Polveriera carceri di Eleonora Camilli La Stampa, 17 agosto 2023 Finestre completamente schermate da cui non si riesce a guardare fuori. Celle da condividere anche in otto, docce contingentante, attività sospese. E giornate lunghissime da superare. Nelle carceri italiane manca l’aria. E non solo per il caldo da bollino rosso di questi giorni. Lo scorso anno il numero record di 85 suicidi aveva già fatto scattare un campanello d’allarme sulle condizioni invivibili degli istituti di pena. Quest’anno, le morti di Susan John e Azzurra Campari, a distanza di sole ventiquattr’ore hanno riportato in evidenza i problemi. Innanzitutto quello di un sovraffollamento ormai strutturale: secondo i dati del ministero della Giustizia sono 57.749 i detenuti presenti, 6.464 in più della capienza regolamentare fissata sui 51.285 posti disponibili. Con un tasso di affollamento ufficiale intorno al 112,6% e che le associazioni, come Antigone, stimano almeno al 121%, in alcuni casi quasi al 200%. Ma non è solo una questione di spazi ristretti. Da tempo, enti, organizzazioni ed esperti sottolineano come a mancare sia anche una reale idea riabilitativa del carcere, che offra una prospettiva oltre le sbarre a chi ha sbagliato. “I motivi che portano una persona a scegliere di togliersi la vita sono diversi, ma ogni volta che accade uno di questi episodi dobbiamo interrogarci - sottolinea Daniela De Robert, componente del Collegio dell’Autorità Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, che ha curato uno studio sui suicidi in carcere, dopo la catena tragica di eventi nel 2022 -. Quello che abbiamo notato è che ci sono due picchi: i suicidi avvengono appena entrati in carcere, come nel caso di Susan John che era dentro da luglio, o quando si sta per uscire. Probabilmente perché nelle persone si fa strada l’idea che il carcere è un luogo da cui non si esce più o che quando esci non interessi più a nessuno”. L’ansia di non riuscire a rialzarsi, la paura di non avere prospettive incidono anche sulle decisioni estreme, che non di rado coinvolgono anche persone in attesa di primo giudizio. Stando ai dati del ministero ad oggi sono circa 8.000 le persone che sono in carcere senza ancora una condanna. Altrettanti stanno scontando una pena inferiore ai tre anni. Persone che potrebbero avere accesso a misure alternative ma che spesso per mancanza di mezzi restano in carcere ad affollare le strutture. “Bisogna investire sulle persone e sul loro reinserimento, su attività che siano significative, non basta il corso di ceramica. Il carcere spesso è un tempo vuoto - continua De Robert. L’estate è sempre un momento difficile, ci sono meno attività e presenze. Per le persone detenute il tempo, se possibile, diventa ancora più vuoto e questo acuisce le sofferenze”. E poi ci sono le condizioni materiali che rendono la vita dentro un inferno. Secondo un monitoraggio fatto nei giorni scorsi dall’associazione Antigone in alcuni istituti manca addirittura l’acqua. In altri per il caldo opprimente, i detenuti hanno dovuto presentare una petizione per poter acquistare con i propri mezzi dei ventilatori. Nella metà dei 98 istituti visitati dall’associazione ci sono poi celle senza doccia, in alcuni è possibile farla solo in alcuni orari prestabiliti. “Ma quello che colpisce di più è l’apatia totale dei detenuti: specialmente in estate non fanno niente, passano il tempo a fissare il soffitto. Le giornate diventano più lunghe e pesanti da affrontare” spiega Andrea Oleandri dell’associazione. “Ci sono persone che chiedono disperatamente di poter lavorare o di fare una telefonata”. Stando al report, l’offerta di attività è ancora scarsa: In media le persone che lavorano per il carcere stesso sono il 33,5% dei presenti, con valori però molto diseguali, mentre quelli che partecipano a percorsi di formazione professionale sono il 5,4%. Anche l’associazione Nessuno Tocchi Caino chiede un cambio di passo e ricorda che il mandato del Garante dei detenuti delle persone private delle libertà è già scaduto da due anni, ma il governo non ha ancora trovato un successore. Un altro scoglio da superare in questa drammatica estate delle carceri italiane. È la mancanza di welfare di Stato a rendere le condizioni in carcere disumane di Giancarlo Caselli La Stampa, 17 agosto 2023 Le ricette che vengono presentate non sono né proponibili né sufficienti. Sono troppe le Istituzioni che non si assumono più le proprie responsabilità. Siamo assillati dalla necessità di regolare il carcere, che appare un mondo a sé ma comunque ci riguarda, perché punisce troppo o troppo poco e incide sulla sicurezza sociale. Poi succede che da quell’antro giungano notizie raccapriccianti: violenze di massa su detenuti, ripetute aggressioni al personale, morti d’inedia, suicidi, autolesionismo, proteste da una parte e dall’altra. E allora, se non tutti, ecco che molti offrono soluzioni. Foucault diceva che la storia del carcere si sovrappone a quella della sua crisi e delle critiche che l’hanno accompagnata. Non possiamo allora stupirci e tirare fuori, lì per lì, qualche rimedio. Per poi scoprire che si tratta di soluzioni già proposte ma abbandonate in quanto impraticabili, oppure tali da agganciare solo in minima parte il problema. Ricordiamo la Grande Pandemia? All’inizio, nel pieno dell’ecatombe, si pensava che saremmo diventati tutti più solidali e vicini. Non è successo. Anzi, già nel suo corso (e ancora oggi) il virus è diventato per molti la leva per affermare i propri interessi. Non esistono soluzioni elaborate presto e bene a tavolino o, peggio, in una conferenza stampa e nemmeno in un video messaggio a carceri unificate alla moda dell’ultimo Nordio-re. Dovrebbero esistere l’ascolto, il confronto, l’elaborazione e la sperimentazione quotidiana di un programma, secondo una cultura del fare ma anche del pensare. E qui le cose si complicano, rischiando di buttare infruttuosamente la palla in tribuna. Perché se quell’antro vomita brutture non è per caso ma neanche per un motivo preciso, annullato il quale tutto si risolve. In un epoca dove la semplificazione non riguarda il nostro agire né la relazione quotidiana con il prossimo, ma il c.d. pensiero dominante, sfugge la concatenazione, unica guida ai problemi da risolvere. Di fronte alla morte d’inedia di una donna straniera, sia pure condannata per un grave delitto, qualcuno dice perché non poteva vedere i suoi figli, e di fronte al suicidio per solitudine di una giovane ragazza in carcere per la somma di piccole condanne, forse è il caso di esprimersi con la massima chiarezza. Difetti di comunicazione fra autorità diverse? Carenze organiche? Impossibilità di interventi coatti? Scarsità di medici e psicologi? Poche misure alternative concesse? Sovraffollamento cronico? Tutto, o quasi, plausibile. Risponderà per quanto possibile l’inchiesta. Ma il nostro confuso sconcerto aumenta. In alcuni può subentrare la tentazione del “basterebbe”. Basterebbe migliorare la comunicazione, aumentare gli organici, disporre coattivamente, aumentare la presenza delle professionalità sanitarie e la concessione di misure alternative, ridurre l’affollamento… Certo pare logico, ma cerchiamo di capire guardandoci a ritroso e parafrasando Branduardi, chiedendoci che c’entra il topolino con il macellaio, ovvero quali sono i motivi veri per cui quel “basterebbe” non è né proponibile né sufficiente. Se il carcere continua ad essere sovraffollato e sempre più quello che molti descrivono come strumento di detenzione o discarica sociale è perché è quasi completamente saltato il welfare state, ma anche - prima di questo -buona parte della funzione scolastica e famigliare. Ma sicuramente è anche scemato l’afflato, sia collettivo che individuale, sia pubblico che privato, quel misto di curiosità, solidarietà e responsabilità nei confronti degli altri, necessario per affrontare le nuove sfide che un mondo globalizzato e iniquo ci porta fino alle porte di casa. Non siamo più in grado di gestire il flusso e la permanenza di migliaia di migranti costretti a una condizione di irregolarità prima e, per molti, di illegalità dopo. Sicuramente vi è stata una certa burocratizzazione dell’accoglienza e cura dei tossicodipendenti, ma anche delle persone disturbate, fragili dal punto di vista mentale e sociale. Secondo una recente ricerca due terzi della popolazione detenuta non possono più aspirare ad una misura alternativa dal carcere (unico obiettivo costituzionale teso al reinserimento sociale nel corso e dopo una pena detentiva) perché le loro fragilità non collimano con i criteri di affidabilità che tutti i Servizi, da quelli della Giustizia a quelli Sanitari a quelli Sociali, si danno per operare. In altre parole i limiti e le fragilità di questi stessi Servizi ad affrontare le fragilità della loro utenza riducono i due terzi della popolazione detenuta ad uno stato di mera neutralizzazione contraria allo stesso dettato costituzionale. Se ci fermassimo qui la palla rimarrebbe in tribuna e allora non avremmo portato alcun contributo. Proviamola a riportarla in campo questa benedetta palla. Ponendo alcune ruvide domande che valgono per tutte le città con un carcere almeno medio-grande. È disposto il Comune ad investire in operatori che si occupino di centri diurni all’interno dell’istituto per accogliere e accompagnare quotidianamente i più disordinati, fragili e fastidiosi, evitando che la convivenza interna assuma le forme di un conflitto quotidiano? Sono disposti i Garanti Comunale e Regionale a pungolare i loro Enti elettivi al punto di trovare idee, fondi, volontà ed intelligenze? È disposto il SerT ad integrarsi con le Comunità terapeutiche esterne e con i Servizi di psichiatria territoriale? Sono disposti Regione e Comune a finanziare questi presidi e queste sinergie? È disposto l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna del Ministero della Giustizia ad essere meno espressione esecutiva di una sentenza e più Servizio Sociale, riprendendo a sé una serie di funzioni di ricerca e creazione di risorse e raccordo di queste con gli altri Enti del territorio? Sono disposti Ministero della Giustizia e Amministrazione penitenziaria ad affiancare al mantra della sicurezza in sé, con pari dignità, quello del trattamento per la sicurezza, intendendo per pari dignità quella dei numeri degli operatori da destinarvi, dei loro stipendi e della loro progressione di carriera? È disposto, sempre il Ministero, a stanziare quanto necessario per far fronte al degrado e alla scarsa igiene dei luoghi di detenzione? È in grado di liberalizzare davvero (non solo promettere) il regime delle telefonate, almeno per i detenuti comuni condannati, senza dover passare necessariamente dai centralini oberati degli istituti di pena? È disposto il carcere a creare una rete con l’Avvocatura per creare sinergie utili a prevenire i suicidi ma, più in generale, per costruire percorsi praticabili di reinserimento? È disposta la Questura a verificare la possibilità di regolarizzare gli stranieri detenuti aventi diritto prima della loro scarcerazione? È disposta l’Imprenditoria a portare risorse, commesse e competenze per aumentare l’occupazione all’interno e ridurre la povertà di quelle persone? La stessa Imprenditoria è disposta ad accogliere una quota di queste persone una volta liberate? È disposta l’Italia a far cambiare narrazione e legislatura in materia di penalità e sicurezza? Siamo TUTTI disposti a fare questo e tante altre cose che migliorerebbero il nostro senso di comunità e di sicurezza? Se la risposta positiva supera il mugugno o il dissenso allora, non da subito, potremo sperare che la gente non si lasci morire in carcere dalla disperazione e che, laddove si riuscisse a scongiurarlo, questo non dipenda dal caso o dalla buona volontà di qualcuno ma da Istituzioni attente e consapevoli. In caso contrario… Carceri in emergenza, ma il governo non nomina il Collegio dei garanti dei diritti dei detenuti di Luigi Manconi La Repubblica, 17 agosto 2023 Tanti fanno il nome di Rita Bernardini, si valutino anche i curricula di Stefano Anastasia e Giovanni Fiadanca. Questa è una vicenda tutta italiana, che presenta connotati di tipicità tali da renderla esemplare. Intorno a Ferragosto, per uno di quei casi crudeli del destino, che tendono a ripetersi fino a far immaginare la implacabilità di una storia naturale, nelle carceri italiane si ha una mattanza. Tra suicidi e digiuni fino alla morte. Difficile anche per il più intorpidito osservatore della realtà e per il più sonnacchioso cronista dell’attualità non rivolgere attenzione a quanto va accadendo nell’oscurità più fonda e sinistra del nostro sistema penitenziario. Così, a qualcuno viene in mente che esiste un istituto di controllo destinato a vigilare su quanto succede nelle carceri italiane e a tutelare i diritti delle persone private della libertà personale che vi sono rinchiuse. È il Collegio nazionale dei garanti dei diritti dei detenuti, che nella sua attuale composizione ha ben funzionato nel corso del suo mandato. Ora il mandato è scaduto, e da molti mesi, e la nomina del nuovo Collegio viene continuamente rinviata. La ragione di questo rinvio non viene nemmeno travisata: troppe tensioni all’interno della maggioranza di Governo intorno ai nomi dei tre destinati a comporre il nuovo organismo. Accade a questo punto un piccolo evento che rientra nell’ordinaria dialettica democratica e ne certifica lo stato di salute. Vengono fatti cioè i nomi dei possibili candidati a quel ruolo. A proporli sono docenti universitari, opinion leader, operatori del settore. Il nome che risulta indicato dal maggior numero di persone è quello di Rita Bernardini. L’aspetto interessante è che la scelta di questa fetta dell’opinione pubblica ricade su di lei non per una dichiarazione di appartenenza politica o per una forma di simpatia ideologica, bensì per una limpida limpidissima questione di competenza. In tutte le valutazioni a favore di Bernardini viene allegato, per così dire, un pezzo di curriculum vitae, dove si documentano le ragioni - umane, scientifiche, culturali, professionali - di quella opzione. È un dibattito onesto e trasparente sulla adeguatezza di una persona pubblica a ricoprire un incarico pubblico. Tutto ciò non scalfisce la marmorea indifferenza della maggioranza di Governo, che sembra totalmente disinteressata alla questione, presa com’è da irriducibili istinti spartitori. Personalmente mi unisco al corteo di quanti reclamano che Rita Bernardini faccia parte di quel collegio. Ma mi sembra altrettanto importante il metodo, purtroppo inascoltato, che è stato adottato. Per questa ragione aggiungo altre opzioni. Il Collegio dei garanti è costituito da tre persone: chi meglio dei professori Stefano Anastasia e Giovanni Fiandaca può farne parte? Il loro curriculum professionale e istituzionale è inappuntabile e formidabile. Basta verificare. La truffa della certezza della pena intesa come “certezza della galera” di Carmelo Palma linkiesta.it, 17 agosto 2023 Le polemiche sui suicidi in carcere sono tornate per ricordarci che se ne parla sempre e solo per banalità logistico-organizzative, mai dal punto di vista politico o giuridico. Ma viviamo in un Paese in cui la premier e il ministro della Giustizia sono garantisti solo fino al processo: per loro sulla punizione è doveroso essere giustizialisti. Le discussioni e le polemiche sui suicidi in carcere e sulla insostenibilità delle condizioni di detenzione negli istituti di pena anche questa estate si sono riproposte con una macabra puntualità. Si tratta di discussioni in cui, nella generalità dei casi, si evita accuratamente di toccare il nucleo politicamente “radioattivo” del problema, ma ci si limita a girare intorno a questioni logistico-organizzative (a partire dal cronico sovraffollamento e dalla ancora più cronica assenza di servizi, occasioni e relazioni), che però sono esse stesse un effetto, e non una causa, della disumanizzazione della galera, la quale - come è noto e ormai accettato - non è a immagine di quel che prescrive la nostra Costituzione, ma a somiglianza di ciò che il sistema politico italiano, senza differenze significative, ritiene che debba essere la funzione politica e sociale della pena. Dire “il sistema politico italiano”, poi, non è una generalizzazione gratuita, ma la fotografia fedele di una sostanziale continuità nelle politiche di esecuzione della pena, su cui la destra ha imposto certamente il suo timbro, ma su cui il Partito democratico e la sinistra hanno evitato accuratamente la sfida per non scoprirsi sul fronte securitario. I più attenti e memori ricordano lo snodo della fine della XVII legislatura, in cui il Governo Gentiloni evitò di emanare un decreto legislativo già pronto in materia di pene alternative (il primo e necessario modulo di riforma dell’ordinamento penitenziario) per paura di pagare dazio, poco più di un mese dopo, alle elezioni politiche. Rimane il fatto che basta scorrere l’elenco dei suicidi (e delle morti in carcere per altra causa) dell’ultimo quarto di secolo per vedere che le prigioni italiane rimangono posti poco vivibili e molto mortali, in un senso tragicamente letterale e con una tendenza al peggioramento. Non c’è alcuna speranza che la situazione si modifichi per puro scrupolo umanitario e diligenza burocratica, senza mettere in discussione il presupposto ideologico di “questa” galera, che, proprio in quanto ideologico, resiste a qualunque smentita sperimentale. Si ha un bel da dimostrare che i benefici penitenziari riducono la recidiva dei detenuti, che aggravare le pene non riduce affatto i