Carceri, la privazione della dignità di Glauco Giostra Avvenire, 18 agosto 2023 Questo articolo uscirà probabilmente fuori tempo massimo. La permanenza dell’attenzione mediatica, politica e sociale sulla questione penitenziaria è generalmente di un paio di giorni per ogni suicidio in carcere (arriva ad una settimana per ogni evasione, solo perché è fatto che ingenera allarme sociale). Poi, con inconfessabile sollievo, tutto torna nel buco nero della rimozione collettiva, senza scrupoli eccessivi, perché rispetto alle vittime di altri drammi umanitari i detenuti pagano per loro colpe. Si potrebbe far osservare che la pena per la commissione di reati consiste nella privazione della libertà, non della dignità e della speranza: ma alle persone civili la precisazione suonerebbe giustamente come un’ovvietà; alle altre, come un buonismo insopportabile. Il più grande desiderio sarebbe che le successive righe non recuperino mai attualità; l’angosciante certezza è che la ritroveranno presto, e per molto tempo ancora. Basta lasciar parlare i fatti: i fatti sono argomenti testardi. A dieci anni di distanza dalla sentenza (Torreggiani contro Italia) con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per aver violato l’art. 3 della Cedu (Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti), la situazione nelle nostre carceri è raccontata da questi dati. Nel 2022, è stato toccato il numero più alto di suicidi, 85. Nei primi otto mesi dell’anno già è stata raggiunta la cifra di 47, e non sempre in questo raccapricciante computo sono compresi coloro che si sono lasciati morire di fame e di sete nel disinteresse generale. Centinaia i tentativi di suicidio sventati dalla polizia penitenziaria. Un quinto della popolazione carceraria si è abbandona a gesti di autolesionismo, quasi la metà fa uso di psicofarmaci; solo nello scorso anno, in più di 4.500 casi la magistratura ha riconosciuto che i detenuti hanno subito un trattamento inumano e degradante. Fuori dal carcere poi, ci sono più di 90.000 cosiddetti liberi sospesi, cioè condannati che attendono per anni di sapere se dovranno scontare la pena in carcere. Una situazione drammatica, ad eziologia complessa. Alcune tra le principali cause: magistratura di sorveglianza e polizia penitenziaria sotto organico; personale psicopedagogico praticamente assente; strutture spesso fatiscenti, sempre inadeguate; limiti normativi alla funzione risocializzativa della pena; ipercriminalizzazione e risposta carcerocentrica al reato; soprattutto, grave carenza di opportunità formative e lavorative. A quest’ultimo proposito, merita di essere segnalato, in termini di sicurezza sociale, come secondo recenti dati forniti dal Cnel, in Italia il tasso di recidiva medio è del 68,7%; ma scende al 2% per i detenuti che hanno un contratto di lavoro. Si può dunque dissentire sui fattori patogeni o sul loro coefficiente di incidenza, non sulla diagnosi: una diagnosi di drammatica gravità che era già contenuta nelle autorevoli parole del Presidente Mattarella in occasione del suo secondo insediamento: “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. Implicito, ma inequivoco il referto: lo stato delle nostre carceri è quello di un Paese senza dignità.Le responsabilità non sono certo - se non per i dieci mesi di inerzia - di questo Governo, ma le prospettive ci sembrano sconsolanti. Probabilmente è colpa nostra se non riusciamo a farci coinvolgere dall’ottimismo del vicepresidente del Senato, onorevole Gasparri, secondo cui: “Basta applicare le leggi che ci sono. Nordio, ci vuole un minuto per avviare questo percorso. Non bisogna nemmeno fare norme nuove”. Il ministro della Giustizia ritiene, invece, che ci voglia più di un minuto e da tempo ormai allude alla necessità di interventi diversificati, ma sono intenzioni ancora di una vaghezza disarmante, a parte l’idea di utilizzare come carceri le caserme dismesse. Idea che, a tacer d’altro, sembra ridurre il dramma carcerario a un problema di capienza architettonica. Così però non è, se si pensa che al tempo della sentenza Torreggiani con un tasso di sovraffollamento che raggiungeva quasi il 150% i suicidi erano 69 all’anno, mentre nel 2022, con un tasso pari all’incirca al 120%, sono saliti a 85. Restiamo, ancora una volta, ai fatti. Chiusi nei cassetti ministeriali ci sono la miniera di analisi, di progetti, di soluzioni operative lasciata dagli Stati generali dell’esecuzione penale che hanno visto coinvolte ideologie, professionalità ed esperienze diverse; la riforma penitenziaria elaborata dalla Commissione nominata dall’allora Guardasigilli Orlando; le indicazioni fornite dal Gruppo di lavoro istituito dall’ex ministra Cartabia per l’innovazione del sistema penitenziario. Possibile che in questa copiosissima riserva di proposte già normativamente elaborate non vi sia nulla da recuperare per una nuova iniziativa legislativa? Gli unici disegni di legge in materia sono quelli volti a ridimensionare la funzione rieducativa della pena sancita dall’art. 27 della Costituzione e ad abolire il reato di tortura. Ora torniamo ad occuparci del caro-ombrelloni. Più chiamate e video per aiutare i detenuti di Marco Ruotolo La Stampa, 18 agosto 2023 “Una telefonata allunga la vita”, recita un noto messaggio pubblicitario degli anni Novanta. Riprendendo questo spot, l’Associazione Antigone ha lanciato l’omonima campagna nell’estate 2022, sottolineando che i limiti temporali previsti dalla vigente disciplina penitenziaria sulle conversazioni telefoniche non avrebbero più senso, essendo in larga parte legati ai costi del servizio, assai elevati ai tempi della redazione dei testi normativi in discussione e oggi non più tali. Può sembrare una questione secondaria, ma è invece un problema fondamentale, perché il sentimento di abbandono o di isolamento spesso avvertito da chi abita gli istituti di pena può facilmente scivolare in una condizione di disagio estremo, soprattutto per coloro che hanno scarse o nulle possibilità di colloqui in presenza con i propri familiari. In un momento di sconforto una telefonata può, appunto, salvare una vita, consentendo di allontanare pensieri autolesionistici o addirittura suicidari. Se ne torna a parlare in questi giorni e lo stesso ministro Nordio ha annunciato prossime novità al riguardo. Su questo e su molti problemi della quotidianità dell’esecuzione penale si era interrogata anche la “Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario”, istituita nell’autunno del 2021 dalla ministra Cartabia e presieduta dal sottoscritto. In due mesi - a ritmi serrati - erano state elaborate puntuali e dettagliate proposte per la modifica del Regolamento penitenziario e per l’adozione di circolari amministrative, senza dimenticare di suggerire interventi minimi ed essenziali sulla legge penitenziaria, rivolti a rimuovere gli ostacoli più consistenti che si frappongono a un ordinato e proficuo svolgimento della vita detentiva. La crisi del governo Draghi e la fine anticipata della legislatura hanno impedito di portare a compimento questo processo di riforma. Potrebbe essere il momento per riprenderle, utilizzandole come base di partenza per interventi non solo necessari ma anche urgenti. Cercando di coniugare idealità e concretezza, le proposte, dettagliate nella relazione finale della Commissione e disponibili sul sito del ministero della Giustizia, interessano specialmente i seguenti ambiti: gestione dell’ordine e della sicurezza, impiego delle tecnologie, salute, lavoro e formazione professionale, tutela dei diritti, formazione del personale. Esprimono senz’altro una visione unitaria, ma sono facilmente utilizzabili anche per interventi settoriali. Così è per la questione delle conversazioni telefoniche, oggetto di un suggerimento di azione amministrativa e di una proposta di revisione del Regolamento penitenziario (intervento, quest’ultimo, che potrebbe dunque essere operato con delibera del Consiglio dei ministri). Nello specifico, la Commissione ha proposto la modifica dell’art. 39 del Regolamento, con ampliamento del numero delle telefonate (non soltanto una, ma “almeno” una a settimana) e comunque un allungamento della durata della singola conversazione (con indicazione temporale minima per l’accesso al servizio pari a quindici minuti). Con intervento su altra disposizione del Regolamento si propone, in una prospettiva anche di responsabilizzazione, di riconoscere alla persona detenuta la possibilità di “sostituire” i colloqui visivi con conversazioni telefoniche o videochiamate. Ma il passo più lungo suggerito, da realizzare con una circolare dell’Amministrazione penitenziaria, è la vera e propria “liberalizzazione” delle telefonate per i detenuti appartenenti al circuito di media sicurezza qualora non vi siano particolari esigenze cautelari, per ragioni processuali o legate alla pericolosità dei soggetti. Alle persone detenute ben potrebbe essere data, infatti, la possibilità di utilizzare apparecchi mobili configurati in maniera idonea e funzionale con le dovute precauzioni operative, ossia senza scheda, connessione internet (con impossibilità, pertanto, di accesso ai social) e con la possibilità di chiamare solo i numeri autorizzati. Dalle stime compiute da un dirigente penitenziario, componente della Commissione, il costo di tali apparecchi sarebbe assai contenuto e dunque l’acquisto possibile direttamente da parte dei detenuti (utilizzando il c.d. sopravvitto), senza oneri per l’Amministrazione. A ciò si aggiunga la possibilità di effettuare video chiamate tramite cellulari già acquistati dall’Amministrazione (3.200, all’epoca dei lavori della Commissione), che sicuramente consente un alleggerimento del sistema con evidenti benefici per coloro (e non sono pochi) che, non avendo disponibilità economiche, potrebbero chiamare gratuitamente avvalendosi di Skype o di applicazioni simili. Sono soluzioni che risolverebbero anche l’annoso problema legato alle difficoltà di verifica dell’intestazione dell’utenza telefonica, soprattutto per i numerosi detenuti stranieri, che, nella migliore delle ipotesi, quando la procedura riesca ad andare a buon fine, devono sottostare a lunghi periodi di attesa. C’è un dato di esperienza che abbiamo considerato nei nostri lavori e che conforta le soluzioni suggerite: l’ampio utilizzo del sistema delle videochiamate in periodo di pandemia. In assenza di impedimenti legislativi, una lungimirante azione amministrativa ha consentito, infatti, questa assai positiva sperimentazione, realizzata senza significativi problemi di gestione. Che l’effetto di tale iniziativa sia stato l’allentamento di crescenti tensioni, legate all’adozione di misure sempre più stringenti per evitare la diffusione del contagio, è un fatto; che si siano così evitate decisioni tragiche da parte delle singole persone detenute, conseguenti a un’avvertita condizione di totale abbandono, è una stima assai probabile. Piuttosto che cercare soluzioni estemporanee, può essere utile cercare risposte possibili in proposte già presenti, fattibili e addirittura “pronte all’uso”. “Speriamo prima che l’estate sia finita”, per riprendere il noto adagio di una canzone degli stessi anni dello spot richiamato all’inizio. Una telefonata per salvare la vita, anche in carcere. Proposta per superare l’inutile “tough on crime” di Edmondo Bruti Liberati Il Foglio, 18 agosto 2023 Statistiche italiane e mondiali dimostrano che pene alternative e trattamenti umani diminuiscono le recidive. Utilizzarli è un vantaggio sociale. Ad esempio l’uso del telefono. Il suicidio di due detenute ha riportato all’attenzione la condizione carceraria. Di fronte all’insondabilità del gesto estremo, da chiunque e in qualunque circostanza compiuto, sta il rispetto e il silenzio. Ma in questi casi si è trattato di persone in “custodia” delle istituzioni penitenziarie dello Stato. La pausa ferragostana ci consente di archiviare osservazioni stravaganti e irrispettose e soluzioni miracolistiche irrealizzabili. Attenti commentatori e studiosi esperti hanno riproposto l’urgenza di interventi per ricondurre il carcere, per gli imputati e per i condannati, ai principi della nostra Costituzione, che quando parla di funzione rieducativa della pena rimanda al “dopo” e al “fuori”. Inoppugnabili statistiche anche di recente pubblicate, mostrano come la percentuale di ricaduta nel reato, di recidiva, sia incomparabilmente più bassa per coloro che, in luogo di espiare in carcere tutta la pena, sono stati ammessi ad attività lavorativa all’esterno e a misure alternative. Come sempre i dati vanno letti con attenzione e si tratta in questi casi di soggetti per i quali era già stata fatta una prognosi positiva per il reinserimento sociale. Ma si deve, in senso opposto, considerare quanti detenuti, per i quali una prognosi positiva era stata fatta, non sono stati in concreto ammessi alle misure alternative per i ritardi del procedimento davanti alla magistratura di sorveglianza, e ancora a quanti non hanno avuto una prognosi positiva solo per la carenza del personale di assistenti sociali e ancor prima degli agenti di polizia penitenziaria. Senza confusione di ruoli con educatori e assistenti sociali ricordiamo che non è solo un cambio lessicale che la legge non parli più di “agenti di custodia”; sono loro a contatto quotidiano con i detenuti e sono i primi a poter segnalare situazioni di disagio estremo, ma certo non giova la tensione cui sono quotidianamente soggetti per la insufficienza numerica. Tough on crime è il motto della destra americana e all’imperativo del “duri con il crimine” non si sottraggono larghi settori dei liberal timorosi di perdere consensi. Il risultato è inequivoco: gli Stati Uniti, che mantengono e applicano, unico paese tra le democrazie occidentali, la pena di morte, che hanno un tasso di carcerazione superiore di quasi dieci volte alla media europea, presentano percentuali di recidiva impressionante e un numero di omicidi elevatissimo. Se non si vuole fare appello ai principi di umanità, per essere “duri con il crimine” ci si confronti almeno con un criterio di utilità. Meno si ricorre al carcere per reati minori, meno sono “alte” le mura del carcere, più si applicano misure alternative, più sicurezza alla fine vi è per quelli che stanno “fuori”. Il percorso di reinserimento dei condannati nella società, i dati statistici lo dimostrano, è un efficace, anche se ovviamente non risolutivo, antidoto alla recidiva. Tutt’altro che “buonismo”, ma politica per garantire maggiore sicurezza. Il carcere come pena ha una storia recente, poco più di due secoli, ma è uno strumento cui le nostre società sono costrette a ricorrere. Già durante la detenzione il rispetto di principi di umanità e di dignità, e l’attenzione a ridurre tutto ciò che non è necessitato dalla privazione della libertà, non è buonismo, ma un “investimento” sul recupero sociale. Si è parlato in questi giorni del regime delle telefonate e dell’ampliamento disposto durante l’epidemia Covid, come alternativa ai colloqui, poi rientrato. La attuale normativa è stata scritta in un tempo in cui il telefono era un grosso apparecchio domestico e dalle cabine su strada si telefonava ben poco, se non con una robusta provvista di gettoni. I tempi sono cambiati, oggi la vita di relazione di tutti si svolge largamente attraverso il telefono, in audio e anche in video. Per la grande maggioranza dei detenuti, che non ha contatti con la criminalità organizzata, si impone un drastico ampliamento (ovviamente con le opportune garanzie di sicurezza) delle telefonate, audio e anche video. Aiuta ad allentare la tensione in carcere, consente di mantenere legami affettivi ed amicali che non vi è ragione di troncare, ricorda al detenuto che la vita è “fuori” e non quel “dentro” dove ora si trova. Proposte precise e dettagliate sulle telefonate sono state avanzate da due Commissioni ministeriali, cui hanno contributo i maggiori esperti in materia, la “Commissione Giostra” e la “Commissione Ruotolo” dal nome dei presidenti prof. Glauco Giostra e prof. Marco Ruotolo. Le proposte di riforma complessiva, molto ampie ed articolate, per le vicende della politica, sono rimaste lettera morta, ma le Relazioni sono pubbliche e ben note nel ministero della Giustizia. Si consenta a un magistrato in pensione che, quale magistrato di sorveglianza ebbe alla metà degli anni Settanta ad applicare le grandi novità delle Riforma penitenziaria, di avanzare oggi una proposta ardita. Le due o tre norme, radicalmente innovative, della Commissione Ruotolo sull’ampliamento stabile delle telefonate sono pronte e immediatamente attuabili, con pochi accorgimenti tecnici. Si ricorra a quello strumento del Decreto legge, una volta tanto “necessario ed urgente”, a differenza delle tante altre volte in cui tutti i governi ne hanno abusato. Visite di ferragosto: il sistema penitenziario è ormai allo sbando di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 agosto 2023 Garanti regionali e associazioni nelle carceri: sovraffollamento, ma anche lacrime per la salute fisica e mentale, invasione di topi e blatte e detenuti che entrano per scontare solo pochi giorni. Dalle visite di ferragosto effettuate dai garanti regionali, dalle associazioni come Nessuno Tocchi Caino e dalle delegazioni del Partito Radicale, emerge prepotentemente che il sistema penitenziario in Italia è allo sbando. Partiamo dalle parole di Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme Odv, le quali mettono in luce una situazione allarmante all’interno delle carceri sarde, sottolineando l’importanza di affrontare la questione anziché cercare soluzioni superficiali. L’alta percentuale di detenuti anziani è uno degli aspetti che richiede attenzione immediata. La Sardegna si classifica al secondo posto in Italia per il numero di detenuti sopra i 70 anni, con il 3,32% del totale. Questa cifra supera la media nazionale del 2,02%, indicando una situazione particolarmente critica. Il fatto che i detenuti anziani siano così numerosi richiede un approccio più umano e attento alle loro esigenze. L’età avanzata comporta spesso necessità mediche e di assistenza specifiche che le carceri tradizionali potrebbero non essere in grado di fornire adeguatamente. La presenza di giovani detenuti tra i 18 e i 24 anni è un altro fattore preoccupante. Questo gruppo spesso manifesta problemi legati a disagio socio- economico, tossicodipendenze e disturbi psichici derivanti dall’abuso di sostanze. Una riforma efficace dovrebbe affrontare le cause sottostanti di questi problemi, cercando di indirizzare questi giovani verso programmi di riabilitazione e recupero invece che relegarli in un sistema carcerocentrico che potrebbe non offrire loro il supporto necessario. La visita di Ferragosto della Garante regionale per i detenuti ed esponente del Partito Radicale Irene Testa, al carcere di Alghero, ha evidenziato ulteriormente le problematiche del sistema. La presenza di detenuti con disturbi psichiatrici e tossicodipendenze mette in luce la carenza di risorse e di personale addestrato per affrontare queste situazioni complesse. La richiesta di una riforma da parte della Garante è un segnale importante che non può essere ignorato. Inoltre, la contraddizione tra il sovraffollamento delle carceri e la sottoutilizzazione di strutture come la colonia penale agricola di Mamone evidenzia una mancanza di coordinamento e pianificazione. Questo sottolinea l’importanza di sviluppare un approccio detentivo concentrato sulla rieducazione, il recupero dei detenuti anziché sulla mera punizione, ma anche una adeguata amministrazione. Infine, la mancanza di strutture adeguate per i detenuti con disturbi psichiatrici rappresenta un’ulteriore lacuna nel sistema. È essenziale investire nelle risorse e nel personale necessari per offrire il supporto adeguato a queste persone, garantendo loro la giusta cura e trattamento anziché relegarle in condizioni inadeguate. Una problematica, quest’ultima, segnalata più volte anche dal garante nazionale attraverso i suoi rapporti inviati all’amministrazione penitenziaria evidenziando “l’esigenza di avere nella Regione almeno un servizio di assistenza intensiva (Sai) in grado, in base alle caratteristiche strutturali, di proporre assistenza sanitaria ospedalizzata, seppure per brevi periodi, alle persone detenute”. Il sistema penitenziario in Sardegna rispecchia d’altronde il problema generale che riguarda le patrie galere, e richiede una riforma profonda e coraggiosa. La concentrazione su soluzioni superficiali come l’utilizzo di caserme dismesse non risolve le sfide complesse che il sistema affronta attualmente. È necessario, prendendo in esame la questione sarda, un approccio che consideri le esigenze specifiche dei detenuti anziani, dei giovani con problemi psichici e tossicodipendenze, nonché dei detenuti con necessità mediche particolari. Ma, dando uno sguardo generale, c’è anche il problema di detenuti che fanno ingresso in carcere per scontare anche pochi giorni. Che senso ha? È quello che si chiede Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino