mero sospetto” e “se l’inversione dell’onere della prova quanto all’origine legittima dei beni acquisiti molti anni prima abbia imposto un onere eccessivo ai ricorrenti”. In una lettera indirizzata all’Agenzia dei beni confiscati, alla presidente Meloni e ai ministri dell’Interno e della Difesa, Vito Cavallotti chiede ora di sospendere “qualsiasi eventuale iniziativa volta all’utilizzo dei beni oggetto della confisca di prevenzione” fino alla decisione della Cedu “o, in subordine, fino alla comunicazione da parte del Governo italiano delle sue determinazioni”, che dovranno essere comunicate entro il 13 novembre. “Una sentenza di accoglimento sarebbe la fine del calvario che la mia famiglia ha sofferto - spiega Pietro Cavallotti al Dubbio -. Ma non solo: per tutto il Paese sarebbe un grande passo avanti, perché per la prima volta verrebbe riconosciuto il fatto che il sistema di prevenzione contrasta in alcuni suoi aspetti con la Convenzione europea. E se ciò dovesse accadere, la politica, che fino ad ora è rimasta sorda alle nostre richieste di revisione normativa, dovrà intervenire. C’è da rivedere, per esempio, il rapporto tra processo di prevenzione e processo penale, l’uso di presunzioni e di meri sospetti che ha soppiantato la ricerca della prova. Ma soprattutto occorre impedire che una persona assolta per gli stessi fatti si veda portare via tutto il patrimonio, impendo con questo che la giusta lotta alla mafia si trasformi in una inaccettabile persecuzione di innocenti. Come diceva Falcone, la lotta alla mafia non si fa con le misure di prevenzione in assenza di prove, ma attraverso il rigoroso accertamento dei reati. Su questi temi fino ad ora non è stato possibile discutere, nonostante da parte di alcuni partiti sia stata mostrata una certa apertura. Ci vorrà forse una sentenza di condanna per far aprire gli occhi alla politica”. La Cedu non solo ha dichiarato ricevibile il ricorso, ma ha posto al governo tutta una serie di questioni che toccano i punti nevralgici del sistema di prevenzione. E l’esito di questo procedimento potrebbe diventare una sentenza pilota per decidere casi analoghi. Cavallotti, nel corso della passata legislatura, si era fatto promotore di una proposta di legge, scritta con il Partito Radicale e fatta propria da Forza Italia - a condividerla anche l’attuale viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto -, proposta poi finita in un cassetto a causa della caduta del governo. E ora, tra i ddl pendenti, gli unici testi che si occupano di misure di prevenzione hanno un unico obiettivo: la gestione dei beni e la loro destinazione, ignorando tutto il percorso che porta alla loro confisca. La “proposta Cavallotti” mirava invece ad estendere le garanzie penali tradizionali al processo di prevenzione e di istituire un fondo per le aziende dissequestrate. Uno spiraglio però sembra essersi aperto: a sostenere la necessità di mettere mano alla normativa è anche Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera in quota FI. “Voglio rivolgere un appello a Meloni affinché si renda conto che non si tratta di indebolire la lotta alla mafia, ma di distinguere i mafiosi dagli innocenti - spiega ancora Cavallotti -. Questo Governo ha fatto della lotta alla mafia una sua priorità. Condivido questa priorità. Aggiungo però che l’altra priorità dovrebbe essere quella di impedire che persone innocenti, come i miei familiari, siano distrutte. Mi rendo conto che la revisione del sistema delle misure di prevenzione non è nel programma della coalizione. Ma, di fronte ad una calamità che miete vite umane e distrugge patrimoni, un governo ha o no il dovere di intervenire? E questo governo, che non ha di certo la colpa delle modifiche che hanno trasformato un giusto strumento di contrasto alla mafia in un inaccettabile mezzo per distruggere innocenti, può avere il grande merito di porre fine ad una clamorosa ingiustizia, riportando l’attuale sistema delle misure di prevenzione a ciò che era in principio la legge Rognoni La Torre. Non ci può essere efficacia senza garanzie, non ci può essere lotta alla mafia senza il rispetto dello Stato di Diritto. Non c’è lotta alla mafia se si calpestano cittadini innocenti”. Nove aziende su dieci sottoposte a sequestro e finite in mano agli amministratori giudiziari - quindi allo Stato - falliscono, continua Cavallotti. Che si chiede: “Che risultati abbiamo raggiunto in tutti questi anni di lotta alla mafia?”. Non esistono, però, dati statistici su quante persone innocenti - mai rinviate a giudizio o processate e assolte - siano state colpite da misure di prevenzione. Da qui la necessità, evidenziata ancora una volta da Cavallotti, di avviare un’indagine conoscitiva. Che è difficile da chiedere ad una politica che “appena sente pronunciare la parola mafia si sottrae dal confronto”. “Alla politica voglio chiedere di riflettere sugli effetti che una confisca può avere: perdere tutto dall’oggi al domani, non poter più lavorare, non poter mandare i figli a scuola, non poter fare la spesa - continua -. Se gli effetti sono questi, quali garanzie dobbiamo prevedere? Quando si legifera non si può partire solo da fini ideali che poi non vengono raggiunti senza confrontarsi seriamente con i risultati e talvolta con i disastri prodotti”. Le risposte del governo saranno importanti per capire quale sarà il futuro di queste norme. Che però l’esecutivo potrebbe anche voler mantenere inalterate. “Se così fosse - aggiunge Cavallotti - sarebbe una grande occasione persa per l’Italia. Spero che questo non accada”. La richiesta di sospensiva risponde ad un’esigenza reale: i beni dei Cavallotti sono già stati danneggiati e rischiano di diventare inutilizzabili. “Per assurdo - conclude - se i beni venissero assegnati a qualche associazione e la Cedu dovesse darci ragione non riavremmo le nostre case che hanno per noi un grande valore affettivo, ma l’equivalente in denaro. Beni che nel frattempo sono stati vandalizzati: i ladri hanno portato via tutto, anche le piastrelle e i sanitari. Chi ci dovrebbe risarcire? L’Agenzia che non ha vigilato e che dice di non avere risorse? Ci sono danni che si potevano evitare e che non potranno mai essere risarciti. Altri, però, si possono ancora scongiurare”. Suicidi in cella, la difesa punta sull’imprevedibilità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2023 Negato il risarcimento: non c’erano segnali evidenti del rischio di un gesto estremo. Il ministero della Giustizia non risarcisce i familiari del detenuto suicida, se manca la prova della prevedibilità dell’evento. La Cassazione (sentenza 24758) respinge così il ricorso dei parenti di un carcerato che si era tolto la vita nella sua cella, usando un fornelletto a gas e un sacchetto di plastica. Alla base del gesto, secondo i parenti, i molti trasferimenti. Per i giudici non erano significativi alcuni comportamenti autolesionisti, bollati come sporadici e strumentali per ottenere vantaggi. A fronte delle varie visite psichiatriche, che non avevano evidenziato il rischio di un gesto estremo, a nulla era servita una lettera-testamento trovata in cella, visto che i ricorrenti non avevano potuto dimostrare che l’amministrazione carceraria fosse a conoscenza dello scritto. Né esiste un diritto assoluto ad essere spostato in istituti di pena vicino ai familiari, perché il trasferimento deve essere compatibile con le esigenze di organizzazione carceraria. Sentenza letta senza aver ascoltato l’arringa del difensore, assolti i giudici della corte di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 19 agosto 2023 La Cassazione, nella massima composizione delle sezioni unite, ha dato ragione ai giudici del tribunale di Asti che avevano pronunciato una sentenza prima di ascoltare l’arringa difensiva. La vicenda aveva suscitato proteste da parte delle Camere penali, ma anche una coda disciplinare per i tre giudici. Ora la Cassazione ha assolto definitivamente le giudici Claudia Beconi e Giulia Paola Elena Bertolino e annullato la condanna del presidente del collegio, Roberto Amerio. Il 18 dicembre 2019 i tre giudici avevano concluso il processo a un uomo, accusato di violenza sessuale nei confronti della figlia minorenne, condannandolo a 11 anni di carcere. Ma in quell’udienza, in realtà, era prevista l’arringa della sua avvocata Silvia Merlino, che era stata rinviata un mese prima. I giudici se ne erano dimenticati, leggendo il dispositivo evidentemente già predisposto in una pre-camera di consiglio. Di fronte alle rimostranze dell’avvocata, il presidente Amerio aveva strappato il foglio con la sentenza, invitandola