reati e che i tassi di carcerazione e criminalità sono spesso correlati in un modo paradossale e sono le norme più “carcerogene” a essere più criminogene (come ad esempio quelle sulla droga). Anche nei momenti più liberi e eccelsi del suo garantismo convegnistico-accademico il non ancora ministro Carlo Nordio in tema di esecuzione della pena non ha mai nascosto un approccio signorilmente reazionario e sostanzialmente allineato alla retorica della fermezza. Ad esempio, sul referendum in materia di carcerazione preventiva, promosso lo scorso anno dal Partito Radicale con la Lega, sostenuto per onore di firma dalle altre forze del centro destra e vanificato, come quasi sempre accade negli ultimi decenni, dalla strategia astensionistica, Nordio si schierò sì a favore, ma spiegando che il problema italiano non era solo che in galera fosse facile entrarvi da innocenti (detenuti in attesa di giudizio), ma anche quello che fosse troppo facile uscirne da colpevoli (condannati con sentenza definitiva). La tesi cara alla premier Giorgia Meloni per cui il garantismo riguarda il processo, ma non la pena, su cui è doveroso invece essere giustizialisti, non è quindi una fuga in avanti della Presidente del Consiglio rispetto agli insegnamenti del suo precettore liberale, ma una libera e coerente traduzione rusticana del pensiero del Ministro della Giustizia. L’equivalenza tra la certezza della pena e la non derogabilità della galera per l’intera durata della sanzione detentiva comminata dal giudice è uno di quegli spropositi, a cui il legislatore normalmente ricorre per giustificare e consolidare il pervertimento della funzione costituzionale della pena, fatta coincidere con una legge del taglione appena civilizzata, in cui la mutilazione della mano o della testa del colpevole è surrogata da una parziale o totale, ma comunque perfettamente corrispettiva, mutilazione della sua libertà personale. La certezza della pena, secondo Costituzione, significa che il sistema penale deve essere concretamente in grado di perseguire i reati e di condannarne i colpevoli, non che le modalità di esecuzione della pena non possano (anzi debbano!) essere graduate, nella forma e nella durata, coerentemente all’obiettivo di restituire il reo alla vita sociale, senza che torni a rappresentare un pericolo. Se non si riparte da cosa dovrebbe essere la pena secondo la legalità costituzionale e non la si dissocia concettualmente dalla galera, non c’è alcuna speranza che questa cessi di essere un tormento e un oltraggio all’umanità dei detenuti. E i suicidi di molti di loro continueranno a fare pendant a una Costituzione suicidata. Utilizzare le ex caserme come carceri? Torna una soluzione inefficace dal passato di Vitalba Azzollini pagellapolitica.it, 17 agosto 2023 Ne ha parlato il ministro Nordio, dicendo che la costruzione di nuove strutture è “quasi impossibile”. Le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo vanno però in un’altra direzione. L’Italia è il Paese della riedizione delle soluzioni a problemi annosi: questa volta tocca di nuovo alle carceri. Dopo i due suicidi avvenuti di recente nell’istituto di detenzione Le Vallette di Torino, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha proposto di utilizzare come carceri le caserme dismesse. Per raggiungere questo obiettivo Nordio ha annunciato che in autunno avvierà una ricognizione delle caserme disponibili a essere trasformate in luogo di detenzione differenziata, per chi è stato condannato in via definitiva a pene brevi per reati che non destano allarme sociale. Ma non è la prima volta che viene formulata la proposta di trasformare le caserme in istituti di detenzione: i risultati del passato sono stati tutt’altro che positivi. I tentativi passati - Facciamo un passo indietro di dieci anni. Già nel 2013, a fronte del problema del sovraffollamento delle carceri, l’allora ministra della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva suggerito l’utilizzo delle caserme. “Sto lavorando al progetto di creare un circuito di detenuti non pericolosi da sistemare in caserme distribuite in varie regioni”, aveva dichiarato Cancellieri. “Ne abbiamo già individuate una decina da ristrutturare in tempi rapidi, senza grossi investimenti”. La ministra aveva comunque aggiunto: “Bisogna depenalizzare (…). Servono sanzioni amministrative. Poi bisogna puntare sulle misure alternative, perché chi commette un reato non grave non deve per forza finire in carcere. Io, come cittadina, sarei più contenta se chi imbratta i muri li ripulisse, piuttosto che vederlo in prigione”. A dicembre 2013, alle dichiarazioni della ministra, era seguito il cosiddetto “decreto Svuota-carceri”, ma la proposta sulle caserme non si era tradotta in una norma di legge. L’iniziativa aveva comunque avuto un seguito con la caserma situata a San Vito al Tagliamento, in Friuli-Venezia Giulia, non senza difficoltà. La struttura era stata individuata nel 2013 e il bando per i lavori era stato pubblicato lo stesso anno. Ma siccome la caserma non era conforme ai criteri che le carceri devono rispettare in base alle norme in materia di ordinamento penitenziario (di cui parleremo tra poco), ne fu recuperata solamente una palazzina, per ospitare uffici amministrativi. I lavori per la costruzione di un nuovo carcere, dove prima c’era la caserma, sarebbero dovuti iniziare a maggio 2018, ma sono stati bloccati da ricorsi tra le ditte classificatesi come prima e seconda nella gara d’appalto. Il contenzioso si è risolto solo a dicembre 2022: la realizzazione del carcere è potuta iniziare a distanza di circa dieci anni. Insomma, non proprio una soluzione veloce, a fronte di un problema di pressante attualità. Dopo Cancellieri è stata la volta dell’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (Movimento 5 Stelle), che nel 2018 aveva previsto un piano di riconversione delle caserme in luoghi di detenzione con il decreto “Semplificazioni”. Il provvedimento stabiliva che, ferme restando le competenze del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti in materia di infrastrutture carcerarie, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) procedesse, tra le altre cose, alla “individuazione di immobili, nella disponibilità dello Stato o di enti pubblici territoriali e non territoriali, dismessi e idonei alla riconversione” in strutture carcerarie. Per dare seguito al progetto, Bonafede aveva siglato un protocollo d’intesa con l’allora ministra della Difesa Elisabetta Trenta, per individuare aree inutilizzate come, appunto, le caserme dismesse. Da quanto si sa, il piano di riconversione è rimasto inattuato. Norme e carenze - Passano gli anni e le carceri italiane continuano ad avere gravi problemi. Il tasso di sovraffollamento degli istituti penitenziari supera il 110 per cento, con ampie differenze di regione in regione, mentre nel 2022 ci sono stati 85 suicidi tra i detenuti. L’articolo 6 della legge sull’ordinamento penitenziario (la n. 354 del 1975) dispone che i locali dove “si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale”. “I locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti”, prosegue la legge. “Agli imputati deve essere garantito il pernottamento in camere a un posto a meno che la situazione particolare dell’istituto non lo consenta”. Lo spazio minimo per detenuto deve essere di tre metri quadrati, in base all’interpretazione che nel 2009 la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu) ha dato all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), ai sensi del quale “nessuno può essere sottoposto a tortura ne? a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Corte aveva accertato che la permanenza per circa due mesi e mezzo del ricorrente e altri cinque detenuti in una cella nel carcere di Rebibbia, a Roma, grande poco più di 16 metri quadrati (2,70 metri quadrati a testa), costituiva un trattamento contrario al citato articolo 3. Per calcolare la superficie dei tre metri quadrati - tema su cui nel tempo ci sono stati diversi orientamenti giurisprudenziali - dall’area della cella vanno sottratti gli spazi occupati dai servizi igienici e da tutti gli altri arredi tendenzialmente fissi, che costituiscono un ingombro e limitano la possibilità di movimento, mentre restano esclusi gli arredi facilmente amovibili. Quindi, tre metri quadrati per detenuto dovrebbero essere l’area in cui ogni persona ha libertà di muoversi nella cella. Ma questo spazio minimo, sotto il quale la Corte ritiene vi sia trattamento inumano e degradante, spesso non è rispettato. Secondo l’Associazione Antigone, che da oltre quarant’anni si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, varie disposizioni del Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario “sono rimaste lettera morta”, a cominciare “dalle indicazioni edilizie per adeguarsi alle quali era previsto un arco di tempo non superiore ai cinque anni”. Per esempio nel 47,7 per cento degli istituti visitati dall’Associazione Antigone le celle non hanno le docce; nel 38,6 per cento le celle hanno schermature alle finestre che “non favoriscono l’ingresso di luce naturale”; nel 77,3 per cento “non e? prevista una separazione dei giovani adulti (meno di 25 anni) dai detenuti più grandi”; e nel 79,5 per cento degli istituti “non c’e? uno spazio ad hoc per i detenuti e gli internati di culto non cattolico”. La situazione è più complessa e peggiore nelle strutture dove sono detenute le donne. Secondo l’Associazione Antigone, per esempio, solo il 63,2 per cento delle celle ospitanti donne nelle carceri visitate è dotato di bidet, così come previsto dal regolamento penitenziario, il 5,3 per cento ne è sprovvisto, mentre per il 31,6 per cento il dato non è disponibile. La legge di Bilancio per il 2023, approvata dal Parlamento alla fine dello scorso anno, prevede (art. 1, comma 878) risparmi di spesa pari a circa 36 milioni di euro per l’amministrazione penitenziaria nei prossimi tre anni. Nuove carceri sono la soluzione? Nel gennaio 2013 la Corte Edu, con la sentenza nel “caso Torreggiani”, ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell’articolo 3 della Cedu. Il caso riguardava sette persone detenute nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con uno spazio limitato a disposizione. La Corte ha qualificato la decisione Torreggiani come “sentenza pilota”: ciò significa che i principi indicati vanno applicati in ogni altro caso di sovraffollamento carcerario in Italia. La sentenza ha rilevato, infatti, che “la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone”. La Corte ha quindi ordinato alle autorità nazionali di approntare, nel termine di un anno dalla definitività della sentenza, misure con effetti preventivi e compensativi, che garantiscano una riparazione effettiva delle violazioni. La Corte ha fornito anche una serie di indicazioni delle quali bisognerebbe tenere conto prima di ipotizzare di risolvere il problema del sovraffollamento con nuovi istituti di detenzione, la soluzione principale a cui il governo Meloni sembra voler ricorrere. Secondo la Corte, “l’ampliamento del parco penitenziario” dovrebbe essere però “una misura eccezionale in quanto, in generale, non è adatta a offrire una soluzione duratura al problema del sovraffollamento”. Innanzitutto andrebbe considerato che la privazione della libertà dovrebbe essere reputata “come una sanzione o una misura di ultima istanza e dovrebbe pertanto essere prevista soltanto quando la gravità del reato renderebbe qualsiasi altra sanzione o misura manifestamente inadeguata”. Inoltre occorrerebbe “esaminare l’opportunità di depenalizzare alcuni tipi di delitti o di riqualificarli in modo da evitare che essi richiedano l’applicazione di pene privative della libertà”. E comunque, sempre secondo la Corte, “contro il sovraffollamento delle carceri e l’inflazione carceraria, dovrebbe essere condotta un’analisi dettagliata dei principali fattori che contribuiscono a questi fenomeni. Un’analisi di questo tipo dovrebbe riguardare, in particolare, le categorie di reati che possono comportare lunghe pene detentive, le priorità in materia di lotta alla criminalità, e gli atteggiamenti e le preoccupazioni del pubblico nonché le prassi esistenti in materia di comminazione delle pene”. In particolare bisognerebbe applicare “il principio dell’opportunità dell’azione penale (o misure aventi lo stesso obiettivo)” e ricorrere a “transazioni come alternative alle azioni penali”. Ancora, “l’applicazione della custodia cautelare e la sua durata dovrebbero essere ridotte al minimo”, facendo un “uso più ampio possibile delle alternative (…) quali per esempio l’obbligo per l’indagato di risiedere a un indirizzo specificato, il divieto di lasciare o di raggiungere un luogo senza autorizzazione, la scarcerazione su cauzione” e altro. I messaggi del Quirinale - A seguito delle sanzioni della Corte Edu contro l’Italia, a ottobre 2013 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affermò in un messaggio al Parlamento che “la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale”. “Le istituzioni e la nostra opinione pubblica - aggiunse Napolitano - non possono e non devono scivolare nell’insensibilità e nell’indifferenza convivendo, senza impegnarsi e riuscire a modificarla, con una realtà di degrado civile e di sofferenza umana come quella che subiscono decine di migliaia di uomini e donne reclusi negli istituti penitenziari”. A febbraio 2022 il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel discorso di insediamento per il suo secondo mandato, ha affermato che “dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti”. E da ultimo, a giugno 2023 Mattarella ha ribadito, in un messaggio al Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, la necessità di “rendere rispettosa della dignità della persona la restrizione, anche temporanea, della libertà derivante dall’applicazione di norme di legge poste a protezione del consorzio civile”. Le indicazioni del Quirinale non hanno determinato un cambio di rotta nella situazione carceraria. L’Italia ha evitato ulteriori condanne adeguandosi alle prescrizioni della Corte europea sul versamento di risarcimenti nei confronti dei detenuti costretti a vivere in condizioni né decorose né in linea con la legge. La linea del governo Meloni - A oggi è improbabile che il governo Meloni recepirà le indicazioni della Corte Edu sull’adozione di misure, come la depenalizzazione e le misure alternative alla detenzione, per ovviare al problema del sovraffollamento carcerario. Fratelli d’Italia e la Lega hanno più volte promesso agli elettori che, una volta al governo, avrebbero costruito nuove carceri, mentre il ministro Nordio, in visita a Le Vallette di Torino, ha definito questa promessa “quasi impossibile” da realizzare, a causa dei costi, delle tempistiche e dei vincoli burocratici. Tra l’altro, in controtendenza rispetto a quanto annunciato dallo stesso Nordio all’insediamento del governo, il nuovo esecutivo ha già scelto di aumentare il numero dei reati: da quello contro i rave party al reato universale contro trafficanti e scafisti a quello, sempre universale, contro chi fa ricorso alla gestazione per altri. Intanto, in mancanza di iniziative legislative che evitino il ricorso al carcere, nei giorni scorsi alcuni personaggi noti - scrittori, intellettuali, esponenti della politica e altri - hanno sottoscritto l’appello lanciato dal quotidiano Il Dubbio che chiede sia attuata “una serie di interventi immediati che possano dare un minimo di sollievo al disagio che i detenuti vivono nelle carceri “illegali” del nostro Paese”. Tra questi, “la valorizzazione della giustizia riparativa e le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi”. In Italia la costruzione di nuove carceri ha aumentato il sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 agosto 2023 Tra il 1947 e il 1970, il nostro Paese ha assistito a una significativa diminuzione del numero di detenuti, passando da circa 65.000 a 21.000. Tra il 1980 e il 1999 sono state costruire decine di nuove carceri ed è triplicato il numero dei detenuti, nonostante la diminuzione dei reati. L’uso delle caserme dismesse per fini carcerari sta suscitando dibattiti sui giornali e controversie. Sulle pagine de Il Dubbio - in tempi non sospetti - è stato già scritto abbondantemente sull’impraticabilità di tale progetto. Tuttavia, l’attualità di questa tematica va oltre la semplice praticità dell’uso delle caserme dismesse e si estende alla discussione più ampia sull’efficacia delle nuove costruzioni carcerarie nell’affrontare il problema del sovraffollamento nelle carceri italiane. La realtà è che l’idea di costruire nuove carceri, indipendentemente dalla fattibilità pratica, non solo non risolve il problema del sovraffollamento, ma lo aumenta a dismisura. Qui in Italia abbiamo la prova che nuove carceri contribuiscono ad aumentare il numero dei detenuti. Per comprendere questa dinamica, è sufficiente analizzare i dati storici. Tra il 1947 e il 1970, l’Italia ha assistito a una significativa diminuzione del numero di detenuti, passando da circa 65.000 prima della caduta del fascismo a 21.000 unità in un arco di venti anni. Tuttavia, dopo la fine degli anni 70, c’è stato un aumento di un terzo della popolazione carceraria, che è passata da 21.000 detenuti precedenti a diecimila in più nel giro di un brevissimo tempo Fino appunto ad arrivare al triplo nei recenti anni. Questo incremento sembra coincidere con l’era delle nuove costruzioni carcerarie tra il 1980 e il 1999. È interessante notare che molte di queste nuove strutture sono state erette