che ha vistato, assieme a Maria Brucale, Carlotta Chiaraluce, Aloisa Felici e Silvia Mattaroccia, il carcere romano di Rebibbia Nuovo complesso. Ha potuto constatare che ben 971 detenuti su un totale di 1.246 detenuti definitivi presentano una durata della pena inferiore ai 4 anni. Questo rappresenta una percentuale significativa della popolazione carceraria di Rebibbia. Di questi, 321 detenuti hanno una pena compresa tra un giorno e un anno. Un numero leggermente superiore, 314 detenuti, ha pene comprese tra uno e due anni. La fascia di pena tra due e tre anni coinvolge 246 detenuti. Infine, 190 detenuti hanno una pena che varia tra tre e quattro anni. Non si comprende come sia possibile che rimangano in carcere, senza essere raggiunti da una misura alternativa. Ed è una problematica che riguarda numeri non indifferenti. Ricordiamo l’ultima relazione al parlamento del garante nazionale. A giugno scorso, 1551 persone sono in carcere per scontare una pena - non un residuo di pena - inferiore a un anno, altre 2785 una pena tra uno e due anni. “È evidente - ha detto il garante Mauro Palma durante la presentazione della relazione al parlamento che una struttura complessa quale è quella carceraria non è in grado di predisporre per loro alcun progetto di rieducazione perché il tempo stesso di conoscenza e valutazione iniziale supera a volte la durata della detenzione prevista. Non solo, ma questi brevi segmenti di tempo recluso sono destinati a ripetersi in una sorta di serialità che vede alternarsi periodi di libertà e periodi di detenzione con un complessivo inasprimento della propria marginalità”. A tutto questo si aggiunge il sovraffollamento e le condizioni igieniche degradanti. Nella giornata di ferragosto, il carcere di Poggioreale è stato il fulcro di un’ispezione da parte del garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello. I padiglioni Napoli, Italia, Genova e Firenze, che ospitano migliaia di detenuti, sono stati esaminati con occhio attento. Ciò che emergerebbe da questa visita è un quadro di sovraffollamento e condizioni igieniche precarie come l’invasione di blatte e topi che solleva domande inquietanti sulla gestione della struttura e la dignità delle persone ristrette. I numeri parlano da soli: in una struttura con una capienza ufficiale di 1.639 posti, ben 2.064 detenuti erano presenti durante la visita. Questo significa che oltre 400 persone sono ristrette al di là della capacità dell’istituto. Questo sovraffollamento non solo crea problemi di spazio fisico, ma mette a dura prova anche le risorse umane, dal personale penitenziario al personale educativo e sanitario. Il garante Ciambriello, elogiando il personale di polizia penitenziaria per aver agevolato la sua visita nonostante le difficoltà, dimostrando professionalità e dedizione, ha rilevato che le celle, progettate per ospitare un numero inferiore di detenuti, ora sono occupate da un numero eccessivo di persone. Ha portato all’attenzione delle autorità le condizioni inaccettabili in cui alcuni detenuti si trovano, con letti a castello affollati e spazi limitati che possono ospitare fino a 10- 12 persone. La questione dell’igiene è un altro aspetto critico. Ciambriello ha segnalato la presenza di muffa e umidità in molte celle, rendendo gli ambienti insalubri e potenzialmente dannosi per la salute dei detenuti. La mancanza di docce calde è un’altra lamentela che ha sollevato, mettendo in luce le difficoltà quotidiane affrontate dai detenuti a causa di carenze strutturali. Ma ha anche espresso preoccupazione per la presenza di ratti e blatte all’interno del carcere, chiedendo un intervento immediato di derattizzazione e disinfestazione per affrontare questa problematica. Non manca la problematica sanitaria. Ha sottolineato la necessità di fornire assistenza medica tempestiva e adeguata, garantendo che le cure mediche siano accessibili e di qualità. La presenza di detenuti con problemi psichici è particolarmente preoccupante, e Ciambriello ha sottolineato la necessità di rafforzare gli interventi di prevenzione, cura e sostegno per queste persone vulnerabili. Più diritti ai detenuti? Solo chiacchiere d’agosto di Iuri Maria Prado L’Unità, 18 agosto 2023 La soluzione sarebbe la destituzione del penalismo carcerario e meno potere giudiziario, che continua a incarcerare mentre è attivo nella riaffermazione della propria autonomia. Scrive Gian Carlo Caselli sulla Stampa di ieri che il carcere “punisce troppo o troppo poco”. Evitiamo di replicare (tanto a che serve?) che il carcere non dovrebbe punire né tanto né poco, se per punizione intendiamo qualcosa che si aggiunge alla pura e semplice - e già spesso ingiustificata - privazione della libertà. Repliche come questa stanno solo nella testa di qualche amico dei mafiosi e dei corrotti, insomma esprimono la tigna del “garantismo farlocco” più volte denunciato dalla prosa chiomata dell’ex magistrato torinese e dalla maggioranza dei suoi colleghi intabarrati di nero. Di fatto, ma figurarsi se l’argomento buca le alate certezze dell’editorialismo togato, il carattere gratuitamente afflittivo del carcere non riguarda neppure la frequentissima inutilità della detenzione, tanto per capirsi il fatto che la privazione della libertà è disposta o mantenuta quando non occorrerebbe o, peggio, quando nemmeno essa è legittima: piuttosto, la contrarietà del carcere alle ragioni di umanità e costituzionali rimonta a situazioni che con la pura e semplice privazione della libertà non c’entrano proprio nulla e semmai - incivilmente e illegalmente - vi si aggiungono, vale a dire la mancanza di cure e igiene, il sovraffollamento, la sessualità coartata e l’omosessualità coatta, la sistematicità degli abusi, l’abbandono dei detenuti a un destino di esclusiva emarginazione e involuzione nella recidiva. A tacere di questa inemendabile vergogna, la tortura nella tortura, rappresentata dal regime aguzzino del 41bis, la gemma delle politiche securitarie che l’orgoglio giudiziario ostenta ad ammonizione e superamento del regime precedente: quello (testuale) che garantiva ai criminali soggiorni penitenziari da “Grand Hotel”. Quando però la somma di suicidi fa antipatico capolino dagli orli del tappeto di indifferenza steso sulla voragine carceraria, quando sussulta il coperchio della segregazione imposto sul pentolone della galera italiana, smosso da troppa umanità in fermentazione che decide di uscirne come può, e cioè facendola finita, allora piove qualche intervento agostano che rumina le soluzioni e denuncia le responsabilità. Quali soluzioni? Tutte, ma non la destituzione del penalismo carcerario. Quali responsabilità? Quelle di tutti, ma non del potere giudiziario che continua a incarcerare mentre è attivo nella riaffermazione della propria autonomia e indipendenza, innanzitutto autonomia e indipendenza, appunto, da qualsiasi responsabilità per lo stato delle cose carcerarie. Richiama il dovere di tutti, questo sacerdozio del carcere che deve punire fino a poco prima che i detenuti si ammazzino ma senza esagerare nelle concessioni, vedi mai che si finisca per punire troppo poco. E così l’appello è per il governo, per il ministero della Giustizia, per l’amministrazione penitenziaria, per i Comuni, per le Regioni, per i garanti comunali e i garanti regionali, per i Ser.T., per le famiglie, per la scuola, per l’Imprenditoria, per tutti: non per la magistratura, che evidentemente non partecipa in nessun modo al sistema che alimenta la discarica carceraria e seminai lo patisce, ne soffre, vi assiste con la più ferma deplorazione, tanto che ogni giorno, ma proprio sempre, e davvero non se ne può più di sentirli, i magistrati fanno girotondi e assumono iniziative a tutela dei diritti dei detenuti e per il miglioramento delle condizioni di vita nelle prigioni. “È disposta l’Italia”, domanda Gian Carlo Caselli, “a far cambiare narrazione e legislatura in materia di penalità e sicurezza?”. L’Italia politica e giornalistica, salve minuscole eccezioni, no. L’Italia giudiziaria nemmeno: ma senza eccezioni. Quei “fantasmi” under 30 che affollano le carceri di Manuela D’Alessandro agi.it, 18 agosto 2023 Cresce a ritmi record il numero di giovani nei penitenziari. Un direttore, una comandante della polizia penitenziaria, un’avvocata, un pm e una suora spiegano cosa sta succedendo. Il numero dei reclusi di età inferiore ai 30 anni è in costante e rapida ascesa ma il carcere, nella maggior parte dei casi, li ‘ignora’ o non ha a disposizione persone e strumenti per aiutarne il reinserimento e la cura, quando necessario. “Da sette mesi mio figlio, che ha 23 anni e soffre di disturbi psichici, è a Bollate - racconta una madre -. In tutto questo tempo non ha ancora visto un educatore, uno psichiatra o uno psicologo”. Accanto a lei, sul palco della conferenza ‘Ragazzi detenuti: problemi e progetti’ organizzata nei giorni scorsi a Milano da ‘Nessuno tocchi Caino - Spes conta Spem’, porta la sua testimonianza Stefania Mazzei, madre di Giacomo Trimarco, morto a 21 anni a San Vittore per avere inalato gas butano in quantità letale: “Faccio una distinzione tra i giovani che arrivano in carcere perché si perdono e hanno bisogno di un percorso più rieducativo e quelli che, come Giacomo, ci arrivano con una patologia psichiatrica. Per il nostro vissuto, le famiglie non esistono. È vero che tanti ragazzi non hanno la famiglia alle spalle ma tanti ce ne hanno una che vorrebbe essere attiva. Noi abbiamo avuto sempre le saracinesche abbassate. Tutti i servizi per la salute mentale sono distaccati e inefficienti, a comparti stagni, e così spesso, una volta usciti, i ragazzi ricadono nella rete della giustizia”. La ‘Chiamata’ ai ragazzi di San Vittore - Il direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano, conferma l’emergenza. “Quasi la metà dei nostri 840 detenuti ha sotto i 30 anni. Questo sta diventando un problema sempre più grosso in termini di gestione. È un dato in forte aumento anche perché viviamo le difficoltà che hanno fuori dal carcere. Noi accogliamo quello che la ‘strada’ produce. C’è, in particolare, un’elevata concentrazione di ragazzi che hanno problemi di droga, di farmaco dipendenza e psichiatrici. E tanti stranieri che non hanno i documenti e non puoi nemmeno impostare un percorso per loro. Difficile proporre dei modelli perché esiste un grande conflitto con le istituzioni: famiglia scuola e, a maggior ragione, la giustizia. Una situazione peggiorata dopo il Covid”. Per questo, Siciliano sta portando avanti da febbraio il progetto ‘Reparto La Chiamata’ in collaborazione con lo psichiatra Juri Aparo che col suo ‘Gruppo della Trasgressione’ è impegnato da anni anche coi più giovani. Non nasconde le difficoltà. “Il percorso è iniziato a febbraio però manca ancora un vero ‘ingaggio’. Si fa fatica a portare le persone a cui viene richiesto un impegno. Il grande numero di ragazzi che abbiamo rende tutto molto difficile perché si potenziano tra loro tutti i meccanismi negativi. Siamo comunque riusciti a ricevere un finanziamento dalla Regione Lombardia e due educatori di comunità che stanno provando a stabilire delle regole. L’obbiettivo è creare un posto dove si possa essere protagonisti del cambiamento a partire dalla cura, anche quella dei luoghi. Troppo presto per un bilancio ma i primi frutti li stiamo vedendo”. Sono coinvolti anche gli agenti della polizia penitenziaria. Michela Morello, comandante di San Vittore: “Gestiamo persone differenti e, attraverso l’esperienza, cerchiamo di avere una modalità di approccio individuale. Molti ragazzi sono giovanissimi ed entrano in carcere subito dopo il loro arrivo in Italia e, nel giro di poco tempo, dobbiamo capire chi abbiamo di fronte e studiare la modalità adatta, la migliore anzitutto per evitare il conflitto che può nascere anche da un problema generazionale. È necessaria la capacità di ascolto e di contemperare le nostre esigenze educative col portato delle esigenze dei ragazzi”. “A loro bisogna destinare risorse fisse, non bastano i progetti” - Suor Anna Donelli, che da molti anni lavora a stretto contatto coi giovani detenuti, sottolinea che “hanno bisogno di benevolenza e fiducia ma anche di fermezza”. “Spesso arrivano per delle stupidate e hanno bisogno delle regole basilari. Mi colpisce che quando li incontro dopo che sono usciti mi chiedano di portare saluti e ringraziamenti proprio magari agli agenti che gli hanno dato spiegazioni fatte in un certo modo. Loro, che fuori non hanno avuto riferimenti negli adulti, ritrovano nei poliziotti il padre che è mancato”. C’è anche, secondo Antonella Calcaterra, avvocato e consigliera dell’Ordine degli Avvocati di Milano, la necessità di un dialogo maggiore tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’. “A San Vittore sono in corso diversi progetti educativi, anche dedicati ai ragazzi con problemi psichiatrici, ma hanno una durata di 24 mesi. Questo significa che quando finiscono bisogna riproporli e riavere un rifinanziamento. Ma tale e tanto è il problema che credo sia il momento di attivare delle risorse fisse, con interventi non solo progettuali, da parte della sanità regionale nei confronti di persone detenute con problemi di questo tipo”. Il punto di vista del magistrato - Il pubblico ministero Francesco Cajani, che partecipa anche al progetto ‘La Chiamata’, sottolinea quanto sia importante il ruolo dei magistrati. “Ai giovani che ho conosciuto a San Vittore mi presento sempre dicendo che la mia funzione costituzionale è fare bene le indagini, a volte chiedere il carcere, e faccio di tutto per farlo al meglio perché credo che sia un male necessario. A furia di assolvere la mia funzione costituzionale però mi sono stufato di mandare la gente in carcere. Quest’anno ho passato 5 mercoledì a Opera a leggere ‘Delitto e castigo’ assieme a giovani studenti in Legge, familiari delle vittime della criminalità organizzata ed ‘ex criminali’. Alcuni di questi hanno detto di essere cambiati per avere visto come un certo magistrato, Alberto Nobili nel caso specifico, comportarsi in un certo modo. Non si può pensare che chi mette in carcere non debba c’entrare nulla con quello che succede ‘dopo’. Alla conferenza sono intervenuti anche Valentina Alberta e Paola Ponte, presidente e segretaria della Camera Penale di Milano, Alessandra Naldi, direttrice del Consorzio Vialedeimille dove si è svolto l’incontro, Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti e Sergio D’Elia, rispettivamente presidente, tesoriera e segretario di ‘Nessuno tocchi Caino’. I suicidi non sono ineluttabili ma la società ha lasciato solo chi lavora nelle carceri di Francesco Gianfrotta Corriere della Sera, 18 agosto 2023 C’era una volta il carcere di Torino: un luogo dove lavoravano duramente direttore, polizia penitenziaria, educatori, assistenti sociali, volontari, accomunati dall’idea - confortata da risultati positivi - che una detenzione finalizzata al cambiamento delle persone fosse obiettivo non velleitario ma possibile. Idea condivisa e praticata anche in altre carceri; a Torino, sostenuta dalla città, che investiva importanti risorse; dalla Chiesa, che faceva altrettanto; da altre istituzioni e pezzi della società (scuola e Università organizzavano corsi in carcere; la Regione era impegnata nella formazione; mondo della cooperazione e settori della imprenditoria offrivano occasioni di lavoro): tutti convinti che fosse interesse generale - oltre che dovere costituzionale - che chi sbaglia, oltre a dover pagare, sia posto in condizioni di scegliere una prospettiva diversa dalla recidiva, con vantaggio per l’intera collettività. I due suicidi di donne avvenuti nel carcere di Torino in un solo giorno raccontano, per più ragioni, una situazione profondamente mutata. Andiamo per ordine. È, anzitutto, sbagliato sostenere (lo fanno in molti) l’ineluttabilità del suicidio, in quanto frutto di una irresistibile determinazione della persona. I fatti parlano chiaro. Per tre anni, negli anni duemila, non si registrarono suicidi nel carcere di Torino; per contro, già nel 2022 (annus horribilis, con 85 suicidi nelle carceri italiane), a Torino ce ne sono stati 4. Non solo. L’ultima circolare sulla prevenzione dei suicidi, con linee-guida rigorose sull’attenzione che l’intera struttura carceraria deve prestare al riguardo, risale all’agosto 2022. Quale è lo stato della sua attuazione? Può appagare l’eterna giaculatoria sulla mancanza di risorse, ostativa al suo puntuale rispetto? La risposta affermativa può venire solo da una amministrazione che abbia smarrito l’idea delle sue priorità: in primo luogo, dare concretezza alla responsabilità dello Stato rispetto alla vita delle persone private della libertà. Non va trascurato il fatto sono tanti i poliziotti penitenziari che si distinguono nel riuscire a sventare tentativi di suicidio e nel soccorrere detenuti resisi protagonisti di gesti autolesivi; ed altrettanti i dirigenti e dipendenti dell’amministrazione penitenziaria che, quotidianamente, si prodigano, tra tante difficoltà, per dare attuazione, nei limiti del possibile, al mandato costituzionale della pena quale mezzo per la rieducazione. Quale è, invece, il messaggio che arriva a tutti loro dal centro e da chi porta la responsabilità politica dello stato delle carceri? È possibile che - con brevi intervalli che hanno rappresentato eccezioni al trend manifestatosi - esso non costituisca più uno stimolo forte all’impegno ed alla condivisione degli obiettivi ai quali il sistema penitenziario dovrebbe tendere. Rimaniamo ai casi di Torino e del Piemonte. Tempi lunghissimi per coprire i vuoti dell’organico dei direttori di carcere e della Polizia penitenziaria (gli istituti del Piemonte continuano a soffrirne); condizioni degli ambienti detentivi che, in un caso, fecero inorridire la Ministra Cartabia e, in un altro, segnalarono il progressivo abbandono al loro destino dei detenuti affetti da problemi di natura psichiatrica (la sezione Sestante, della quale si occuparono le cronache anche nazionali). È regola di esperienza che una struttura complessa e articolata, che ha compiti delicatissimi, vive anche di diffusa percezione di impegno. Carenze e ritardi accumulatisi nel tempo, dimostrati dal fatto che, pur con le diversità della popolazione detenuta odierna, le problematiche del sistema penitenziario, denunciate da operatori e opinionisti, sono sempre le stesse, demotivano, invece di sostenere l’impegno degli operatori. Altro che ineluttabilità dei suicidi! Il loro numero di quest’anno, allarmante come il picco del 2022, è la manifestazione più eclatante di un intreccio di problemi aggravatisi perché non affrontati con determinazione e visione lungimirante. Né rassicurano sul futuro le dichiarazioni del Ministro Nordio dopo gli ultimi due suicidi di Torino. La prospettiva di utilizzo delle caserme dismesse è, davvero, un parlar d’altro. Un modo, nemmeno innovativo (l’ipotesi fu considerata e subito scartata sul finire degli anni 90), di dissimulare un sostanziale vuoto di idee rispetto ad uno snodo cruciale, quale l’utilità delle pene detentive brevi in un contesto di sovraffollamento. È contraddittorio sostenere - il che è condivisibile - che la costruzione di nuove carceri, richiedendo troppo tempo, non è soluzione praticabile rispetto all’emergenza attuale costituita dal numero dei detenuti; e pensare, contemporaneamente, quale soluzione, all’utilizzo delle caserme. Quanto tempo occorrerà per ristrutturare le caserme e farle divenire ambienti detentivi idonei per detenuti condannati a pene brevi? E, prima, quanto tempo occorrerà per la loro individuazione e passaggio dalla Difesa alla Giustizia, con le corrette soluzioni giuridiche ed amministrative? Basterà questo cambio di luogo di detenzione per trasformare il tempo vuoto (come è oggi) in tempo utile, senza il concorso dei territori per la formulazione ed attuazione di progetti di risocializzazione? Sono questioni che, da anni, molti pongono all’attenzione generale (della politica, in primis): la detenzione breve, per sua natura, non può coniugarsi con una riflessione adeguata sul proprio passato e sul proprio futuro. Manca il tempo. Lo ha dimostrato il Garante nazionale dei diritti dei detenuti nella sua relazione di gennaio 23: il tempo vuoto rende la detenzione priva di senso; c’è, invece, spazio per la disperazione. Se non è utile, la pena è fuori dallo schema dell’articolo 27 della Costituzione: le ex caserme non potranno bastare a cambiarne la natura, ridurre il sovraffollamento e prevenire i suicidi. Carceri: una tragedia senza catarsi di Anna Grazia Stammati* Ristretti Orizzonti, 18 agosto 2023 Nelle carceri italiane si va lentamente e drammaticamente consumando l’ennesima estate contrassegnata dalla cronaca di un supplizio che continua a essere “giocato” sui corpi dei detenuti e delle detenute, facendo riemergere dall’ombra delle celle la realtà dell’ esecuzione della pena, dalla quale ci si vorrebbe tenere distanti, ma che si ripropone nella sua gravità, nonostante si tenti di derubricare il problema a questione