a prendere la parola. Lei si era rifiutata. A quel punto i giudici, consultatisi, avevano sospeso il processo, dichiarando di non potersene più occupare. Ma la sentenza, pur viziata, era stata formalmente pronunciata. Dunque il processo era concluso. Un pasticcio senza precedenti. “Si sperimenta la giustizia senza avvocato, considerato fastidioso orpello”, avevano tuonato le Camere penali invocando il trasferimento dei giudici. Una richiesta stigmatizzata come “pressione inammissibile” dal procuratore generale Franco Saluzzo e “intimidazione inaccettabile” dall’Associazione nazionale magistrati. Il comportamento dei giudici astigiani era stato vagliato in sede penale dalla Procura di Milano, competente sui magistrati piemontesi. L’iniziale ipotesi di falso per soppressione di atto pubblico a carico del presidente Amerio, per aver strappato la sentenza, era stata archiviata qualificando il fatto come errore privo di dolo. La Procura generale della Cassazione, sollecitata anche dal ministero della giustizia, aveva promosso l’azione disciplinare contro i tre giudici, accusandoli di “grave violazione di legge e violazione del dovere di imparzialità, correttezza e diligenza che ha cagionato un irreparabile danno all’imputato nonché all’amministrazione della giustizia”. Per il presidente del collegio si aggiungeva l’accusa di “aver adottato un provvedimento sulla base di grave e inescusabile negligenza”, sia strappando il dispositivo della sentenza sia dettando l’ordinanza con cui ammetteva “un errore materiale” e si spogliava del processo. Nel novembre scorso, la sezione disciplinare del Csm aveva assolto le due giudici. Da un lato, perché “manca la prova” che avessero deciso la condanna prima della fine del processo, “poiché fu il presidente a leggere il dispositivo prematuro”; dall’altro, “non potendo le medesime in alcun modo opporsi all’inopinata e imprevedibile lettura del dispositivo”, che non avrebbero potuto certo interrompere. Peraltro, il dispositivo era solo una specie di bozza “con natura meramente provvisoria”. Il presidente Amerio si era giustificato dicendo di essere sotto stress, corroborando la tesi con una perizia medica che stabiliva un nesso causale tra il fattaccio e la condizione psicologica data dalle condizioni di lavoro. Ma il Csm non gli aveva creduto, condannandolo alla sanzione della censura per “ingiusto danno all’imputato, causato dalla violazione di regole basilari”. La Procura generale aveva insistito per la condanna di tutti e tre, portando la questione in Cassazione. Anche il presidente Amerio aveva fatto ricorso, per l’annullamento della sua condanna. La Cassazione ha dato torto alla Procura generale e ragione ad Amerio, su tutti i fronti. Dunque condanna annullata e atti restituiti al Csm per un nuovo processo, con precisi paletti. Il primo è che il Csm non ha adeguatamente considerato “gli argomenti evocati dalla difesa in ordine alla concomitanza di circostanze stressogene verificatasi nel periodo in cui è calato l’episodio”, limitandosi invece a liquidarli con “affermazioni apodittiche”. Il secondo paletto è che “l’imputato non ha subito un danno ingiusto dalla sentenza prematura, essendo pacifico che ha avuto un nuovo processo e quindi non solo non ha perso alcuna chance, ma addirittura ne ha avuta una in più”. Né basta a configurare un illecito disciplinare l’inevitabile allungamento dei tempi processuali. Infine il foglio della sentenza strappato davanti all’avvocato dopo “l’improvvida lettura”. Secondo il Csm “un atto abnorme”. Non per la Cassazione, che imputa alla sezione disciplinare di aver effettuato “una valutazione totalmente carente”. Per Amerio, che ora lavora a Savona come giudice penale monocratico, ci sarà dunque un nuovo processo disciplinare, presumibilmente in discesa. Le due giudici lavorano ancora ad Asti, una come gip l’altra nel settore civile. La loro contestata sentenza, nel frattempo, è stata dichiarata nulla dalla Corte di appello di Torino. Nel nuovo processo celebrato davanti a un diverso collegio che ha ascoltato anche l’arringa difensiva, l’imputato è stato ugualmente condannato, ma a pena minore: 7 anni anziché 11. Ulteriore riduzione in appello a 4 anni e mezzo. Pende ricorso in Cassazione. La moglie, che nel primo processo era stata condannata a 4 anni per non essersi opposta alla violenza sessuale sulla figlia, è poi stata assolta. “I richiedenti asilo non sono clandestini”. La Cassazione condanna la Lega di Davide Varì Il Dubbio, 19 agosto 2023 Respinto il ricorso del partito di Salvini, che nel 2016 aveva convocato una manifestazione a Saronno contro i migranti. I giudici: il termine non può essere utilizzato neppure in un manifesto politico. Chi arriva in Italia per chiedere protezione non può essere chiamato “clandestino”, neppure in un manifesto politico. Lo ha stabilito la sentenza della Cassazione depositata il 16 agosto (terza sezione, estensore Cirillo, presidente Travaglino) concludendo una vicenda iniziata nel 2016, quando, per contrastare l’assegnazione di 32 richiedenti asilo a un centro di assistenza messo a disposizione da una parrocchia di Saronno (Milano), la Lega aveva convocato una manifestazione affiggendo cartelli con il seguente testo “Saronno non vuole i clandestini. Vitto, alloggio e vizi pagati da noi. Nel frattempo, ai saronnesi tagliano le pensioni e aumentano le tasse, Renzi e Alfano complici dell’invasione”. Asgi e Naga - riferisce una nota - avevano agito in giudizio avanti il Tribunale di Milano contro la Lega (locale e nazionale) affermando che qualificare i richiedenti asilo come clandestini costituisce “molestia discriminatoria” cioè un comportamento idoneo a offendere la dignità della persona e a creare un clima umiliante, degradante e offensivo. I giudici di primo e secondo grado avevano già accolto le ragioni delle associazioni condannando la Lega a pagare, oltre alle spese di lite, un risarcimento del danno in favore delle stesse; la Lega aveva poi proposto il ricorso in Cassazione, respinto ora dalla Corte che ha confermato anche il diritto delle associazioni al risarcimento del danno, condannando la Lega all’ulteriore rimborso delle spese. Secondo la Corte “gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello stato italiano perché corrono il rischio effettivo, in caso di rientro nel paese di origine, di subire un ‘grave danno’, non possono a nessun titolo considerarsi irregolari e non sono dunque clandestini”. La Corte ha anche respinto la tesi degli avvocati della Lega che invocavano il diritto del partito politico alla libera manifestazione della sua posizione: infatti “il diritto alla libera manifestazione del pensiero, cui si accompagna quello di organizzarsi in partiti politici, non può essere equivalente o addirittura prevalente, sul rispetto della dignità personale degli individui”; specie, aggiunge la Corte, quando si tratta degli individui più fragili, come le persone migranti. “La sentenza, benché riferita a una vicenda di anni fa, dice molto anche alla politica di oggi - commenta l’avv. Alberto Guariso che, con l’avvocato Livio Neri, entrambi di ASGI, ha difeso le associazioni - e in particolare sulla inaccettabile consuetudine di continuare a usare il termine “clandestini” per coloro che arrivano sul nostro territorio, comunque arrivino, per cercare protezione: persone con una dignità da rispettare e non clandestini”. Stop alla “giustizia fai da te” dei genitori contro gli insegnanti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2023 Il padre era stato assolto per legittima difesa dopo aver aggredito verbalmente l’insegnante colpevole di aver rimproverato il figlio facendolo piangere. Il genitore che aggredisce verbalmente la professoressa colpevole di aver rimproverato il figlio facendolo piangere, non può essere assolto per legittima difesa. Specialmente se la sua reazione non avviene “a caldo” ma, come nel caso esaminato, tre giorni dopo. Eppure all’uomo, che chiedeva di accertare a carico della docente il reato di abuso di mezzi di correzione, i giudici di merito avevano dato ragione. Sia in primo grado sia in appello, l’aggressione verbale era stata considerata una legittima difesa, senza alcun diritto della prof ad essere risarcita per tutti gli improperi ricevuti all’uscita dalle lezioni. Offese sul piano professionale e personale “scriminate” a causa del comportamento dell’insegnante, alla quale il genitore aveva a sua volta chiesto un risarcimento per i danni patrimoniali e morali. Giustificata la reazione alla vista del figlio in lacrime - Per il Tribunale il “comportamento nervoso e