in aree periferiche, come rivelato dal rapporto Antigone del 2017, e rappresentano addirittura il 40% delle strutture carcerarie attuali. Sembra sorprendente che nel 1974 vi fossero solo 28.286 detenuti, per poi avere questo numero aumentato drasticamente nei decenni successivi. E questo nonostante che i dati Istat dimostrino una diminuzione dei reati rispetto a quegli anni. La questione cruciale diventa quindi: perché la costruzione di nuove carceri sembra equivalere a un aumento della carcerarizzazione? La costruzione di nuove strutture penitenziarie porta non a scoraggiare, ma al contrario a incentivare, l’emanazione di nuove norme penali carcerogene che, sulla scorta di una richiesta di penalità spesso indotta dalla paura creata dai media, aumentano la lunghezza della pena detentiva a dismisura. Il conseguente flusso di carcerati determinato da quelle norme penali riempie velocemente gli istituti di pena di recente costruzione, nei quali per principio o per necessità (stante il costante affollamento) ogni pratica di recupero del condannato è abbandonata. Un esempio chiaro è il sistema delle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), che ha preso il posto dei famigerati ospedali psichiatrici giudiziari(Opg). Sebbene la chiusura di queste strutture fosse necessaria, l’effetto paradossale è stato l’aumento delle richieste di internamento nelle Rems, che a loro volta richiedono nuove strutture. I giudici, non avendo più gli scrupoli che giustamente potevano avere quando esistevano gli Opg, danno con facilità l’internamento presso le Rems (senza magari vagliare altre alternative): aumentano le richieste e di conseguenza c’è richiesta di nuove strutture. Se ne costruiranno altre, e i giudici saranno ancora più incentivati a emanare l’internamento. Questo modello può essere applicato anche alle carceri: l’espansione delle strutture carcerarie può indurre i giudici a pronunciare con facilità le sentenze detentive, contribuendo così a un circolo vizioso di carcerarizzazione di massa. In conclusione, i dati storici e le dinamiche attuali suggeriscono che la costruzione di nuove carceri può avere l’effetto opposto a quello sperato: anziché risolvere il problema del sovraffollamento, può contribuire a una carcerarizzazione di massa. Le moderne politiche penali dovrebbero invece mirare a ridurre la dipendenza dal carcere, favorendo alternative penali e migliorando le condizioni di vita nelle carceri. Una riflessione approfondita su queste dinamiche è essenziale per garantire un sistema di giustizia penale equo ed efficace. Patrizio Gonnella: “Bene concedere più telefonate, ma sulle caserme si fa solo propaganda” di Eleonora Camilli La Stampa, 17 agosto 2023 Il presidente dell’associazione Antigone: “Servono misure alternative. La maggior parte dei reclusi ha problemi di dipendenze e psichiatrici”. Lo definisce un sistema fermo e malato dove “si sopravvive e spesso mal vive”. Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, tradisce la stanchezza nella voce nel dover ripetere ancora una volta, dopo anni, i problemi endemici al sistema carcere, primo fra tutti il sovraffollamento. E di una cosa è certo: “i problemi non si risolvono ampliando i posti nelle strutture” senza ripensare il sistema, che oggi è sempre più una “polveriera sociale”. Non la convince l’idea del ministro Nordio di utilizzare le caserme per svuotare le carceri? “L’idea delle caserme è pura propaganda, non c’è una visione, non c’è una strategia. Le misure sul carcere e sulla pena dovrebbero essere prese in nome della razionalità, non sulla scia dell’emotività”. Non lo creda fattibile? “Sono almeno trent’anni che mi occupo di carcere e sarà la decima volta che sento parlare di caserme. Nella pratica non è mai stato fatto per due ragioni: perché bisogna toglierle al ministero della Difesa e passarle alla Giustizia, ed è un percorso lungo. In secondo luogo, perché costa. Sono strutture semi abbandonate, quindi vanno risistemate e poi serve personale. Già le carceri ne sono carenti”. Quale dovrebbe essere la risposta? “Si deve intervenire prevedendo sanzioni diverse dal carcere per fatti di minore rilevanza e un reale sistema di misure alternative. Oggi la popolazione carceraria è composta in larga parte da persone che provengono dai settori più marginali della società. C’è chi ha problemi di dipendenza, chi ha una diagnosi psichica, ci sono migranti che vengono da percorsi molto complicati oppure persone che fanno parte di periferie urbane, dentro per reati di strada. Sono gli esclusi, quelli per cui il welfare non si è mai attivato. Si affida al carcere la risposta impossibile. Il sistema così pensato produce solo sofferenza, fatica e disperazione. E crea una grande polveriera sociale”. Il ministro Nordio ha fatto anche un’apertura su una richiesta che le associazioni facevano da tempo, cioè quella di aumentare le telefonate e i rapporti con il mondo esterno… “Ci auguriamo che si proceda velocemente e che le telefonate si liberalizzino. Le carceri vanno dotate di un maggior numero di apparecchi telefonici, così come fu fatto durante la pandemia. Una telefonata di dieci minuti a settimana, così come oggi è previsto, è una condanna all’anaffettività, alla solitudine e alla disperazione. In un momento difficile una telefonata può salvare una vita, cancellare un’ipotesi suicidaria. Bisogna farlo subito, si può fare a legislazione vigente”. Suicidi in carcere: un caso di scuola di Enrico Sbriglia* oralegalenews.it, 17 agosto 2023 Quanto di terribile è accaduto, nei giorni scorsi, presso la Casa Circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino, dove hanno trovato la morte due detenute, una pare suicidatasi, l’altra sembrerebbe deceduta, con la formula di rito, per “cause naturali”, ma che potrebbero essere riconducibili al fatto che rifiutasse, da diversi giorni, di alimentarsi, sono la dimostrazione plastica e drammatica che c’è più di qualcosa che non funzioni nel nostro sistema penitenziario. Come al solito, al cospetto di tali notizie, in tanti (oppure no ?!) ne rimarranno scandalizzati ed inizierà la liturgica ricerca delle responsabilità, seppure, poi, difficilmente si perverrà a incontrovertibili risultati: insomma, si tratta di un film già visto. Però la vicenda consente di ripercorrere dei tratti della mia vita trascorsa, allorquando operavo all’interno delle carceri, sempre che ciò possa in qualche modo essere d’utilità al fine di comprendere come, in realtà, sia complessa e difficile la vita non solo delle persone detenute, ma anche di quella “detenenti”. Numerose volte, infatti, mi sono imbattuto in situazioni analoghe, che mettevano in luce il meglio ed il peggio della istituzione penitenziaria, ed ho avuto, diciamolo, anche fortuna. Ma essa non era casuale, bensì il frutto di un lavorio collettivo tra tutti gli operatori penitenziari e quanti, del mondo della Sanità, riuscivo a coinvolgere, pure, semmai, usando modi non proprio diplomatici che contemplavano, in caso di indifferenza, la minaccia di segnalare quelle che sarebbero potute apparirmi delle eventuali omissioni, lasciando all’A.G. l’onere della valutazione concreta; ma anche con le diverse magistrature, inquirente, di cognizione, della sorveglianza, il lavorio era intenso e i rapporti costanti e, forse, in taluni casi, sarò perfino apparso tedioso, ma ogni prudenza era d’obbligo. Di fronte ad un atteggiamento di rifiuto serio di assumere il cibo da parte della persona detenuta, indicevo subito una riunione di servizio con il Comandante del Reparto, l’Educatore Coordinatore dell’area trattamentale, con lo psicologo dell’azienda sanitaria oppure con l’esperto psicologo del carcere con il quale c’era un rapporto di lavoro libero-professionale, con il medico incaricato che coordinava i servizi sanitari, coinvolgendo anche il Cappellano; alla riunione partecipavano pure il sottufficiale della polizia penitenziaria responsabile della sorveglianza dello specifico reparto, maschile o femminile che fosse e, se del caso, anche quegli agenti che sapevo fossero in grado più di altre di costruire una relazione con le persone ristrette. Partecipava anche il responsabile della matricola, al fine di aggiornarci sulla posizione giuridica complessiva. Il medico faceva il punto della situazione sul piano sanitario e sulla effettività di un rischio possibile da parte della persona detenuta che manifestava l’astensione dell’assunzione del cibo, se non anche di ogni liquido (circostanza questa solitamente più allarmante). È capitato, perciò, anche con le detenute. La persona ristretta, di default, veniva posta a grande sorveglianza; formula quest’ultima che, in verità, vuole dire tutto o niente, in quanto andava declinata in precisi e chiari adempimenti che il personale di polizia, ma anche gli altri operatori, avrebbero dovuto assicurare. Solitamente si escludeva la cosiddetta “sorveglianza a vista”, perché questo avrebbe significato di dover impiegare una unità di polizia che controllasse visivamente, senza alcuna soluzione di sorta, la persona ristretta, in quanto misura dispendiosa sul piano delle risorse umane da impegnare (in una giornata lavorativa “tipo”, avrebbe significato impiegare almeno 4 agenti, con turni individuali di sei ore ciascuno, e di dover anche disporre di un’altra poliziotta che effettuasse almeno “due cambi”, per consentire il tempo della consumazione del pasto e della cena alle colleghe che sorvegliassero a vista la detenuta, ma anche perché fosse alle stesse consentito di recarsi al bagno, ove ne avessero necessità). Comprenderete, quindi, come sarebbe risultato particolarmente esoso l’impiego di risorse umane per una sola persona ristretta. Nel corso della riunione si stabiliva l’avvio di tutta una serie di colloqui, tête-à-tête, degli operatori dell’area trattamentale con la donna, ancor di più ove la stessa manifestasse insofferenza a tenerli: essa sarebbe stata chiamata, fatta accomodare innanzi all’operatore e quest’ultimo le avrebbe parlato provando a stimolare delle reazioni, delle risposte. Ove invece non fosse stata in grado di muoversi, perché debilitata, sarebbero stati loro a recarsi presso di lei, ma comunque i colloqui dovevano essere svolti e occorreva vederla da vicino. I colloqui venivano tenuti anche dallo stesso Comandante di reparto e si aggiungevano a quelli, di tipo apparentemente informale, delle agenti in servizio nel reparto femminile. Tutte le attività venivano annotate, seppure in forma sintetica. Ogni giorno, e talvolta anche per più volte al giorno, la detenuta veniva visitata dal medico e ogni dato veniva riportato in cartella; veniva pesata e si registravano i valori pressori del sangue, nonché le si chiedeva il consenso per sottoporsi a dei prelievi ematici; veniva effettuato anche l’esame delle urine: faccio notare che sia la misurazione della pressione che l’esame delle urine non costituivano atti invasivi, come ad esempio il prelievo ematico, ma dando vita ad un rapporto dialogico, si riusciva ad ottenere di regola anche quell’accordo. Pure io effettuavo numerosi e lunghi colloqui con la ristretta, idem il cappellano che coinvolgevo, il quale, semmai, avrebbe chiesto l’aiuto di altro ministro di culto nel caso che la donna non fosse cristiana: anche tra i rappresentanti delle diverse sensibilità religiose, infatti, si instaurano sentimenti di solidarietà e di reciproco aiuto. I colloqui non dovevano per forza vertere sul suo rifiuto ad alimentarsi, ma potevano spaziare su tante altre cose, non necessariamente afferenti le vicende penali e processuali, anzi, era preferibile semmai solo sfiorarle, per far sì che fosse semmai la detenuta a parlarne; in tal modo si cercava di addentrarsi “nella sua storia” e farle comprendere che per noi lei non era “invisibile”, che la vedevamo. La nostra attenzione e l’insistenza non erano dettate da una volontà “missionaria” (seppure questa, francamente, non sarebbe cosa cattiva e rientrerebbe, cum grano salis, nella mission istituzionale), bensì da bisogni concreti e pratici di natura amministrativa, onde non minacciare la già difficile organizzazione del lavoro penitenziario, favorendo ulteriori criticità il cui esito sarebbe stato sempre una incognita. Seguendo tutti i giorni la persona detenuta, si riusciva, tra l’altro, a comprendere se ci si trovasse di fronte ad una artata postura, per quanto comunque capace di recare danni psico-fisici anche irreversibili alla stessa. Inoltre si sarebbero potuto cogliere informazioni utili anche al fine di una eventuale riflessione sulla sua storia, processuale e penale. Per questo motivo, informavamo puntualmente l’Autorità Giudiziaria competente. Era un lavoro difficile, di cesello, ma certamente molto più facile d’affrontare rispetto alle conseguenze negative che sarebbero potute derivare ove non l’avessimo fatto. Il medico, infatti, piano piano, cercava di convincerla ad assumere almeno degli integratori e dei farmaci che non la ponessero in una situazione di maggiore pericolo, e tutti gli operatori provavano a farle sentire una vicinanza umana. Bontà? Mah, in verità anche freddo calcolo: se le condizioni della detenuta, infatti, fossero peggiorate, sarebbe stato necessario disporne l’invio in ospedale, il che significava una ulteriore emorragia di personale di sorveglianza, in quanto almeno due dovevano essere le unità da impiegare in ogni turno di servizio di sei ore, quindi una giornata tipo avrebbe impegnato almeno otto unità, al fine di coprire i quattro turni di servizio, più un’altra unità sarebbe dovuta essere disponibile per i cosiddetti “cambi”, per consentire agli agenti turnisti la consumazione dei pasti. Inoltre occorreva assicurare l’accompagnamento in ospedale con il furgone attrezzato o con l’ambulanza, pure scortata dalla polizia penitenziaria, quindi altro personale da impegnare, in una situazione contrassegnata sempre da gravissime carenze di personale all’interno del carcere, aggravate durante i periodi delle festività e nelle domeniche. Emorragia vera di uomini e donne del Corpo della Polizia Penitenziaria, seppure di sangue lavorativo. E se poi la persona detenuta fosse morta in carcere, ulteriori faticose e frenetiche attività avrebbero dovuto essere espletate, mettendo in conto che poi ci sarebbe stata certamente un’ispezione amministrativa, che avrebbe impegnato la direzione ed il comando, nonché tutti gli altri uffici, per altri giorni, con audizioni, verbalizzazioni, ricognizioni, tensioni, etc. etc., distraendo ulteriormente le poche risorse umane disponibili. Insomma, francamente, era più utile e comodo, oltre che professionalmente dovuto, fare il tutto possibile perché la situazione non sfuggisse di mano in modo drammatico. Anche le autorità giudiziarie lo comprendevano e non era raro che gli stessi magistrati venissero a parlare con la detenuta, sia per aiutarci che per accertare personalmente come le cose stessero realmente. È evidente che, in quei frangenti, non ci rendevamo conto se le nostre giornate fossero quelle festive o meno, se le ore di lavoro fossero diurne o serali, ma andava fatto, per stare tutti più tranquilli, o meglio per soffrire di meno. Questo modo di lavorare, assolutamente non straordinario, ma “di necessità virtù”, posso dire che ha funzionato per davvero, seppure poteva essere estenuante e non compreso da tanti, perfino da mia moglie e dai miei figli, che non accettavano l’idea che sacrificassi il mio tempo per cercare di convincere una persona detenuta a desistere dal prosieguo di una protesta che, altrimenti, nessuno avrebbe sentito o capito. Lavorando così, io ed i miei collaboratori, abbiamo, in verità, evitato tante grane, ed oggi posso parlarne tirando un sospiro di sollievo che fa bene anche alla mia coscienza, tornando ad esprimere riconoscenza verso quelle donne e quegli uomini con i quali ho lavorato a lungo. In tutti gli anni in cui ho operato come direttore penitenziario, in un carcere letteralmente di frontiera, che prima di altri aveva conosciuto i fenomeni migratori, l’esodo di donne e uomini fuggiti da paesi in guerra, oppure perché v’erano teocrazie o regimi illiberali, in un carcere che era una sorta di melting-pot di religioni, colori della pelle, costumi e lingue, pochissimi sono stati i casi in cui la situazione ci è sfuggita di mano e una sola detenuta si è suicidata con modalità tali che sorpresero tutti gli operatori. Era una donna bellissima, di origine slava, accusata di avere tentato di uccidere le figlie minorenni impiegando delle forbici; dietro quell’azione tremenda c’era una storia di famiglia dai contorni opachi dove sia la donna, separata e convivente con un altro uomo, che le figliole ne erano probabilmente anche vittime. La donna chiese di fare una doccia, e fu accontentata, dopodiché chiese che l’agente di turno le offrisse una sigaretta che accese quest’ultima, in quanto alla detenuta non era stato consentito, per motivi precauzionali, di avere con sé l’accendino. Il blindato era chiuso, l’agente controllava di tanto in tanto la detenuta dallo spioncino, scambiando qualche parola di cortesia; la donna sembrava finalmente tranquilla…trascorsero altri minuti e si sentì il rumore di uno sgabello che cadeva per terra, l’agente aprì lo spioncino e la vide appesa alla cassetta dello scarico del water (all’epoca erano esterni ed in alto, non incassati a filo sul muro), la donna per uccidersi aveva impiegato uno dei pochi indumenti che le avevano consentito di tenere, il collant, stringendoselo al collo e annodando il capo dell’indumento allo scarico, salendo sullo sgabello in dotazione che poi aveva fatto