contingente, demandando sempre a qualcosa d’altro la sua soluzione (a una nuova legge, all’edilizia carceraria, al reperimento di spazi ulteriori e più idonei alla detenzione, all’aumento del personale e delle risorse che, però, non arrivano mai e sono sempre insufficienti). Il sovraffollamento, i suicidi (47 dall’inizio dell’anno), la questione psichiatrica interna ai penitenziari, ripropongono ancora una volta la realtà della sofferenza fisica e del dolore quali elementi costitutivi della pena, che vanno urgentemente affrontati, non demandati ad un improbabile cambio di passo di un incerto domani politico. Sovraffollamento e caldo in carcere significano, infatti, cose ben precise: vivere in promiscuità, in celle senza aria e a volte senza acqua, tra sporcizia e violenza, in condizioni degradanti di vita, in spazi angusti, luridi e roventi, in situazioni a rischio di rivolta, circostanze che non riguardano solo alcuni penitenziari, ma la generalità degli istituti di pena, sotto accusa per la vetustà, le cattive condizioni di detenzione e la mancanza di spazi. Ma per risolvere il problema non serve fare ricorso ad altri luoghi di detenzione, pensare ad inserire altre persone in altre carceri, basterebbe, semplicemente, attuare le Misure alternative previste dall’Ordinamento penitenziario, in direzione della finalità risocializzante della pena, attivando i servizi sociali e aumentando le attività trattamentali per chi è in carcere (sottraendo l’attuazione di queste ultime alle singole discrezionalità). I dati del Ministero della Giustizia ci dicono che al 31 luglio, nei 189 istituti di pena italiani, i detenuti risultavano essere diecimila in più rispetto alla capienza regolamentare, ovvero 57.749, di cui 2.510 donne e 18.044 stranieri. A partire da questi dati il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ha recentemente affermato che nelle patrie galere sono circa 9.000 i detenuti per i quali si dovrebbero attivare le previste Misure alternative (1.582 persone per condanne sotto l’anno, 2.855 detenuti/e che scontano pene tra uno e due anni e 4.511 che hanno pene tra due e tre anni), dando seguito a quanto stabilito dall’Ordinamento penitenziario (Legge 26 luglio 1975, n. 354) nel quale si individuano tre tipi di misure alternative: l’affidamento in prova al servizio sociale; la semilibertà; la detenzione domiciliare. Peraltro con la legge 94 del 9 agosto 2013 sono stati già rimossi alcuni ostacoli nell’accesso alla detenzione domiciliare e alla semilibertà per i recidivi e, con la messa alla prova, c’è la possibilità di richiedere la sospensione del procedimento penale per reati punibili con un massimo di 4 anni di reclusione, facendo svolgere al detenuto un programma di trattamento sotto la supervisione dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna che prevede l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità, il risarcimento del danno e la riparazione, oltre che una serie di obblighi relativamente al luogo in cui si è accolti, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare alcuni luoghi. La domanda che sorge spontanea a questo punto è perché non si riesca mai a chiarire chi ha la responsabilità dell’attuazione delle norme (previste ma continuamente disattese), quali sono i motivi che impediscono la loro applicazione, perché si deve assistere, impotenti, alla tragedia dei suicidi che si susseguono ogni anno senza che nessuno risponda di quanto accaduto, senza che queste morti insegnino qualcosa a qualcuno. È doveroso a questo proposito ricordare, per tutti coloro che si sono tolti la vita dall’inizio di quest’anno, almeno i nomi degli ultimi tre detenuti che hanno deciso di porre termine alla propria insopportabile situazione detentiva, due donne, Susan e Azzurra a Torino - che hanno tragicamente riportato l’attenzione sulla condizione della detenzione al femminile- e un uomo, Andrea, a Rossano, in Calabria, del quale sappiamo solo che è la quarantasettesima vittima dall’inizio dell’anno (l’ultimo in ordine di tempo), e poco di più. Riteniamo per questo urgente riprendere la proposta emersa nelle tre giornate seminariali che il CESP-Rete delle scuole ristrette ha svolto nell’ambito del Festival dei due Mondi di Spoleto dal 6 all’8 luglio scorsi “costituire Reti di scopo territoriali/interistituzionali per calibrare e strutturare l’offerta trattamentale, per entrare nel merito dell’attuazione delle Misure alternative alla detenzione, anche nella prospettiva di riduzione del rischio dei suicidi in carcere, per far uscire le progettualità dall’eterna rappresentazione di ‘buone prassi’ che non riescono, però, a fare sistema”. *Presidente CESP “Il lavoro? Abbatte la recidiva” di Fulvio Fulvi Avvenire, 18 agosto 2023 Parla Giorgio Pieri, coordinatore nazionale delle Comunità Educanti per i Carcerati. Diecimila detenuti in più rispetto ai posti disponibili per regolamento e un sovraffollamento pari al 121%. Celle riempite fino all’inverosimile alle quali corrispondono giornate “vuote” da colmare con “qualcosa da fare” per ognuno dei 57mila reclusi che occupano le 189 carceri italiane. L’attività, il lavoro, la vicinanza umana, dentro e fuori dalle strutture penitenziarie sono le uniche risposte possibili a quel buio della disperazione che rischia di condurre al suicidio, ad atti di autolesionismo o a violenze contro gli altri. Un tedium vitae che annienta del tutto l’autostima e può far uscire chi ha scontato una pena peggiore di come era prima. Commettendo nuovi reati. Ma “l’uomo non è il suo errore” sosteneva don Oreste Benzi che in nome di questa certezza già sperimentata decise di fondare nel 2004 a Rimini la casa “Madre del Perdono”, la prima delle Comunità Educanti per i Carcerati (Cec) gestite dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, un’“esperienza” che negli ultimi dieci anni ha accolto 1.865 persone e oggi coinvolge 241 tra reclusi a cui è stata applicata la misura alternativa alla detenzione o “ex” che hanno finito di scontare la pena e lavorano, dopo aver seguito i percorsi educativi e formativi proposti in una delle undici strutture della rete, presenti in Romagna, ma anche nelle province di Cuneo, Massa Carrara, Chieti e Campobasso. “Qui da noi la recidiva è ridotta al 12-15% rispetto alla media nazionale, che è del 75%” afferma Giorgio Pieri, coordinatore nazionale Cec. “Ma va detto che i nostri sono luoghi dove la pena viene espiata - precisa - e dai quali non si può uscire se non accompagnati dai carabinieri: chi ha sbagliato deve pagare ma al principio della “certezza della pena” deve essere sempre associato quello della “certezza del recupero”. Ci vogliono anni, però, per conoscere veramente una persona e, trattandosi di chi ha commesso reati anche gravi, di soggetti fragili e sofferenti, è ancora più difficile promuoverne la redenzione umana, presupposto indispensabile di un reinserimento sociale stabile e duraturo. E voi come fate? Qual è il vostro metodo? “Ogni nostra casa, dove esiste un ambiente di tipo familiare, vede come protagonisti gli operatori che affiancano le persone che hanno sbagliato, i “recuperanti” che partecipano alla loro formazione valoriale e religiosa, e i volontari esterni, appositamente formati, che li aiutano nelle diverse attività, instaurano con loro relazioni di amicizia e dialogo in un rapporto individuale e di gruppo” spiega il responsabile Cec. “Ma il punto di partenza è sempre lo stesso per tutti quelli che vengono accolti: la consapevolezza che il male nasce dalle ferite del proprio cuore. E allora cerchiamo di capire cosa ha spinto la persona a compiere un reato, sapendo che la ferita “parla sempre” dentro una comunità, nel libero confronto con gli altri e questo comporta sempre un lavoro su di sé”. In tanti sono cambiati, hanno trovato un’amicizia vera, e sono rimasti qui a lavorare, in uno dei laboratori artigianali, aziende agricole, cooperative sociali, collegate alle Comunità. Tra loro c’è Gustavo, 42 anni, di Riccione, finito dentro per aver malmenato più volte la moglie, anche di fronte ai figli. “All’inizio diceva che lui il carcere, anche se aveva sbagliato, non se lo meritava proprio, ma quando ha ascoltato l’esperienza di altri compagni che dicevano di aver picchiato i figli si è ricordato del padre dal quale aveva imparato solo il linguaggio della violenza, l’unico che conosceva, e piano piano si è ricordato di essere stato lui stesso oggetto di maltrattamenti. Per questo a 13 anni andò via da casa e usò lo stesso metodo con la sua donna” racconta Pieri. Gustavo pensava a un certo punto di essere “un mostro” ma poi ha capito, usando misericordia verso i suoi compagni, che poteva farcela anche lui. Dopo un percorso di cinque anni adesso lavora a fianco di un ragazzo disabile e si è rappacificato con la moglie e con il mondo. “t contento, si sente realizzato”. Come Nicola, 61 anni, siciliano di Favara, condannato per aver strangolato la moglie che lo voleva lasciare. Lui era l’amministratore di una ditta, i due avevano adottato una bimba. Stavano bene economicamente. Ma all’improvviso gli crolla il mondo addosso e reagisce nel modo più impensabile e orrendo. Finisce in galera, poi all’ospedale psichiatrico e infine nella Comunità di Rimini, dove percorre tutte le fasi. Anche in questo caso viene fuori una storia di violenze e soprusi subiti ad opera di un genitore negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. “E adesso Nicola lavora con noi, consapevole di quello che è stato e di quello che è”. Karim, 30enne tunisino e musulmano, di anni dentro ne ha fatti nove: aveva cominciato da ragazzo a rubare, poi è passato alle rapine a mano armata. In carcere a Forlì gli avevano consigliato di battezzarsi e diventare cattolico. “t venuto qui e gli abbiamo detto che no, doveva rimanere quello che è - spiega Pieri - perché il problema era quello che c’era dentro il suo cuore, e anche in questo caso ritrattava di abusi sessuali subiti in famiglia, dalla madre, di una violenza “imparata” a casa e non riconosciuta, né ammessa, di un abbandono, fino a quando Kerim ha ascoltato storie come la sua e ha capito”. Anche lui ora lavora a fianco di un disabile con l’associazione “Papa Giovanni XXIII”: Ma ci sono anche detenuti che preferiscono rimanere “al fresco” piuttosto che affrontare la fatica di un percorso di crescita personale. “Si tratta del 2/3 % - dice Pieri -, rinunciano a queste opportunità di riscatto per stare in brandina, pagati dallo Stato e senza far niente”. Comunque, finora, aldilà dei proclami - conclude - non sono previsti finanziamenti pubblici per opere educative, di recupero delle persone detenute e di incremento della sicurezza pubblica, perciò il progetto Cec e le spese correlate sono quasi completamente a carico dell’associazione”. Due donne si sono suicidate in carcere: si poteva evitare? di Chiara Bonetto semprenews.it, 18 agosto 2023 Intervista a Giorgio Pieri, coordinatore nazionale del progetto CEC (Comunità educante con i carcerati). Il sistema carcere non è un luogo rieducativo, ma violento e senza speranza. Ogni governo propone qualche soluzione, che però non viene poi messa in pratica. La proposta che può dare una svolta: “No alle pene alternative. Sì alle pene educative”. È di qualche giorno fa la notizia di quelle due donne che si sono tolte la vita in carcere: una detenuta di 42 anni, mamma di un bambino di 4 anni si è lasciata morire di fame e di sete nel carcere di Torino; un’altra, di 28 anni, si è impiccata nella sua cella. Purtroppo non è una cosa così insolita. Il ministro Nordio ha dichiarato: “Ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, per la giustizia, è una sconfitta anche mia personale”. Ma cosa si può fare a riguardo? Abbiamo chiesto a Giorgio Pieri, coordinatore nazionale del progetto CEC (Comunità educante con i carcerati), di commentare questi fatti drammatici. Giorgio, tu ti rechi spesso a visitare i carcerati e ti occupi di loro da più di 20 anni. Sono casi isolati? Il suicidio in carcere è raro? “I dati dicono che dal 2000 ad oggi si sono suicidate 147 guardie carcerarie. Questo è un dato allarmante che dice non solo che i carcerati si suicidano, ma addirittura chi lavora nel carcere. È il sistema carcere che è malato. Il tasso di suicidi all’interno delle carceri è 19 volte superiore a quello della società esterna. Spesso, molti dei suicidi che avvengono in carcere, accadono proprio nei primi 6 mesi di detenzione. Questo succede perché si tende a mandare in carcere persone che hanno problemi di disagio psichico, più che problemi di delinquenza. Facendo riferimento al caso della donna che si è lasciata morire di fame, la Garante dei detenuti ha dichiarato che non ne sapeva nulla, eppure era da tre settimane che stava facendo il digiuno per protestare. Questo fatto, da una parte crea sconcerto, dall’altra sottolinea anche l’ordinarietà di questi fatti: c’è una persona che protesta in maniera molto forte, ma siccome sono tante queste situazioni, si tende a farci l’abitudine. Purtroppo spesso l’indifferentismo assale le guardie, gli educatori, i direttori del carcere, la stessa popolazione detenuta, e ancor di più la società intera. Quindi noi abbiamo accettato che il carcere può essere un luogo di violenza e si perpetua così l’indifferentismo, che è una brutta malattia”. Perché accadono questi fatti? “Accadono perché all’interno del carcere la persona è un numero. Immaginate una sezione all’interno di un carcere: c’è corridoio lungo, con tante porte a destra sinistra e dietro a queste porte ci sono 4-5 persone, che possono arrivare anche a 10-12 occupanti. Queste persone continuamente fanno richieste oppure si lamentano. La polizia penitenziaria dopo un po’, è disarmata di fronte a tutte queste richieste. Questo è uno dei motivi per cui, secondo me, c’è un alto tasso di suicidi anche tra le guardie. Però vorrei aggiungere che i direttori, le guardie penitenziarie e gli educatori sono dei santi, in alcuni casi sono dei veri e propri eroi. Quello che dobbiamo combattere non sono loro, ma è il sistema carcere che non funziona. Per come lo abbiamo descritto prima, un sistema del genere non può svolgere quello che ci chiede la Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Invece accade spesso che il carcere, invece di essere un luogo di rieducazione, diventi un luogo di disperazione e morte. Che ne pensi? “È proprio così, purtroppo. La Costituzione parla di “rieducazione” e la parola “educazione” deriva da e-ducere, cioè tirare fuori il bello che c’è in ogni persona, mentre il carcere, proprio per il sistema di violenza che mette in atto, tira fuori il peggio. E che sia un sistema di violenza lo dimostrano le denunce sporte dai detenuti picchiati da altri detenuti: nelle carceri italiane ce ne sono 800 ogni anno, ma io penso che ce ne siano almeno il doppio, che però non vengono presentate per paura di ritorsioni. Questo è un sistema che per sua natura è violento, questo è il motivo per cui noi dobbiamo trovare delle soluzioni alternative.” Tu vai spesso a trovare i detenuti in carcere. In questi anni ti è successo di seguire qualcuno che poi si è tolto la vita? “Sì, è successo nei primi anni di attività con i carcerati. Mi avevano proposto di accogliere Marcello, era una persona in carcere, sola. Prima di accettare ho portato questa proposta in Comunità. Nel frattempo lui è riuscito ad ottenere un permesso premio, è andato a casa sua e si è suicidato. In quel momento mi sono detto: “Ogni persona che mi passa davanti, non posso considerarlo un numero”. A volte anche noi operatori e volontari, senza volerlo ci troviamo a fare questo errore, di considerare le persone come un problema da sbrigare: Invece ogni persona va accolta per quello che è, e necessita di risposte adeguate ai loro bisogni. Marcello mi ha insegnato che bisogna prestare vera attenzione a ciascuno.” Cosa ne pensi di alcune proposte fatte dal Ministro della Giustizia? Quali proposte mette in campo la Comunità Papa Giovanni XXIII per i carcerati? “Il ministro Nordio ha detto che bisogna differenziare le carceri in base alla pericolosità e ha parlato anche di usare le caserme e questo perché ha anche dichiarato che non è possibile costruire carceri nuove per un discorso economico, e non è neanche possibile per i lunghi tempi: servirebbero almeno 12 anni. Queste sue dichiarazioni sono interessanti. Anche lui ha dovuto pensare a delle soluzioni. Questo lo hanno fatto anche i governi precedenti e purtroppo le hanno solo pensate, ma poi non hanno fatto niente, questo è il dramma. Mi auguro che questo governo non cada nello errore cioè di proporre ma poi non fare niente: questo rischio è sempre molto alto. La Costituzione, come dicevo prima, parla di pene educative non parla di “pena” al singolare, ma di pene al plurale, quindi possiamo differenziarle. Inoltre le pene devono essere educative. La questione quindi non è differenziare in base alla pericolosità, ma in base alla persona. Io ho trovato persone che avevano ucciso, ma che sono meno pericolose di altre che hanno commesso furti o rapine. Conosco persone che pur avendo fatto reati gravi, sono più disposti a svolgere percorsi educativi rispetto ad altri. Quindi è sulla dimensione educativa che noi dobbiamo prestare maggior attenzione. Non è corretto pensare che la pena alternativa sia quella di proporre al detenuto di uscire dal carcere, andare a casa sua e trovare un lavoro; a mio avviso, dalla nostra esperienza, queste non sono la soluzione ideale. Invece la soluzione ideale è proporre al detenuto le cosiddette “pene educative”, cioè pene svolte in luoghi educativi, in spazi dove l’educazione è messa al centro di un percorso. Quindi non c’è più il tempo che passa, ma c’è un tempo che viene usato in maniera intelligente e utile, allora la pena diventa davvero educativa. Per questo noi promuoviamo luoghi che abbiamo chiamato “Comunità Educanti con i Carcerati”, dove la dimensione educativa viene messa al centro. E le abbiamo chiamate “con” i carcerati e non “per” i carcerati, perché anche i detenuti devono essere messi nelle condizioni di essere protagonisti del loro cambiamento e anche di quello degli altri. In Italia abbiamo sperimentato questa proposta da circa vent’anni, anche se l’accoglienza del primo detenuto - che si chiama Marino Catena -, risale a 50 anni fa. In tutti questi anni la Comunità Papa Giovanni XXIII ha accolto tanti detenuti, poi nel 2004 abbiamo iniziato il progetto CEC. Sulla base di questa esperienza possiamo dire che il cambiamento delle persone è possibile, che la recidiva quando si lavora sull’educazione si abbassa dal 75% al 15% e in più queste comunità sono veri e propri luoghi di espiazione della pena e possono rappresentare una valida alternativa al carcere. Quindi, partendo dalla nostra esperienza con i carcerati, noi diciamo “no” a pene alternative, ma diciamo “sì” a pene educative. Diciamo “no” a pene alternative che si svolgono in luoghi non educativi, e diciamo “sì” a pene educative che si svolgono all’interno di un percorso educativo, dove anche il lavoro (che spesso viene considerato uno strumento educativo, ma di per sé non educa) diventa educativo. Le case del progetto CEC in Italia sono 10 e si trovano nella regione Emilia Romagna ,Puglia, Piemonte e Toscana con risultati eccellenti. Al ministro Nordio diciamo: “Venga a visitarci”, come ha fatto la Cartabia, che è venuta quando era già accaduto il governo. La Cartabia, che al tempo era ministro della giustizia, visitando questa casa disse: “Auspico che anche altre persone delle istituzioni vengano a visitare, perché solo vedendo se capisce che il cambiamento è possibile”. Auspichiamo che anche Nordio venga a visitare le nostre strutture per farsi un’idea di quello che può essere un’alternativa possibile e credibile al carcere.” Superare il carcere è possibile? O va sopportato come il male minore? “Non solo è possibile superare il carcere, ma adesso è anche doveroso. Diceva spesso don Oreste Benzi: “Dobbiamo rendere inutile il carcere”. È una frase che da più parti veniva contestata, ma lui era un profeta: è davvero necessario creare delle alternative al carcere, così da renderlo inutile. Noi crediamo che il progetto CEC sia una vera alternativa al carcere, almeno per 20.000 detenuti. Abbiamo fatto uno studio e se venisse garantita una retta da 40 € al giorno, ci sarebbero già in Italia 15.000 posti disponibili già da subito da parte di varie comunità che da subito accoglierebbero detenuti, se ci fosse un riconoscimento, non solo istituzionale, ma anche economico. Il male minore non è rinchiudere le persone in carcere, ma è aprire all’alternativa al carcere. Vi faccio anche un’ultima proposta: leggete il libro Carcere. L’alternativa è possibile che parla di tutto questo”. Nel gorgo del punitivismo di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 18 agosto 2023 Più reati e più pene. Il governo Meloni e il ministro Nordio (scavalcato?) non fanno che peggiorare la nevrosi del panpenalismo. Un male vecchio e trasversale della politica italiana incapace di vera giustizia. È da non pochi anni che, per