concitato” dell’uomo si poteva giustificare perché aveva visto “il proprio figlio piangere e prostrato per i rimproveri rivoltigli dall’insegnante”. Le offese erano state pronunciate “per tutelare il figlio minore dal pericolo che le condotte lesive della sua dignità potessero essere reiterate, con possibile, ulteriore, lesione del suo onore”. Inoltre, i giudici avevano escluso ogni tipo di responsabilità del padre “a titolo di provocazione, non essendo in ogni caso punibile la condotta di chi reagisce al fatto illecito altrui in applicazione dell’articolo 2046 del Codice civile”. Confermato anche il reato di abuso di mezzi di correzione con condanna della prof a risarcire i danni. Verdetti che la Cassazione ribalta. Non c’è legittima difesa “a freddo” - Non c’era legittima difesa né reazione ad un fatto ingiusto, che risaliva comunque a tre giorni prima dello scontro verbale. Per la Suprema corte l’uomo “si era coscientemente e consapevolmente determinato a recarsi appositamente presso l’istituto scolastico al deliberato fine di insolentire l’insegnante, in attuazione di una forma comportamentale qualificabile non certo in termini “di legittima difesa” - come ritenuto dal giudice di merito in spregio ai più elementari principi posti a fondamento dell’esimente in parola - bensì caratterizzata inequivocamente da una sorta di inammissibile ricorso ad un inammissibile modello di “giustizia fai da te”, come sempre più frequentemente è tristemente dato riscontrare nei rapporti d’oggi tra genitori ed insegnanti”. Genova. Sovraffollate, bollenti, senza ventilatori e con pochi medici: la vergogna delle carceri di Erica Manna La Repubblica, 19 agosto 2023 Il Partito radicale in visita nelle strutture circondariali per Agosto in carcere: a Pontedecimo solo due sanitari e uno psichiatra due ore alla settimana per 145 ospiti. A Marassi 676 carcerati per 450 posti. A Pontedecimo, dove fino alla fine di luglio era reclusa Azzurra Campari, la detenuta ventottenne che si è tolta la vita nel carcere di Torino, ci sono due medici per 145 detenuti. E un solo psichiatra, due ore alla settimana. Il cronico sovraffollamento nelle case circondariali della Liguria - 145 detenuti per 96 posti a Pontedecimo, 676 su una capienza regolamentare di 450 a Marassi - rende le celle ancora più soffocanti in queste giornate bollenti. Anche perché a Marassi e a Pontedecimo non ci sono ventilatori. E i detenuti non possono nemmeno comprarseli. Il motivo? Non ci sono le prese di corrente a cui attaccarli: ad eccezione di quelle per la televisione, che però “non sono a norma”, spiega Deborah Cianfanelli, capodelegazione del Partito Radicale che in questi giorni con Angelo Chiavarini e Stefano Petrella sta visitando le carceri liguri. Un’iniziativa che nell’ambito di Agosto in carcere, portata avanti dal Partito radicale in oltre 50 istituti in tutta Italia. Dopo i suicidi a Torino di Susan John e di Azzurra Campari, e il caso di Sanremo di Corneliu Maxim, un uomo di 51 anni ricoverato in coma all’ospedale di Pietra Ligure dopo aver subìto un intervento chirurgico alla testa e i dubbi sulle ferite che lo hanno portato al coma, la delegazione radicale fotografa in Liguria una situazione preoccupante. Dove l’incidenza di sofferenza psichica è altissima, al sovraffollamento si aggiungono pesanti carenze sanitarie, la mancanza di educatori e l’invisibilità di tanti detenuti. Perché “sta emergendo il grosso problema delle residenze - spiega Cianfanelli - l’Ufficio anagrafe del Comune di Genova rifiuta di concedere la residenza ai detenuti che prima di entrare in carcere erano senza dimora o che, stranieri, hanno il permesso di soggiorno scaduto. Ma questo crea enormi difficoltà, a catena: dal punto di vista dell’assistenza sanitaria, per l’accesso alle misure alternative al carcere, per la possibilità di ricevere uno stipendio quando si svolgono dei lavori esterni, perché senza residenza non si può aprire un conto corrente. Assurdo, tenendo conto anche che per anni il detenuto starà in carcere, è questo è un titolo di soggiorno. Non solo: su quale base identitaria, allora, si sconta una pena?”. A Marassi la delegazione radicale ha incontrato detenuti con gravi problemi di salute che erano vicinissimi al fine pena - uno sarebbe dovuto tornare libero il 14 agosto - e non avevano potuto fruire di misure alternative; “In tutta Italia la tendenza è ormai quella di applicare il meno possibile queste misure, e capita sempre più spesso di trovare in carcere persone che hanno pene molto brevi e le scontano fino quasi all’ultimo giorno”. Il carcere dovrebbe riabilitare e rieducare, secondo la Costituzione: ma su questo fronte, pesa la carenza cronica di educatori. A Marassi sono otto sui dieci previsti: e di questi, uno lavora part-time e un altro viene prestato a Pontedecimo, che non ne ha nessuno. “Per le donne, a Pontedecimo, le possibilità di lavoro offerte sono solo in cucina, in lavanderia, nelle pulizie e al laboratorio di sartoria - racconta Cianfanelli - per i bambini che vengono a trovare le mamme c’è una piccola area ma mancano proprio gli spazi”. Il buco sanitario è enorme: “Manca l’oculista e in carcere si abbassa la vista - continua Cianfanelli - il dentista c’è una volta al mese e molti detenuti ci hanno detto di essere curati solo con tachipirina”. I migranti, poi, “entrano regolari ed escono irregolari, perché non viene data la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno. A Marassi si sono dotati del cosiddetto kit: ma la procedura si ferma all’ultimo atto, quando la firma deve essere autenticata da un funzionario delle Poste. Un muro di gomma”. Monza. Le fioriere della poesia realizzate dai detenuti tra rime ed erbe aromatiche di Rosella Redaelli Corriere della Sera, 19 agosto 2023 Le strutture in legno, nate nel laboratorio del carcere di Monza, saranno abbellite da versi tratti da raccolte di poesie e saranno sistemate in piazza Canova. Non semplici fioriere, ma fioriere poetiche. Abbelliranno presto piazza Canova a Villasanta (Monza e Brianza), accoglieranno fiori e piante aromatiche a disposizione dei cittadini e hanno una storia che sa di buono. Le nuove fioriere in legno nascono infatti dal laboratorio di falegnameria del carcere di Monza e sono state decorate con alcuni versi tratti dalle raccolte di poesie “Il giardino delle ortiche” e “Voci lontane” degli stessi detenuti. Versi in cui si legge il dolore per la lontananza dai propri affetti, il senso di colpa, ma anche la voglia di riscattarsi e di rinascere come un nuovo fiore. Il comune di Villasanta ha deciso di destinare quasi 9 mila euro degli introiti del 5 per mille al progetto “orti urbani”, nato da un’idea del tavolo Ambiente ed Ecologia che ha visto collaborare insieme gli assessorati ai Servizi sociali e all’Ambiente. A realizzare le fioriere, disegnate dall’architetto Marco Terenghi, sono stati i detenuti di Monza guidati da Carlo Galbiati, docente dell’Istituto del mobile Meroni di Lissone. Per la parte verde è stata invece coinvolta la cooperativa sociale Azalea di Lissone che si occupa dell’inserimento lavorativo di categorie fragili come detenuti, ex-tossicodipendenti e disabili. “Sono particolarmente soddisfatta di questo progetto che ha visto lavorare in rete numerose realtà, unite dalla stessa finalità sociale - commenta Gabriella Garatti, vicesindaco e assessore all’Ecologia -. Tovo perfetta l’idea del Tavolo Ambiente Ecologia di scegliere tra le nuove piantumazioni le erbe aromatiche e di metterle a disposizione dei cittadini che vorranno utilizzarle. Crediamo che questo progetto, da Villasanta, si possa ripetere anche ad altri comuni, creando una continuità per questa esperienza vissuta da persone detenute”. Nelle prossime settimane saranno realizzati i collegamenti necessari all’impianto di irrigazione di piazza Canova e l’inaugurazione è prevista ad ottobre con un evento partecipato per la piantumazione. Palermo. “La cartolina gentile” arriva dal Pagliarelli, detenuto vince un contest palermotoday.it, 19 agosto 2023 Nella creazione del cinquantenne, ospite del carcere palermitano, tre bambini che “si affacciano sorridenti al mondo”. L’idea premiata dal Comune di Salemi. Tre bambini che “si affacciano sorridenti al mondo: espressione di una naturale gentilezza verso moltitudini di persone, idee, libri, culture, creatività e luoghi”. La gentilezza, quindi, come “energia della vita”. Questo il messaggio racchiuso nella cartolina spedita da un cinquantenne detenuto nel carcere Pagliarelli di Palermo che ha vinto il contest ‘La cartolina gentile della tua città”, lanciato dal Comune