cadere. Il collant è micidiale, diventa una sorta di filo tagliente e resistente che strozza e penetra anche l’epidermide del collo della malcapitata. Le agenti mi avvertirono immediatamente, mentre stavo trattando una questione con il Comandante. Entrambi ci precipitammo nella sezione femminile, al terzo piano, salendo le scale di corsa, mentre attendevamo i soccorsi del 118; la donna perdeva sangue dalla bocca e ciononostante il Comandante provò a farle la respirazione bocca a bocca senza neanche utilizzare un fazzoletto o una garza, ma la donna spirò ugualmente. Nei giorni successivi facemmo un de-briefing cercando di capire perché non fossimo stati in grado di captare la disperazione di quella donna i cui segnali di disagio non eravamo riusciti a comprendere: l’abluzione alla quale si era sottoposta aveva quasi un significato simbolico, forse voleva mettere a disposizione di chi l’avrebbe ricomposta un corpo pulito, le donne, si sa, ci tengono; il fumare la sigaretta era stato il suo ultimo momento di coinvolgimento con le cose della vita. Non lasciò alcun messaggio. Grande fu la commozione tra tutte le agenti, molte di loro madri e capaci di capire l’indicibile. *Presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste - Penitenziarista Uso improprio della forza e boom di suicidi: le carceri italiane sono sempre peggio di Stefano Baudino lindipendente.online, 17 agosto 2023 Due gravi episodi hanno riacceso la luce sulla drammatica situazione che, ogni anno di più, si vive all’interno delle carceri italiane. L’ultimo riguarda il contenuto di una circolare inviata dal Provveditore dell’amministrazione penitenziaria lombarda, Maria Milano, ai direttori delle case circondariali della regione, in cui si afferma che nelle carceri della Lombardia sarebbe “emerso un uso improprio dei mezzi di coercizione fisica”, in particolare attraverso l’indebito utilizzo di “manette” all’interno delle varie sezioni. A precederlo di pochi giorni è invece la notizia della tragica dipartita di due detenute che si sono tolte la vita a poche ore di distanza nel carcere torinese Lorusso-Cutugno: una si è lasciata morire di fame e di sete, l’altra si è impiccata nella sua cella. E sono solo gli ultimi tasselli di una catastrofe che parte da molto lontano. L’eloquente nota emessa dal Provveditorato lombardo è stata diffusa ieri. “Dalla lettura di eventi critici recentemente occorsi - si legge nel documento - è emerso, in talune circostanze, un utilizzo improprio dei mezzi di coercizione fisica. In particolare, è stato rilevato l’uso delle manette all’interno delle sezioni detentive per contenere gli agiti auto ed etero aggressivi posti in essere dai detenuti”. In merito a quest’aspetto, prosegue il comunicato, “si osserva che l’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario, che detta i principi generali e disciplina limiti e condizioni dell’uso della forza e dei mezzi di coercizione fisica, demanda al regolamento di esecuzione la previsione di ulteriori strumenti ai quali, comunque, non si può fare ricorso a fini disciplinari ma solo al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire l’incolumità dello stesso soggetto. L’uso deve essere limitato al tempo strettamente necessario e deve essere costantemente controllato dal sanitario”. I decessi delle due detenute tra le mura dell’istituto penitenziario Lorusso-Cotugno risalgono invece allo scorso 11 agosto. La prima, la 42enne nigeriana Susan John, aveva fatto il suo ingresso in carcere il 22 luglio dopo una condanna a 10 anni per gravi reati (tratta degli esseri umani e induzione alla prostituzione). Da quando aveva messo piede in galera si era rifiutata di mangiare, bere e sottoporsi a controlli e cure mediche. Diceva di essere stata condannata ingiustamente e chiedeva di vedere la figlia piccola che, dopo l’arresto, era rimasta a casa con il marito. Gli agenti della polizia penitenziaria hanno rinvenuto il suo corpo attorno alle tre del mattino. Poche ore dopo, è stata trovata morta un’altra donna, la 28enne ligure Azzurra Campari, che si è impiccata con un lenzuolo. Sulla base dei primi accertamenti, la donna aveva problemi che erano stati segnalati agli operatori: per questo era stata sottoposta inizialmente a un alto livello di sorveglianza, per poi passare a un livello medio con una compagna di cella, che non era presente nello spazio comune quando Azzurra ha messo in atto il gesto estremo. Mirko Campari, il fratello della donna, negli scorsi giorni è intervenuto con un post Facebook attaccando le fantasiose ricostruzioni di alcune testate giornalistiche, che trattando la notizia avevano erroneamente inquadrato la donna come “tossicodipendente” e diramato informazioni errate sugli ultimi colloqui che avrebbe avuto con sua madre, della quale sarebbero stati pubblicati virgolettati contenenti frasi in realtà mai proferite. Nella sezione femminile del carcere di Torino sono recluse 110 donne, anche se i posti a disposizione sono circa 80. Qui, lo scorso 29 giugno, si era già uccisa un’altra donna di 52 anni, peraltro a pochi giorni dalla scarcerazione. La situazione legata al numero di suicidi in carcere è pesantissima: ad oggi, infatti, nel solo 2023 si sono tolti la vita 47 detenuti (circa uno ogni cinque giorni). L’ultimo in ordine di tempo è quello di uomo di 44 anni, originario di Lamezia Terme e recluso per reati connessi al traffico di stupefacenti, che sabato scorso si è ucciso impiccandosi all’interno della sua cella della Casa di Reclusione di Rossano. Nel 2022, negli istituti penitenziari italiani si sono suicidati in totale 84 prigionieri, mentre 1078 tentati suicidi sono stati sventati dall’intervento della polizia penitenziaria. A far risuonare un ulteriore campanello d’allarme sulla situazione di degrado vissuta all’interno delle carceri è anche un altro dato emblematico: nel corso di undici anni, dal 2011 al 2022, in Italia si sono registrati anche 78 suicidi tra le guardie carcerarie. In particolare, nel 2013 e nel 2019, le morti sono state 11. Tornando allo stato delle carceri, i dati ci dicono che attualmente sono 189 gli istituti penitenziari in funzione, la maggior parte dei quali è stato costruito prima del 1950. Si tratta, dunque, di strutture piuttosto vecchie, che molto spesso non presentano i requisiti adeguati richiesti dall’Ordinamento penitenziario e che necessiterebbero di ristrutturazione e adeguamento alle norme. Secondo i dati dell’Ufficio statistico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), il tasso medio di affollamento ufficiale nelle carceri italiane è del 107,4%: la situazione più difficile si ha in Puglia, dove arriva al 134,5%, e in Lombardia, in cui si attesta al 129,9%. Inoltre, sul totale delle celle visitate dall’associazione Antigone, il 20% non è dotato di riscaldamento e nel 36% non è garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno. Ampliando i confini delle criticità evidenziate dal Provveditorato, appare poi significativo riflettere su come, nonostante negli ultimi anni siano emerse numerosissime inchieste (poi sfociate sovente in processi e anche in pesanti condanne) sui presunti abusi, violenze e torture perpetrati da esponenti delle forze dell’ordine nei confronti dei detenuti delle carceri dello stivale, Fratelli d’Italia - principale azionista di governo - ha recentemente fatto pervenire in Commissione Giustizia del Senato la proposta di legge per l’abrogazione del reato di tortura e la sua derubricazione ad aggravante comune. Nello specifico, il reato - presente in più di 100 Paesi del mondo e introdotto nell’ordinamento dall’Italia, con grande ritardo, solo nel 2017 -, riguarda “chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”. A fronte di una situazione sempre più tragica, appare palese il senso di disorientamento del governo, che scandisce la sua comunicazione politica alternando in maniera quasi aritmetica aperture garantiste (quasi sempre all’indirizzo di colletti bianchi e detenuti d’élite), tra cui spicca l’annuncio del ritorno alla prescrizione pre-Bonafede, ed esternazioni in difesa della certezza della pena, in particolare attraverso il niet alle proposte di un maggiore utilizzo delle pene alternative come semilibertà o detenzione domiciliare. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha reagito ai suicidi ravvicinati avvenuti a Torino con vari proclami, affermando che interverrà per garantire ai detenuti più colloqui telefonici con i familiari e la ristrutturazione “entro tempi ragionevoli” di caserme dismesse per accogliere detenuti e nuovo personale. Un progetto estremamente complicato, sia per l’iter burocratico (gran parte delle strutture sono in dotazione al Ministero della Difesa e dovrebbero passare, attraverso il Demanio, al Ministero della Giustizia, e molti immobili dismessi sono già stati assegnati) che per le tempistiche previste, tutt’altro che rapide, come dimostrano i rari casi di “riconversioni” avvenute negli ultimi decenni. Nel frattempo, dietro le sbarre, l’inferno continua. Le vacanze di alcuni, la sofferenza di altri di Carla Forcolin Ristretti Orizzonti, 17 agosto 2023 Agosto, tempo di vacanze, in carcere tempo di suicidi. La già precaria situazione dei detenuti/e si aggrava, perché, mentre aumentano le detenzioni, causate dai furti negli appartamenti vuoti, diminuiscono gli operatori di giustizia a tutti i livelli, essendo gli stessi (giustamente) in vacanza. Per tutta l’estate l’incertezza dei detenuti circa la loro situazione personale, le lunghissime attese per sapere se si potrà avere una visita, un permesso, una telefonata, un briciolo d’attenzione, aumentano e l’incertezza logora. Non a caso il maggior numero di suicidi avviene nelle Case Circondariali, dove raramente c’è qualcosa di definitivo da poter accettare. In questo contesto, che di per sé andrebbe approfondito, ma non ne è questa la sede, collochiamo i due suicidi delle detenute Susan Jhon e Azzurra Camper, che voglio chiamare per nome, perché, ne sono certa, si sono suicidate anche perché di loro si parlasse. È incredibile che una donna sia morta di fame e di sete senza che nessuno avvertisse la direttrice dell’istituto di pena della sua situazione. Non credo che questa invisibilità di alcune detenute sia dovuta al sovraffollamento. Se in carcere finisce una ragazzo/a di buona famiglia, ci si preoccupa che sia assistito/a, che possa studiare, che i suoi diritti siano rispettati. Non è la stessa cosa per donne e uomini provenienti da famiglia povere o straniere, protette da avvocati d’ufficio che a mala pena le/li conoscono, che non si sanno esprimere. Eppure perfino gli/le ultimi/e tra gli ultimi hanno dei genitori e talora dei figli, sono delle persone e, come tali, vanno considerate. Dovrebbe essere ovvio, ma non è così. La questione è culturale e non si tratta solo di sovraffollamento. Se partiamo dall’idea che i detenuti maschi e le detenute femmine sono delle persone, e non una sottospecie di esseri umani, cioè “i delinquenti”, allora capiamo immediatamente che essi hanno bisogno delle stesse cose di cui abbiamo bisogno noi tutti: affetti e lavoro o studio. La considerazione della realtà di ciascuno di loro è alla base di qualsiasi forma di educazione o rieducazione. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che “ci veda” e a volte chi è in detenzione è “salvato” da un agente umano, da un volontario disponibile, da un’amicizia nata in cella, da un corso di teatro, dalla visita di una persona cara. Ovvio? No, se si dà più spazio in molti giornali alla visita del Ministro e alle sue esternazioni “a caldo” anziché alla narrazione delle vite di Susan Jhon e di Azzurra Camper, vite non inusuali tra le mura del carcere e che dovrebbero far pensare tutti noi all’integrazione di chi nasce svantaggiato, anziché ai luoghi dove gli svantaggiati potranno essere contenuti. Prevenire e curare quindi e in merito non posso che ricordare che le detenute hanno dei figli, che talora possono crescere in carcere o in Icam (istituto a custodia attenuate per madri) fino a sei anni e per i quali non è stato ancora deciso per legge che debbano frequentare l’asilo nido e la scuola materna. Come passeranno Ferragosto questi bambini? Oltre a pensare a diminuire il sovraffollamento delle carceri, utilizzando le caserme, si pensi per favore anche a questo genere di cose, che si risolvono con minor spesa e migliori risultati. Piano carceri. Sdr, detenuti non sono soprammobili da collocare in altre strutture Ristretti Orizzonti, 17 agosto 2023 Se si ha paura dell’amnistia si riducano subito presenza anziani, malati mente e tossicodipendenti. Sardegna ai vertici nazionali per detenuti geriatrici. “Se la concessione di un’amnistia e/o di un indulto fa paura, prima di pensare a Caserme dismesse, dove collocare come soprammobili detenute e detenuti, il Guardasigilli Carlo Nordio e il Capo del Dipartimento si preoccupino di alleggerire le carceri dalla presenza di persone anziane, malate di mente e/o affette da tossicodipendenze”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme ODV. “Per le persone private della libertà non servono Caserme ma strutture adeguate con personale psico-educativo ed esperto in psichiatria e tossicologia. Il ricorso alle Caserme non sembra invece una soluzione”. “La Sardegna, in particolare, si colloca al secondo posto in Italia per il numero di persone private della libertà che hanno superato i 70 anni rispetto a quelle detenute. Gli anziani rappresentano infatti il 3,32% (68 su 2047 reclusi). Al primo posto con il 3,42% c’è l’Abruzzo (63 su 1840). Il dato appare ancora più significativo se si considera che la percentuale nazionale è del 2,02%. Le rispettive percentuali dell’indice di anzianità nelle nostre carceri aumenta se si prende in considerazione la fascia d’età 60/69 anni. Per l’Abruzzo è pari al 13,8% e per la Sardegna all’11,8% mentre a livello nazionale è l’8,1%”. I dati diffusi dalla sezione statistica dell’Ufficio del Capo del Dipartimento che fotografa la situazione al 30 giugno scorso non sono equivocabili. Occorrono interventi significativi e non chiacchiere”. “Manca il dato per ciascun Istituto di Pena - osserva - ma non è difficile considerare che una presenza importante di anziani è riscontrabile nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta, dove si trova il SAI (Servizio Assistenza Intensiva) con addirittura una persona di 89 anni. L’età avanzata riguarda anche i detenuti dell’alta sicurezza, specialmente gli ergastolani come a Oristano Massama. L’altro dato su cui riflettere riguarda un’altra fetta importante di persone detenute. Ammonta al 3,66% (75 unità) la percentuale di giovani tra 18 e 24 anni. Un dato preoccupante perché spesso fotografa persone con problematiche legate a disagio socio-economico, tossicodipendenze e disturbi della sfera psichica dovuti a sostanze d’abuso” “Anziché fantasticare su Caserme dismesse i vertici del Ministero della Giustizia valutino meglio i dati e considerino anche la realtà della detenzione femminile. In Sardegna un numero irrisorio di donne (42) che potrebbero scontare la pena in modo alternativo. Duole infine ricordare che la struttura dell’ICAM (Istituto a custodia attenuata per Madri detenute) a Senorbi, mai aperta, può essere utilizzata, con pochi interventi di adeguamento, per accogliere pazienti psichiatrici. Il vero problema - conclude l’esponente di SDR - è che il sistema carcerocentrico fa comodo a tutti. Superare questa visione comporta un approccio coraggioso che purtroppo non appare all’orizzonte”. Prescrizione, l’ipotesi Nordio fa infuriare Forza Italia: “Non siamo passacarte” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 agosto 2023 Il ministro starebbe pensando di far decorrere la prescrizione dalla scoperta del reato. Pittalis: “Assolutamente contrario”. Far decorrere l’orologio della prescrizione dal momento in cui il reato viene scoperto, e non, come avviene adesso, da quando viene commesso: sarebbe questa la riforma che ha in mente il ministro della Giustizia Carlo Nordio, come ha rivelato Liana Milella su Repubblica. Abbiamo raccolto un po’ di opinioni e non sono affatto positive. Per il deputato di Forza Italia Pietro Pittalis, vice presidente della Commissione Giustizia, e sottoscrittore di una delle tre pdl in materia insieme a quelle di Ciro Maschio (FdI) e Costa (Azione) è “difficile commentare ipotesi per ora solo giornalistiche, senza un testo scritto. Se fosse confermato quanto trapelato, voglio però essere chiaro: qualora il ministro Nordio volesse fare qualche proposta, essa dovrebbe arrivare in Commissione Giustizia della Camera dove abbiamo già esaurito le audizioni in materia e dal 6 settembre inizieremo ad esaminare il testo base. Riguardo al merito della proposta che il Guardasigilli starebbe elaborando, anticipo che per quanto mi riguarda - e parlo anche a nome dei colleghi di Fi in Commissione - sono assolutamente contrario che la prescrizione si faccia decorrere dalla scoperta del reato e non credo che simile prospettiva possa proprio essere portata al vaglio di noi commissari. Riteniamo più che legittima la preoccupazione avanzata dall’avvocatura italiana”. Ricordiamo che alla Camera la Commissione aveva già fatto una istruttoria su abuso di ufficio e traffico di influenza, tuttavia Nordio ha deciso di incardinare la riforma al Senato: “Le leggi non le scrivono i burocrati del ministero della Giustizia ma il Parlamento. Quindi occorre un maggior coordinamento tra via Arenula e la Commissione. Non si può fare un lavoro di audizioni e di esame e poi assistere a quello che ricordava lei. Questo