stigmatizzare derive espansive della legislazione penale, sono solito - pur da giurista - ricorrere a etichette di matrice psichiatrica: nevrosi repressiva, ossessione punitiva, punitivismo compulsino et similia. Questa etichettatura in chiave psichiatrizzante evidenzia la incoercibile coazione a ripetere con cui tende ormai a manifestarsi quel fenomeno definito, più tradizionalmente, con termini quali panpenalismo, inflazione o ipertrofia penalistica, nomorrea e altri analoghi. Volendo insistere con le metafore medico-sanitarie, direi che purtroppo l’attuale governo Meloni sembra fare di tutto non solo per non apparire in proposito meno ossessionato rispetto ai governi precedenti, ma per esibire un profilo psico-patologico addirittura aggravato: precisamente, nel segno di una evoluzione peggiorativa verso la schizofrenia, o quantomeno la schizoidia. Com’è intuibile, con questa poco rassicurante etichettatura psichiatrica alludo alla grave scissione o contraddizione - già diagnosticata, peraltro, su queste colonne - tra l’anima teoricamente liberalgarantista del Guardasigilli Nordio e l’anima invece accentuatamente forcaiola che ha sinora ispirato la concreta politica penale di questo governo: col consapevole avallo di Nordio, e forse più spesso con la sua passiva tolleranza, sono già circa una decina i provvedimenti normativi (emanati o in preparazione) con cui si aggrava il trattamento sanzionatorio di reati preesistenti o si introducono ennesime figure criminose (ad esempio, in tema di rave party, immigrazione clandestina, violenza agli operatori medici e ai danni del personale scolastico, omicidio nautico, gestazione per altri ecc.). Eppure, appena nel settembre 2022 lo stesso Carlo Nordio non aveva esitato ad affermare: “(...) chi tende a intercettare una domanda di sicurezza degli elettori giocando con il rialzo delle pene alla fine non fa altro che ingrassare un populismo che in pochi mi sembra vogliono combattere davvero: quello penale”. Di fronte alla palese contraddizione tra il pensiero sopra riportato e le tante innovazioni normative (attuate o progettate) che lo smentiscono è fin troppo facile ironizzare su Nordio che predica bene e razzola male, su Nordio conferenziere tradito da Nordio ministro, su Nordio Guardasigilli per figura scavalcato da chi ha effettivamente il potere di imporre le direttive di politica penale da seguire. Senonché, limitarsi a fare dell’ironia non tocca la vera sostanza della questione, che ha natura sistemica, esibisce un nocciolo duro abbastanza risalente nel tempo e comunque non riguarda soltanto i governi di centrodestra, essendo piuttosto - come dimostra la storia degli ultimi decenni - politicamente trasversale: mi riferisco all’eccessivo spazio politico che la materia penale ha occupato e continua a occupare nel nostro paese, divenendo strumento di consenso elettorale e/o di conflitto partitico, con l’attivo concorso di pressoché tutte le forze in campo (mutando semmai - ma soltanto in parte - il fulcro della preoccupazione repressiva, privilegiando tradizionalmente il centrodestra soprattutto la criminalità comune e il centrosinistra quella dei colletti bianchi), la complicità di buona parte del sistema mediatico e l’ingenuo sostegno della maggioranza dei cittadini. Quale che sia stata la corresponsabilità di alcuni settori della magistratura nell’enfatizzare le implicazioni politiche dell’azione penale, la maggiore responsabilità di questo ruolo soverchiante della giustizia penale è da addebitare al ceto politico complessivo: il quale ha coperto e copre la propria incapacità di affrontare alla radice i mali sociali via via emergenti delegando di fatto al potere giudiziario il compito di trattarli secondo i paradigmi - pur inevitabilmente semplificatori e riduttivi e perciò, spesso, fallimentari in termini di reale prevenzione - delle colpe e dei castighi individuali. E questa delega al giudiziario ha - come sappiamo - riguardato anche, se non soprattutto, i grandi fenomeni criminali tipici del nostro paese, come nel caso emblematico delle mafie. È inasprendo sempre più le pene o estendendo i poteri di indagine che l’avremo davvero vinta sulla criminalità mafiosa? Sembrerebbe opinare ancora così pure questo governo, che è intervenuto con un decreto-legge dello scorso 7 agosto in materia di intercettazioni per reati di criminalità organizzata al discutibile scopo di prevenire, con autoritativa decisione politica, i temuti effetti di un’interpretazione giurisprudenziale sgradita (ma effettuando una modifica normativa talmente affrettata, da rischiare di complicare il problema piuttosto che risolverlo nel senso voluto: cfr. il commento tecnico di G.L. Gatta in Sistema penale, 8 agosto 2023). Non ho motivo di dubitare che Giorgia Meloni e altri militanti di FdI intendano onorare la memoria in particolare di Paolo Borsellino, assunto a loro simbolo morale, rafforzando l’azione antimafia. Ma, per evitare di percorrere ancora una volta la strada giudiziaria come presunto strumento principale di contrasto delle mafie, suggerirei a questo governo di onorare Borsellino tentando una buona volta di recuperare un’antimafia incarnata nelle realtà da cui il fenomeno mafioso continua a trarre origine: alludo, com’è intuibile, ad un’antimafia declinata in chiave prevalentemente politico-sociale, culturale ed economica, che miri una buona volta a risanare ad esempio i quartieri degradati di città come Napoli o Palermo, in modo da evitare che seguitino a riprodurre giovane manovalanza criminale per mancanza di altre alternative. Certo, per questa antimafia che guarda alla fonte ci vogliono idee, progetti e risorse: molto più semplice improvvisare (e talvolta pasticciare!) nuove norme penali, inasprire norme preesistenti o ampliare i poteri di indagine giudiziaria, passando sempre la palla ai magistrati, non importa se poi così se ne dilata a dismisura il potere di intervento (o di interdizione) e i tribunali finiscono con l’intasarsi ancora di più. Nel continuare - nonostante tutto - a difendere l’idea di una giustizia penale restituita a un circoscritto ruolo fisiologico, mi piace richiamare queste parole della filosofa statunitense M. C. Nussbaum: “In realtà io sono incline a pensare che la cosa più razionale sia rifiutare del tutto e per parecchi anni l’uso del termine ‘pena’, visto che restringe la mente, inducendo a pensare che il solo modo di riportarsi al crimine sia qualche ‘guaio’, come dice Bentham, inflitto al reo (...). La pena deve cedere il passo nella nostra attenzione ad altre strategie per la soluzione del problema, e quindi il dibattito dovrebbe in realtà vertere sulle misure che una società può utilizzare ex ante (e in certi casi ex post) per ridurre i reati”. Suppongo che Carlo Nordio sottoscriverebbe. Ma, ovviamente, un uomo di cultura liberale alla guida del ministero della Giustizia non è in grado, da solo, di promuovere rivoluzioni copernicane. Non solo perché il maggiore partito di governo è di tradizione giustizialista, ma perché il grande male da curare è - come già detto - trasversalmente diffuso e ha contagiato la mentalità della stessa gente comune: in verità, per ridurre lo spazio del penale nella sfera politica e più in generale nella discussione pubblica, occorrerebbe una rieducazione culturale dell’intera società italiana. Impresa vastissima e assai ardua: chi ha titoli di legittimazione e competenze per tentare di avviarla? Riforma Giustizia, posizioni distanti e dibattito acceso. Gli scenari sulla separazione delle carriere di Giovanni M. Jacobazzi Il Riformista, 18 agosto 2023 “Sono molto contento che anche Ernesto Carbone si sia espresso contro la separazione delle carriere fra Pm e giudici in magistratura, ritenuta da tempo una necessità irrinunciabile se si vuole migliorare il sistema giudiziario del Paese”, afferma l’avvocato genovese Stefano Cavanna, componente laico in quota Lega del Consiglio superiore della magistratura nella scorsa consiliatura. Carbone, avvocato ed attuale componente del Csm per Italia viva, intervistato questa settimana dal Riformista aveva dichiarato che la separazione delle carriere è un “finto problema”, aprendo invece ad una alternanza fra le funzioni. In pratica, un meccanismo per il quale prima di fare il Pm bisogna aver fatto il giudice, meglio ancora il gip che è fondamentale nel sistema processuale penalistico. “Penso di essere stato il primo ad affermare l’importanza che i magistrati durante il loro percorso professionale ogni tot anni passino dal ruolo giudicante a quello requirente e viceversa”, continua Cavanna. “Il problema che purtroppo nessuno coglie - prosegue - sono i rapporti che si creano fra Pm e Pg. Si tratta di rapporti, anzi “cordate” utilizzando le parole del dottor Nino Di Matteo, con tutte le conseguenze del caso in termini di condizionamento reciproco. Le cronache degli ultimi anni sono piene di episodi che evidenziano tali storture”. “Spiace che i colleghi penalisti siano concentrati esclusivamente sulla separazione delle carriere”, conclude l’avvocato genovese. “Ho letto l’intervista di Carbone e mi avrebbe fatto piacere leggere qualche parola a favore della rotazione degli incarichi in magistratura”, dichiara invece il giudice Andrea Mirenda, togato indipendente del Csm e componente, insieme a Carbone, della Commissione per gli incarichi direttivi di Palazzo dei Marescialli. “Da parte di Carbone mi sarei poi aspettato una presa di posizione ferma sulle degenerazioni del correntismo”, aggiunge Mirenda in quanto “sulle nomine più importanti le correnti continuano a proporre un proprio candidato, segno evidente che il criterio dell’apparenza al gruppo di riferimento risulta ancora determinante nella scelta: urge un intervento al riguardo”. “Su una cosa ha però ragione Carbone, le chat di Luca Palamara vanno mandate in soffitta. Io ho deciso di astenermi da ogni valutazione, purché non si teorizzi l’irrilevanza ai fini del prerequisito dell’indipendenza, essendo evidente che in passato ci sono state sperequazioni e disparità di giudizio”, conclude Mirenda. “Mentre con il collega Roberto Giachetti di Italia viva ci impegniamo sulla separazione delle carriere, sarebbe importante che tutti si astenessero dal fare inconsapevolmente il gioco dell’Associazione nazionale magistrati”, sottolinea il deputato Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione ed ex vice del Guardasigilli Andrea Orlando durante i governi Letta e Renzi. Attualmente sono depositate in Parlamento, cinque proposte sul punto. Quattro alla Camera - quelle di Jacopo Morrone (Lega), Tommaso Calderone (FI), Costa e Giachetti sono state accorpate, mentre al Senato pende quella della leghista Erika Stefani. Lo stesso ministro Carlo Nordio si è sempre detto favorevole alla separazione delle Carriere. “Una battaglia di civiltà”, aggiunge Costa. Favorevole da sempre alla separazione della Carriere e ad una modifica del sistema elettorale dei togati del Csm in chiave “anti-correnti” è il capogruppo di Forza Italia in commissione giustizia al Senato Pierantonio Zanettin. L’azzurro, anch’egli ex componente del Csm, all’inizio della legislatura ha presentato un Ddl sul cosiddetto “sorteggio temperato”. “Questa riforma si propone di spezzare il legame fra magistrato e correnti tramite l’introduzione, nel procedimento elettorale della componente togata del Csm, di un sistema che consenta la possibilità di candidarsi anche a quei magistrati non supportati dalla corrente maggiormente influente di turno”, afferma Zanettin. “La riforma Cartabia del Csm, dopo gli scandali, aveva l’obiettivo di favorire candidature sganciate dai gruppi associativi. Il risultato è stato l’esatto contrario, con tutti i togati eletti al Csm tranne un paio esponenti delle correnti”, aggiunge Zanettin. “Nessuno vuole fare la lotta alle correnti ma che ci sia un condizionamento da parte di esse nelle scelte del Csm mi pare evidente”, ricorda Zanettin, sottolineando, come Carbone, la necessità di valorizzare i magistrati bravi da quelli meno bravi. Sulla separazione delle carriere, infine, “è il sistema processuale ad imporla: vogliamo che il Pm dia del lei al giudice, come l’avvocato”. Giustizia, il mantra di Forza Italia: “L’unica via rimane il garantismo” di Simona Musco Il Dubbio, 18 agosto 2023 L’ipotesi Nordio in tema di prescrizione non convince i forzisti. Che aspettano una dichiarazione ufficiale del ministro. “Soluzioni come quella descritta dai giornali sono da Medioevo del diritto”, dice un esponente di primo piano di Forza Italia parlando dell’ipotesi prescrizione attribuita al ministro Carlo Nordio. Ovvero quella descritta da Repubblica, secondo cui il termine comincerebbe a decorrere non dal momento in cui il reato viene commesso, ma dal momento in cui il reato viene scoperto. Un’ipotesi contraria a quello che è il “faro” del partito di Berlusconi: il giusto processo. E che viene respinta con forza da uno dei partiti di governo, convinto, però, che tocchi aspettare una dichiarazione ufficiale. Il Guardasigilli non ha infatti né confermato né smentito le indiscrezioni di Repubblica e da via Arenula rimandano all’intervista rilasciata al Corriere della Sera: “La riporteremo nell’ambito del diritto sostanziale, come causa di estinzione del reato e non di improcedibilità - ha affermato Nordio -, soluzione, quella della riforma della ministra Cartabia, che ha creato enormi difficoltà applicative”. Ed è questo, al momento, a rassicurare tutti, convinti che sia il caso di passare all’azione con riforme garantiste, come quelle contenute nel ddl Nordio, sul quale Forza Italia ha intenzione di intervenire con emendamenti “migliorativi in chiave garantista”. I forzisti, dunque, attendono. Convinti, come spiega Pietro Pittalis, vicepresidente della Commissione Giustizia alla Camera, che l’unica soluzione sia quella del ritorno alla prescrizione sostanziale. “Per noi è irrinunciabile - spiega - e risponde ad un principio sacrosanto che decorra del momento della commissione del fatto e non da quando si scopre”. Ma non ci sarebbe “nessuna polemica nei confronti del ministro Nordio - chiarisce -. Da parte sua non c’è stato ancora nessun atto concreto sul quale confrontarci. Sono tutte ricostruzioni e non so se il ministro alluda, eventualmente, a situazioni particolarissime e speciali, di carattere straordinario. Dobbiamo avere la massima prudenza. Nell’ipotesi in cui fosse quella la proposta la posizione di Forza Italia è chiara”. La convinzione comune, però, è che si debba prima parlare delle riforme e poi presentarle. Una questione di metodo, afferma Tommaso Calderone, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia a Montecitorio: “Siamo una maggioranza e delle riforme ne dobbiamo parlare tra partiti”. Il sostegno al ministro è fuori discussione, ma la “stella cometa del partito rimane quella indicata da Berlusconi, il garantismo”. Il che vuole dire che “le garanzie nel processo, le garanzie del cittadino, sono sempre da salvaguardare”, così come quelle delle vittime. “Ciò che ci interessa è la celebrazione del giusto processo”, aggiunge. Il che significa anche passare per una serie di riforme come la separazione delle carriere, priorità assoluta della giustizia secondo Calderone. “Sono primo firmatario della proposta costituzionale che stiamo discutendo in Commissione Affari costituzionale e il 6 si ricomincia la trattazione con le audizioni del presidente dell’Anm, del presidente del Cnf e di quello dell’Ocf. Siamo molto determinati, ma del resto anche gli altri partiti di governo avevano nel programma la separazione”. Ma il giusto processo passa anche per la riforma delle intercettazioni, per le quali non basta la stretta alle pubblicazioni. E poi la prescrizione, riforma per la quale Calderone rimanda al lavoro già svolto in Commissione Giustizia alla Camera, dove “siamo in uno stato avanzato”. Ed è da lì, secondo i forzisti, che si deve partire, anche perché “il Parlamento è sovrano”. Anche perché sul punto i distinguo sono chiarissimi: “Che la prescrizione possa decorrere dal giorno della scoperta del reato a me pare una cosa dell’altro mondo - commenta Calderone -. Io credo di no, ma se è questa la proposta mi vede assolutamente contrario”. Sulla possibilità che si tratti di un “cedimento” di fronte alle pressioni della magistratura su Nordio il deputato è tranchant: “Le leggi le scrive il Parlamento, la magistratura le applica e il cittadino le osserva. La Repubblica parlamentare funziona così. Io non faccio irruzioni nel procedimento decisionale della magistratura - sottolinea -. Posso essere d’accordo o no, ma il legislatore non entra nei loro compiti e nelle loro funzioni costituzionali. Sarebbe il caso che la magistratura facesse lo stesso. Può dare il proprio contributo intellettuale, ma le leggi le scrive il Parlamento. Purtroppo non possiamo dire che negli ultimi 30 anni sia andata così”. Una cosa è certa: “Le irruzioni della magistratura sicuramente non influenzeranno Forza Italia”. Al cui interno il clima “è di grande coesione”. Soprattutto sui temi della giustizia. La legge secondo Nordio: se sei povero non puoi difenderti di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 18 agosto 2023 Il ministro impone nuovi limiti di lunghezza degli atti: ottantamila caratteri per cause inferiori a 500mila euro. Al di sopra, uno fa quello che gli pare. Con un decreto dell’altro giorno il ministro Nordio ha emesso un regolamento che stabilisce fino a che punto e in quale misura i cittadini possono far valere i propri diritti per iscritto: massimo ottantamila caratteri, ma proprio quando si tratta di inquadrare la causa, insomma all’inizio, quando bisogna spiegare al giudice di che cosa si tratta. Per le fasi successive del processo, penitenza a scalare, cinquantamila, diecimila. E cara grazia. Dove mai possa reperirsi un argomento decente per considerare giustificata e costituzionale una simile follia, che calpesta la libertà del cittadino di difendersi a proprio giudizio, senza un giudice o un ministro con il potere di sorvegliarne le eventuali verbosità, è un mistero. E ad attenuare il carattere smaccatamente autoritario e dirigista della misura non sta certo la previsione che consente di spiegare al giudice che lo spazio non basta, e ne occorre di più perché la faccenda è complessa: che in pratica è l’implorazione con cui il suddito chiede al sovrano di potersi difendere compiutamente, e quello valuta, vede un po’ come gli gira, chissà che non si tratti di qualcuno che pensa di poter annoiare il tribunale con troppe pagine su inutili fregnacce. Ma il gioiello eminente nel castone di questa giustizia a frasi predeterminate è quest’altro: che quel contingentamento del diritto di difendersi e di esporre le proprie ragioni mica è indiscriminato, nossignori, vale solo per le cause di valore inferiore ai cinquecentomila euro. Al di sopra, uno fa quello che gli pare, sbatte sul tavolo del giudice diecimila pagine di fesserie in colletto bianco e quello zitto, perché la tutela di un dritto milionario non vorrai davvero restringerla agli ottantamila caratteri. L’idea che un’ingiustizia enorme, bisognosa di un contrasto difensivo abbondante, possa riferirsi anche a un caso apparentemente minuto, non sfiora i redattori di questi spropositi normativi. Se un pensionato deve difendere dalla predazione illegittima di una multinazionale il proprio diritto su un orto di qualche metro quadrato, di poche migliaia di euro di valore, è giusto che si becchi il bavaglio di Stato, che scriva poco e non rompa le scatole. Se invece la causa è “ricca”, liberi tutti. Il fatto che poi queste limitazioni riguardino non solo le difese dei cittadini, ma anche gli atti dei magistrati, insomma le sentenze, non è segno di equanimità legislativa ma: è solo l’altra faccia di un’idea di giurisdizione “a punti”, a slide, a crocette; l’idea che la giustizia, per essere efficiente, debba ridursi a un’attività compilativa di formulari, uno, due, ics, la giustizia-totocalcio nell’attesa che l’intelligenza artificiale consenta al magistrato di dedicarsi alle cose importanti, cioè gli stipendi e le ferie e i convegni contro la politica corrotta, altro che queste balle dei diritti dei cittadini. Non cito neppure, anche se non è un dettaglio, il palese svilimento che questa bella novità rappresenta per il ruolo dell’avvocato, ridotto a un questuante da educare ai riti della giustizia a difesa calmierata. Lasciamo perdere questo profilo della questione, che pure c’è. Quel che allarma è il ricasco, appunto, sulle libertà e sui diritti del cittadino, che se non ha cause a sei zeri da far valere è esposto al riduttore ministeriale che gli taglia la richiesta di giustizia, e buonanotte al principio costituzionale secondo cui la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del processo. Diventa un diritto a numeratore di caratteri, diciamo. La vergogna dei magistrati onorari, cottimisti della giustizia senza diritti, continua anche con Meloni di Luana de Francisco L’Espresso, 18 agosto 2023 Fanno funzionare la macchina, ma sono