di Salemi (Trapani). L’uomo aveva partecipato al progetto “Liberi dentro” proposto da My Life Design Odv. L’uomo ha realizzato la cartolina e l’ha spedita al Comune di Salemi. Il contest “La cartolina gentile della tua città” è nato da una intuizione di Giuseppe Lodato, proprietario di una collezione di antiche cartoline di Salemi messa in mostra in occasione della Settimana delle Culture. “Un contest dall’esito particolarmente significativo - dicono il sindaco di Salemi, Domenico Venuti, e l’assessore ai Servizi sociali Rina Gandolfo -. Siamo felici che il messaggio più bello dedicato alla gentilezza sia arrivato da chi ha riconosciuto i propri errori di percorso e ha cambiato rotta”. Nuove idee e nuovi equilibri contro il disagio permanente di Mauro Magatti Corriere della Sera, 19 agosto 2023 Il sommarsi delle crisi dall’ambiente all’economia alla guerra, l’instabilità cronica ha fiaccato la fiducia nella crescita illimitata. Ed esplodono sentimenti negativi: l’intolleranza verso il diverso, la costruzione di muri respingenti, l’incuranza per le sofferenze di una parte del mondo, l’odio verso il nemico. Le immagini della Milano devastata dal temporale di qualche settimana fa hanno impressionato tanti. Come impressionanti sono state le immagini della inondazione in Emilia Romagna del giugno scorso. O i 50 gradi centigradi toccati in diverse città italiane nelle ultime settimane di luglio. Gli effetti del riscaldamento globale fanno paura. Il disagio è forte, soprattutto tra le nuove generazioni che hanno la netta percezione di aver ereditato un mondo compromesso. Di fronte a eventi così scioccanti, e dopo una esperienza come quella del Covid, si amplia la fascia di coloro che pensano che non ci sia ormai più niente da fare. Svanita l’euforia che ha accompagnato gli anni della globalizzazione espansiva, si rafforza la sensazione di vivere in una crisi permanente. Se non irreversibile. A rafforzare il senso di oppressione si è aggiunto lo sciagurato attacco di Putin all’Ucraina. Una guerra che doveva essere lampo e che invece si è incancrenita. Siamo assuefatti a una violenza inaudita e quotidiana. Dopo un anno e mezzo, anche nella Vecchia Europa il discorso bellico è ormai sdoganato. E cominciano a essere in tanti quelli che pensano che, di fronte al caos in cui siamo finiti, l’unica soluzione sia la guerra. Guerra che torna a essere vista come male necessario, una scossa rigeneratrice e purificatrice, in un mondo ormai caotico. Una sorta di lavacro di intere civiltà. Il cambio dello stato d’animo profondo che sta interessando le nostre società non è di poco conto. Anche perché si va a sovrapporre a dinamiche già avviate da tempo. Erano già diversi anni che l’instabilità cronica aveva fiaccato la fiducia nella crescita illimitata. Facendo lievitare il risentimento di chi (e sono tanti) si è sentito tagliato fuori dai benefici promessi. Nonostante la crescita economica continui ad accelerare - il pil del mondo é raddoppiato dal 2010 ad oggi, con una velocità mai vista nella storia - i benefici non arrivano a tutti. Gli esclusi (a vario titolo) aumentano. Per quanto riguarda l’Italia, il dato è confermato anche dall’ultimo rapporto Istat che mette in evidenza l’ampiezza di quella fascia di popolazione - specie giovanile - che non riesce a partecipare ai vantaggi della crescita. Il che costituisce un problema per le democrazie, la cui stabilità é strettamente legata alla prosperità. È questo il retroterra su cui nascono e si rafforzano le spinte regressive e irrazionali che attraversano le nostre società. Ci sono diversi sintomi che vanno in questa direzione. Già nel decennio scorso, di fronte all’aumento della incertezza, quote significative dell’ opinione pubblica si sono ricompattate attorno ai sentimenti negativi della regressione securitaria - che si costruisce contri l’idea di un “altro” minaccioso da cui ci si deve difendere. Con ogni mezzo: l’intolleranza verso il diverso, la costruzione di muri respingenti, l’incuranza per le sofferenze di una parte del mondo, l’odio verso il nemico. In questo contesto, preoccupa la diffusione di gruppi di estrema destra pervasi dall’elogio della violenza, dal culto del corpo, dal razzismo esplicito. Rispetto a qualche anno fa, questo fenomeno - pur rimanendo circoscritto - mostra una preoccupante capacità di presa. In vari paesi europei, tra i ceti svantaggiati dal punto di vista economico e deprivati sul piano culturale, si diffondono gruppi che esplicitamente si definiscono neonazisti. Con tutto il loro armamentario di riferimenti storici e simbolici, che rifiuta in blocco la democrazia e l’ordine sociale esistente. Nei circoli religiosi più conservatori si rafforza l’idea di trovarsi davanti a un mondo che ha ormai perso ogni riferimento etico e che come tale va rifiutato in blocco. Non è un caso che tutte le grandi religioni siano, ormai da anni, attraversate da forti correnti fondamentaliste. Non c’è solo il fondamentalismo islamico. C’è anche quello ebraico, cattolico, protestante, ortodosso, indù. Tutti accomunati da una comune lettura: il mondo é degenerato, la religione è esplicitamente minacciata. L’unica risposta è l’irrigidimento dottrinario per sostenere una lotta che non potrà che essere dura. Il rischio è che una stagione ispirata dall’idea di una crescita capace di assorbire ogni tensione finisca con l’aprire un ciclo di segno opposto: da una “fine della storia” pacifica e integrata - versione Francis Fukuyama (caratterizzata dalla spontanea convergenza verso il modello democratico liberale della crescita illimitata) - a una “fine della storia” conflittuale e apocalittica - versione Samuel Huntington (conflitto globale tra civiltà) o versione Jonathan Franzen (disastro ecologico planetario). Dopo l’euforia di inizio secolo oggi il senso tragico di essere alla fine di un’epoca pervade il cuore di molti. L’avvenire appare minaccioso, privo di una prospettiva positiva. A livello personale e collettivo. Un sentimento oscuro che non va sottovalutato, ma curato. Abbiamo bisogno di nuovi equilibri e di una nuova idea di crescita. Speriamo di farcela. Migranti. Sull’accoglienza la sinistra è rimasta al modello Minniti, è ora di cambiare di Luca Casarini L’Unità, 19 agosto 2023 Lo scontro tra posizioni leghiste è paradossalmente il nocciolo del tema migratorio. Il governatore e il sindaco di Treviso Conte opposti a Fedriga che dal Friuli Venezia Giulia propaganda il sistema dei campi detentivi. Vi è una sola cosa peggiore della propaganda in politica: la propaganda contraria. Questo modo di fare e di pensare la discussione pubblica, rende cieco e sterile ogni confronto. Verrebbe da dire che rende persino inutile la politica stessa, se di essa si conserva una visione nobile, e non di marketing elettorale. La questione migranti si offre come uno degli esempi di questa schermaglia tra propagande, di governo e di “opposizione”. Sull’aumento degli sbarchi per cominciare. Il governo ha vinto in campagna elettorale attraverso l’uso massiccio di propaganda, nefanda e odiosa, promettendo i “blocchi navali”, i porti chiusi, e altre corbellerie. La doppia azione di marketing è consistita nel creare il nemico, i migranti, e con esso la teoria dell’invasione, fino a spingersi addirittura al pericolo di “sostituzione etnica”, e allo stesso tempo promettere una soluzione facile, sintetizzata nell’altra corbelleria della “difesa dei confini”. E’ stato un’esercizio facile, tutto sommato, perché la “paura dello straniero” è sempre, da secoli e millenni, una leva efficace per costruire un capro espiatorio che metta al riparo il sovrano dalle ire dei sudditi. Convincere l’impoverito che la causa dei suoi guai è quello più povero di lui, è un’arte che chi difende sistemi sociali sempre più fondati su privilegi e diseguaglianze, deve conoscere per forza. Ma la propaganda ha da sempre una grande irriducibile nemica: la realtà. E dunque, succede che tutte le promesse si dissolvono come i miraggi quando cominci a guardare da vicino. E la “complessità del fenomeno migratorio” diventa il discorso della stessa Giorgia Meloni che prima aveva promesso soluzioni facili e radicalmente disumane. Gli sbarchi di persone migranti, che da soli o con le loro famiglie sono costrette a tentare la via del mare per chiedere asilo e trovare una speranza di vita in Europa, si moltiplicano invece che ridursi. Siamo dall’inizio dell’anno a quota centomila, il doppio esatto dell’anno scorso secondo il cruscotto del Viminale aggiornato al 14 agosto. È un dato che rivela il carattere strutturale e non congiunturale del movimento di