metodo non si deve ripetere e lo diciamo chiaramente al ministro: non siamo dei passacarte in Commissione Giustizia”. Secondo la vice presidente del Senato, la dem Anna Rossomando, “oggi se parliamo di giustizia in Italia le prime emergenze riguardano la carenza di organico dei magistrati e le carceri che esplodono, a cui si aggiungono le carenze strutturali e la necessaria messa a terra delle riforme già approvate. In questo contesto cosa fa il ministro Nordio? Si focalizza sulla prescrizione, ambito in cui sono state approvate recentissimamente nuove norme, con gli uffici che stanno ultimando il lavoro per il proprio adeguamento. Chiediamo al ministro far funzionare la macchina della giustizia, non di bloccarla per una bandierina da sventolare. Dopodiché se arriveranno proposte concrete, le verificheremo. Per ora siamo al pourparler”. Infine per l’avvocato Giovanna Ollà, segretario del Cnf, “è sicuramente necessario intervenire sul tema della prescrizione vista la confusione normativa che ha interessato l’istituto a far data dalla legge Cirielli fino al concetto di improcedibilità introdotto dalla riforma Cartabia che, se non altro, ha avuto il pregio di superare la revisione normativa Bonafede che di fatto aveva segnato l’arresto della prescrizione al giudizio di primo grado. L’ipotesi prospettata, se veritiera, non può trovare accoglienza in un sistema processuale che contempla il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Nella prospettiva ipotizzata lo stesso concetto di durata resterebbe ancorato ad un dato non certo, come la scoperta del reato, ovvero ad un dato investigativo variabile inevitabilmente anche in dipendenza della tipologia di reato e della stessa struttura organizzativa degli uffici di procura”. Per il presidente dell’Unione Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, “la prescrizione sostanziale con decorrenza solo dalla scoperta del reato è un autentico obbrobrio. Con questa soluzione viene meno il senso stesso dell’istituto della prescrizione, legato al progressivo venir meno, con il trascorrere del tempo, dell’interesse punitivo dello Stato. Inoltre, affideremmo all’Ufficio del pm una sostanziale discrezionalità nella determinazione del termine iniziale di decorrenza della prescrizione. Mi auguro si tratti di una notizia del tutto infondata. Diversamente, i penalisti italiani impegnerebbero tutte le proprie energie per combattere questa assurda e pericolosa idea di riforma, la cui paternità politica andrebbe dichiarata senza infingimenti, in modo che ne siano chiare le responsabilità”. Per Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm: “Si chiede alla giurisprudenza prevedibilità nelle decisioni, ma senza una stabilità delle leggi essa non può essere assicurata. Dal 2017 al 2023 la prescrizione non ha pace: se si intervenisse di nuovo, ci troveremmo dinanzi ad un groviglio di norme che creeranno disorganizzazione e inefficienza del sistema”. Nel merito della proposta, “quella di far decorrere la prescrizione dal momento in cui il reato viene scoperto è una novità quindi non posso esprimere una posizione per l’Anm, che la valuterà nel prossimo Cdc di settembre se verranno confermate le notizie giornalistiche. A titolo personale posso dire che si tratta di una indicazione di cui capisco e condivido la ratio, ossia assicurare al processo un tempo ragionevole per il suo svolgimento. Però devo anche dire che la prescrizione risponde anche ad altro fine, ossia al tempo dell’oblio: se da quando è stato commesso un reato decorre un tempo troppo lungo non c’è più interesse sociale alla punizione, altresì perché la persona dopo molti anni può essere cambiata e non essere più la stessa che ha commesso il reato. Siamo dunque in presenza di due esigenze diverse, le quali vanno tenute entrambe in considerazione, non l’una a sacrificio dell’altra. Ridurre la prescrizione solo a quella processuale non mi sembra una soluzione di sistema”. Le azioni disciplinari riaccendono lo scontro fra Nordio e le toghe di Ermes Antonucci Il Foglio, 17 agosto 2023 I procedimenti aperti a carico dei magistrati fiorentini e torinesi alimentano le tensioni tra governo e giudici. La corrente di sinistra Area: “Nordio intimidisce i magistrati impegnati in indagini che riguardano i potenti”. Si prospettano settimane movimentate sul fronte della giustizia. Ad alimentare le tensioni tra politica e magistratura non sono soltanto i progetti di riforma proposti dal ministro Nordio, ma anche le vicende che vedono diverse toghe al centro di procedimenti disciplinari. Il caso più noto è quello che coinvolge i due pubblici ministeri di Firenze, Luca Turco e Antonino Nastasi, autori delle indagini contro Matteo Renzi sull’ex fondazione Open. Secondo le verifiche effettuate dagli ispettori di Via Arenula, i due pm si sarebbero resi responsabili di illeciti disciplinari dovuti a “grave violazione di legge determinata da ignoranza grave e inescusabile”, in particolare per aver trattenuto copia dei documenti sequestrati sui dispositivi di uno degli indagati, Marco Carrai, nonostante la Cassazione, annullando i sequestri, avesse ordinato di distruggerli. Una di queste copie venne addirittura trasmessa dai pm al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. La notizia è arrivata pochi giorni dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima l’acquisizione delle e-mail e delle chat di Renzi effettuata da Turco e Nastasi, senza chiedere l’autorizzazione al Parlamento. Spetterà alla procura generale della Cassazione, retta da Luigi Salvato, decidere se inviare i due magistrati davanti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. La stessa valutazione dovrà essere effettuata dal pg della Cassazione nei confronti di altre due toghe, stavolta torinesi: il pm Gianfranco Colace e la giudice Lucia Minutella. In questo caso, come raccontato su queste pagine un anno fa, il malcapitato è l’ex senatore Stefano Esposito, intercettato oltre 500 volte, dal 2015 al 2018, cioè per tre anni durante il suo mandato parlamentare, senza la necessaria autorizzazione del Senato. Le intercettazioni vennero realizzate indirettamente, nei confronti di un imprenditore amico di vecchia data del senatore, nell’ambito di un’indagine denominata “Bigliettopoli”. Nonostante Esposito già dopo sole tre settimane fosse stato identificato come interlocutore abituale dell’imprenditore, sia il pm che il gup ignorarono le prerogative riconosciute dalla Costituzione ai senatori. A marzo dell’anno scorso, così, Esposito è stato rinviato a giudizio per corruzione e turbativa d’asta insieme ad altre diciotto persone, sulla base di circa 130 intercettazioni ottenute senza l’autorizzazione del Parlamento. È notizia di questi giorni che la procura generale della Cassazione ha aperto un procedimento disciplinare nei confronti dei due magistrati torinesi. Già solo queste due vicende sono bastate a riaccendere le tensioni tra politica e magistratura. In una nota la giunta toscana dell’Associazione nazionale magistrati ha definito la scelta di Nordio di esercitare l’azione disciplinare contro Turco e Nastasi “un’ulteriore dimostrazione del disegno di discredito e delegittimazione da tempo in atto contro la magistratura”. “L’iniziativa in questione”, ha sostenuto l’Anm toscana, “viene in essere a coronamento di articolata campagna mediatica caratterizzata da attacchi diretti alla professionalità e correttezza dei singoli magistrati titolari dell’indagine, i quali, evitando ogni esposizione mediatica, sostengono le ragioni dell’accusa, e lo fanno unicamente nel processo”. Ieri anche Area, la corrente delle toghe di sinistra, è intervenuta contro il Guardasigilli, sostenendo che le iniziative disciplinari sono finalizzate a intimidire i magistrati. “Ancora una volta il ministro intimidisce i magistrati che si azzardano ad esercitare le proprie prerogative anche in indagini o in processi scomodi che riguardano condotte dei potenti”, ha affermato Area utilizzando un linguaggio paragrillino. Come se esercitare una legittima prerogativa prevista dalla Costituzione, come ha fatto Nordio, costituisse di per sé un affronto alle toghe. Come se le due vicende oggetto dell’azione disciplinare non meritassero di essere chiarite, innanzitutto proprio a tutela del prestigio della magistratura. La magistratura si considera padrona della giurisdizione nel silenzio della politica di Giorgio Spangher Il Dubbio, 17 agosto 2023 Anche in questi primi giorni di agosto non sono mancate le occasioni di riflessione e confronto in materia di giustizia penale. Tra queste, tre sembrano suscettibili di qualche riflessione di ampio respiro. La prima si ricollega al decreto-legge numero 105 con il quale il Governo ha esteso la disciplina speciale delle intercettazioni dei reati di criminalità organizzata ad ulteriori fattispecie di reato, nonché alle situazioni aggravate dal metodo mafioso e terroristico, la seconda alla sentenza della Corte Costituzionale (170/ 2023) relativa al conflitto di attribuzioni tra il Senato della Repubblica e la Procura fiorentina relativamente al sequestro di conversazioni disposte sullo smartphone di un imprenditore che aveva colloquiato con un componente del Senato. Pur trattandosi di situazioni differenziate è possibile una riflessione comune. Invero l’intervento di urgenza che ha motivato il recente decreto ha origine dalla segnalazione da parte della Procura Nazionale Antimafia legata ad una interpretazione, peraltro consolidata, della giurisprudenza di Cassazione, assunta anche a Sezioni Unite. Il riferimento, più specificatamente, si indirizza alle possibili valutazioni sulla natura soggettiva o oggettiva dell’aggravante di cui all’art. 7 dl 152/ 1992, trasfusa nell’art 416 bis 1 cp, con il conseguente timore che una interpretazione rigorosa dell’attività posta in essere dal partecipe possa determinare l’invalidità delle relative decisioni maturate in sede di merito. Al di là di altre situazioni nella dinamica di Governo (Ministro della Giustizia, Presidenza del Consiglio), la politica ha immediatamente dato corso a queste richieste di intervento, a prescindere dal fatto che la modifica possa cogliere nel segno. Già in precedenza, a fronte di interpretazioni rigorose della Cassazione (vedasi le Sezioni Unite Cavallo) il legislatore era immediatamente intervenuto adeguando la disciplina dell’art. 270 cpp (utilizzazione delle intercettazioni disposte in altri procedimenti) ma altri esempi, anche meno recenti, potrebbero essere fatti (vedi vicende Carnevale: timbro a secco e dei termini). Pur sottolineando che i riferimenti sono spesso legati direttamente o indirettamente - si pensi, ad esempio, alla ostilità sulla riforma dell’abuso di ufficio, considerato quale reato spia - al fenomeno della criminalità organizzata va sottolineato come la classe politica dia alle sollecitazioni delle procure una risposta immediata. Di tutt’altro segno, anzi opposto, è quello legato alla sentenza della Corte Costituzionale con la quale i giudici della Consulta hanno affermato che le comunicazioni WhatsApp non sono documenti - come ritenuto costantemente dalla giurisprudenza - ma corrispondenza, con tutte le conseguenze che ciò determina sia per i membri del Parlamento ma anche per tutti gli imputati. Ora, è sicuramente corretto affermare che ai sensi della Costituzione spetta alla magistratura l’interpretazione della legge. È altresì noto che la magistratura si consideri proprietaria della giurisdizione, sicché non manca di individuare prassi e letture normative, in modalità creativa, ritenendo di farsi interprete degli obiettivi di funzionalità del sistema per un più sicuro accertamento dei reati. Molto spesso le letture confliggono con quanto è corrispondente alla legge secondo la ricostruzione che ne fa la dottrina, anche in linea con le previsioni costituzionali e sovranazionali. Dinanzi a questa situazione, a più riprese evidenziata nei commenti alle decisioni del supremo collegio, la politica resta del tutto silente. Solo a seguito delle decisioni della Corte Costituzionale (ultimo caso è quello riferito), della Corte di Giustizia (come nel caso dei tabulati ancorché relative ad altri Stati) o della Cedu il legislatore è costretto ad intervenire correggendo in qualche modo la normativa, ovvero la giurisprudenza (sempre, peraltro, con interpretazioni restrittive) deve adeguarsi. Il problema è costituito dal fatto che “medio tempore” (quasi sempre decenni, nel caso dei tabulati un ventennio e mancano ancora le garanzie sulla geolocalizzazione) gli imputati sono privati di un altro standing di garanzia perché come è noto il nostro sistema mette nelle mani dei magistrati l’accesso a due di questi strumenti di garanzia e per il ricorso alla Cedu è necessario esaurire interamente il percorso giudiziario. La politica così attenta alle ragioni di accertamento dovrebbe dimostrare una maggiore sensibilità per il rispetto delle garanzie imposte dalla Costituzione e dalla disciplina internazionale sovraordinata. La terza riflessione è suggerita dall’intervento di Edmondo Bruti Liberati su questo giornale, dove viene affrontato l’argomento dell’etica pubblica, dell’informazione giudiziaria e della giustizia penale. La questione del rapporto tra responsabilità penale e responsabilità politica è complessa e richiederebbe un’analisi molto articolata della realtà storica, sociale culturale, religiosa e politica di un Paese, anche perché tutto ciò condiziona fortemente i temi di cui si parla: coesione sociale e condivisione del sistema istituzionale. Del resto, gli stessi riferimenti ad altri Stati da parte di Bruti Liberati, in primis gli Stati Uniti, sembrano datati (il fenomeno del trumpismo segnerà fortemente la storia di quel Paese) e non trasferibili alle situazioni italiane della stampa, che risente di impostazioni ideologiche se non addirittura partitiche (non vedo premi Pulitzer tra i nostri giornalisti) - e della politica (le modalità della convalida della elezione di George W. Bush contro Al Gore, del tutto improponibili nelle dinamiche italiane). Venendo non senza molte semplificazioni al nostro Paese, deve affermarsi che, considerata la sua struttura sociale e culturale, frutto della sua evoluzione storica e la sua conseguente articolazione politica, il tema della eticità è stato da tempo ritenuto marginale essendo stato sostituito dalla contrapposizione partitica destinata ad alterare gli equilibri politici tra le forze in campo, soprattutto tra quelle di maggioranza e di Governo (stante la collocazione internazionale del nostro Paese). Il riferimento va anche alle commissioni di indagine parlamentare (Telekom Serbia, sistemi bancari…). Sotto questo aspetto la questione si è sempre più spostata alle implicazioni delle vicende giudiziarie che hanno rappresentato il tema privilegiato del riferito scontro politico. Sono state poche in questi anni le dimissioni, i passi indietro di vari esponenti per ragioni etiche, morali e di opportunità. Quasi tutti gli episodi significativi che si possono ricordare (dal caso Montesi Piccioni con la fine del doroteismo all’interno alla Dc, fino alla vicenda dello scandalo Lockheed con le dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone) sono stati contrassegnati da vicende giudiziarie. La stessa “questione morale” sollecitata da Berlinguer ha condotto al fenomeno di Mani pulite e al crollo della Prima repubblica; del resto, è significativa in tal senso l’eliminazione dalla Costituzione della autorizzazione a procedere e tutta la legislazione sull’incandidabilità condizionata da giudizi di responsabilità accertati in sede penale. È conseguentemente evidente che l’iniziativa giudiziaria abbia un forte rilievo e che l’abbia per il suo solo avvio a prescindere da quelli che potranno essere gli esiti processuali, i quali, ancorché favorevoli a indagato e imputato, avranno determinato effetti irreversibili (come tanti episodi hanno dimostrato). La riferita forte contrapposizione politica, alla quale la stampa e la magistratura non sono del tutto estranee, non consente di superare facilmente il problema che indubbiamente deve trovare nella classe politica un suo maggiore senso di responsabilità, nella magistratura un senso misurato di comportamenti di attività rispetto ai diritti, nella legislazione la predisposizione di strumenti di garanzia il cui significato va trasfuso all’opinione pubblica, così da chiarire meglio il senso delle iniziative giudiziarie alla luce del principio costituzionale di considerazione di innocenza. Spetta al giudice verificare l’attendibilità del parere del Ctu di Tiziana Roselli Il Dubbio, 17 agosto 2023 La sentenza della Suprema Corte ribadisce il ruolo pubblico della consulenza tecnica d’ufficio nel processo. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione (n. 20532/2023), ha ribadito il ruolo della consulenza tecnica d’ufficio nel processo legale, ma ha anche sottolineato la funzione cruciale del giudice nell’esaminare e valutare criticamente le conclusioni fornite dal consulente tecnico. Il caso in questione riguarda una controversia relativa a una richiesta di risarcimento presentata contro un consulente tecnico d’ufficio, in cui si sostiene la presunta responsabilità professionale di quest’ultimo in merito alla consulenza tecnica prestata in un altro procedimento concernente un incidente stradale. Il ricorrente, nell’intento di dimostrare l’inesattezza professionale del consulente, ha argomentato che il Ctu ha erroneamente escluso l’elemento di causalità tra un trauma subito nell’incidente e alcune lesioni, portando a una valutazione del danno inferiore rispetto a quanto effettivamente subito. La Corte di Appello di Roma ha respinto l’appello contro la sentenza del Tribunale, che a sua volta aveva rigettato la richiesta risarcitoria. La questione centrale sollevata nel ricorso in Cassazione verte sulla responsabilità del consulente tecnico d’ufficio nel fornire conclusioni accurate e attendibili. La sentenza, nel ribadire il ruolo pubblico svolto dalla Ctu all’interno del processo legale, ha sottolineato che il giudice è tenuto a valutare l’attendibilità intrinseca del parere del Ctu, senza accettarlo acriticamente. Questo principio si fonda sulla considerazione che il Ctu, sebbene non svolga funzioni giudiziarie in senso tipico, agisce come ausiliare del giudice nell’interesse generale e superiore della giustizia. Inoltre è soggetto a responsabilità penale, disciplinare e civile per l’attività svolta e ha l’obbligo di risarcire i danni causati in violazione dei doveri connessi all’ufficio. La Corte ha richiamato precedenti sentenze, ribadendo che la diligenza nell’esecuzione delle indagini affidate al Ctu è un preciso obbligo, fondamentale affinché il parere dell’ausiliario sia meritevole di considerazione da parte del giudice. Tuttavia, questa diligenza rappresenta solo il presupposto necessario per la valutazione del giudice. Spetta al giudice, infatti, valutare l’attendibilità intrinseca del parere alla luce delle specifiche censure sollevate dalla parte interessata. Nel caso in questione, la Corte d’Appello aveva adeguatamente valutato il parere del Ctu e ne aveva accettato le conclusioni in modo consapevole e ragionato. Questa adesione, basata su un riesame critico e attento dei passaggi giustificativi, aveva eliminato la possibilità di errori commessi dall’ausiliario nelle indagini. Di conseguenza, il ricorso è stato giudicato inammissibile. Sardegna. Quei dimenticati nella colonia. A Isili dai “delinquenti abituali” di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti* Il Manifesto, 17 agosto 2023 Nella colonia agricola al centro della Sardegna, dove la giustizia abbandona chi è solo. In Sardegna, nascosto da qualche parte, c’è un evaso. Oppure no: forse ha già lasciato l’isola, chissà con quale mezzo, e ha raggiunto il continente. Non si hanno più notizie da quando, lo scorso 25 febbraio, si è calato con le lenzuola annodate lungo il muro del carcere di Nuoro ed è scappato via correndo. In internet gira mille volte il filmato. Di lui si sente parlare, aleggia nell’aria. Non capita spesso di evadere. Ma, soprattutto, non capita quasi mai di non venire riacciuffati nelle ore immediatamente successive all’evasione. Lo nominano gli operatori delle carceri che visitiamo, lo nominano i nostri colleghi della sede locale di Antigone, lo nomina l’albergatore dove alloggiamo quando ci chiede cosa facciamo in Sardegna. Abbiamo una prova concreta della sua influenza quando arriviamo in una delle tre colonie penali sarde. Ci accompagna nella visita il comandante della polizia penitenziaria. È molto tempo che è qui? No, non ha la memoria storica dell’istituto, sono altri operatori che ci raccontano cosa accadeva negli anni passati. Sono solo pochi mesi che il comandante è arrivato in questa colonia isolata e lontana da tutto. Prima era in servizio a Nuoro. È una pratica tanto ipocrita quanto consueta in ambito carcerario. Nessuno è responsabile delle grandi falle del sistema, della recidiva alle stelle, delle morti in cella, dell’assenza di attività o delle strutture fatiscenti, ma di fronte al singolo evento di cronaca deve esserci sempre un singolo nome da additare, punire, trasferire. Le tre colonie penali della Sardegna non sono tutte uguali tra loro. Is Arenas e Mamone si estendono su un territorio molto più vasto, quasi tremila ettari, e tutti i detenuti che vi lavorano hanno una condanna definitiva da espiare. Isili è circondata da meno terreno e le persone che ospita non sono omogenee dal punto di vista giuridico. In tutto non raggiungono il centinaio, nonostante i posti disponibili sarebbero centotrenta. Una trentina scarsa di loro non è lì a scontare una pena. Non sono detenuti. Si chiamano piuttosto “internati” e sono in carcere in quanto sottoposti a una misura di sicurezza detentiva. Questa può generarsi in due modi: o in seguito a una qualche violazione delle prescrizioni legate alla libertà vigilata oppure in quanto il magistrato ha deciso che la persona in questione è un delinquente abituale, professionale o per tendenza. In questo caso, dopo aver finito di scontare la pena della reclusione che le è stata comminata alla fine del processo, non sarà libero di uscire dal carcere ma dovrà invece fermarsi in cella per un’aggiunta di detenzione non più legata al fatto commesso bensì alla sua propria natura più intima. È un delinquente in sé, non per quel che ha compiuto. La società sarebbe danneggiata dal suo ritorno in libertà e quindi il codice fascista del 1930 ha previsto uno strumento atto a lasciare al giudice le mani libere per tenerlo dietro le sbarre a proprio piacimento, a prescindere da eventi concreti oggettivi. I delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ci dice l’articolo 215 del codice penale, vengono assegnati a una casa di lavoro o a una colonia agricola. Il carcere di Isili è il solo in Italia - se si esclude una piccola sezione con sei posti a Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, aperta un anno fa - ad avere una sezione di colonia agricola. Se dunque quando parliamo di colonia penale usiamo un’espressione informale, superata, che non ha corrispettivo formale nell’ordinamento attuale e sta solo a indicare un modello di vita detentiva quotidiana aperto e improntato al lavoro nei campi, se parliamo di colonia agricola stiamo invece facendo riferimento a un preciso istituto del codice italiano. Nella sezione colonia agricola di Isili, la vita non è come nel resto delle colonie penali. Le celle sono perlopiù chiuse. L’aria è cupa. La presenza di patologie - assenti quasi per definizione nel resto del carcere, essendo la buona salute fisica e psichica uno dei requisiti per poter essere ammessi a Isili, Is Arenas, Mamone - ha qui un peso importante. Camminando lungo la sezione vediamo un giovanissimo ragazzo immigrato disteso sul letto. Potrebbe dormire, semplicemente. Se non fosse che il corpo è scosso da un tremito diffuso e ininterrotto. Più avanti c’è un altro giovane uomo. È seduto sullo sgabello della sua cella, ci sorride di un sorriso infantile e ci saluta muovendo la mano. Non possono farlo uscire, ci spiegano, perché è un esibizionista. Se si trova in stanza con altri si abbassa i pantaloni e mostra a tutti le parti intime. E poi, ancora tra gli internati di Isili, c’è chi non si lava da anni perché sostiene di appartenere a una religione che lo proibisce, e la sua cella, dalla quale non vuole mai uscire, è un luogo di frontiera ormai inaccessibile a chiunque altro. Solitudini su solitudini, gli internati sono gli esclusi degli esclusi. Ne sono consapevoli gli operatori, i poliziotti penitenziari, che si adoperano in tutti i modi per inventare una speranza in quelle vite ufficialmente dimenticate dal sistema. Non c’è alcuna delinquenza abituale in loro. Nessuna tendenza. Parole dal senso vago che finiscono per non significare nulla. È quell’idea di pericolosità sociale che niente ha a che fare con i principi di legalità, offensività e tassatività che dovrebbero caratterizzare il sistema penale in un paese liberale. Nella colonia agricola di Isili, così come nella casa di lavoro di Vasto e in tutte le altre sezioni analoghe in giro per l’Italia, sono rinchiuse persone che non si sa dove collocare. Così viene prorogata loro, dai giudici di sorveglianza, la permanenza in carcere, sostenendo che sono ancora pericolosi. In realtà sono soltanto soli, senza nessuno che li accolga fuori. Non vi sono servizi territoriali per farsene carico, non vi sono famiglie. Tutti gli internati sono di fatto portatori di una qualche patologia psichiatrica. Ma il ragazzo che ha rubato dieci volte di seguito una scatoletta di tonno dal supermercato diventa facilmente, nell’interpretazione del magistrato, un delinquente abituale. Se poi ha cercato di scambiarla per un pacchetto di sigarette è un delinquente professionale. Quanto alla tendenza, chiunque commetta un reato, dal più piccolo al più grande, può custodirla nel profondo di sé. La Sardegna non ha bisogno di caserme da adibire a carceri ma di idee, risorse umane. Ha bisogno di una regia pubblica che non faccia coincidere la parola isola con la parola isolamento. Qualcosa che sempre più vale anche per tutta quella grande isola nella quale è stato trasformato l’intero sistema penitenziario italiano. *Associazione Antigone Campania. Lucia Castellano: “Carceri, stop ai droni ma la svolta è il lavoro” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 17 agosto 2023 Ha imparato sulla sua pelle che certi problemi non si affrontano solo con le attività di repressione. Sa bene che per ogni intervento punitivo bisogna mettere sul tappeto anche modelli formativi in grado di tutelare la dignità della persona. Eccola, dunque, la provveditrice delle carceri campane Lucia Castellano, alla luce del ferragosto trascorso a visitare il penitenziario di Avellino, in piena sintonia con una strategia nazionale messa in campo dal Dap, nell’estate in cui torna d’attualità il sovraffollamento nelle celle. Provveditrice, quali sono le emergenze più attuali legate al mondo delle carceri, dal suo punto di vista? “I problemi più urgenti e all’ordine del giorno sono legati ai traffici di cellulari e di droga all’interno delle celle. Purtroppo è un fenomeno non solo locale, ma nazionale, contro il quale da tempo combattiamo, come emerge chiaramente dalle centinaia di sequestri e di denunce che mettiamo in campo. Lo abbiamo segnalato da tempo e sappiamo che anche nei prossimi mesi dobbiamo attrezzare delle risposte in materia di intelligence, per arginare una deriva che a volte vanifica il lavoro messo in campo da direttori, funzionari, esponenti della polizia penitenziaria, volontari e assistenti sociali”. A cosa fa riferimento? “Vede, se un carcere diventa una piazza di spaccio, si riproducono dinamiche di clan e di appartenenza che affliggono anche detenuti che hanno intrapreso un percorso in modo virtuoso”. Può fare un esempio? “Ci sono stati casi di persone che, dimostrando forza di volontà e spirito di collaborazione, hanno ottenuto permessi per andare a lavorare all’esterno. Ebbene, proprio queste persone sono a rischio, perché viene chiesto loro di introdurre droga o cellulari in cella. Tutto ciò - quando viene a galla - mina alla base un percorso di inserimento nel quale avevamo riposto energia e speranze. Stesso discorso per chi si indebita con il pusher di turno, acquistando droga, sentendosi poi costretto a chiedere di essere trasferito in un altro carcere, senza un motivo apparente. Anche in quel caso, si rischia di ridare concretezza a dinamiche criminali che credevamo di aver spezzato”. Hanno fatto scalpore le immagini postate sui social di detenuti che, usando smartphone, sfidano lo Stato, lanciando messaggi all’esterno. Come reagire di fronte a tutto ciò? “Avremo presto, in Campania, macchine antidroni e reti di rigetto per bloccare gli ingressi dal cielo, mentre intensifichiamo controlli e verifiche nel corso dei colloqui o in altri momenti della vita detentiva”. Lei parla di macchine antidrone: questo perché droga e cellulari arrivano anche dall’alto? “Purtroppo sì. È una realtà. Sembra fantascienza ma è così. Siamo allertati per creare argini adeguati a un fenomeno tanto diffuso. È il modo principale per bloccare traffici di cellulari e droga che riproducono dinamiche simili a quelle che avvengono in alcuni territori metropolitani, oltre a sancire la leadership di boss sui rispettivi seguiti mafiosi. Un detenuto di alta sicurezza che fa girare un proprio messaggio agli affiliati o che posta un proprio intervento su TikTok crea inevitabili contraccolpi al piano di contrasto al crimine messo in campo dallo Stato. Non è un problema solo campano, è bene affrontare questi scenari in un’ottica nazionale, ovviamente lavorando gomito a gomito con le Procure e con gli altri soggetti interessati alla sacrosanta riabilitazione dei nostri detenuti. Ma ci tengo a dire che non basta, serve altro”. A cosa fa riferimento? “Non ha senso ragionare solo in termini coercitivi o repressivi. Denunce e sequestri sono all’ordine del giorno, ma non serve solo il rigore degli interventi. Bisogna credere nel dialogo formativo, facendo leva sulla straordinaria umanità che appartiene alla stragrande maggioranza delle persone recluse. Mi creda, non è un luogo comune, ma esperienze come lavoro e teatro, dialogo e confronto tra direttori e reclusi, tra animatori e detenuti restano il terreno di sfida più importante. In questo senso, quando si costruisce un percorso fondato sul dialogo, sarei anche disposta a rivedere la questione dell’uso dei cellulari o della rete in carcere”. In che senso? “Andrebbe ripensato un accesso - ovviamente controllato - alle mail e ai servizi che la contemporaneità offre per preparare un cittadino al rientro alla vita normale. Una possibilità da affrontare in campo normativo, su cui credo sia opportuno un confronto a più voci”. Il caso di Torino, con due detenute suicide, riapre vecchie ferite. Possiamo fare un focus sulle carceri campane? “Prenda Santa Maria Capua Vetere. In passato teatro di situazioni limite attualmente al vaglio dei giudici: le assicuro che qui ci sono progetti lavorativi che ci danno soddisfazione. C’è lavoro e si produce, all’insegna della progettualità piena, grazie alla voglia di rimboccarsi le maniche della direzione, del personale e degli stessi detenuti. C’è una sartoria, qui si fanno camicie e divise per gli agenti di polizia penitenziaria; presto aprirà un birrificio, esiste un laboratorio di pasticceria, perché c’è chi crede in una seconda chance. A Secondigliano esiste un polo universitario di tutto rispetto, ma anche una filiera di produzione agricola importante; pensi che c’è una impresa che ha mostrato interesse per un progetto nel fotovoltaico. E non è finita: a Benevento esiste una strategia per convertire i rifiuti in compost di qualità, mentre si lavora su un più ampio progetto finalizzato a dare una connotazione a ciascuna casa circondariale”. A cosa fa riferimento? “Ogni istituto deve avere una sua funzione, non solo contenitiva o di smistamento, ma deve inserirsi in una più ampia rete di formazione. Come le dicevo, se si pone al centro la dignità della persona, non si interviene solo con lo strumento della denuncia o del trasferimento, perché in ballo c’è la credibilità dello Stato nella sua funzione più alta”. Verona. Trovati psicofarmaci e medicine in cella, le ultime ore di Cristian prima della morte di Andrea Aversa L’Unità, 17 agosto 2023 Sono emersi nuovi dettagli relativi alla tragica vicenda legata al decesso del 44enne. Vi sono accertamenti in corso, ancora non è chiaro se si sia trattato di suicidio. La vittima, sola e senza alcun rapporto con la famiglia, aveva “paura del dopo”. È stato trovato senza vita in cella. Cristian Mizzon, 44 anni, è deceduto nel carcere di Verona. Dai primi accertamenti pare che il giovane sia morto a causa di un’overdose di farmaci. Secondo quanto appreso da l’Unità, nella cella di Mizzon - in seguito a una perquisizione - sono stati trovati medicinali, psicofarmaci e siringhe. Un dettaglio che rafforza la pista del suicidio. Tuttavia sono in corso i dovuti accertamenti legali e la causa della morte ancora non è stata resa nota. Probabile, da parte dell’autorità giudiziaria, la disposizione dell’autopsia sulla salma della vittima. Quest’ultima, secondo alcune testimonianze, aveva ‘paura del dopo’, cioè di cosa l’avrebbe atteso fuori dal penitenziario. Chi è e come è morto Cristian Mizzon - Era un grande tifoso del Verona ed era assiduo frequentatore della curva scaligera. Il 44enne era solo, il padre è deceduto anni fa e la madre lo aveva abbandonato quando lui era piccolo. Dall’età di 15 / 16 anni non ha più avuto rapporti neanche con le sorelle. La sua è stata un’esistenza segnata dalla fragilità. Probabilmente molte difficoltà sono state aggravate da presunte dipendenze da sostanze stupefacenti. La denuncia del suo decesso è stata data dall’associazione ‘Sbarre di zucchero’ di cui fa parte anche il suo avvocato, Simone Bergamini. I fatti e le indagini - Le indiscrezioni legate alla morte di Mizzon sono trapelate dal carcere. Da chi lo conosceva, dai parenti degli altri detenuti. Poi il lavoro instancabile dell’associazione e l’informazione preziosa di Radio Carcere hanno fatto il resto. C’è un ulteriore dettaglio che porterebbe le indagini sulla pista del suicidio: pare che Mizzon la sera prima che fosse trovato senza vita, si sia fatto la doccia e la barba. Si ‘era tirato a lucido’, quasi come se volesse farsi trovare pronto e preparato per quest’ultimo viaggio. Un viaggio che ha un solo responsabile: lo Stato. Sanremo (Im). Aperta un’inchiesta sul detenuto finito in coma di Fabrizio Assandri rainews.it, 17 agosto 2023 Una telecamera del carcere dimostrerebbe che nessuno è entrato nella sua cella, dov’è stato trovato riverso a terra. La famiglia chiede una perizia. La procura di Imperia ha aperto un’inchiesta per chiarire cosa sia accaduto a Corneliu Maxim. L’uomo, detenuto nel carcere di Sanremo, è finito all’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure ai primi di agosto, dov’è tuttora in coma in prognosi riservata. La