discriminati rispetto ai colleghi togati. Stabilizzati sulla carta, restano precari delle udienze. L’Ue intima all’esecutivo di dargli tutele adeguate. Ora l’Italia rischia sanzioni e il blocco dei fondi Pnrr. Il tempo è abbondantemente scaduto. E lo è anche la pazienza di chi credeva di vivere nella culla del diritto e si risveglia invece in aule di giustizia abitate da magistrati, quelli onorari, chiamati a fare le veci dei togati, senza diritti né tutele. A stabilirlo è stata ancora una volta la Commissione europea che - vedendo ignorate le censure della prima e poi anche della seconda e più vibrante costituzione in mora, inviate all’Italia tra il 2021 e il 2022 - a metà luglio è tornata alla carica, sollecitando il governo ad annullare le discriminazioni e a promuovere, finalmente e a ogni effetto, al rango di lavoratori tutti quei giudici onorari di pace e quei viceprocuratori onorari che ogni giorno sostituiscono in udienza gli omologhi professionali. Sessanta i giorni di proroga concessi per farlo. Per cancellare, cioè, il paradosso per cui, pur garantendo il funzionamento della macchina della giustizia italiana (sono loro a reggere il 60 per cento del contenzioso civile e penale di primo grado), sulla carta contano quanto “volontari con funzioni marginali e accessorie”. La regola vale anche negli altri Paesi dell’Ue, dove pure “l’onorarietà si fonda sulla volontarietà” e dove, tuttavia, la loro presenza nelle corti è realmente saltuaria e non indispensabile a evitare la paralisi degli uffici. Sembra il teatro dell’assurdo e in effetti un po’ lo è. Tanto che a ricostruire lo strano caso degli oltre 4.500 magistrati onorari italiani, con non poco sconcerto, era stato proprio l’esecutivo europeo nella seconda lettera a Palazzo Chigi, esattamente un anno prima, dopo il mal riuscito tentativo della riforma firmata da Marta Cartabia di disinnescare le procedure d’infrazione avviate da Bruxelles. Dove peraltro, già nel 2017, le disposizioni introdotte dall’allora ministro Andrea Orlando furono giudicate insufficienti a sanare le storture. Ma erano state due pronunce della Corte di Giustizia dell’Ue (la “Ux” nel 2020 e la “Pg” nel 2022) sul riconoscimento ai ricorrenti della qualifica di “lavoratori subordinati” e, quindi, dei diritti retributivi e previdenziali, a fissare i principi per pretendere dall’Italia la fine dello sfruttamento. Come? Con il superamento della retribuzione a cottimo (98 euro lordi fino a cinque ore d’udienza), in primis, e con l’introduzione di un sistema contrattuale comprensivo dell’intera gamma di tutele giuslavoristiche - dalle ferie alla malattia, dalla maternità ai contributi previdenziali - garantite ai “titolari di cattedra”. Eppure, nonostante il via libera alla stabilizzazione degli onorari nelle funzioni giudiziarie, la battaglia è tutt’altro che conclusa. Prova ne sia il parere motivato (e ultimativo) inviato nelle scorse settimane dall’Europa alla presidente Giorgia Meloni, paladina della categoria quand’era ancora all’opposizione, e al ministro della Giustizia e magistrato in pensione, Carlo Nordio, che, dopo avere definito “grottesco”, a marzo, il modo in cui gli onorari erano stati fino ad allora trattati, il mese successivo aveva dovuto gestirne a propria volta lo sciopero. Astensione che, va da sé, aveva impensierito pure l’Associazione nazionale magistrati, ossia il sindacato delle toghe, che, nel sollecitare il riconoscimento ai supplenti delle tutele accordate nella legge di Bilancio 2022, aveva tuttavia ribadito “la necessità di non trascurare lo statuto costituzionale di onorarietà del loro importante impegno”. Allora come oggi, la sensazione non cambia. “Il governo non ci ascolta”, lamentano le associazioni degli onorari, critiche in particolare con il viceministro Francesco Paolo Sisto, l’avvocato che prima di varcare i portoni di via Arenula ne aveva difeso le istanze proprio nei palazzi della giustizia europea. “I magistrati onorari non godono dello status di lavoratore ai sensi della legislazione nazionale italiana e, quindi, neppure delle tutele garantite dal diritto del lavoro Ue”, ricorda la Commissione, biasimando pure “l’insufficiente protezione dalla reiterazione abusiva di contratti a tempo determinato” e “l’impossibilità di ottenere per questo un adeguato risarcimento”. Non un fulmine a ciel sereno, appunto, visti i precedenti ultimatum a cambiare registro. Ora, però, i rischi all’orizzonte sconsigliano ulteriori temporeggiamenti: detto che la vicenda potrebbe imboccare la via della Corte di Giustizia, si paventano il blocco dei fondi del Pnrr e una possibile condanna a un milione di euro di sanzione per ogni giorno di ritardo. Sul campo, intanto, a tenere alta l’attenzione sono le associazioni, per nulla soddisfatte delle condizioni che la Cartabia ha dettato per superare la precarietà. Passi per l’esame, pensato per procedere con la regolarizzazione e scaglionato per anzianità di servizio (a sostenerlo, per ora, sono stati 1.650 candidati, tutti arruolati prima del 2017), ma non per la decisione, che la stessa Commissione ha definito “penalizzante”, di parametrare gli stipendi, quelli che finalmente percepiranno anche loro, sulle retribuzioni dei funzionari amministrativi (con tre fasce di reddito, diviso in base all’anzianità e compreso tra 1.750 e 2.250 euro netti). Peraltro, congelandoli ai valori del 2021 e senza chance di rinnovi e adeguamenti futuri. “Incatenati per sempre”, osserva Monica Cavassa, vicepresidente dell’Unione nazionale giudici di pace e componente della Consulta della magistratura onoraria. Per non dire “della rinuncia obbligatoria alle pretese risarcitorie per il pregresso: le violazioni dei diritti che abbiamo subìto dalla Pubblica Amministrazione in 25 anni di servizio”. Ma il colmo è andato in scena a fine marzo, con la grana dell’inquadramento previdenziale del nuovo gruppo di lavoratori dipendenti: permanenti nelle funzioni, sì, ma al buio rispetto al regime da applicare. Con il risultato di rimanere per mesi senza paga. Nelle more, per colmare il vuoto “di fronte all’assenza di indicazioni nel nuovo quadro normativo” e nel rimarcare “la valenza risarcitoria della stabilizzazione”, il governo aveva allora erogato un acconto (al netto degli accantonamenti per previdenza e assistenza) per i 400 onorari già raggiunti dai decreti di conferma. Ma la soluzione, che aveva escluso i magistrati che non hanno optato per il regime di esclusività (chi, cioè, come gli iscritti all’albo degli avvocati, ha già un “partita stipendiale attiva” e dovrà comunque accontentarsi di un’indennità dimezzata), era stata giudicata “un’aberrazione” dalla categoria. Che, svestiti i panni onorari e della precarietà, e tuttavia ancora giuridicamente ed economicamente distante da quella dei togati, resta un’anomalia in e per l’Europa. “Io dico basta con le patenti di antimafia doc” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 agosto 2023 Parla l’onorevole di Fratelli d’Italia Chiara Colosimo, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere. In questi giorni si parla molto di suicidi in carcere. Cosa ci restituiscono le storie di quelle due donne morte nel carcere di Torino? Il suicidio è un dramma che aggiunge dolore alla morte stessa. Quelli in carcere, poi, sono la sconfitta di un sistema, una sconfitta ciclica, giro i penitenziari dal 2010, avevo 23 anni. Ogni estate da allora alcuni si accorgono del problema carcerario, ma è una situazione che esiste anche d’inverno. Secondo Antigone il sovraffollamento è al 121%. Inoltre “in tantissimi istituti mancano i ventilatori, le finestre sono schermate, non ci sono frigoriferi in cella e a volte neanche nelle sezioni e in molti casi in cella non c’è neanche la doccia”. La soluzione proposta da Nordio di utilizzare le caserme dismesse non sarebbe tardiva rispetto all’emergenza generale in corso? La stessa associazione Antigone ha scritto: “8% dei detenuti ha diagnosi psichiatriche gravi, 22% assume antipsicotici o antidepressivi, 44% sedativi o ipnotici”. Sposo appieno la “cura” Delmastro che sta parlando con le comunità terapeutiche per immaginare una misura ad hoc per i detenuti tossicodipendenti. È ovvio che il perenne disagio deve portare a una riflessione politica generale; sono già stati stanziati 84 milioni dal governo Meloni all’aumento del personale di polizia penitenziaria - che voglio ricordare fa un lavoro importante e delicatissimo -, e se necessario anche nuove strutture come ipotizzato dal ministro Nordio. Lei parlando di Messina Denaro ha detto che non dobbiamo dimenticare la sua portata criminale ma neanche escludere la compassione per un uomo malato. Il suo avvocato ci ha detto: ‘ Lo Stato ha vinto quando lo ha arrestato, perderebbe se gli negasse il diritto alla salutè. È d’accordo? Nel modo più assoluto, no. L’avvocato mente sapendo di mentire, infatti Messina Denaro è curato e sono stati garantiti al detenuto, che ricordo essere non un semplice boss, tutti i diritti garantiti dalla nostra Costituzione e dal nostro ordinamento giuridico. L’avvocato forse si è distratto. O forse, ancora una volta, qualcuno cerca di mettere in discussione il 41 bis? Il 41 bis non si tocca. Condivide la distinzione del professor Fiandaca tra “una antimafia laica, quella dei principi costituzionali del garantismo penale” e un’altra “dogmatica che in nome di Falcone e Borsellino, impropriamente elevati a divinità tutelari, respinge come turbatio sacrorum ogni possibile critica ai processi gestiti dai magistrati delle generazioni successive”? Respingo al mittente il processo che continua da un po’ e che tende a spaccare l’antimafia. L’antimafia esiste grazie alla lotta ed al sacrificio di Falcone e Borsellino, se dovessi iscrivermi a una corrente mi iscriverei a questa, perché non può esserci antimafia senza misure di prevenzione e le spesso dimenticate misure di sorveglianza. Il declino di Cosa Nostra è merito loro, l’arresto di Messina Denaro, l’ultimo debito che avevamo in sospeso con quella storia. Detto questo, basta con le patenti di antimafia doc; tenendo fermi principi e norme sacrosante dobbiamo auspicare una generazione di magistrati che con lo stesso fervore combattono l’emergenza di oggi, che si chiama ‘ ndrangheta e narcotraffico, che ci porta fino alla Tripla Frontera, tramite accordi transnazionali e piattaforme digitali evolute. Lei ha annunciato al Foglio che a settembre aprirà un filone investigativo sulle verità storiche delle stragi di mafia, partendo da quella di via D’Amelio. Crede che l’indagine su mafia- appalti sia la strada giusta per decifrare i massacri dell’estate del 1992? Sì. Ho questa convinzione, ma al netto delle mie convinzioni penso sia il filone fin qui meno esplorato. Non so e non voglio dire se volontariamente. Ma certo è nostra volontà rispondere ad alcune domande rimaste fin qui tali. Prendo spunto dalla domanda precedente: non sarà che il turbatio sacrorum vale solo per alcuni magistrati ed alcuni processi? Ho le stesse domande che si fanno i figli di Borsellino e l’avvocato Trizzino e vorrei provare a trovare risposte, sui verbali del Csm e su quei famosi 57 giorni, perché se qualcuno in quel “nido di vipere” ha tradito si sappia. Come è maturata la sua decisione di non voler spiattellare la black list degli impresentabili alle elezioni? Chiariamoci, non esiste niente di peggio di un politico che finisce in un’indagine per mafia. Ma che senso ha elencare a uno o due giorni dal voto una black list? A liste consegnate, a campagna elettorale svolta, per altro a preferenze magari? Ve lo dico io, nessuno. Credo due cose. La prima, poco utilizzata, è il controllo preventivo. Dico ai partiti: datemi i possibili candidati, li controlliamo così se davvero sono impresentabili non li candidati proprio. La seconda: bisogna essere inflessibili con alcuni reati, di mafia appunto, ma anche contro la PA, ma non confonderli con altri reati che non hanno lo stesso peso. Lo dico con casellario e carichi pendenti illibati e avendo dovuto usare le denunce contro le istituzioni quando le interrogazioni non sono bastate. Credo nel ritorno della politica; e la politica deve prendersi le sue responsabilità. Se scegli di candidare un “impresentabile” sapendolo te ne assumi le responsabilità davanti ai tuoi elettori, ma credo anche nella capacità di scelta dell’elettore, che deve sapere, ma non a campagna elettorale svolta. No alla gogna tardiva, sì alla selezione a monte. Come ha vissuto le polemiche sulla questione Ciavardini? I parenti delle vittime di mafia e terrorismo sono stati molto duri nei suoi confronti... Ho subito detto e ribadisco che ne sono profondamente dispiaciuta e che le polemiche mi hanno ferita profondamente. Ho letto qualsiasi cosa su una donna nemmeno 40enne che non ha niente a che fare con la Strage di Bologna, non solo perché non era nata, ma perché per educazione ricevuta ripudia ogni forma di violenza. Spero che il mio lavoro li porti a ricredersi, certamente da parte mia nessuna chiusura. Lasciatemi aggiungere, alla luce del dibattito odierno sulla condizione carceraria e la piena applicazione dell’articolo 27, che auspico che valga per tutti però. Adriano Sofri ha scritto: “I sentimenti di giustizia delle vittime, sole o associate, devono ricevere il riguardo sincero e non ipocrita della legge. Ma non sono la legge, né la sua fonte d’ispirazione. Quando provano un desiderio di punizione, rivendicano un carcere più duro, pensano alla galera come a un luogo di espiazione, hanno torto, il più umano dei torti, ma torto. Chi, nel mondo politico, se ne fa un alibi in favore dell’afflizione carceraria e dell’inerzia sul ruolo del carcere ha torto, il più losco dei torti”. Concorda? Mi sarebbe piaciuto leggere questa affermazione in relazione alle polemiche a cui faceva riferimento prima. Il carcere duro è fondamentale e non discutibile. La certezza della pena è garanzia per i sentimenti di giustizia delle vittime e per la riabilitazione del condannato. Sto leggendo in questi giorni “A colloquio con Gaspare Spatuzza”, me l’ha consigliato Padre Maurizio, Parroco della Chiesa San Gaetano, non credo che senza quella solitudine dovuta anche alle misure detentive saremmo arrivati alla stessa collaborazione e conversione. Non condivido il peloso buonismo di chi dice che c’è differenza tra chi vuole giustizia e chi vuole durezza, come le famiglie delle vittime: le due cose non sono in conflitto anzi, non si può cambiare, non ci si può riabilitare se non si riconosce l’infame mostruosità di quanto si è fatto, infliggere una pena non vuol dire uccidere. Vanno rotti i legami e pagati i debiti, per andarsene da ogni parte (e riconquistare la libertà perduta). Parlando della decisione della Consulta sull’ergastolo ostativo, il pm antimafia Stefano Musolino ci disse: “Continuare a ragionare in termini emergenziali di lotta alla criminalità organizzata è ormai antistorico. La mafia è un fenomeno cronicizzato che deve essere affrontato con una legislazione che tenga insieme le ragioni della sicurezza sociale, insieme ai diritti dei soggetti coinvolti nei processi. Questo è il nuovo equilibrio invocato dalla Corte Costituzionale che è anche una sfida culturale”. Che ne pensa? Non condivido affatto. E in parte ho già spiegato perché nella domanda sull’antimafia dogmatica. Primo, se una cosa dura per un lungo tempo, non vuol dire che non sia emergenziale. La lotta alla criminalità organizzata è un’emergenza, costante per carità, non solo per i motivi più noti, ma anche solo per il Pil sommerso che fa circolare. Secondo, l’ergastolo ostativo è stato il primo provvedimento del governo Meloni, proprio perché riteniamo che la legislazione antimafia non sia da relegare a un periodo storico ma una reazione imprescindibile dello Stato. Non vorrei che si arrivasse al paradosso della mafia che si difende dallo Stato. Questa sì che sarebbe una catastrofe. Quando la giustizia dipende solo dal rango di Marco Revelli La Stampa, 18 agosto 2023 “C’è dunque un giudice a Berlino”, potremmo esclamare anche noi come il povero mugnaio Arnold della celebre pièce teatrale, il quale dopo una serie inenarrabile di vessazioni giudiziarie ottenne alla fine di essere reintegrato nei suoi diritti contro l’onnipotente re di Prussia. Possiamo farlo perché alla fine, in forza della pronuncia del Bundesverfassungsgericht, la Corte costituzionale tedesca, Harald Espenhahn inizia a espiare la sua pena, come principale responsabile del rogo della Thissenkrupp di Torino in cui morirono in modo atroce sette operai. Lo fa 16 anni dopo quel crimine consumatosi nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007. Al termine di un’infinita catena di processi e di atti giudiziari in cui, con una raffica di ricorsi, ha costantemente tentato di negare ai parenti delle vittime fin anche il risarcimento morale dell’ammissione della propria colpa. E nel corso dei quali l’iniziale condanna a 16 anni di reclusione comminata dalla Corte d’Assise di Torino in primo grado per omicidio volontario con dolo eventuale prima si è ridimensionata di un terzo (derubricata a omicidio colposo: 9 anni e 8 mesi) poi ulteriormente dimezzata perché per la legge tedesca la pena per quel tipo di reato non può superare i 5 anni. Harald Espenhahn al tempo dei fatti ricopriva la carica di Amministratore Delegato e membro del Comitato Esecutivo della ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni s.p.a. Era dunque il responsabile degli altri responsabili aziendali condannati per quelle sette morti (Moroni, Salerno, Cafueri, Pucci e Priegnitz, tutti condannati a pene tra i 7 anni e 6 mesi e i 6 anni e tre mesi), ma mentre i quattro italiani si erano presentati alle porte del carcere già nel 2016 quando la Cassazione ne aveva confermato le condanne, i due tedeschi, rifugiatisi in patria, avevano tentato di resistere forti della propria nazionalità evidentemente considerata “superiore”. Poi però Priegnitz si era rassegnato dopo che il tribunale di Hamm aveva confermato la sentenza italiana e aveva incominciato a scontare i propri 5 anni in regime di offener Vollzug, ovvero di semi-libertà (di giorno poteva lavorare presso ThyssenKrupp, con cui aveva mantenuto un rapporto di lavoro, la sera rientrava in carcere finché non venne messo in libertà per “buona condotta”). Sarà presumibilmente questa la sorte anche per il suo “capo”, che inizia ora il suo regime carcerario di semilibertà, in attesa che tra un paio d’anni - forse un po’ meno dato il suo rango superiore -, sia restituito anche lui alla piena libertà. Lascia l’amaro in bocca, l’intera vicenda. Ma non deve stupire. Quando si tratta di “crimini dei colletti bianchi”, come li definisce la sociologia del diritto, le cose vanno generalmente così. Il carcere è per gli altri, senza quarti di nobiltà. Quelli che per il furto di una bicicletta escono dalla cella solo con un cappio al collo. D’altra parte il mugnaio di Postdam della commedia aveva avuto il torto di prendersela con il sovrano che avrebbe preteso di abbatterne il mulino solo perché gli disturbava la vista del suo principesco castello di Sansoussi, e comunque dopo aver avuto temporanea giustizia per l’intervento di un giudice onesto, se lo era visto di nuovo sottrarre dal prepotente barone von Gersdorf. I poveri morti della Thyssen hanno avuto il torto di bruciare nel fuoco di uno dei più potenti gruppi siderurgici e finanziari europei, la cui sovranità persino una Corte costituzionale può solo graffiare, non certo superare. Firenze. L’emergenza nelle carceri, il piano delle caserme, il rischio di un giro a vuoto di Massimo Lensi* Corriere Fiorentino, 18 agosto 2023 Il sindaco Dario Nardella ha dichiarato, sul Corriere Fiorentino di ieri, di gradire la proposta del nuovo Piano Carceri del ministro di Giustizia Carlo Nordio: la ormai famosa detenzione differenziata in caserme dismesse. Per molti, la proposta è tecnicamente impraticabile. Inoltre, ci sono aspetti che forse avrebbero titolo di essere affrontati. Mi sono allora permesso di elencarli. Se non si comprende, infatti, che i problemi della carcerazione devono essere affrontati soprattutto “fuori”, nell’ambito della prevenzione del reato, il rischio di girare a vuoto diventa molto alto, contribuendo al più alla crescita di una particolare “professionalità” sui diritti dei detenuti, frustrante per chi la pratica. Da anni la situazione all’interno degli istituti penitenziari, compreso il carcere di Sollicciano, è la stessa, al massimo peggiora. La cornice giuridica ha fatto qualche passo in avanti, la realtà, inè tornata ai tempi precedenti l’entrata in vigore del primo regolamento penitenziario (1975). Le ricerche etnografiche sulla popolazione detenuta in Italia sono chiare: la stragrande maggioranza dei detenuti è dentro per reati minori, o legati al mercato della droga. I detenuti pericolosi (reati di sangue, criminalità organizzata) sono invece una piccola minoranza. Le patrie galere sono colme di marginali - gli extracomunitari, i poveri, i “disadattati”, i “tossici”: non consoni, quindi, a vivere nelle città falsamente “deluxe” del nostro modello di sviluppo; a maggior ragione oggi che il turismo internazionale sta diventando l’ultima risorsa di un Paese sempre più economicamente allo sbando. Michel Foucault ha sempre messo in guardia dall’affrontare il carcere (la punizione) da un punto di vista che non fosse quello di esprimere preoccupazione (anche nella forma di lotta politica per Foucault fu il momento dei Gip) verso l’esigenza - oggi diremmo populista - di creare “corpi docili” e di trasformare il disagio sociale e alcuni illegalismi in “delinquenza”: insomma, la società disciplinare in tutto il suo splendore. Una società che annulla il conflitto sociale e che non si limita agli istituti di pena, ma che si allarga con la diffusione di un potere sempre più pervasivo e occulto. Un carcere senza “delinquenti”, difatti, non potrebbe esistere, ma il carcere è necessario anche a un determinato sviluppo economico. “Deve essere fatto un lavoro sull’anima del detenuto, il più spesso possibile”, denuncia Foucault in “Sorvegliare e Punire”. “La prigione, apparato amministrativo, sarà nello stesso tempo una macchina per riformare gli spiriti”. L’aspetto più intimo della rieducazione. E le tecniche disciplinari si sprecano: non ce ne accorgiamo neanche più. La penalità non serve neanche tanto alla repressione degli illegalismi, quanto a differenziarli per renderli utili ai meccanismi di dominio. Il dilagare dei problemi di salute mentale dentro il carcere è la diretta conseguenza del disagio esterno agli istivece, tuti di pena, fattore questo di normalizzazione della diversità. Non serve la cura, ma la solidarietà. Non servono gli psicofarmaci o i reparti psichiatrici, ma la condivisione di scelte controcorrente di liberazione terapeutica. Non occorre riaprire gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, bisogna andare nella direzione opposta, concentrandosi ancora una volta su cosa significhi la follia, una delle tante messe in scena della marginalità sotto il tappeto dei modelli di sviluppo. Perché la follia non esiste: esiste però il disagio di vivere dentro, o fuori, un carcere. Esiste il reato. Il carcere, dunque, sarà sempre sovraffollato: in teoria e in pratica, per il cosiddetto “illegalismo chiuso”. Il carcere, infatti, è anche fuori, nella società dei liberi, dove è sempre più necessario lottare per i diritti negati: impedendo, per esempio, la creazione di nuovi reati e contrastando il crescente stimolo a trasformare semplici illegalismi e finanche il disagio sociale in delinquenza. L’inserimento giuridico necessario, per un nuovo senso della pena, è invece la lezione culturale della riparazione del danno commesso dal reo, e, come più volte ha ribadito il professor Giovanni Fiandaca, prendere sul serio il principio della pena detentiva come extrema ratio. *Progetto Firenze Verona. Caso Cristian Mizzon, la notizia della morte resa pubblica dopo 4 giorni di Andrea Aversa L’Unità, 18 agosto 2023 Tante le denunce degli attivisti che da tempo segnalano le condizioni disumane alle quali i detenuti sono condannati. L’ultimo tragico caso di cronaca: la morte del 44enne. Quest’ultima si è saputa ben 4 giorni dopo il decesso. Ed è diventata di dominio pubblico grazie all’associazione “Sbarre di zucchero”. L’attivista Micaela Tosato: “Nel penitenziario è assente il lavoro, c’è la ‘terapia facilè e mancano le docce: in 20-25 devono farla e condividerla in un’ora soltanto” L’ultima vittima è stato Cristian Mizzon. Aveva 44 anni e una storia fatta di fragilità e solitudine. Un mix mortale quando ci si ritrova dentro un carcere. Quando si è costretti a condividere una cella con altre 4-5 persone (se sei fortunato). Quando non si riesce a lavorare. Quando non si è assistiti adeguatamente. Quando il silenzio prevale su tutto, anche sulla giustizia. Mizzon è deceduto durante la notte di martedì scorso. I suoi compagni di cella l’hanno trovato senza vita il mercoledì mattina. La notizia è stata resa pubblica solo domenica. E non dalle istituzioni. Il caso è emerso grazie al passaparola tra i detenuti, grazie al lavoro instancabile dei volontari dell’associazione ‘Sbarre di zucchero’, grazie all’informazione di Radio Carcere. Sul caso vi sono i dovuti accertamenti in corso. Il 44enne sarebbe morto per un’overdose causata da farmaci. Si sospetta l’ennesimo suicidio. Il carcere di Montorio a Verona presenta le criticità che purtroppo caratterizzano la gran parte (se non tutti) dei penitenziari d’Italia. Sovraffollamento, strutture fatiscenti, servizi igienici vergognosi, mancanza di acqua calda, scarsa assistenza sanitaria, la quasi assenza di educatori, poche attività ricreative e lavorative, polizia penitenziaria in sotto organico. È questo il contesto nel quale è avvenuta la morte di Mizzon. Silenzio e ingiustizia - Scenario nel quale, solo tre settimane fa (a fine luglio), è scoppiata una rivolta culminata in un incendio che ha intossicato degli agenti. Eppure, se non fosse per i volontari e le associazioni, tante informazioni resterebbero nascoste. Perché si preferisce il silenzio alla verità. L’ingiustizia alla giustizia. Come è possibile che la morte di una persona in custodia dello Stato, diventi di dominio pubblico dopo ben quattro giorni? Siamo in attesa che chi di dovere fornisca delle risposte. I volontari - Montorio è il carcere dove si è tolta la vita Donatella Hodo. Per l’attivista Micaela Tosato nel penitenziario di Verona, “sono due le emergenze che meriterebbero particolare attenzione. La prima è quella dell’assenza di lavoro. La cooperativa che si occupava di organizzare le attività professionali nel carcere è stata fatta fuori dopo tanti anni di collaborazione. Il motivo? Anomalie fiscali emerse, così, improvvisamente. Poi c’è l’abuso della terapia, con la somministrazione troppo facile di farmaci pesanti. Ma non è da trascurare la questione igienico - sanitaria: sono solo due le sezioni che hanno la doccia in cella. Immaginiamo 20-25 persone che in un’ora devono farla e condividerla”. Trento. Valduga in visita al carcere: “Si deve investire di più” di Massimiliano Cordin Corriere del Trentino, 18 agosto 2023 Ieri il candidato presidente a Spini con Demagri e Valcanover: sotto la lente il tema del personale. “All’interno della casa circondariale di Trento è presente una comunità complessa, con problematiche differenti e che necessita di interventi mirati. Ad oggi ci sono già alcune attività che sono rivolte alla riacquisizione delle competenze dei soggetti che poi potranno spenderle sul territorio. Non sono però sufficienti, occorre potenziarle”. Così il candidato presidente dell’Alleanza democratica autonomista alle prossime elezioni, Francesco Valduga. E ancora: “Oltre al tema del lavoro, però, è importante anche il tema del reinserimento dei detenuti all’interno della società. Sono convinto che ci sia la possibilità, oltre che la necessità, di sviluppare, migliorare e investire in quelli che sono i percorsi di comunità educante, anche alla luce degli episodi che si sono verificati nelle scorse settimane a Rovereto”. L’occasione per approfondire il tema legato al carcere è stata la visita alla struttura effettuata ieri da Valduga, dalla consigliera di Casa Autonomia Paola Demagri e dall’avvocato Fabio Valcanover. La delegazione, all’uscita, ha esposto i numeri che fotografano un sovraffollamento di detenuti e una carenza di personale. I dati aggiornati riportano: 343 detenuti, dei quali 31 donne, a fronte di una capienza che dovrebbe essere di 280 soggetti. Tra i presenti, in 50 presentano una diagnosi psichiatrica, in 36 assumono metadone, mentre, l’80% assume psicofarmaci. Il 65% del totale dei detenuti è invece straniero. Per quanto riguarda gli agenti della polizia penitenziaria, questi sono 175 quando, secondo le stime, ne occorrerebbero 227. La delegazione ha poi proseguito l’analisi dei numeri, soffermandosi su medici ed educatori: “Ora, rispetto al passato, è sempre presente un dottore. Questa novità ha dato una svolta ma dobbiamo anche constatare che purtroppo tutti e dieci i medici che si alternano nella casa circondariale sono liberi professionisti. E questo non garantisce una stabilità - è stata l’analisi di Demagri -. C’è anche una problematica legata agli educatori: al momento sono solamente due quando, in realtà, dovrebbero essere otto. Questa figura è fondamentale per garantire i percorsi di cui hanno bisogno i detenuti, soprattutto se vogliamo evitare che ci sia una loro ricaduta”. A costoro si affiancano, inoltre, uno psicologo, una psichiatra, 14 infermieri e un operatore sociosanitario. “Siamo entrati all’interno della struttura per comprendere meglio cosa possa servire per diminuire i livelli di tensione, di pericolo e di fatica sia per il personale di polizia penitenziaria che per i detenuti. Le indicazioni forniteci sono andate nella direzione di avere maggiori agenti di polizia penitenziaria, più educatori e nuovi funzionari amministrativi - ha tratteggiato le conclusioni Valcanover -. Personalmente credo inoltre che sarebbe importante riuscire ad introdurre un provveditore carcerario che abbia competenza esclusivamente per le carceri di Trento e Bolzano: potrebbe essere di estremo aiuto per tutti”. Cremona. In carcere celle super affollate: 141 detenuti in più di Elisa Calamari laprovinciacr.it, 18 agosto 2023 A Cà del Ferro estate difficile. Ipotizzato l’uso di edifici demaniali per ospitare i reclusi meno pericolosi. La situazione esplosiva che si registra in tutte le carceri italiane, tra sovraffollamento e problemi di sicurezza lamentati dalla Polizia penitenziaria, continua a riguardare anche la casa circondariale di Ca’ del Ferro, diretta da Rossella Padula. Stando all’ultimo report del ministero (aggiornato al 31 luglio), a Cremona a fronte di una capienza regolamentare di 394 detenuti ne sono invece presenti 535 (una sola donna, 352 stranieri). Quindi ben 141 in più. Erano 460 il 31 maggio, dunque la crescita degli ultimi due mesi è stata costante. Più in generale in Lombardia si registra il maggior numero di detenuti rapportato al più basso numero di agenti: un tasso di sovraffollamento medio del 135% (quello italiano è 121%) con il record negativo nelle carceri di Varese, Como e Brescia. In Italia ci sono almeno 10mila detenuti in più rispetto ai posti effettivamente a disposizione, da qui gli allarmi lanciati dai sindacati della polizia penitenziaria - Sinappe e Uspp Lombardia in primis - che in merito a Ca’ del Ferro segnalano l’introduzione della quarta branda nelle celle e una carenza di organico legata anche a trasferimenti. I sindacati contano di parlarne nuovamente anche con il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria lombarda, Maria Milano, per arrivare a soluzioni condivise. Nel frattempo, proprio quest’ultima pochi giorni fa ha scritto ai direttori dei 18 istituti della regione, Cremona compresa, facendo riferimento anche ai recenti casi di suicidio: nelle carceri italiane nel 2022 si sono tolti la vita in 85 e quest’anno siamo già a quota 44. “Dalla lettura di eventi critici recentemente occorsi - ha scritto Milano - è emerso, in talune circostanze, un utilizzo improprio dei mezzi di coercizione fisica. In particolare, è stato rilevato l’uso delle manette all’interno delle sezioni detentive”. Immediata la replica di Uspp tramite il presidente Giuseppe Moretti: “La legge prevede che l’uso delle manette sia addirittura obbligatorio in relazione alla pericolosità del soggetto e al pericolo di fuga”. E ancora: “La nota non solo sembra non tenere conto delle ragioni poste alla base del ricorso a tale dispositivo, ma non considera neanche chi sta per licenziare il nuovo ‘modello operativo’ che potrebbe o dovrebbe comprendere, tra le regole d’ingaggio, anche l’uso delle manette ai polsi”. Per fare fronte a tutte queste problematiche, a partire proprio dal sovraffollamento che è considerata una delle cause principali delle altre criticità, il ministro Carlo Nordio ha proposto l’utilizzo di edifici demaniali (per lo più caserme dismesse) per trasferire e ospitare i detenuti meno pericolosi. Strutture simili ci sono anche nel Cremonese, ma è difficile pensare possano essere utilizzate senza prima massicci interventi di ristrutturazione. Ferrara. Ferragosto in carcere, il gruppo consiliare Pd visita l’istituto di via Arginone ferraratoday.it, 18 agosto 2023 Il Partito Democratico, a settembre, promuoverà una raccolta fondi per vestiario e beni utili ai detenuti più indigenti. Un momento di vicinanza nel giorno di Ferragosto al pianeta carcere, costituito dalla popolazione detenuta e dal personale dell’Arginone. Nella mattina di martedì, si è svolta la visita da parte del gruppo consiliare del Partito Democratico di Ferrara nella Casa circondariale “Costantino Satta”. Un incontro richiesto e programmato già da tempo, per verificare le condizioni di personale e detenuti. Lo stesso Pd, nel mese di giugno, attraverso un ordine del giorno presentato in Consiglio comunale, aveva posto l’accento sullo stato di carenza di agenti e ispettori in carcere. Un tema, quello della sicurezza, ritenuto dagli esponenti Dem “assolutamente indispensabile per la complessità dell’Istituto che ricordiamo essere di primo grado: l’Istituto risulta essere di primo livello per importanza, capienza anche tra diversi circuiti detentivi, non solo di media ma anche di alta sicurezza”. L’incontro è stato richiesto dal gruppo consiliare e autorizzato dai vertici competenti del carcere diretto dalla dottoressa Maria Nicoletta Toscani. Incontro, che si è svolto alla presenza della dirigente Annalisa Gadaleta, comandante per reparto, e del personale di polizia penitenziaria. Per quanto riguarda lo stato attuale dei detenuti, il numero totale è 360, a fronte di una capienza massima di 244. Il personale effettivo è sotto organico rispetto a quello previsto di 202 e, attualmente, consta di 185 risorse, considerati i molti distacchi effettivi in uscita. “Anche grazie all’ordine del giorno del Pd - hanno aggiunto i consiglieri Dem - è stato possibile registrare un saldo netto di nuove entrate derivante dalla mobilità di 5 risorse: è assolutamente insufficiente per la complessità del plesso e per le sue esigenze, ma è sicuramente un primo passo necessario per alzare l’attenzione”. Durante la mattinata, i consiglieri presenti hanno avuto la possibilità di verificare le innumerevoli attività che vedono coinvolti i detenuti, dai corsi scolastici alla scuola alberghiera, dalla collaborazione con Unife ai laboratori teatrali, dai corsi Uisp, al giornale Astrolabio e alla scrittura creativa, oltre alla manutenzione in tema di pulizia e ordine degli ambienti, come la sezione protetti e quella relativa ai collaboratori di giustizia, la chiesa, le cucine, il teatro, e gli spazi comuni per l’ora di libertà. Un argomento, quello del coinvolgimento, che non risparmia la città. A questo proposito, nei prossimi giorni, al campo sportivo del carcere è in programma uno spettacolo dei buskers. I consiglieri del Pd hanno sottolineato che “la complessità dell’Istituto e la numerosità dei detenuti impegnano in maniera significativa il personale: apprezzabile è l’attenzione, la serietà e la disponibilità di chi lavora all’interno”. Al fine, pertanto, di tenere alta l’attenzione sul carcere, il Pd provvederà nelle prossime feste di settembre a promuovere una raccolta fondi per vestiario e beni utili ai detenuti più indigenti. Pisa. “Carcere Don Bosco, negati i diritti fondamentali” La Nazione, 18 agosto 2023 Anche a Pisa le condizioni del carcere “sono drammatiche”. Lo denuncia Ciccio Auletta capogruppo di Diritti in comune, secondo il quale “lo testimoniano i rapporti di Antigone: l’inadeguatezza strutturale è in continuo peggioramento, i problemi di sovraffollamento e la carenza di azioni di inserimento lavorativo sul territorio per le persone detenute fanno del Don Bosco un luogo di negazione dei diritti fondamentali nel quale le rivolte, sempre più frequenti, lasciano solo intuire lo stato in cui sono costretti detenuti e operatori”. “È urgente - aggiunge il consigliere della sinistra radicale - la realizzazione di una struttura esterna per accogliere i familiari delle persone detenute in attesa dei colloqui: intervento promesso prima dalle amministrazioni di centrosinistra e poi di centrodestra e mai realizzata, ma è necessaria anche la creazione di uno sportello interno per l’accesso ai procedimenti amministrativi comunali da parte dei detenuti, in linea con le indicazioni del garante nazionale. L’amministrazione comunale deve poi farsi parte attiva nel potenziare i servizi di mediazione sociale, linguistica e culturale, nonché nell’ingresso del mondo produttivo in carcere, attraverso la realizzazione di percorsi professionalizzanti ben strutturati, in collaborazione col centro per l’impiego”. Infine, Auletta sollecita “l’intervento del Comune per garantire l’accesso alle misure alternative alla detenzione attraverso percorsi di inclusione, nella duplice ottica di alleviare il sovraffollamento e offrire concrete opportunità di reinserimento” ma conclude, “l’amministrazione Conti non ha mostrato che disinteresse, così come del resto era avvenuto con le precedenti amministrazioni”. “Sovraffollamento e gravi carenze edilizie e strutturali” del Don Bosco li denunciano anche la coordinatrice provinciale di Sinistra italiana, Anna Piu e il capogruppo in consiglio comunale del suo partito, Luigi Sofia, definendo la casa circondariale pisana “un luogo di negazione dei diritti fondamentali”. Per questo, aggiungono, “è necessario che anche l’amministrazione comunale intervenga almeno per ciò che è di sua competenza” suggerendo gli stessi interventi proposti da Auletta. Infine, concludono Piu e Sofia, occorre “intervenire nel settore della marginalità sociale, potenziando la rete dei servizi sociali stanziando risorse, questo è ciò che un’amministrazione locale può e deve fare per incidere realmente sulla questione della legalità e quindi sulla questione carceraria”. Secondo il sindacato di base Cub Pisa mancano interventi strutturali, politiche mirate, a livello nazionale e anche locale, per migliorare le condizioni di vita all’interno delle carceri italiane: “negli anni scorsi a Pisa - ricorda l’organizzazione sindacale - c’erano detenuti che raccontavano di aree cospicue occupate da rifiuti ingombranti dismessi negli anni e mai conferiti alle isole ecologiche (e in tale caso si potrebbe fare molto), non sappiamo se sia ancora cosi ma la burocrazia e il securitarismo sono parenti stretti e alla fine si affronta solo parte del problema pensando che i problemi si riducano al sovraffollamento, ai suicidi senza mai affrontarne le cause. Palermo. Fra D’Alessandro: “Al Pagliarelli non si sono fermate le attività religiose e di solidarietà” di Gigliola Alfaro agensir.it, 18 agosto 2023 Nella bella stagione la vita dei detenuti è più difficile per il caldo, quest’anno aggravato dagli incendi, come a Palermo, ma “è stato permesso a chi aveva i soldi di comprare dei piccoli ventilatori”, dice al Sir il cappellano. Ancora una volta si è registrato un caldo torrido a luglio e siamo in attesa di una nuova ondata di calore a partire da questo fine settimana per una decina di giorni. Un caldo che non aiuta certo a vivere serenamente chi è chiuso in carcere, soprattutto in città che sono state anche assediate dagli incendi come Palermo. A parlare al Sir dell’estate alla casa circondariale Pagliarelli è il cappellano fra Loris (all’anagrafe Luigi) D’Alessandro dell’Ordine dei Frati Minori di Sicilia. Come sta andando quest’estate? La vita in carcere in estate è particolarmente difficile perché rallentano tutte le attività, ma grazie a Dio quest’anno al carcere Pagliarelli siamo riusciti a mantenere alcune attività. Così siamo riusciti a sopravvivere perché l’estate è un periodo abbastanza pesante sia per lo stop di molte attività sia per il caldo. In particolare, abbiamo vissuto con grande sofferenza il periodo degli incendi, il caldo non ha risparmiato nessuno. Non ho sentito che gli incendi abbiano colpito luoghi dove vivono i familiari di detenuti, almeno non ne ho testimonianze dirette. Il caldo è stato devastante per tutti, sia per chi sta dentro sia per chi sta fuori. Ma quest’anno in carcere hanno permesso a chi aveva i soldi di comprare dei piccoli ventilatori per metterselo accanto. Ci sono molti detenuti al Pagliarelli? Nel carcere Pagliarelli ci sono circa 1.200 detenuti perché ci sono tanti ingressi: più aumenta la povertà più aumentano i reati. Che attività sono in corso alla casa circondariale? Come cappellano ho mantenute le attività religiose: le catechesi, la messa settimanale in tutte le sezioni, a cui partecipa un’utenza di quasi mille persone. Il Centro Padre Nostro organizza il cineforum in tutte le sezioni per tutta l’estate la sera ai passeggi, montando i teloni dove proiettare i film, poi viene offerto il gelato. Questa è un’iniziativa molto gradita a detenuti e detenute. Nella sezione femminile c’è una volontaria che realizza un corso di yoga coinvolgendo un bel gruppetto