esseri umani che caratterizza il Mediterraneo. Nessuna emergenza, tutto ampiamente previsto e prevedibile, in ragione di ciò che accade nei paesi di transito, come il Niger e la Tunisia ad esempio, o nei paesi di origine, quelli dell’Africa subsahariana. Anche il numero in sé, centomila, che potrebbe significare centocinquantamila a fine anno, per un paese di sessanta milioni di abitanti e un continente di cinquecento milioni, è pari a percentuali gestibilissime. In mezzo a tutti questi numeri ci sarebbe sempre da fare attenzione al fatto che si tratta di esseri umani, donne, uomini e bambini, meritevoli di ogni aiuto e soccorso, per alcuni a cominciare da Papa Francesco, fratelli e sorelle. Ma anche volendo restare alla pagana religione dei numeri, tutto conferma ciò che sappiamo. Nessuna invasione, nessuna emergenza, fenomeno da governare, da gestire con razionalità e serietà, fenomeno da rendere meno foriero possibile di morte e sofferenza. Ma qui entra in gioco invece la propaganda contraria: la realtà che si prende la rivincita sulle menzognette da campagna elettorale, viene accoltellata alle spalle da un’altra propaganda, quella dei detrattori del governo. “Avete visto? Gli sbarchi sono raddoppiati con la Meloni, è un’incapace”. È incapace, il governo, perché non è riuscito a rinchiuderli tutti nei lager libici? Perché la nostra Guardia Costiera è al mondo, proprio al mondo, quella che salva più gente in mare? È incapace dunque questo governo, perché non è riuscito (grazie a Dio) ad attuare folli e ancor più disumani propositi? La propaganda dell’uno alla fine è sorella gemella della propaganda dell’altro. Il loro confronto, il loro battibecco, crea molto chiasso, tanto da assordare. Per questo non si riesce mai a vedere invece, quanto conti la relazione tra l’utopia, la speranza e la determinazione delle persone, dei soggetti in carne ed ossa, nell’imprimere una direzione non scontata alla storia umana. La propaganda contraria ha bisogno anch’essa, per enfatizzare le “sconfitte” del governo, di creare allarme. L’invasione, Lampedusa al collasso, tutto che crolla, sono gli scenari nei quali finalmente si può dimostrare che sono degli incapaci. Perché, ed è bene ricordarlo, quando le parti erano invertite le uniche politiche sulla migrazione le hanno fatte Minniti e Gentiloni con il patto scellerato Italia Libia. Quell’imprinting è stato davvero superato da chi oggi siede all’opposizione promettendo un’alternativa? Eppure emergenze vere, da denunciare come incapacità allarmanti del governo ci sono. Il fatto che le persone migranti siano costrette ad affidarsi al mare e a viaggi gestiti da privati senza scrupoli è frutto dell’inazione consapevole del governo e dell’Unione Europea sul tema delle evacuazioni umanitarie e dei corridoi legali di ingresso per gli sfollati e transitanti. In Tunisia cosa si aspetta ad organizzarle? Che muoiano tutti in mare dopo la roulette russa dell’attraversata su barchette in ferro? Stiamo parlando di un numero di persone migranti subsahariane da evacuare che oscilla tra i venti e quarantamila in un anno. In Libia, dove risiedono, vivono e lavorano 750 mila migranti, solo alcune decine di migliaia aspirano a venire in Europa. Sono coloro che rimangono imprigionati dai sistemi di cattura come quello che Minniti e Gentiloni in accordo con trafficanti e milizie, hanno messo in piedi nel 2017. Quel “ce li andiamo a prendere” balbettato da Piantedosi dopo l’ondata di critiche per la colpevolizzazione delle vittime di Cutro, quanto deve attendere? Continuiamo a registrare morti, naufragi, sofferenze, torture nei lager, o lo facciamo davvero di andarli a prendere, salvando quelle vite e demolendo il business che vi si è creato attorno? Ma la propaganda contraria è invece il sintomo che il coraggio per incalzare il governo su sfide vere, manca ai suoi detrattori. Sarebbe troppo dire “andiamo a prenderli come hai detto tu, Piantedosi” perché alla fine “mica possiamo accogliere tutta l’Africa” è un luogo comune che vale per la destra e per la sinistra. Il marketing elettorale non è fatto di visioni alternative del mondo, ma di prodotti da vendere. Due al prezzo di uno. Il mio è il migliore. Intanto il Mediterraneo conta ogni giorno i suoi morti. Tantissimi bambini, quattrocento, da inizio anno. Ma uno straccio di parlamentare che vada in Libia sventolando il suo passaporto diplomatico, che chieda di entrare nei campi di concentramento, che dia voce a chi non ne ha anche a causa nostra e del nostro parlamento, mica si trova. È più facile dire che il governo è incapace perché gli sbarchi sono raddoppiati. Eppure altre emergenze vere ci sono. Il sistema di accoglienza italiano, si può definire tale? Sempre per opera di quel “capitano” che abbandona per primo la nave e che ben conosciamo da quando era Ministro degli Interni del governo Conte, quel poco di buono che c’era è stato smantellato. Il suo fido aiutante era l’attuale Ministro degli Interni, Piantedosi. E quel tanto che l’esperienza di Riace e del sindaco Mimmo Lucano aveva prodotto, indicando una possibile via maestra, virtuosa, positiva, dove alla lamentela si era sostituita la capacità di fare e di organizzare la convivenza, ci aveva pensato il solito Minniti, poco prima, a criminalizzarla e darla in pasto a un giudice “di sinistra” perché la trasformasse in un reato e la sanzionasse con dieci anni di galera. Oggi l’accoglienza con cui noi affrontiamo la situazione del Mediterraneo, è semplicemente inadeguata e assente. E allora perché non concentrare gli sforzi dell’opposizione su questo? L’unico vero dibattito interessante sul tema è stato, paradossalmente, quello che si è generato in Veneto, e nello scontro tra posizioni leghiste. Il governatore Zaia e il sindaco di Treviso Conte per l’accoglienza diffusa, opposti a Fedriga dal Friuli Venezia Giulia che è per il sistema di controllo concentrazionario dei campi detentivi. Accoglienza contro detenzione. Se solo riuscissimo a silenziare le propagande e il chiacchiericcio, scopriremmo che questo è un tema globale. Ad esempio osservando ciò che accade nel Regno Unito: la chiatta prigione “Bibby Stockholm” ancorata alla fonda al largo di Portland, serve a rinchiudere 506 richiedenti asilo uomini tra i 18 e i 56 anni, mentre attendono la valutazione della loro domanda. Ed è solo per il parere contrario della Corte di Cassazione che il progetto di deportazione in Rwanda dei profughi presenti in Uk, non si è ancora attuato. La Danimarca invece, l’accordo per deportare migranti in Rwanda l’ha già sottoscritto. Anche in Italia, dopo la strage di Cutro, il governo ha decretato l’allestimento di “Centri per il Rimpatrio” (Cpr). E la stessa Unione Europea sta discutendo l’approvazione del nuovo patto sulle migrazioni e asilo, che tra le altre cose prevederebbe la possibilità di deportazioni dei migranti dal suolo europeo verso paesi terzi. Uno di quelli individuati era la Tunisia, e i viaggi di Meloni e Von Der Layen da Saied hanno provato a sondare il terreno: soldi, tanti milioni di euro, in cambio della disponibilità ad allestire campi di detenzione per deportati. Nel frattempo, in Italia, a Pozzallo viene istituito il primo Cpr “per espulsioni veloci” con 84 posti. Le persone potranno essere detenute per un mese in attesa di rimpatrio. Il governo, per bocca del Commissario straordinario Valente, ha dichiarato che lì saranno detenuti i richiedenti asilo che hanno meno probabilità di vedere accolta la loro richiesta. Dunque, visto che le richieste d’asilo sono l’esercizio di un “diritto soggettivo perfetto”, ovvero un diritto che ognuno, al di là della provenienza, possiede, qual è il criterio che porterà in un carcere, senza aver commesso alcun reato, degli esseri umani? Il paese di provenienza. E la lista dei cosiddetti “paesi terzi sicuri” chi la decide? Il governo. Ecco dunque come un diritto umano, quello che Hannah Arendt definiva “il diritto ad avere diritti”, viene trasformato da soggettivo a discrezionale. Se sei della Costa d’Avorio, e chiedi asilo, vai diretto in galera. Queste carceri speciali in giro per l’Europa pensate apposta per chi chiede asilo, vengono propagandate come “luoghi di residenza temporanea”. Per i campi per deportati in Rwanda ad esempio, la descrizione è di luoghi dove “si può anche giocare a pallavolo”. Ma il filo spinato che circonda la struttura, non è esattamente come la rete a metà campo. Possono giocare a pallavolo, ma non possono uscire. Anche sulla galera galleggiante inglese è così: possono mangiare, ma non uscire. Accoglienza o detenzione è la cifra del dibattito. Segna