famiglia ha presentato un esposto, chiedendo una perizia medica. Intanto, però, la direzione del carcere sarebbe in possesso di un video che dimostrerebbe che l’uomo era solo prima di essere stato trovato a terra. Del caso si è interessato anche il garante regionale dei detenuti, Doriano Saracino. Napoli. Il Garante in visita a Poggioreale: “Ratti, celle affollate e mancano le docce” di Angelo Agrippa Corriere del Mezzogiorno, 17 agosto 2023 Ciambriello: “Risorse stanziate da anni e inutilizzate”. Lo sguardo costante e fisso sulle condizioni dei detenuti, tanto che pochi giorni fa ha anche segnalato l’anomalia di concedere la cosiddetta ora d’aria nella fase della giornata più assolata e, quindi, inopportuna: dalle 13 alle 15. Il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello anche quest’anno ha dedicato una visita al carcere di Poggioreale nel giorno di Ferragosto (in particolare nei padiglioni Napoli, Italia, Genova, Firenze). Ha registrato la presenza di 2.064 reclusi su una capienza ufficiale di 1639 posti, vale a dire oltre 400 persone ristrette in più rispetto alla capacità dell’istituto. Ma anche un numero esorbitante di detenuti tossicodipendenti e malati psichici. “Anzitutto - ha spiegato Ciambriello al termine della visita - voglio ringraziare gli agenti di polizia penitenziaria che, pur in numero ridotto, hanno con professionalità reso possibile la mia visita come garante. Ho riscontrato un sovraffollamento che significa che in una cella con letti a castello impilati per tre possiamo trovare anche 10 -12 persone, ma anche l’impossibilità a garantire con tempestività interventi sociali e sanitari adeguati rispetto al bisogno. Il primo punto che voglio evidenziare è la necessità di interventi di manutenzione ordinaria nei reparti che garantiscano il rispetto della dignità umana e, per quanto possibile, della vita privata, e rispondere alle condizioni minime richieste in materia di sanità e di igiene, tenuto conto delle condizioni climatiche. In alcuni reparti non si riesce a garantire la doccia calda, così come ancora in molte celle ci sono evidenti Il garante segni di muffa e umidità che rendono gli ambienti insalubri. In certi casi è necessario poi procedere a una ristrutturazione straordinaria che adegui i reparti detentivi a quanto previsto dallo stesso regolamento di esecuzione penitenziaria e dalle indicazioni della Corte dei diritti dell’uomo”. Secondo Ciambriello ci sono risorse stanziate, circa 13 milioni, da molti anni che però non si riesce a utilizzare: “Mi domando come sia possibile e perché non si riesca a trovare una soluzione”. Quindi, il garante ha sollevato un altro punto relativo alle disfunzioni, i cui effetti ricadono sulla qualità della convivenza dietro le sbarre: “È urgente procedere immediatamente a una derattizzazione - ha sottolineato - perché ci è stata segnalata e confermata la presenza di ratti che entrano nei reparti detentivi con rischi gravissimi per i ristretti e il personale. Così come ritengo sia necessaria anche una disinfestazione per la presenza di blatte. Quindi, intendo aprire un tavolo di confronto permanente sui livelli di assistenza sanitari e la presenza di personale medico e specialistico per offrire servizi sanitari adeguati, con la presa in carico della persona, e tenere conto della maggiore difficoltà di accesso alle cure e di maggiore complessità dovuta alla privazione della libertà. Non è pensabile che si attendano mesi per una radiografia urgente o per una visita specialistica, che non si garantiscano presidi medici multi professionali in ogni reparto. Trovo poi indispensabile, visto l’alto numero di detenuti con problemi psichici, rafforzare gli interventi di prevenzione, cura e sostegno del disagio psichico”. Ciambriello ha lanciato infine un appello alla politica e alle istituzioni penitenziarie, ma anche ai singoli cittadini, perché ci siano provvedimenti e presupposti politici e culturali nuovi sul carcere e sul suo utilizzo come extrema ratio: “So che si tratta di un elenco numeroso di criticità e che non tutte si possono risolvere a breve. Però non possiamo rassegnarci a questo stato di cose. Una persona detenuta perde la libertà, non può e non deve perdere la dignità di essere umano. Considerato che il carcere in molti casi è veleno piuttosto che medicina, il vero rimedio consiste nel ridurre drasticamente l’impiego, utilizzando misure alternative, depenalizzando i reati minori ed evitare di coniugare il populismo penale con quello politico”. Palermo. “Carcere Pagliarelli, al limite le condizioni di vita di lavoratori e detenuti” di Roberto Greco Quotidiano di Sicilia, 17 agosto 2023 Intervista a Donatella Corleo, membro del direttivo di “Nessuno tocchi Caino” e consigliere del Partito radicale, che lo scorso 11 agosto, con una delegazione del Partito Radicale Transnazionale, ha effettuato una visita alla Casa Circondariale “Antonio Lorusso”, il c.d. Pagliarelli, di Palermo, visita nella quale sono stati accompagnati dalla direttrice della C.C. la dottoressa Maria Luisa Malato e del Comandante Giuseppe Rizzo. Le abbiamo chiesto di parlarci della situazione della struttura. Dottoressa Corleo, avevate già visitato la struttura anche lo scorso inverno. Come l’avete trovata? Meglio o peggio? “Migliorato sicuramente no. Le criticità già evidenziate sia la scorsa estate sia quest’inverno sono rimaste. Stiamo parlando dei problemi di acqua, del servizio docce, della scarsità della manutenzione. Le condizioni di vita della comunità penitenziaria tutta, sia dei detenuti sia di chi ci lavora, a mio giudizio è veramente al limite. Il sovraffollamento, problema che riguarda la quasi totalità delle Case Circondariali italiane, non è l’unico problema anche se oggi rasenta il 20% in più. Anche se costruito nel 1995, la struttura mostra evidenti limiti sia ergonomici sia strutturali e questo la rende non idonea, non in linea con i dettami che riguardano i diritti umani”. Siamo in presenza di carenze di organico? “Senza dubbio. Lo stesso Comandante Rizzo mi ha fatto notare che, seppur siano stati banditi i concorsi, il numero del personale al suo comando è insufficiente anche perché oggi in quella struttura sono ospitati 1357 detenuti. Anche gli educatori sono, numericamente, al di sotto di quanto previsto in pianta organica ma soprattutto di quanto sia necessario”. Gli spazi interni previsti la socialità in che condizioni sono? “In generale la loro dimensione è medio-piccola e, inoltre, mancano quegli strumenti necessari per tenere occupati i detenuti durante la loro permanenza in quelle salette. Non c’è nemmeno un biliardino, ad esempio. è ovvio che 1357 ospiti avrebbero bisogni di spazi adeguati utilizzabili con un opportuno criterio di turnazione”. Altre criticità? “Tenga conto che negli ultimi tempi assistiamo a un fenomeno che riteniamo sicuramente pericoloso, sto parlando dell’arrivo nella struttura di ragazzi di 18-20 anni provenienti dal minorile. Questi ragazzi si trovano a convivere con detenuti molto più grandi di loro e, inevitabilmente, corrono il rischio di intraprendere percorsi di vita non positivi, tenuto conto nella c.d. ‘media sicurezza’ transitano anche i declassati dalla ‘massima sicurezza’. Altro aspetto è quello della sanità penitenziaria. In quella struttura è detenuto un cieco, persone con difficoltà di mobilità e molti detenuti, come nel resto dell’Italia, che hanno bisogno del supporto di psicologi e, spesso, di psichiatri. Lo scarso numero di operatori, come già detto, non riesce sicuramente a rispondere alle esigenze dei detenuti”. I generi alimentari all’interno della struttura, hanno prezzi allineati con quelli dell’esterno? “Dai listini prezzi che ci hanno consegnato è possibile evidenziare che i prezzi sono più alti e questo limita la capacità d’acquisto dei detenuti. Tenga inoltre presente che, seppur possano entrare dall’esterno generi alimentari, c’è un elenco dei generi ammessi che varia da struttura e struttura. Questo evidenzia il fatto che non ci sia un equivalente trattamento tra le varie Case Circondariali italiane”. Come giudica, anche alla luce non solo del contenuto della lettera che abbiamo ricevuto ma della sua esperienza e sensibilità, la situazione attuale riguardo lo stato d’animo dei detenuti, sul come si sentono trattati? “Ovviamente non voglio, perché non mi appartiene, essere l’allarmista di turno, ma devo dire che proprio la visita di qualche giorno fa mi ha fatto percepire una situazione a rischio, una situazione che deve essere attenzionata in modo particolare. Non voglio definirla una ‘polveriera’ ma dobbiamo essere attenti che nessuno accenda il cerino perché la situazione è molto grave e il contenuto della lettera che vi è stata recapitata rispecchia la situazione reale”. Palermo. I detenuti del Pagliarelli: “Vittime di un sistema ormai al collasso” di Roberto Greco Quotidiano di Sicilia, 17 agosto 2023 I reclusi nell’istituto palermitano scrivono una lettera per denunciare le condizioni in cui vivono. “Oggi tutti i reclusi privi della libertà sono anche vittime di un sistema carcerario al collasso, privo del sistema rieducativo sociale, che dovrebbe essere il punto cardine per avviare un reinserimento futuro all’individuo che sconta la pena, al fine di non delinquere successivamente”. Che a un quotidiano arrivino lettere da parte dei suoi lettori è normale ed è altrettanto normale che oggi arrivino sotto forma di email o messaggi tramite il sito web o i social. In realtà, oggi, quando arriva una lettera scritta a mano su un foglio di carta, nel caso specifico un foglio protocollo a righe, è sicuramente un’eccezione. Ma la vera eccezione è il mittente della lettera o meglio, come in questo caso, i 127 mittenti. C’è posta per noi, per parafrasare il noto titolo di un programma televisivo. E la posta in questione arriva da una Casa Circondariale, “Antonio Lorusso”, nota come “il Pagliarelli” di Palermo. Si tratta di una lettera-denuncia che, tramite il nostro giornale, 127 detenuti della struttura scrivono lamentando, in maniera argomentata, alcune carenze delle strutture che trasformano il concetto di pena in afflizione, a partire dalla carenza di quello che definiscono “spazio minimo vitale” (sotto il testo integrale della missiva). Eppure l’articolo 27 della Costituzione italiana è chiaro e indica che “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Semplice, tutto sommato. In realtà la situazione carceraria sia nell’isola sia a livello nazionale, sembra non rispecchiare quanto indicato dall’art. 27. Nel 2022, dai dati raccolti dall’osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” nata alla fine degli anni ottanta, nel 35% delle 97 carceri visitate in tutto il paese, c’erano celle in cui non erano garantiti 3 mq. calpestabili per ogni persona detenuta. Il rapporto di Antigone, che ogni anno fa il punto sullo stato delle carceri italiane, lancia un allarme sul sovraffollamento, un problema ormai endemico del sistema penitenziario, certificato anche dai tribunali di sorveglianza che, solo nel 2022, hanno accolto 4514 ricorsi di altrettante persone detenute o ex detenute, che durante la loro detenzione hanno subito trattamenti inumani e degradanti, legate soprattutto alla mancanza di spazi. Un sostanziale collasso del sistema penitenziario italiano - Situazioni che variano molto da istituto a istituto, ma che in generale vedono un sostanziale collasso del sistema penitenziario italiano. I dati del Ministero della Giustizia, aggiornati allo scorso 31 luglio, non lasciano spazio alle interpretazioni: nelle carceri italiane sono presenti quasi 58 mila detenuti, circa 7 mila in più della capienza regolamentare (intorno a 51 mila posti). In questo quadro la Sicilia sembrerebbe, a primo sguardo, messa meglio rispetto alle altre regioni, con 6.376 reclusi su 6.476 “caselle” disponibili. Andando a sbirciare, però, tra i numeri dei singoli penitenziari, la realtà è molto diversa: per esempio, al Pagliarelli, i detenuti presenti (dato in questo caso al 30 giugno) erano ben 150 in più della capienza regolare. La mancanza di spazio e di condizioni di vita dignitose, ogni anno, contribuiscono a determinare quella che può essere definita una vera e propria strage dietro le sbarre: dal 2000 ad oggi si contano 1.352 suicidi, di cui 85 nel 2022 e 43 tra gennaio e agosto di quest’anno. Proprio pochi giorni fa, a Torino, due detenute si sono tolte la vita a poche ore di distanza l’una dall’altra. Si parla spesso di pena ma sempre molto poco di riabilitazione, forse non è ben chiaro di cosa si tratti. La riabilitazione è un istituto di diritto sostanziale annoverato tra le cause estintive della pena e, come tale, disciplinato al codice penale agli articoli 178-181 che si prefigge lo scopo di favorire l’emenda del reo reintegrandolo nella posizione giuridica goduta fino alla pronuncia della sentenza di condanna attraverso l’eliminazione delle conseguenze penali diverse dalla pena principale, le quali costituiscono un ostacolo per il normale svolgimento dell’attività dell’individuo nel consorzio civile. Si tratta di una causa di estinzione delle pene accessorie e degli effetti penali della condanna, caratterizzata da una funzione premiale e promozionale. L’altra parola spesso dimenticata è reinserimento - L’altra parola spesso dimenticata, parole che sottintende un concetto fondamentale per uno stato che voglia dirsi ed essere democratico è reinserimento, sia nella società civile sia nel mondo del lavoro. Il concetto di reinserimento deve necessariamente coniugarsi con quello di rieducazione, che si basa sul fornire ai detenuti attività che vanno da quelle fisico/sportive a quelle di formazione, sia pratica sia culturale. “La realtà carceraria è l’avamposto della democrazia e dello stato di diritto - dichiara al QdS l’avvocato Dario D’Agostino, penalista iscritto al Foro di Palermo -. È proprio all’interno di un carcere che i diritti umani diventano cogenti e i principi costituzionali riguardanti il trattamento penitenziario e le finalità rieducative della pena, devono essere attuati. Ciò è una priorità per un paese democratico che non può dirsi tale laddove vuoi per carenze strutturali, vuoi per insufficienze legislative o soggettive, viene meno l’attenzione per i diritti e la cura dovuta a ogni essere umano. Alla luce di ciò, le rivendicazioni dei detenuti del Pagliarelli, così drammaticamente esposte, meritano una verifica prima ed eventuali interventi risolutivi poi”. La lettera dei detenuti Illustre redazione del Quotidiano di Sicilia chi vi scrive sono i detenuti del carcere “Pagliarelli” di Palermo reparto Sud destro. Perché vi scriviamo? Vi scriviamo per darvi informazioni di come oggi tutti i reclusi privi della libertà, sono anche vittime di un sistema carcerario al collasso, privo del sistema rieducativo sociale, che dovrebbe essere il punto cardine per avviare un reinserimento futuro all’individuo che sconta la pena, al fine di non delinquere successivamente, ma ciò non accade per innumerevoli problemi di natura strutturali e direttivi. Quando usiamo il termine strutturali, ci riferiamo alla conformazione e realizzazione degli edifici risalenti a più di 30 anni orsono, l’edificio del reparto Sud in questione è stato realizzato per ospitare una sola persona per singola cella, ma oggi a causa del sovraffollamento delle carceri vi sono due e non una persona a cella, le stesse sono munite di singole brande, che di fatto occupano e riducono gli spazi minimi vitali, previsti persino dallo stesso regolamento carcerario, né uno potrebbe pensare di richiedere, visto la situazione, di usufruire del famoso art.35 ter, articolo che prevede una riduzione di pena in riferimento alla realtà in cui vivono i detenuti, allora cosa succede che i detenuti si attivano inoltrando la richiesta, richiesta che puntualmente viene respinta dal magistrato di sorveglianza con la motivazione che da informazioni “carcerarie” i detenuti hanno gli spazi minimi vitali previsti, in quanto le celle sono munite di letti a castello, omettendo che all’interno manca una doccia o un cucinino, capite bene che è falso, il carcere trasmette informazioni non esatte. I detenuti che vivono in queste celle non solo non hanno gli spazi vitali, non hanno un frigo che però avendo i soldi puoi farti installare, non hanno un ventilatore per affrontare il forte caldo che però avendo i soldi puoi farti installare, tra l’altro introdotto per la prima volta quest’anno. Ma questa è solo la punta dell’iceberg che vi raccontiamo, scendendo ancora più giù, inoltrandosi nella macchina “direttiva”, c’è da strapparsi i capelli a cominciare dagli assistenti sociali, dai psicologi, psichiatri ecc… dove i primi mesi di detenzione ti seguono saltuariamente per “conoscere” la tua vita e la tua storia, al fine di capire la personalità del detenuto. Dopo questo step spariscono come vaporizzati nell’aria, tutto ciò comporta un ritardo anche di anni, della così detta sintesi di valutazione, documento importante per accedere a qualunque forma di beneficio o forma di detenzione diversa dal carcere. Tornando indietro nelle problematiche di questo carcere bisogna segnalare che i detenuti sono chiusi nelle rispettive celle per circa 20 ore al giorno, usufruendo solo di 4 ore d’aria ed in teoria di 4 ore di saletta, ma la saletta in questione di circa 20 mq diventa insufficiente per 25 persone, ne consegue, che i detenuti restano nelle celle, le stesse, al loro interno sono sprovviste di servizi igienici, ecco perché diciamo che restiamo chiusi 20 ore al giorno. Altra doverosa segnalazione riguarda la grande