di donne, che sono entusiaste, è una novità per il Pagliarelli. Anche le iniziative di solidarietà, come offrire il guardaroba, cioè scarpe, vestiti, o la ricarica telefonica, non si sono fermate, anzi abbiamo assicurato il servizio due volte a settimana nelle varie sezioni a favore dei detenuti indigenti che, facendo una stima approssimativa, saranno un centinaio: ci sono alcuni stranieri, alcuni senzatetto, tossicodipendenti o detenuti della sezione protetti che sono in stato di abbandono. Gli stranieri non hanno familiari qui e hanno grande difficoltà e reperire i vestiti. Il servizio continua grazie alle volontarie Caritas di una parrocchia. Anche la biblioteca, grazie a volontarie dell’Asvope, sta continuando a funzionare in alcune sezioni in modo che, se lo vogliono, i detenuti possono prendere dei libri da leggere. Inoltre, ci sono circa 240 detenuti che lavorano e sono impegnati dalla cucina alle pulizie, dalla manutenzione all’agricoltura. Il nostro è un carcere grande e si cerca di mantenere sempre alta l’attenzione. Quindi le attività sono continuate a pieno ritmo? Alcune attività si sono fermate nel mese agosto perché alcune associazioni vanno in ferie, mentre la scuola e l’attività teatrale si sono concluse a giugno. Fino a fine luglio sono stati operativi i centri di orientamento lavorativo e di formazione. Ma il resto lo abbiamo continuato perché altrimenti rischiamo il collasso e i detenuti vanno in tilt. Dopo l’estate riprenderanno tutte le attività? A settembre come comunità religiosa riprenderemo tutte le attività settimanali in tutte le sezioni, momenti di preghiera. Possiamo contare anche sulla collaborazione delle Suore Missionarie della carità, le suore di Madre Teresa, ci sono stati quest’anno come volontari due seminaristi, uno dei due sta continuando anche d’estate. Ci sono i volontari dell’Azione cattolica e due diaconi permanenti. C’è una bella squadra per le attività religiose e quindi riusciamo a dare piccole risposte. Per quanto mi riguarda non stacco mai a luglio e agosto proprio perché sono i periodi più delicati per chi vive in carcere, quindi non faccio mancare la messa e la presenza, giro per le sezioni per sapere come stanno, che fanno: la mia presenza aiuta a creare movimento e aspettative. Quali sono le maggiori difficoltà della casa circondariale? Tra le difficoltà generali del carcere Pagliarelli, c’è la mancanza di un numero adeguato del personale di Polizia penitenziaria, degli educatori e dei funzionari giuridico-pedagogici, sono pochissimi e questo crea uno stress notevole per il personale, per i servizi che si svolgono. Per fare le attività trattamentali necessitano educatori e agenti, lo si fa con grande sacrificio, gli agenti e l’amministrazione non si risparmiano per portare avanti tutte queste attività durante l’anno, scuola e polo universitari compresi. Questi numeri ristretti non permettono però altre attività, perché si potrebbe fare ancora di più. Un altro problema del carcere è la presenza di tossicodipendenti e persone con problemi psichiatrici, tante volte è la droga a portare anche disturbi psichiatrici. Questi detenuti sono in grandissimo aumento e il lavoro diventa difficile: gli agenti vengono aggrediti verbalmente sempre, a volte anche fisicamente. Le persone con problemi psichiatrici e tossicodipendenti non dovrebbero stare in carcere bensì, rispettivamente, nelle Rems e in comunità. Oltre agli agenti, soffrono anche gli altri detenuti perché preoccupa avere una persona squilibrata in cella. Il crack sta facendo stragi di giovani, per questo si dovrebbero inasprire le pene per quelli che lo vendono. L’ispettore generale dei cappellani, don Raffaele Grimaldi, dopo la Gmg ha invitato i giovani ad andare come volontari in carcere. Al Pagliarelli come siete messi? Per quanto riguarda le attività religiose abbiamo una ventina di volontari e sono tutti giovani, già da un po’ di anni si è creata questa bella rete, la maggior parte sono dell’Azione cattolica, quindi persone anche ben formate e preparate. A settembre arriveranno pure altri volontari per le attività religiose: alcune religiose, sacerdoti e volontari nuovi. Napoli. Dal carcere all’agricoltura, la nuova vita dei detenuti di Giuliana Covella Il Mattino, 18 agosto 2023 Pomodori del Vesuvio, rossi e gialli, melanzane, zucchine, carciofi e spezie di tante varietà coltivate da contadini “speciali”. Cinque detenuti-agricoltori dell’Alta sicurezza si prendono cura ogni giorno di “Campo aperto”, un tenimento di due ettari all’interno del carcere di Secondigliano. Un progetto che, nato nel 2013, si è evoluto nel tempo ed ha dato, è il caso di dire, i suoi frutti. Quelli della terra, ma soprattutto quelli del lavoro quotidiano della cooperativa “L’uomo e il legno”, che da sempre opera per l’inclusione e il reinserimento lavorativo di chi vive dietro le sbarre. “Sono ormai dieci anni che portiamo avanti l’iniziativa con una produzione di ortaggi e verdure a chilometro zero - spiega la direttrice dell’istituto Giulia Russo - è un tipo di progettualità che ci consente l’impiego di detenuti che vengono assunti e che è finalizzata all’utilizzo sia interno che esterno. Un progetto che è un concreto esempio di rieducazione e che combacia con le attività del nostro polo universitario con lo studio delle scienze erboristiche e dell’enogastronomia, facendo sì che teoria e pratica s’incontrino”. Come nei loro Comuni d’origine, il lavoro nei campi inizia sin dalle prime luci dell’alba. Per quattro ore, dal lunedì al sabato, cinque ergastolani assunti con regolare contratto dalla cooperativa “L’uomo e il legno” coltivano la terra producendo ortaggi e verdure di stagione. Particolarmente ricco questo mese d’agosto con la produzione di pomodori, fiori di zucca, fagiolini, ma anche per la raccolta delle olive da cui si produrrà l’olio da vendere non più solo all’esterno. “Da pochi mesi abbiamo stipulato una convenzione con la ditta che gestisce la mensa del carcere - spiega Rita Caprio, presidente della coop, che li segue assieme a un agente penitenziario, all’agronomo Gerardo Rusciano e al direttore tecnico della falegnameria Vittorio Attanasio - così adesso si vendono anche a loro i prodotti che prima erano commercializzati solo a esercenti esterni. L’idea è di creare una collaborazione virtuosa tra dentro e fuori”. L’orto è stato dato in affidamento ai soci sei anni fa. Un progetto ambizioso per far sì che vi sia una reale possibilità di riabilitazione di chi è stato condannato al carcere a vita. In visita lo scorso 14 agosto anche il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello con alcune volontarie, a cui i ristretti hanno fatto dono dei loro prodotti. “In questo periodo l’attività è ancora più intensificata - dice Caprio - perché nonostante il personale ridotto i reclusi continuano a lavorare per garantire ortaggi e verdure ai compagni e ai privati che li acquistano”. Attualmente sono cinque i detenuti dell’Alta sicurezza impegnati nel sedimento, dove prima c’erano un terreno incolto e vecchie serre abbandonate. L’età media è tra i 50 e i 65 anni. Vengono dalla Calabria, dalla Sicilia e dalla Puglia e in prevalenza svolgevano già attività simili nei loro territori di provenienza. C’è chi si è laureato da poco in sociologia, come A., siciliano d’origine, che ha voluto festeggiare il traguardo raggiunto con arancini e cassata in omaggio alla sua terra; B., pugliese, che ha assunto la guida del trattore; e N., che nonostante abbia scoperto di essere affetto da un brutto male e sia costretto ai domiciliari, non vede l’ora di tornare a coltivare l’orto. Infine c’è S., un calabrese di 30 anni, che ha ottenuto la semi libertà ed oggi è socio della cooperativa. Un bell’esempio di riscatto e “imprenditoria sociale”, come la definisce Rita, che aggiunge: “essendo ergastolani, arrivano da realtà dure, ma sono propensi al cambiamento poiché lavorare nell’orto ogni giorno è per loro un modo concreto per aiutare il prossimo e contribuire allo sviluppo della comunità. Una buona prassi ricca di umanità per tutti, dove anche vederli sorridere per noi diventa una vittoria”. Le infinite ragioni per scegliere Cappato candidato nel collegio di Berlusconi di Andrea Pugiotto L’Unità, 18 agosto 2023 Il tesoriere dell’associazione Coscioni si è formato nella scuola radicale di Pannella. È un visionario programmatico, di sicura rettitudine, riconosciuta coerenza e comprovata competenza. 1. Giusto un anno fa, nella concitata fase di formazione delle liste elettorali per il voto anticipato al 25 settembre, emerse una proposta trasversale: candidare Marco Cappato, come indipendente, in Parlamento. Il suo nome - si disse - intercetterebbe un elettorato reattivo che non vota per appartenenza. Rappresenterebbe un’opzione “impossibile da rifiutare” (Concita De Gregorio, la Repubblica, 5 agosto) per chi considera vergognoso che “in questo Paese non esista una legge dignitosa e compassionevole sul fine vita” (Gianrico Carofiglio, La Stampa, 5 agosto). Premierebbe un metodo di lotta politica in cui rivive “lo spirito libertario” della migliore tradizione radicale (Giuliano Ferrara, Il Foglio, 7 agosto). Ridurrebbe il danno reputazionale di un Parlamento incapace di affrontare questioni - alla lettera - di vita e di morte, che tantissimi elettori conoscono direttamente o per interposta persona. Sappiamo come andò a finire: nessun partito fu così generoso e lungimirante da assicurare al tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni un diritto di tribuna. 2. Oggi, alle elezioni suppletive del 22-23 ottobre nel collegio di Monza, l’occasione si ripresenta. Questa volta, però, a parti rovesciate. Cappato, infatti, ha già ufficializzato la propria candidatura mettendola a disposizione di uno schieramento il più unitario possibile tra le forze d’opposizione: “La mia speranza è che questo sostegno ci possa essere” (la Repubblica, 29 luglio). Secondo il Direttore di questo giornale, “è una grande occasione per la sinistra”. Perché rappresenterebbe un primo serio esperimento unitario ad elevate chances di vittoria. Perché avrebbe un grande impatto simbolico sottrarre alle destre il seggio che fu di Berlusconi. Perché sarebbe una candidatura autenticamente politica, cioè capace di “produrre idee, sentimenti, valori, comunità” (l’Unità, 4 agosto). A queste tre (ottime) ragioni, se ne possono aggiungere altre. Scaturiscono tutte dalla regola elettorale che si applicherà al collegio di Monza, trasformato d’incanto in un angolo del Regno Unito. 3. Il seggio senatoriale conteso, infatti, sarà assegnato in un collegio uninominale maggioritario a turno unico. Si tratta di una dinamica elettorale del tutto diversa da quella dovuta alla schizofrenica legge elettorale in vigore (n. 165 del 2017, il c.d. rosatellum): un mix tra maggioritario e proporzionale, con collegi uninominali e plurinominali, liste proporzionali bloccate e saldate al candidato nel maggioritario, divieto di voto disgiunto, soglie di sbarramento a geometria variabile e collegi di dimensioni enormi. Dove l’elettore con il suo unico voto, dato a chissà chi e chissà come, non decide la vittoria di un partito né sceglie liberamente un candidato. Nelle elezioni suppletive in un collegio uninominale, queste esoteriche tecnicalità sono tutte azzerate. Subentra una logica tipicamente anglosassone: la competizione per il seggio in palio è tra singoli candidati, uno per partito; vincerà chi prevarrà sugli altri anche solo per pochi voti. Ciò esige dalle forze politiche scelte funzionali conseguenti. Far prevalere le convergenze possibili sulle divergenze esistenti. Aggregarsi attorno a un candidato comune. Selezionare il nome migliore poiché la sfida è tra persone, non tra liste di partito. Privilegiare una candidatura non paracadutata, ma espressione del collegio che elegge “il suo” rappresentante. In tale contesto, l’elettore non esprimerà un mero voto d’opinione, potendo decidere il parlamentare eletto e la coalizione vincente. E poiché anche una sola preferenza può fare la differenza, prevarrà sul voto identitario un voto strategico: a favore cioè del candidato politicamente meno distante (ma con chances di vittoria) e non del più vicino (se destinato all’insuccesso). 4. Non a caso, le forze di governo hanno già annunciato una comune candidatura: Adriano Galliani, monzese, imprenditore, già senatore forzista, storico collaboratore di Silvio Berlusconi, attuale presidente del Monza calcio. Già questa opzione costringerà le forze di opposizione ad analoga scelta: andando divise, perderebbero certamente. Il punto è capire quale candidatura possa rappresentarne, al meglio, il minimo comun denominatore. Cappato è un visionario pragmatico, formatosi alla scuola radicale di un altro Marco (Pannella) “in continuità con l’ossessione di mio padre per il rispetto delle regole e con l’attenzione di mia madre alla cura delle persone”, come scrive nel suo libro-manifesto (Credere, disobbedire, combattere, 2017). Nato e cresciuto a Monza. Parlamentare europeo per due legislature. Da quattordici anni fuori dalle istituzioni parlamentari, eppure dentro la lotta politica condotta da protagonista con altri mezzi: referendum abrogativi; iniziative legislative popolari, nazionali ed europee; disobbedienze civili; eccezioni di costituzionalità; inedite forme di associazionismo (come Eumans! o il Congresso mondiale per la ricerca scientifica). Serio ma mai noioso. Autorevole senza inutili solennità. Sorriso aperto e capelli perennemente arruffati. La sua immagine e la sua storia personale dimostrano che non serve essere tristi per aiutare i suicidi ad attraversare l’ultimo vecchio ponte. Che non è necessario essere apocalittici per difendere l’ecosistema. Che la libertà di ricerca scientifica e il diritto alla conoscenza sono affare di tutti. Che il rinnovamento della democrazia può evitare le scorciatoie populiste. Che gli Stati Uniti d’Europa rappresentano un obiettivo politico necessario. Che la nonviolenza e il pacifismo non sono la stessa cosa. Che la legalizzazione delle droghe leggere è il rimedio ai guasti di un proibizionismo responsabile del mercato clandestino di tutte le sostanze stupefacenti. Proprio per questo Cappato può essere il candidato di tutti perché di nessuno in particolare: salvo +Europa, infatti, non c’è partito d’opposizione che si riconosca integralmente nelle sue battaglie di scopo, mentre ciascuno può riconoscersi in almeno una di esse. Tutti, infine, sanno bene che candiderebbero una persona di provata competenza, di sicura rettitudine, di riconosciuta coerenza. 5. Eppure, la sua “candidatura di servizio” fatica a decollare. “Troppo divisiva” - si dice - pensando all’impegno di Cappato a favore dell’eutanasia legale. A ben vedere, è un’eccezione pretestuosa che confonde l’effetto con la sua causa. L’attuale quadro normativo in tema di fine-vita è significativamente arretrato. Servirebbe una legge facoltizzante, costruita attorno alla libera e consapevole scelta individuale, che guardi all’eutanasia non come un reato o un peccato o una pulsione malata. Né come una scelta da approvare o condannare, semmai da rispettare, perché - contrariamente a un radicato luogo comune - “il diritto laico all’autodeterminazione non implica alcun delirio di autoaffermazione” (Massimo Recalcati, I tabù del mondo, 2017): al contrario, assumendo il limite della malattia mortale, respinge l’ideologia totipotente della prosecuzione della vita ad ogni costo. È un’aspettativa tradita da troppo tempo, nonostante i ripetuti moniti della Corte costituzionale e le tentate iniziative popolari, legislativa e referendaria. Per destare le Camere dal loro letargo servirebbe un interpello quotidiano, che il senatore Cappato svolgerebbe al meglio. Ad essere divisiva, dunque, non è la sua candidatura, ma il problema legislativo che essa incarna e che i partiti preferiscono eludere, ignorandolo. Mostrandosi così più arretrati di larga parte dell’elettorato, che potrebbe trasversalmente convergere sul nome di Marco Cappato. 6. Rimossa questa fittizia pietra d’inciampo, la sua candidatura unitaria torna così a rivelarsi plausibile. I partiti facciano allora la propria parte, consentendo agli elettori di fare la loro. Votassi a Monza, mi porrei un semplice dilemma: chi, tra Adriano Galliani e Marco Cappato, negli ultimi trent’anni ha dato voce e corpo a iniziative politiche di interesse collettivo? E poi voterei di conseguenza. “Sul salario minimo decidano i politici, non i magistrati”. Parla Michel Martone di Ermes Antonucci Il Foglio, 18 agosto 2023 “Nove euro l’ora sono pochi a Milano e troppi in tante parti del nostro sud”, dice il docente di Diritto del lavoro. “Serve rafforzare la contrattazione con paghe minime orarie differenziate in base ai settori produttivi e alle aree geografiche”. La magistratura si sta sostituendo alla politica sul salario minimo? La domanda è sorta spontanea dopo la vicenda Mondialpol, il colosso della vigilanza privata messo sotto inchiesta dalla procura di Milano e sotto controllo giudiziario con l’accusa di caporalato e sfruttamento dei lavoratori. Due giorni fa, nell’ambito del procedimento penale, l’azienda ha annunciato la scelta di aumentare i salari dei dipendenti del 20 per cento da settembre e del 38 per cento nel 2026, ottenendo così la revoca del controllo giudiziario (l’inchiesta andrà comunque avanti). “Un caso isolato non fa una tendenza, ma è chiaro che se il Parlamento non interviene per legge e alcuni contratti collettivi prevedono dei minimi salariali troppo bassi, come quello della vigilanza privata, a un certo punto si aprono spazi anche per gli interventi della magistratura”, commenta con il Foglio Michel Martone, professore ordinario di Diritto del lavoro e relazioni industriali all’Università La Sapienza di Roma, autore quattro anni fa di un volume dedicato proprio al tema oggi al centro del dibattito politico: “A che prezzo. L’emergenza retributiva tra riforma della contrattazione collettiva e salario minimo legale” (Luiss University Press, 2019). “Il caso di Mondialpol - prosegue Martone - evidenzia come in alcuni settori i salari siano ormai troppo bassi e ci sia l’esigenza di applicare dei trattamenti più elevati. Il fatto che il commissario abbia deciso di alzare i salari di addirittura il 38 per cento ci fa capire quanto la distanza fosse ampia”. “Il vero problema - aggiunge Martone, viceministro del Lavoro e delle politiche sociali del governo Monti - è che a causa di alcuni, pochi contratti collettivi che prevedono dei minimi salariali troppo bassi, si finisce per andare a criticare e a scardinare tutto il sistema della contrattazione collettiva, che invece nella stragrande maggioranza dei casi garantisce ai lavoratori stipendi che sono ben superiori ai nove euro l’ora”, vale a dire la soglia di retribuzione individuata dalle opposizioni per fissare il salario minimo per legge. “In un paese differenziato, nel quale il divario tra nord e sud è così forte e nel quale la varietà dei settori produttivi è così ampia, pensare di poter individuare una soluzione valida per tutti è tendenzialmente una chimera, come dimostrano tante esperienze - afferma Martone -. Ciò che è necessario è cercare di trovare un sistema che consenta di individuare delle paghe minime orarie differenziate in relazione ai settori produttivi e alle aree geografiche”. Insomma, continua l’ex viceministro del Lavoro, “nove euro l’ora sono pochi a Milano e troppi in tante parti del nostro sud. Quindi in alcuni settori rischiano di strangolare le poche imprese che ci sono, specialmente al sud, e di spingerle fuori dal mercato, verso il lavoro nero, mentre in altri settori al nord rischiano di portare alla disapplicazione della contrattazione collettiva, che già prevede dei salari molto più alti dei nove euro l’ora. I principali episodi di sfruttamento nel nostro paese molto spesso sono legati al lavoro nero (e se l’impresa decide di non applicare il contratto collettivo, lo stesso non applicherà il salario minimo legale), sono legati a un utilizzo eccessivo del part time e a fenomeni limitrofi al lavoro nero, come per esempio il ricorso a forme di lavoro atipico non standard”. Per Martone “la giusta retribuzione dipende innanzitutto dal fatto che l’impresa sia in grado di produrre sufficiente ricchezza da distribuire. Vanno sanzionati gli episodi come quello di Mondialpol, nel quale evidentemente le retribuzioni sono troppo basse. È importante che si intervenga per aumentare le retribuzioni, ma senza strangolare le imprese”. Come? “Il modo migliore è intervenire per arrivare all’efficacia essenziale della contrattazione collettiva. Altrimenti, si può arrivare con interventi di legge tout court, ma allora sarebbe importante che si cominciasse prima, in via sperimentale, intervenendo nei settori nei quali il rischio di una retribuzione troppo bassa è elevato, per poi individuare un’autorità tecnica che individui un salario minimo in relazione ai settori e alle aree territoriali. A realtà produttive diverse non possiamo dare soluzioni univoche”, conclude