anche la misura del processo di restrizione del diritto d’asilo, e quindi di ogni diritto sancito dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. È un’emergenza democratica questa per l’opposizione o no? Oppure vincerà ancora la propaganda, perché il governo, che ha accordi di riammissione solo con Tunisia ed Egitto, riesce ad espellere pochi “clandestini”? Migranti. Morcone: “Tutti i sindaci devono accogliere. Il governo faccia una norma” di Giansandro Merli Il Manifesto, 19 agosto 2023 Il prefetto Mario Morcone, ex capo di gabinetto deIl Viminale e assessore regionale campano: “Con il tema dell’invasione alcuni hanno fatto libri, altri talk show, altri ancora hanno lucrato consenso elettorale. Adesso sono prigionieri di quelle retoriche”. “Chi ha lucrato consenso elettorale contro i migranti è prigioniero delle sue retoriche”, dice il prefetto Mario Morcone. Si è occupato di accoglienza da più prospettive. Nato a Caserta nel 1952 è assessore a Sicurezza, legalità e immigrazione della regione Campania. È stato presidente del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), nominato nel 2018. Tra 2014 e 2017 ha guidato il dipartimento Libertà civili e immigrazione del Viminale, prima di diventare capo di gabinetto dell’ex ministro Minniti (Pd). Sindaci e associazioni si lamentano di come il Viminale distribuisce i migranti, del poco preavviso e della mancata programmazione. Era inevitabile con l’aumento degli sbarchi? No, però bisogna mobilitare tutti i sindaci. Alcuni si stanno tirando indietro, ma non possiamo più permetterci dei No motivati solo dagli interessi elettorali. Tutti i primi cittadini, proporzionalmente a dimensioni e capacità del comune, devono essere disponibili. Con chi si rifiuta che si fa? La via maestra è il dialogo ma vedo la necessità di una norma che costringa tutti i sindaci ad accogliere. Come avviene per i servizi statali. Si possono avere sensibilità e posizioni diverse su sbarchi e rapporti con il Nord Africa, ma sull’accoglienza le istituzioni devono garantire dignità. Siamo l’Italia, abbiamo precetti costituzionali e norme, ognuno deve fare la sua parte. Una buona accoglienza sarebbe un indotto economico… Non è che sarebbe, lo è. Se fatta in maniera legittima e trasparente è un’attività di impresa. Crea sviluppo, occupazione. Può aiutare ad affrontare la mancanza di lavoro in determinati settori. Il rifiuto è solo ideologico? In tanti hanno costruito piccole grandi fortune elettorali sul pregiudizio, sul contrasto al diverso. Oggi c’è una sorta di silenziatore sulla vicenda dell’immigrazione, mentre nel 2017, 2016 o 2015 si veniva bombardati con il tema dell’invasione. Qualcuno ci ha fatto i libri, altri i talk show, altri ancora ci hanno lucrato elettoralmente. Oggi sono prigionieri di quelle retoriche. L’allarmismo è stato trasversale agli schieramenti politici... Trasversale o meno ora i sindaci devono fare il loro mestiere. In Campania che succede? Siamo in sofferenza ma meno di altre regioni. Esiste una rete solidale molto forte, grande disponibilità a dare una mano. Anche la regione fa la sua parte. Il tema è insistere sui progetti comunali. Il governo però ha investito nei Centri di accoglienza straordinari (Cas) invece del Sistema accoglienza e integrazione (Sai)... Scelta sbagliata. Nei Cas, soprattutto quelli grandi, sono accolte molte persone con pochi servizi. Così si creano frustrazione e marginalità, possono maturare difficoltà di inserimento e piccole forme di illegalità. I progetti Sai gestiti dal servizio centrale dell’Anci, invece, assicurano percorsi di integrazione e inclusione. E prevedono la responsabilità politica del sindaco. Non è una cosa da poco. Per garantire servizi adeguati servono risorse. Quelle messe a disposizione non bastano. Infatti molti bandi vanno deserti... Perché hanno ridotto il rimborso giornaliero pro capite, eliminando servizi essenziali, come l’insegnamento dell’italiano o l’assistenza psicologica. Come giudica la circolare di Piantedosi che sfratta dai centri chi ha avuto la protezione? Non credo vada enfatizzata. Le persone devono essere accolte con dignità, formazione, lavoro. Ma non si può garantire un vitalizio. Dopo un anno e mezzo in accoglienza devi trovare la tua strada, se rimani in Italia. Tra la richiesta di protezione e l’esito passano anche tre anni... È vero, ma è anche vero che con la ricevuta della domanda d’asilo si potrebbe lavorare. Una strada da non trascurare. Queste persone possono portare un contributo alla vita economica della collettività e ottenere rispetto. Il governo punta sui rimpatri rapidi, attraverso le procedure d’asilo accelerate previste dal dl Cutro. Funzionerà? Sono solo bandiere. Con Maroni si diceva che serviva un Centro di permanenza temporanea (Cpt) per regione. Cosa ripetuta da Minniti. Non si è mai fatto. I rimpatri riguardano un numero limitato di persone, hanno costi alti e procedure complesse. Nessun paese europeo ne ha mai fatti più di 4.000/4.500. E parliamo di Francia e Germania. Si potrebbe puntare sui rimpatri volontari assistiti, che consentono di tornare a casa con un incentivo economico e la possibilità di ricostruirsi un percorso. Ma gli altri, quelli odiosi in cui le persone sono imbarcate in aereo con le manette ai polsi, sono pura propaganda. Legalizzazione cannabis, la richiesta delle opposizioni: “Dopo la Germania, anche il nostro Parlamento se ne occupi” di Giovanna Casadio La Repubblica, 19 agosto 2023 Dai dem a +Europa, fronte comune per abbattere il muro delle destre. Azione divisa. Zan (Pd): “Non possiamo essere fanalino di coda”. Cattaneo (FI): “Prudenza”. Non sarà la nuova battaglia delle opposizioni unite, come sul salario minimo, ma la legge sulla legalizzazione della cannabis sull’esempio della Germania, esce dalla soffitta in cui la destra italiana l’ha relegata. “Il Parlamento deve occuparsene, non possiamo essere fanalino di coda anche su questo”, promette Alessandro Zan, il responsabile diritti del Pd. Elly Schlein, la segretaria dem, in piena campagna per le primarie polemizzò con Matteo Salvini e contro la visione del leader leghista solo repressiva. Sottoscrisse la proposta di Riccardo Magi, il segretario di +Europa, per la coltivazione domestica di 4 piantine di marijuana a uso personale. Magi ha ripresentato quella proposta, così come Alleanza Sinistra-Verdi di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli ne hanno depositato un’altra sempre per la liberalizzazione. Distante anni luce dalla Germania e dall’idea di affrontare il problema e governarlo, la meloniana Augusta Montaruli in primavera aveva chiesto una stretta anche sulla cannabis. In pratica è muro contro muro all’italiana tra destra e sinistra. Anche un liberal come il forzista Alessandro Cattaneo, in vacanza a San Francisco, osserva: “Sono prudente, perché le aperture si sono troppo spesso rivelate fallimentari”. Zan rilancia: “Discutiamo senza che la destra brandisca la clava ideologica”. Sui social Magi dice: “Finalmente si legalizza la cannabis. In Germania però, mica in Italia”. E ragiona: “Il governo tedesco ha dato il via libera a un disegno di legge per legalizzare la cannabis, che sarà votato dal Parlamento alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva. Una legge che rappresenta ‘una svolta rispetto alle fallimentari politiche proibizioniste’, ha detto il ministro della sanità tedesca Lauterbach. Lotta alla mafia, consumo consapevole, controllo delle sostanze per la salute dei cittadini, più introiti per lo Stato e meno per la criminalità organizzata. Questo vuol dire legalizzare, cosa c’è da capire?”. Per +Europa è tempo di rilanciare iniziative dentro il Parlamento (“Solleverò la questione chiedendo che sia messa in calendario la proposta in commissione Giustizia di Montecitorio”, annuncia Magi) che fuori. Nella prima linea per un cambio di passo c’è anche il Movimento 5Stelle. Riccardo Ricciardi commenta: “Noi eravamo e siamo per la legge sulla coltivazione domestica a uso personale di cannabis, perché riteniamo che rappresenti un contrasto alla criminalità che fa business sulle droghe leggere”. Luana Zanella, capogruppo dell’eco sinistra alla Camera, avverte: “La Germania va verso la legalizzazione della cannabis, con un disegno di legge del governo che volta pagina rispetto alle politiche proibizioniste. Dalla destra italiana non ci aspettiamo tanta lungimiranza: ma l’Italia sarà penalizzata anche su questo. Qui gli affari continueranno a farli le mafie che hanno in mano il mercato della cannabis. Per noi è necessaria una totale inversione di rotta, a partire dalla legalizzazione della coltivazione domestica della cannabis, per sottrarre terreno allo spaccio e per andare incontro alle esigenze di molte persone malate che possono trovare conforto nei derivati della cannabis oggi introvabili perché la produzione è molto scarsa”. Bonelli rincara: “C’è un atteggiamento di chiusura totale da parte della destra e questo è un grande errore perché la legalizzazione sottrae alle grinfie della criminalità un fenomeno che riguarda i giovani soprattutto”. Se non sarà battaglia unitaria delle opposizioni è perché in Azione, ad esempio, le posizioni sono molto diverse nel partito stesso. Benedetto Della Vedova, di +Europa, twitta: “La Germania legalizza la cannabis contro mafie e mercato illegale e criminogeno. In Italia Meloni, anche su questo, conduce una battaglia reazionaria e di retroguardia. Eppure dovrebbe sapere che solo una minoranza di italiani è schierata con la sua guerra ideologica e irrazionale”. Nella passata legislatura la legge sulla legalizzazione della cannabis era giunta all’esame dell’aula della Camera. Stati Uniti. Il sindaco di New York: un Centro per migranti nel carcere dove morì Epstein Il Dubbio, 19 agosto 2023 Le organizzazioni dei diritti civili hanno protestato, accusando Adams di “trattare i migranti peggio dei carcerati”. Per affrontare l’emergenza migranti, il sindaco di New York, Eric Adams, ha indicato alla governatrice dello Stato una serie di strutture dove mandare i migranti, il cui arrivo in sovrannumero ha provocato una crisi nel sistema d’accoglienza. Ma tra le strutture da utilizzare Adams ha inserito, scatenando polemiche, anche l’ex carcere di Manhattan, il Metropolitan Correctional Center, chiuso nel 2021, dove nell’estate del 2019 morì il milionario pedofilo Jeffrey Epstein, accusato di traffico sessuale di minorenni. L’ex carcere, chiuso per le pessime condizioni in cui si trovava, è stato inserito al numero tre della lista inviata alla governatrice Kathy Hochul e che include il Floyd Bennet field, cioè l’area abbandonata dell’ex aeroporto di Brooklyn, l’ex caserma Fort Dix, in New Jersey, e il riutilizzo di vecchi ospedali psichiatrici destinati un tempo ai veterani. Le organizzazioni dei diritti civili hanno protestato, accusando Adams di “trattare i migranti peggio dei carcerati”. “Quel posto - ha dichiarato un legale impegnato nella diesa dei diritti civili, Andrew Laufer - è stato chiuso perché le sue condizioni erano considerate vergognose per persone accusate di crimini”. Nel carcere minorile di Kabul, dove i talebani fanno proselitismo di Marta Serafini Corriere della Sera, 19 agosto 2023 Oltre 225 detenuti, età media 11 anni, tra classi, laboratori e preghiera, il nuovo governo afghano ha preso il controllo di un centro fondato dalla cooperazione italiana. Nella struttura ci sono prigionieri comuni, criminali e i “beggars”, i piccoli mendicanti. In un cortile polveroso un gruppo di ragazzi sta giocando una partita di calcio. Davanti a loro, un’alta rete metallica. Carcere minorile di Kabul, qui un tempo venivano detenuti i giovani reclutati dai talebani e da Isis. Ma ora che lo Stato islamico è tornato al potere, dietro le sbarre ci stanno giovani prigionieri comuni, criminali e i “beggars”, i piccoli mendicanti e borseggiatori di strada. “Qui abbiamo 225 detenuti. L’età media è di 11 anni ma non scendiamo sotto i 7 anni”, spiega Nazar Mohammad Naseri, direttore del carcere. Ex imam, originario di Kabul, turbante nero e barba lunga, parla senza guardarci negli occhi ma è disponibile a rispondere alle domande. Il gruppo più nutrito è quello dei bambini. Piccoli, davvero. “Arrivano qui direttamente dalla strada, spesso non hanno i genitori. Ma se ci sono glieli riportiamo, come impone la legge”, sostiene Nazar Mohammad Naseri. Seduto nel suo ufficio, alle spalle le bandiere bianche e nere dello Stato islamico, il direttore ci tiene a rassicurarci. Siamo i primi giornalisti occidentali a visitare la prigione da quando i talebani sono tornati al potere due anni fa. Ma i funzionari del nuovo governo sono ansiosi di mostrare il loro volto buono. “Tra loro ci sono anche tossicodipendenti, assassini. Noi cerchiamo di recuperarli, la logica non è punitiva”. Nell’agosto 2021 i talebani, dopo aver liberato i loro prigionieri, hanno preso il controllo delle carceri di tutto il Paese. E fin dai primi giorni hanno annunciato di voler abbattere le cifre altissime della criminalità afghana. Il problema, ora, è la povertà estrema che rischia in realtà di far salire il numero dei detenuti compreso quello dei minori che, lasciati senza controllo dalle famiglie, si danno ai furti per sopravvivere. E non solo, la riorganizzazione dell’intero sistema giudiziario non rende ancora chiaro chi sia responsabile di giudicare e stabilire le pene. Morale, nelle carceri talebane in totale i minori sono 1.089 detenuti minorenni, fra cui 47 di sesso femminile, secondo quanto reso noto da Habibullah Badr, il numero due militare dell’amministrazione penitenziaria dell’Afghanistan. Naseri ci guida nel carcere. È un vecchio edificio, costituito da più blocchi circondati da un alto muro e filo spinato ovunque. Pensare di fuggire è impossibile. I colori che predominano sono il verde e il rosa. All’ingresso, una targa mostra la vecchia dicitura, Kabul Juvenile Rehabilitation Center, è stata la cooperazione italiana a fondare la struttura. Il direttore è ansioso di mostrarci le aule, dove i ragazzi più grandi sono riuniti per le lezioni. Sono tutti seduti, indossano gli abiti tradizionali e hanno il capo coperto. Sui banchi però non ci sono libri, quaderni o penne. Alle pareti, qualche mappa e qualche scheda anatomica. “Cosa stanno studiando?”, chiediamo. “Questa è la lezione di Corano”, ci viene risposto. È così che i talebani recuperano i giovani “criminali”, attraverso la religione. “Imparano la legge e i versetti sacri”. Ma ci assicurano che fanno anche lezione di matematica. “Cosa vuoi fare da grande?”. “L’astronauta”, risponde uno più grande seduto nelle ultime file. A un giovane viene chiesto dall’insegnante di intonare un canto religioso. La musica è proibita dai talebani, è permessa solo quella islamica. Dalle feritoie delle celle intorno alle classi i più grandi si affacciano, curiosi. Alcuni di loro indossano la mascherina. Molti hanno la testa rasata, nonostante la sharia vieti di tagliare peli e capelli. “Lo facciamo per evitare il propagarsi di pidocchi e parassiti, poi ci sono i detenuti di etnia hazara cui permettiamo di radersi”, spiegano. Ci sono anche parecchi ragazzini con pochi peli sul volto. Ci viene concesso di entrare in alcune celle. Una decina di giovani per ciascuna si muovono tra coperte e materassi colorati. Gli sguardi sono curiosi, quasi nessuno sembra impaurito. Ma nessuno parla. In una di queste, buttato su un materasso, dorme un ragazzo con indosso una maglietta rossa. Non ci viene detto cosa abbia. Vicino a lui si apre una latrina lurida. “Quando questa struttura era gestita da voi occidentali era molto più sporca di così. Noi abbiamo lavorato per renderla migliore e l’abbiamo tutta ripulita”, continua il direttore. Ai piani superiori le celle sono stracolme. Contro le grate, i ragazzi si ammassano. Alcuni hanno attaccato dei fazzoletti bianchi alle inferriate, altri hanno steso le uniformi. Ammassati sui davanzali si notano le copie del Corano e la pila di tappeti per pregare. Urlano, per richiamare l’attenzione. “Quante volte ricevono da mangiare?”, chiediamo. “Fanno tre pasti al giorno”, ci viene risposto. Ma di cibo non vediamo traccia, se non un secchio di pane raffermo buttato in un angolo. Il direttore ci porta in una stanzetta costruita all’interno di un’altra. È piccolissima, priva di finestre e di luce. “Questa era la cella di isolamento ma noi non la usiamo più, noi siamo più buoni”, dice ridendo. In altre stanze sono stati allestiti dei laboratori. “Oltre alle lezioni, cerchiamo di fare sì che i ragazzi imparino un mestiere in modo da recuperarli. Abbiamo corsi di calzolaio, di meccanico, di elettricista”. Nelle aule vuote campeggiano strumenti anche pericolosi, come grossi caccia viti con la bandiera statunitense sul manico in gomma. Sopra Eleonora Colpo e Marco Puntin di Emergency e l’ambulatorio nel carcere Nel carcere è presente anche un ambulatorio medico, gestito da Emergency, tra le poche ong rimaste dopo il ritorno dei talebani e che qui visita i pazienti e se necessario li riferisce all’ospedale. Spiegano Marco Puntin, direttore Paese in Afghanistan di Emergency e Eleonora Colpo, coordinatrice medica sempre di Emergency: “Per Emergency