Martone. Migranti, il governo non programma. Accoglienza nel caos di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 agosto 2023 Sindaci e associazioni all’attacco. Biffoni (Anci): “Servono investimenti, il sistema rischia di crollare”. Nelle città mancano i posti. Sindaci e associazioni all’attacco. Oltre 130mila i migranti accolti. Nel 2018 la capienza dei centri era di 170mila. L’aumento degli sbarchi era evidente e non era difficile prevedere cosa sarebbe accaduto con l’estate. Eppure il governo Meloni, prigioniero delle retoriche che ha alimentato per anni, non ha fatto nulla per programmare l’accoglienza dei nuovi arrivati. Così oggi prefetti, sindaci e associazioni del terzo settore devono fronteggiare situazioni sempre più caotiche, che ricadono a cascata su migranti, residenti e istituzioni di prossimità. Le segnalazioni si moltiplicano e sono trasversali agli schieramenti. A Padova il sindaco Sergio Giordani (centrosinistra) ha aperto tre palestre per trovare nuovi posti. Ad Ancona, uno dei porti dove il Viminale indirizza le navi Ong, il primo cittadino Daniele Silvetti (Fi) dichiara: “Non ci sottraiamo ai doveri dell’accoglienza ma le strutture sono sotto pressione”. “La situazione è disastrosa. Questa volta il sistema rischia veramente di crollare”, attacca Matteo Biffoni (Pd), che guida la giunta di Prato ed è delegato immigrazione dell’Associazione nazionale comuni italiani (Anci). “Il governo avrebbe dovuto convocare da tempo sindaci e terzo settore. Non ha fatto nulla e continua a non fare nulla adesso che i posti sui territori sono pieni”, continua. Anche le associazioni alzano la voce e puntano il dito contro l’esecutivo. Da gennaio chiedevano al Viminale la convocazione del tavolo di coordinamento con ministeri, Anci e regioni. È arrivata solo ad agosto. “Avevamo detto chiaramente che senza programmazione ci saremmo trovati nel caos. Ma è proprio il caos che il governo vuole. I migranti per strada sono un capitale politico su cui le destre vogliono speculare”, dice Filippo Miraglia, responsabile di Arci Immigrazione. Dieci giorni fa il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha firmato una circolare per sfrattare dai centri coloro che hanno ricevuto una risposta positiva alla domanda di protezione internazionale. Pur non avendo in mano il documento, perché le questure ci mettono mesi a consegnarlo, dovranno uscire dai Centri di accoglienza straordinari (Cas) per far posto ai nuovi arrivati. Migliaia di persone, secondo le stime del terzo settore, finiranno sul marciapiede. “L’esecutivo doveva fare meno propaganda e più interventi: aprire centri di prima accoglienza adeguati a garantire dignità alle persone accolte e coesione sociale. Soprattutto doveva ampliare la rete Sai”, dice Daniele Marchi (Pd), assessore a Welfare, bilancio e immigrazione del comune di Reggio Emilia. La sigla Sai sta per Sistema d’accoglienza e integrazione (ex Sprar) e fa capo ai comuni. L’Anci aveva presentato un solo emendamento al dl Cutro chiedendo di istituire 4mila nuovi posti. Non solo è stato respinto, ma la norma ha reso l’accesso a queste strutture ancora più difficile. Così una parte dei posti resta vuota, mentre le lungaggini burocratiche rallentano l’apertura di nuovi progetti. All’interno del Sai sono ospitate circa 35mila persone. Altre 95mila si trovano nei centri governativi (+16mila dall’indizione dello stato di emergenza lo scorso aprile). In totale fanno oltre 130mila migranti. Tanti, ma nel 2018, cioè prima dei decreti Salvini, la capienza del sistema era di 170mila posti scesi a 97mila nel 2021. Negli anni di diminuzione degli sbarchi i governi di ogni colore hanno mantenuto una gestione dell’accoglienza di tipo emergenziale. Intanto nelle questure le attese per ricevere l’esito della domanda di protezione internazionale sono ormai fuori controllo: dalla richiesta passano anche tre anni, con le persone che spesso restano parcheggiate nei centri. Così le emergenze si sommano e si producono a vicenda. Una a parte riguarda i minori stranieri non accompagnati che necessitano, dopo i traumi della separazione dalle famiglie e quelli vissuti durante il viaggio, di strutture e professionisti adeguati. “A Cremona ne abbiamo avuti in carico fino a 300. Adesso continuano ad arrivare dal centro regionale ma la situazione è già sovraccarica”, spiega Gianluca Galimberti, sindaco Pd della città lombarda. Dall’inizio dell’anno in Italia ne sono sbarcati 10mila. “È un fenomeno strutturale che va affrontato come tale. Servono strumenti per formare questi giovani al nuovo contesto di vita”, afferma. “Capisco l’imbarazzo di chi per anni ha promesso blocchi navali e stop sbarchi ma ora è il momento di tirare fuori i soldi e invogliare gli operatori ad aprire nuove strutture. Il governo ci convochi”, taglia corto Biffoni. Migranti. Dalla Lombardia al Veneto all’Emilia la rivolta dei sindaci del Nord di Francesca Del Vecchio e Filippo Fiorini La Stampa, 18 agosto 2023 Zaia: “Rischiamo di avere le tendopoli”. Aumentano i minori affidati ai Comuni, i primi cittadini sindaci leghisti guidano il fronte degli amministratori che accusano Roma: “Così mettono in ginocchio i bilanci”. Mentre il governo si prepara per l’approvazione di un provvedimento sul modello dei decreti sicurezza voluti nel 2018 da Matteo Salvini, il tema immigrazione diventa materia di scontro, non solo tra maggioranza e opposizione e tra alleati di governo, ma anche tra Roma e il Nord. Con il fronte dei sindaci - leghisti in testa - che si sente abbandonato. A partire dalla Lombardia dove, mettendo in fila i dati, al 31 luglio 2023 si registrano 16.232 migranti: 2.156 in più rispetto al mese precedente e 5.481 in più rispetto al 31 luglio 2022. Secondo il piano di redistribuzione del Viminale, entro il 15 settembre la quota arriverà a 6.000. La fetta più grande, insomma, per cercare di ripartire gli oltre 50 mila richiedenti asilo. “I comuni sono diventati i centri di costo dell’immigrazione. La politica si ricorda di noi solo quando ci sono le elezioni e ha bisogno di voti. Poi, ci lascia le grane da risolvere”. Roberto Di Stefano, sindaco leghista di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, parla di una situazione che “mette in ginocchio i bilanci: siamo costretti a distrarre fondi che potremmo spendere per gli anziani, per i disabili, per occuparci dell’accoglienza agli stranieri”. A destare maggiore preoccupazione, spiega ancora Di Stefano, sono minori non accompagnati che vengono assegnati ai comuni direttamente dal Tribunale. “Ho l’impressione che il ruolo dei sindaci non sia capito. Non basta il rimpatrio di qualche centinaio di persone, perché gli arrivi sono molti di più. E il lavoro va fatto a monte: investendo in democrazia nei Paesi da cui queste persone scappano”. Nella provincia di Brescia, l’insoddisfazione è la medesima: il sindaco di Edolo, Luca Masneri (civico), dalla Valle Camonica ricorda di aver chiesto alla Prefettura “di iniziare a pensare a una exit strategy. Negli anni passati abbiamo avuto anche 200 migranti su una popolazione di 4.400 persone. Ora siamo a 70 e vogliamo arrivare a 40”. Marco Togni, primo cittadino leghista di Montichiari (Brescia), non si pone proprio il problema: “Immigrati non ne voglio. Non ho posti in cui accoglierli e quindi non me ne preoccupo. Non posso impedire che strutture private nel mio comune partecipino ai bandi della Prefettura per l’accoglienza ma quando chiedono il mio parere dico sempre che sarebbe meglio non farlo”. E in mancanza di strutture in cui ospitarli, Togni ribadisce la sua “indisponibilità a qualsiasi conversione di strutture di proprietà comunale”. Anche Sebastian Nicoli, sindaco Pd di Romano di Lombardia, nella bergamasca, ha contestato l’arrivo di una trentina di richiedenti asilo nell’ex hotel La Rocca, struttura privata gestita da una cooperativa: “Ancora una volta affrontiamo un’emergenza calata dall’alto. La Prefettura mi ha avvisato solo informalmente dell’arrivo dei richiedenti asilo. Non mi è stato neanche comunicato il numero esatto”. In terra lombarda il tema degli alloggi è stato anche materia di scontro tra alleati in giunta regionale: l’assessore alla Casa Paolo Franco (in quota Fdi) era stato costretto a un dietrofront sulla proposta di utilizzare le case popolari non occupate (e pronte all’uso) per allargare la rete dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria) come richiesto dal governo. Immediate le proteste da parte della Lega con tanto di precisazione del governatore Attilio Fontana. Seconda solo alla Lombardia, l’Emilia-Romagna ha ospitato nei primi sette mesi di quest’anno il 9% dei migranti sbarcati in Italia. Poco meno di 12 mila al 15 luglio, se ne attendono altri 4.000 tra la fine di agosto e settembre. Principalmente maschi, giovani e adulti, provenienti da Costa D’Avorio, Guinea, Egitto, Bangladesh, Pakistan, Tunisia, Burkina Faso, Siria, Camerun e Mali. I minori non accompagnati sono il 10%, ma rilevante è anche la quota dei nuclei familiari, che il sistema d’accoglienza prevede di tenere uniti. Da mesi, la crisi degli alloggi viene denunciata da prefetti, sindaci, cooperative di settore che reclamano più sostegno da parte di Roma ma anche collaborazione nella ricerca di soluzioni rapide. L’hub di via Mattei a Bologna, per esempio, accoglie da settimane i richiedenti asilo in una tendopoli, non essendoci più camere disponibili. Una soluzione che il sindaco Matteo Lepore (centrosinistra) definisce “non dignitosa” e “preoccupante”, segno che al ministero dell’Interno “non c’è alcuna idea su come gestire l’emergenza”. Proprio al Viminale, l’assessore al Welfare del comune di Reggio-Emilia Daniele Marchi (Pd), ha minacciato di portare i molti rifugiati assegnati al suo distretto: “Se il governo va avanti così, carico dei pullman e li porto tutti a dormire al ministero”. Il Veneto, che dai piani del Viminale dovrebbe accogliere 3.000 migranti entro settembre, arriverà a quota 200 mila, secondo il presidente Luca Zaia: “Di questo passo avremo presto le tendopoli”. A Legnago, in provincia di Verona, il sindaco Graziano Lorenzetti ha riposto la fascia tricolore in protesta: “Tornerò a utilizzarla quando lo Stato metterà i sindaci e le forze dell’ordine nelle condizioni di poter garantire la sicurezza ai propri cittadini”. Il sindaco leghista di Chioggia Mauro Armelao è stato chiaro: “Non disponiamo di strutture pubbliche in cui accogliere i migranti, abbiamo già famiglie in attesa di un alloggio”. Egitto. Al-Sisi occultò il rapporto sulla strage di Rabaa di Hossam el-Hamalawy Il Manifesto, 18 agosto 2023 Nel 2014 una commissione d’inchiesta accusò la polizia egiziana del massacro di mille islamisti nel 2013. Il presidente l’ha fatta sparire. Non fu solo un bagno di sangue, ma il “contratto sociale” fondante del nuovo regime. Le forze di sicurezza egiziane in piazza Rabaa hanno sparato munizioni vere in modo casuale ed eccessivo, ignorando deliberatamente le soluzioni pacifiche per risolvere il conflitto e provocando un alto numero di morti, la maggior parte dei quali manifestanti disarmati. Lo dice un rapporto inedito della commissione statale d’inchiesta trapelato questa settimana. La commissione, composta per lo più da giudici, è stata costituita nel dicembre 2013, quattro mesi dopo il più grande massacro nella storia dell’Egitto moderno. Il suo rapporto finale è stato presentato al presidente al-Sisi nel novembre 2014, ma non ha mai visto la luce. Nel decimo anniversario del massacro, l’Egyptian Initiative for Personal Rights, un’organizzazione locale di vigilanza sui diritti, ha ottenuto e diffuso online il rapporto. I dettagli strazianti del massacro erano già stati documentati da organizzazioni internazionali, come Human Rights Watch, che ha stimato almeno 817 vittime. Altre stime si aggirano sulle migliaia. Il livello di violenza esibito da polizia ed esercito quel giorno ha lasciato perplessi gli osservatori, che si sono sempre chiesti perché Abdel Fattah al-Sisi avesse scatenato quel bagno di sangue. L’ex presidente Hosni Mubarak era un autocrate che governava l’Egitto con il pugno di ferro, ma il suo approccio alla governance dipendeva dalla gestione del dissenso. Una vivace società civile faceva da cuscinetto tra Stato e cittadini. Il controllo del dissenso era affidato a un’ampia gamma di istituzioni civili, non solo ai servizi di sicurezza. È vero, queste istituzioni erano già parzialmente smantellate e non erano potenti come quelle create dal fondatore della repubblica degli ufficiali, Gamal Abdel Nasser, ma erano ancora efficaci nel proteggere lo Stato da minacce esistenziali. Se si verificavano atrocità in Palestina, Mubarak poteva contare sui Fratelli musulmani per disinnescare la rabbia popolare, organizzando proteste anti-Israele che si limitavano a moschee e campus universitari, piuttosto che riversarsi nelle strade contro la complicità di Mubarak. Se i prezzi dei beni di prima necessità aumentavano, poteva contare sui salafiti per distogliere la rabbia dal regime incolpando donne non velate o cristiani. Se i lavoratori si mobilitavano, poteva contare sui sindacati sostenuti dallo Stato per contrastare la militanza nei luoghi di lavoro. Inoltre, c’era il Partito nazionale democratico al potere, poco ideologico e privo di denti rispetto all’Unione socialista araba di Nasser. Eppure era presente in ogni quartiere d’Egitto per imporre l’egemonia dello Stato, risolvere potenziali conflitti e convogliare le rimostranze locali verso i responsabili del regime. In altre parole, esisteva una complessa rete di istituzioni da cui Mubarak poteva dipendere per gestire il dissenso, prima di pensare di inviare le truppe o la sua temuta polizia di sicurezza statale per reprimere i facinorosi. La violenza di Stato sotto Mubarak era per lo più calcolata, corrispondente al livello di minaccia percepito per il regime. La sua macchina propagandistica cercò in tutti i modi di nascondere qualsiasi abuso, dalla negazione alla disinformazione. Questo calcolo perverso della repressione ha permesso a Mubarak di prosperare per tre decenni. Ma agli occhi di al-Sisi e dei suoi generali, questo è stato esattamente ciò che alla fine ha portato alla sua caduta e allo scoppio della rivoluzione del 2011. Al-Sisi e la maggior parte degli ufficiali che hanno guidato il golpe del 2013 si sono diplomati all’università militare dopo la fine della guerra del 1973, salendo di grado in tempi di “pace”. L’esercito egiziano era ormai diventato un’organizzazione burocratica gonfiata, ossessionata dalla stabilità interna e dal profitto. Agli occhi dell’esercito, la rivoluzione è avvenuta perché Mubarak era “troppo indulgente”. L’esperienza della transizione del 2011-13 ha contribuito a rafforzare questa convinzione. Il patto faustiano dei generali con gli islamisti - disinnescare la rivoluzione in cambio dell’ingresso di questi ultimi nella coalizione di governo - non è andato a buon fine. Solo nel 2012, l’Egyptian Center for Economic and Social Rights ha registrato più di 3.800 azioni nelle fabbriche e mobilitazioni sociali, più del numero totale di proteste nel decennio 2000-2010. L’Egitto era diventato ingovernabile e i generali hanno deciso di pacificarlo con la forza una volta per tutte per salvare lo Stato dal “caos” o, peggio, da una nuova rivoluzione che avrebbe potuto minacciare i loro privilegi. Il bilancio delle vittime di un solo giorno, il 14 agosto 2013, è stato quasi pari al numero di morti durante la repressione degli anni ‘90 sotto Mubarak. Nei primi sette mesi dopo il golpe di Sisi, la violenza di Stato ha causato più di 3.200 morti. La portata dello spargimento di sangue di Rabaa e dei massacri successivi è stato un chiaro messaggio dei generali alla nazione: l’azione collettiva indipendente non è né gradita né ammissibile. Se il Paese aveva assistito a più di 4.500 proteste nei primi sei mesi del 2013, il numero è crollato a 665 negli ultimi sei mesi dell’anno. Oggi al-Sisi presiede una società priva di ammortizzatori: partiti di opposizione azzoppati, un parlamento che non fa altro che timbrare il cartellino, nessun partito ufficiale al governo e nessuna istituzione civile con poteri di governo. Al contrario, gli apparati repressivi (esercito, polizia e servizi segreti) impongono un dominio diretto, microgestendo la società su base quotidiana. AL-SISI non gestisce il dissenso, lo sradica. Rabaa non è stato solo un massacro: è stato il contratto sociale fondante della nuova repubblica di al-Sisi. Arabia Saudita. Condanna confermata per Ilaria De Rosa: dovrà scontare sei mesi per droga di Vera Mantengoli La Repubblica, 18 agosto 2023 Nessuno sconto nell’udienza di appello. La giovane trevigiana rimarrà in carcere a Riad fino a novembre. La hostess Ilaria De Rosa rimarrà in carcere a Riad fino a novembre. Rinchiusa dallo scorso 4 maggio in una prigione a 45 chilometri dalla capitale, ha già scontato quasi quattro mesi sui sei imposti dalla condanna di primo grado. È stata confermata giovedì mattina in appello la sentenza che inizialmente aveva condannato la ventitreenne trevigiana a scontare sei mesi per possesso e spaccio di stupefacenti. Ilaria De Rosa ha assistito all’udienza in videoconferenza, mentre il console italiano a Gedda Lorenzo Costa era presente in Tribunale. Quando il giudice ha pronunciato la sentenza la ragazza è apparsa chiaramente scossa. Nonostante il pesante stress a cui è sottoposta - da sola, in carcere, in un Paese straniero e senza nessun familiare al suo fianco - De Rosa fisicamente sembra sia in buono stato di salute. Il console ha chiesto un’ulteriore visita dopo le cinque già effettuate. L’accusa di possesso e spaccio di stupefacenti - Un’accusa gravissima in Arabia Saudita che viene punita anche con la pena di morte. De Rosa, all’epoca residente a Gedda come dipendente della compagnia Avion Express, si è sempre proclamata innocente respingendo ogni accusa, ma invano. Si è tenuta infatti giovedì mattina l’udienza prevista per il giudizio di appello nel Tribunale di Riad, chiesto dai legali del posto della giovane, scelti da una rosa indicata dalla Farnesina. Dopo la sentenza di primo grado che aveva condannato De Rosa a sei mesi di carcere seguiti dall’espulsione dal Paese, la donna aveva deciso di impugnare la sentenza e, nello stesso tempo, chiedere la grazia come fatto lo scorso giugno. In Arabia Saudita la grazia viene rilasciata in occasione di alcune festività religiose, ma quando si era presentata l’occasione non era stata comunque concessa alla donna. La prima sentenza - Nella sentenza di primo grado Ilaria De Rosa era stata condannata da un giudice monocratico a sei mesi e all’espulsione dal Paese dove abitava da tre mesi. Si era infatti appena trasferita a Gedda dove lavorava per la Avion Express, compagnia di volo lituana con un servizio di tratte interne all’Arabia Saudita. La motivazione della sentenza era che la polizia avrebbe trovato De Rosa con uno spinello in mano, ma la giovane si è sempre difesa dicendo che non era suo e che non ne aveva fatto uso. Le informazioni dettagliate sulla dinamica sono difficili da ricostruire, ma di fatto alla hostess trevigiana non è stato concesso nulla e dovrà attendere i primi di novembre per uscire dal carcere di massima sicurezza dove è rinchiusa con un’altra decina di persone, inclusa un’altra donna straniera. Nel corso della prima udienza un paio di coetanei si erano assunti la responsabilità di essere loro i detentori della droga (hashish), ma non era bastato a scagionare De Rosa. La versione di De Rosa - Il caso era venuto fuori all’improvviso a inizio maggio, quando la famiglia si era preoccupata perché da giorni non sentiva più la figlia, solita chiamare quotidianamente casa. A quel punto la mamma Marisa Boin, residente a Resana nel Trevigiano, si era rivolta ai carabinieri che, poco dopo, erano stati informati dell’arresto della hostess a Riad con l’accusa pesantissima di detenzione e spaccio di stupefacenti, punita in modo severissimo in Arabia Saudita, governata da Mohammed bin Salman bin Abdulaziz Al Saud. Da quel momento era iniziato un lavoro di delicata diplomazia tra i due Stati che si stanno contendendo la sede del prossimo Expo. Il console italiano a Gedda, Lorenzo Costa, aveva ricevuto il permesso di andarla a trovare in carcere e di farla seguire da uno dei legali del posto consigliati da una rosa indicata dalla Farnesina. In occasione della prima visita Ilaria De Rosa aveva negato le accuse ribadendo che non aveva fatto uso di droghe e che non spacciava. Aveva inoltre raccontato la sua versione dei fatti: era andata a cena nel giardino di casa di un amico quando all’improvviso era spuntato dal nulla un gruppo di persone armate che avevano iniziato a perquisirla, anche in modo invadente. La ragazza ha raccontato di aver compreso di essere stata arrestata soltanto quando ha realizzato di trovarsi in una stazione di polizia dove è stata rinchiusa per cinque giorni. In seguito, ha raccontato, è stata interrogata e ha firmato un documento in arabo di cui ignora il contenuto.