è molto importante la presenza in carcere, per dare dignità e per portare cure mediche laddove non arrivano. La prima assistenza avviene nella clinica all’interno della prigione. Ma se necessario, le autorità chiunque esse siano devono garantire ai pazienti l’accesso ai nostri ospedali”. Tutti i giorni i medici e gli infermieri visitano i pazienti. “Fin qui non abbiamo riscontrato malattie particolari o episodi di malnutrizione. In ogni caso, rispetto al periodo precedente al 2021, le condizioni generali della struttura ci sembrano migliorate”. In una sala più grande un gruppo di uomini, tra cui alcune guardie talebane, stanno seguendo una conferenza. “È un corso sul rispetto dei diritti dei minori”, ci spiegano. Un pannello illustra come l’argomento debba essere trattato secondo la legge islamica e secondo la convenzione sui bambini. Sopra campeggia il logo di Unicef. “Stiamo formando le guardie e gli operatori affinché possano lavorare nel rispetto di tutte le leggi”. Poi con un cenno del capo il direttore del carcere ci fa capire che la visita è finita. E nel carcere minorile di Kabul torna il silenzio. Disneyland con la pena di morte: le contraddizioni di Singapore di Paola Morselli Il Domani, 19 agosto 2023 Singapore può sembrare un paradiso di modernità, ordine e prosperità. Ma è caratterizzata di un sistema legale che prevede la pena di morte per lo spaccio di droghe. Il paese è pieno di contraddizioni e il partito dominante considera la pena capitale un punto fondamentale della sua narrazione di law and order. Dietro la modernità, la ricchezza e l’ordine di Singapore si cela un rigido sistema legale che ancora prevede la pena di morte. Nelle sole ultime settimane tre persone sono state condannate a morte per reati legati al traffico di droga, portando a 16 il numero di esecuzioni capitali nel paese dal marzo 2022, quando sono riprese dopo una lunga pausa dovuta al Covid. Questi tristi dati svelano una realtà controversa che si intravede dietro l’immagine patinata che Singapore dà di sé. L’espressione “Disneyland con la pena di morte”, coniata nel 1993 dall’autore di fantascienza William Gibson, è forse la definizione più calzante mai associata alla nazione. Utilizzata in modo provocatorio, vuole suggerire che Singapore è un paese la cui apparenza può ingannare. Ottenuta l’indipendenza dal Regno Unito dopo la Seconda guerra mondiale, nei decenni successivi Singapore è diventato uno dei principali centri per il commercio internazionale con un reddito pro capite tra i più elevati al mondo. Il tasso di criminalità si aggira su cifre minime e all’interno del paese riescono a convivere svariate minoranze etniche. Piccolo stato insulare che conta poco più di sei milioni di abitanti, con il suo ordine e le infrastrutture all’avanguardia può apparire come un mondo utopico e funzionale. Dietro la pace - Eppure, per comprendere Singapore e le sue contraddizioni, si deve andare oltre la pace apparente. La ricchezza del paese non è equamente distribuita, e le disuguaglianze sociali sono evidenti, specialmente per gli immigrati provenienti da paesi vicini che trovano impiego solo per mansioni non specializzate e i cui stipendi non sono comparabili a quelli dei datori di lavoro. Lo stato esercita un controllo incospicuo ma costante sulla popolazione e le offese criminali vengono punite con efficienza e severità, arrivando anche alla pena di morte. Sebbene sia formalmente una democrazia parlamentare, dal 1956 il paese è stato dominato dal People’s Action Party (Pap), fondato da Lee Kuan Yew, che ha da sempre dimostrato ben poca tolleranza per il dissenso. Lee Kuan Yew, padre fondatore della nazione, vedeva lo stato come una forza regolatrice di ogni aspetto economico e sociale del paese, e le libertà individuali come secondarie al mantenimento dell’ordine. Questa visione della società è stata tramandata alle attuali cariche statali e Singapore viene quindi spesso definito come un autoritarismo democratico: si tengono elezioni regolari nel paese, ma il Pap è il partito dominante e ha istituito leggi che limitano il libero dibattito politico e l’opposizione. La pena capitale - Una delle questioni più controverse è l’attuale sistema legale di Singapore, che prevede ancora la pena di morte per i reati di omicidio e traffico di droga. Sebbene retaggio dall’èra coloniale inglese, la pratica della pena di morte tramite impiccagione è stata mantenuta dopo che Singapore si è separato dalla Malesia nel 1965, e nel 1973 è stata ulteriormente estesa ai reati legati al traffico di droga. A Singapore, le leggi riguardanti le droghe sono particolarmente severe, con soglie di possesso che portano facilmente alla condanna a morte. È sufficiente infatti produrre, detenere o trafficare una determinata quantità di droga, come 15 grammi di eroina o 500 grammi di cannabis, per essere punibile con la pena capitale. Oltre all’automaticità con cui questa pena viene amministrata, solleva preoccupazioni la poca trasparenza sui dettagli della detenzione e delle esecuzioni dei condannati. Tuttavia, il governo di Singapore considera la pena di morte una misura efficace di deterrenza per il narcotraffico e l’abuso di stupefacenti. Il mantenimento della pena capitale è un argomento chiave nella narrativa del Pap per assicurare la popolazione della propria capacità di mantenere l’ordine e la sicurezza. Ad aver spinto il governo a mantenere severi controlli sulla circolazione di droghe nel paese è anche la vicinanza di Singapore al cosiddetto “triangolo d’oro” - composto da territori che si estendono tra Myanmar, Thailandia e Laos, e noto storicamente per gli ingenti traffici illeciti. In quanto snodo chiave del commercio del mondiale, trovandosi sullo stretto di Malacca (passaggio obbligati per le merci dall’occidente all’est del mondo) Singapore è esposto al rischio di diventare un potenziale hub per il traffico di sostanze illecite. Scongiurare una tale eventualità, preservando la propria reputazione di paese sicuro e internamente stabile, è fondamentale per non perdere attrattività per il commercio e gli investimenti internazionali. L’economia del minuscolo paese dipende da questi traffici commerciali, e il governo teme quindi che una criminalità dilagante potrebbe allontanare i capitali esteri e intaccare il benessere economico di Singapore. Ingiusta e inefficiente - Tuttavia, nonostante la convinzione del governo di Singapore sull’efficacia della deterrenza della pena di morte, alcune notizie sembrerebbero smentire parzialmente tale fatto: numerose sono le partite di sostanze stupefacenti che vengono trovate a Singapore ogni anno. Oltre alla discutibile efficacia, un altro fattore d’allarme attorno all’applicazione della pena di morte è il modo sproporzionato in cui colpisce minoranze e fasce sociali meno abbienti. Secondo un rapporto delle nazioni uniti del 2021, circa l’84 per cento delle esecuzioni riguarda la minoranza Malay presente nel paese. In aggiunta, molti dei condannati a morte non sono in possesso di risorse per difendersi adeguatamente da tali accuse. Singapore non è l’unico paese asiatico ad aver fatto della guerra al narcotraffico una battaglia nazionale. Anche le Filippine, sotto il governo Duterte, hanno iniziato una dura guerra al narcotraffico che ha causato migliaia di morti. Più in generale, in tutto il continente asiatico il quadro legale che amministra la produzione e l’utilizzo di droghe è molto severo, ma negli ultimi decenni c’è stata una tendenza ad escludere i crimini più leggeri legati al narcotraffico dalle accuse punibili con la pena di morte, preferendo misure meno estreme: la Thailandia è anche arrivata a decriminalizzare la cannabis. Singapore non è nemmeno l’unico paese asiatico a prevedere ancora la pena di morte. Tuttavia, se la Cina continua ad utilizzare questa misura estrema regolarità, paesi come il Giappone e la Corea del Sud hanno ridotto l’applicazione della pena di morte nel corso degli anni. Nel mondo, sono sempre meno i paesi che portano a termine le esecuzioni preferendo trasformare la condanna in una pena più leggera. La persistenza della pena capitale in un paese così sviluppato come Singapore solleva quindi domande. Nonostante però le controversie internazionali e le campagne delle organizzazioni per i diritti umani, Singapore sembra non avere intenzione di abbandonare la sua politica. Il paese resta ancorato alle proprie contraddizioni: un’economia fiorente ma una società piena di disparità socioeconomiche, un paese dove vige l’ordine ma sgarrare può portare a conseguenze letali, una Disneyland con la pena di morte.