speculazione che avviene sui prezzi dei generi alimentari, che spesso il detenuto non può affrontare per l’eccessivo costo, chiediamo un controllo istituzionale. Carissima redazione la verità è scritta in queste poche righe, noi attendiamo un articolo sul vostro giornale, entro 30 giorni, dal ricevimento della missiva inviatavi, vi diamo un tempo prestabilito perché siamo stanchi di non avere risposte, dopo le numerose lettere inviate alla direzione del carcere, trascorso questo periodo tutti i detenuti dei piano reparto Sub 1-2-3-4 inizieranno lo sciopero della fame ad oltranza con “battitura” ogni 30 minuti, noi come potete vedere la “sintesi” l’abbiamo fatta, speranzosi nel vostro aiuto vi ringraziamo per averci dedicato il vostro prezioso tempo, una caloroso saluto da parte di tutti i detenuti del Pagliarelli di Palermo. Si allegano le firme dei piani 1-2-3-4. Lettera firmata da 127 ospiti della Casa Circondariale “Antonio Lorusso”, già Pagliarelli Udine. L’Associazione Nessuno Tocchi Caino: “L’estate è il peggior periodo per chi è in carcere” ansa.it, 17 agosto 2023 L’associazione Nessuno Tocchi Caino ha fatto visita alla casa circondariale di via Spalato è ha incontrato anche la polizia carceraria. Lo chiamano Viaggio della speranza, ma le visite nelle carceri dell’associazione Nessuno Tocchi Caino si rivela spesso una discesa nel degrado e nel sovraffollamento. Da inizio anno sono state almeno 80, tra le ultime tappe visitate dalla delegazione, che comprende rappresentanti delle Camere penali, figurano i penitenziari di Tolmezzo e di Udine. Ogni carcere ha le sue difficoltà, ma il quadro generale in Italia è sempre molto simile. Elisabetta Zamparutti, tesoriera di nessuno Tocchi Caino: “Problemi di sovraffollamento, incidenza della malattia mentale, sempre più giovani: si abbassa l’ età di hi entra in carcere, sempre di più - per problemi legati alla dipendenza da sostanze”. Sono problemi tornati alla ribalta con i tragici casi di suicidi in poche ore nelle carceri italiane: “Al sovraffollamento si può trovare una soluzione...una liberazione anticipata speciale, più giorni da scontare ogni semestre in condizioni di buona condotta, in maniera che lo sconto sia automatico”. Oltre ai detenuti la vista è rivolta anche a quelli che chiamano i “detenenti”. Sergio D’Elia, segretario dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino: “La cosa paradossale è che questo stato condanna non solo chi ha sbagliato, ma soprattutto condanna i suoi servitori a vivere in situazioni di degrado”. E ad avviso dell’Avvocatura, non sembra reggere nemmeno l’ipotesi di impiegare caserme per fare nuovi istituti: Raffaele Conte, presidente della camera penale friulana di Udine “Non è possibile, ha bisogno di strutture, metrature, modi di essere... personale, pure per carcere che bisognerebbe sorgere”. Bolzano. “Detenuti nelle caserme? Un’idea insensata” di Francesco Mariucci Corriere dell’Alto Adige, 17 agosto 2023 L’assessore provinciale al Patrimonio Massimo Bessone replica al ministro e rilancia sul nuovo carcere: “Serve più grande”. L’annoso problema del carcere di Bolzano va risolto con la costruzione di una struttura più grande e moderna, piuttosto che distribuendo i detenuti nelle caserme in disuso. Parole e musica dell’assessore provinciale al Patrimonio Massimo Bessone, che smentisce l’ipotesi lanciata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il Guardasigilli aveva infatti annunciato l’intenzione di utilizzare le strutture militari dismesse per ospitare detenuti condannati per reati minori, in modo da dare respiro ai penitenziari sovraffollati di tutta la penisola. Ieri però è arrivata la frenata di Bessone: “Diciamo un secco no a questa ipotesi. Nessuna caserma di proprietà della Provincia sarà usata come carcere” fa sapere l’assessore leghista. Una replica fondata sulla necessità di non deviare dall’obiettivo principale: la realizzazione del nuovo carcere di Bolzano, il cui finanziamento (un centinaio di milioni) è stato più volte promesso da Roma ma che è tuttora fermo anche a causa dei guai giudiziari della società vincitrice dell’appalto, Condotte spa finita in amministrazione controllata. E poi, alcune di queste strutture militari - su la caserma Huber in viale Druso - sono state già “promesse” alle diverse amministrazioni comunali per la realizzazione di nuove case (a Bolzano si parla di circa 700 alloggi Ipes da edificare subito dopo il trasloco dei reparti in via Vittorio Veneto). Ed è proprio questo il punto portato avanti dall’assessore Bessone: “Se a Bolzano vi è un’area militare in disuso, ritenuta di interesse pubblico che una volta riqualificata potrà servire a costruire appartamenti, scuole, parchi, per i cittadini e se questa aerea ha un valore (nel nostro esempio) di 10 milioni di euro, noi operiamo in più fasi” spiega. Primo passo la firma di un accordo trilaterale tra Provincia, Difesa e Demanio militare. Seguono il risanamento della caserma ancora in uso all’esercito, passaggio che una volta completato certifica il passaggio nel patrimonio provinciale. Infine, il dialogo tra Provincia e sindaci per stabilire le modalità di passaggio dell’area e la destinazione finale. Da qui il rifiuto di Bessone: “È fuori da ogni logica utilizzare come carceri queste aree, ormai provinciali, acquisite per interesse pubblico, con già una destinazione. Doverle ri-destinare un’altra volta allo Stato è complicato e dispendioso perché bisognerebbe spendere decine e decine di milioni di euro per adattare temporaneamente edifici, fatiscenti e abbandonati da decenni, a carceri, sapendo poi che queste strutture prima o poi sarebbero comunque abbattute. I comuni, i cittadini e le famiglie queste aree non le vedrebbero mai!” conclude l’assessore. Infine, la pungolatura sul finanziamento del nuovo carcere cittadino: “Sarebbe meglio che il ministero competente ci dia i soldi per un nuovo carcere a Bolzano, noi il terreno lo abbiamo già espropriato e pronto da tempo. E - conclude Bessone - per quanto riguarda un possibile ridimensionamento del progetto, che si mettano d’accordo loro, visto che le direttive sulla costruzione vengono dall’amministrazione penitenziaria. Tengano conto che il carcere di Bolzano sono detenute più di 100 persone (su 88 posti regolamentari ndr), se lo si deve costruire che sia una struttura più grande”. Firenze. Detenuti nelle ex caserme, sì di Nardella a Nordio di Mauro Bonciani Corriere Fiorentino, 17 agosto 2023 Il sindaco di Firenze Dario Nardella apre all’utilizzo delle ex caserme per diminuire l’affollamento delle carceri, come proposto dal ministro Nordio. “Per i reati più lievi vanno utilizzate al massimo strutture dello Stato abbandonate a partire dalle caserme parzialmente o totalmente inutilizzate”, dice. Nell’omelia di Ferragosto in cattedrale il cardinale Giuseppe Betori ha ricordato la situazione di Sollicciano, ed in attesa di capire se anche a Firenze ci sono ex caserme idonee ad ospitare le persone recluse per reati lievi, il sindaco Nardella si dice d’accordo con l’idea del ministro della Giustizia Nordio. Ma chiede risorse per rendere effettive le politiche di reintegro nella società dei detenuti. Il cardinale e arcivescovo Giuseppe Betori parlando in Santa Maria del Fiore, dopo aver sottolineato in riferimento al rapimento della piccola Kata “si è consumato un crimine in un contesto di emarginazione di cui tutti dobbiamo sentirci responsabili”, ha scandito: “La stessa preoccupazione va nutrita verso le condizioni di abbandono in cui versa il nostro carcere fiorentino di Sollicciano, così come altri penitenziari nel Paese, di cui sono tragici segnali i numerosi suicidi: da anni se ne denunciano la fatiscenza, le carenze igieniche e sanitarie, il sovraffollamento, l’insufficienza di percorsi educativi e l’assenza di lavoro”. L’emergenza a Sollicciano riguarda tutti i settori, ad iniziare dalla fatiscenza della struttura, tanto che si è parlato di demolirlo e ricostruirlo, e contro i 440 detenuti previsti oggi ve ne sarebbero quasi seicento. Tra la decina di caserme censite nell’ultimo elenco di Difesa Servizi degli immobili non residenziali disponibili per essere affidati in concessione figura anche il carcere di “Santa Chiara” a Siena, su Firenze per adesso non c’è nulla anche perché nella caserma di Rovezzano dovrebbe andare un comando Nato mentre a i Lupi di Toscana a Scandicci sono previste case, alloggi per studenti e un centro commerciale. Nardella però chiede un cambio di passo: “La situazione è al collasso da anni. Governo e Parlamento affrontino una volta per tutte il problema invece di lasciare che le criticità aumentino. Le nostre città vivono ogni giorno il paradosso delle carceri, che invece di essere luoghi di recupero diventano bombe sociali a orologeria in mezzo al tessuto urbano”. E Sollicciano? “Nonostante tutti gli sforzi degli enti locali che firmano accordi e condividono progetti con la direzione del carcere - dice Nardella - la situazione rimane drammatica, tra sovraffollamento, carenza di personale penitenziario, carenza di assistenti sociali, condizioni di detenzione disumane, suicidi, violenze e gesti di autolesionismo. Sollicciano sta diventando l’emblema dell’emergenza carceraria italiana”. Un problema, cui si aggiunge quello delle risorse. “Nel nostro Paese ogni detenuto costa alla comunità 154 euro al giorno, di cui solo sei vengono spesi per il suo mantenimento, solo 35 centesimi per la sua rieducazione, quella di cui parla la Costituzione italiana. Il risultato è che le carceri italiani sono sempre più fabbriche di delinquenza e di rabbia sociale, come dimostrano i pochi dati disponibili sulla recidiva. Quasi il 70% di persone che entrano in carcere tornano a delinquere, una volta usciti”. Poi c’è il problema infrastrutturale. “Infatti. Sollicciano ha il problema strutturale dell’inadeguatezza degli immobili, vecchi e inefficienti. La soluzione, per Firenze come per molte altre città, è la riprogettazione e la ricostruzione graduale e completa del carcere secondo standard moderni incentrati sulla rieducazione del detenuto. In secondo luogo occorre rilanciare le case mandamentali e circondariali per i reati più lievi, utilizzando al massimo strutture dello Stato attualmente abbandonate a partire dalle caserme parzialmente o totalmente inutilizzate”. E dopo l’aperura a Nordio il sindaco conclude: “Occorre un fondo nazionale per il reinserimento dei detenuti grazie corsi di formazione professionale, creazione di laboratori interni alle strutture, avvio di accordi con le autorità locali per dare opportunità di lavoro”. Prato. Sopralluogo alla Dogaia: “Pochi progetti di lavoro e personale sotto organico” di Anna Beltrame La Nazione, 17 agosto 2023 I rappresentanti di Nessuno Tocchi Caino, con alcuni esponenti politici e gli avvocati Terranova e Mazzoncini, hanno visitato il carcere a Ferragosto. Celle con tre detenuti invece dei due previsti dalla capienza massima, sottufficiali, sovrintendenti e ispettori sotto organico del 40%, zona docce con gravi carenze igieniche, scarafaggi presenti nelle sezioni 1 e 2, cambio lenzuola una volta ogni due mesi, assenza di lavatrici e asciugatrici, e pessimo stato di manutenzione delle salette di socialità. È la situazione del carcere della Dogaia che emerge dal consueto sopralluogo ferragostano da parte di Matteo Giusti e Barbara Soldi in rappresentanza di Nessuno Tocchi Caino e Radicali Italiani, del consigliere comunale Pd Lorenzo Tinagli, degli avvocati della Camera Penale Gabriele Terranova e Sara Mazzoncini, e di Giacomo Bechini in rappresentanza di Più Europa. Il primo tema emerso è quello della mancanza dei ruoli guida del carcere di Prato. Vincenzo Tedeschi infatti non è il direttore di ruolo, bensì si divide nell’incarico con l’istituto Gozzini di Firenze. E lo stesso vale per il ruolo di comandante che risulta scoperto e al momento occupato dal reggente Salvatore Fiorenzano. A differenza del passato non c’è il problema del sovraffollamento, visto che i detenuti sono 507 a fronte di una capienza di 589 carcerati. Ma nonostante questo in molte sezioni ci sono tre detenuti a fronte di una capienza massima di due posti. Sul fronte dell’organico della polizia penitenziaria c’è una grave carenza di sottufficiali, sovrintendenti e ispettori, che tocca punte del 40%. Critica anche l’occupazione quotidiana dei detenuti. Solo 110 lavorano mensilmente nelle attività domestiche di cucina e pulizie. E soprattutto al momento non ci sono progetti di lavoro con ditte esterne. Situazione che da febbraio 2024 dovrebbe essere ovviata da un bando della Regione che permetterà di attivare 10 corsi da 100 ore ciascuno, in cui inserire tra i 60 ed i 100 detenuti per percorsi specializzanti. Nelle docce comuni, stando al resoconto del sopralluogo “permane il problema dell’igiene e della manutenzione”. Il sopralluogo si è poi spostato nelle sezioni 1 e 2. “Si segnalano criticità a livello igienico, sono presenti scarafaggi e i locali doccia non sono manutenuti - spiegano -. Inoltre il cambio delle lenzuola dal 17 giugno scorso è stato nuovamente effettuato il 13 agosto. In seconda sezione si segnalano inoltre carenze di suppellettili. In queste due sezioni non sono presenti nemmeno la lavatrice e l’asciugatrice ed anche la saletta dedicata alla socialità è in stato di manutenzione pessimo. In queste due sezioni è in servizio un solo agente di polizia penitenziaria, peraltro giovane, per la gestione di molti detenuti: sono 25 camere detentive per ciascuna sezione quasi tutte con 3 detenuti ciascuna”. “Nelle sezioni ci sono diverse tensioni etniche dovute all’alta percentuale di stranieri presenti nell’istituto - sottolineano i protagonisti del sopralluogo -, creando negli ultimi mesi molti disagi ai carcerati oltre che a tutto il personale della Dogaia. Alla luce di tutto ciò non possiamo che esprimere la massima preoccupazione per il futuro dell’istituto, dei detenuti e di tutti coloro che con grande passione e abnegazione vi lavorano”. Lecce. “Chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione” di Ada Fiore Il Riformista, 17 agosto 2023 Quando si parla della detenzione nel sistema carcerario italiano, l’attenzione è quasi sempre concentrata sugli aspetti quantitativi del problema, come il sovraffollamento o la mancanza di personale di vigilanza. Problemi gravissimi sicuramente, ma che da anni riempiono solo le pagine dei giornali in attesa di rispose definitive. Sarebbe al contrario utile provare a ragionare sulla funzione rieducativa che una detenzione dovrebbe prevedere. E che dovrebbe rappresentare l’obiettivo ultimo in ottemperanza dell’articolo 27 della nostra Costituzione. Ma come si intreccia l’articolo 27 con la realtà quotidiana dei detenuti? A parlare con loro, in carcere si acquisiscono solo tutte quelle competenze utili a ritornarci una volta usciti. “Qui siamo trafficanti, ladri, cosa dovremmo imparare tra di noi?” mi dicono. Perché è vero. Non c’è alternativa a quel maledetto tempo che deve pur scorrere in qualche modo, e parlare con i compagni di cella diventa l’unico modo per sopravvivere a quell’agonia esistenziale. Anche parlare con lo psicologo o con l’educatrice diventa complicato in un contesto in cui le richieste arrivano a centinaia. Le opportunità di crescita educativa e culturale sono molto limitate, spesso legate solo a qualche progettualità attivata da soggetti esterni. Da qualche anno, però, (un po’ rallentato a causa delle ristrettezze Covid) nel carcere di Borgo san Nicola di Lecce, abbiamo avviato una sperimentazione di Service learning, una modalità didattica con la quale si mette a disposizione di un disagio il proprio sapere. E così, alcuni studenti del liceo Francesca Capece di Maglie sono stati accompagnati a svolgere delle lezioni ai detenuti trasferendo loro contenuti e saperi, ma soprattutto scambiandosi opinioni e punti di vista. I programmi ministeriali sono stati rielaborati ed esposti in una forma semplice in grado di arrivare a chiunque: lettura di poesie da commentare, pensieri filosofici da analizzare ma anche eventi di storia da cui trarre insegnamenti. L’arricchimento è stato reciproco. I ragazzi hanno vissuto una vera esperienza di cittadinanza attiva utile ai fini del loro percorso del PCTO, (percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento) poiché oltre a mettere a frutto i propri studi, hanno imparato a conoscere il sistema carcerario, verificarne i disagi, e soprattutto si sono esercitati ad abbattere ogni forma di pregiudizio nei confronti di chi, pur sbagliando, ha sempre diritto ad una nuova opportunità. E così, in un dialogo alla pari, i detenuti si sono sentiti finalmente persone, chiamate per nome e riconosciute anche per i propri pensieri ed emozioni. Perché in fondo comincia da qui un percorso di rieducazione e reinserimento: dalla sensazione che nonostante i propri errori, c’è qualcuno disposto ad incontrarti e ascoltarti. E farlo con giovani liceali, molto spesso identificati con i propri figli è uno straordinario inizio. Sarebbe utile se queste esperienze fossero estese in tutte le scuole d’Italia anche attraverso un vero Protocollo d’intesa tra il Ministero dell’Istruzione e del Merito e il Ministero di Giustizia. Perché lo si può fare in tempi rapidi e senza nemmeno grandi risorse. Ma solo con la consapevolezza che, come diceva Hugo, “Chi apre le porte di una scuola, chiude una prigione”. E questa esperienza ne è la testimonianza. Contro la violenza di genere ci vuole una giustizia alternativa di Raffaele Alberto Ventura* Il Domani, 17 agosto 2023 I processi per violenza sessuale possono essere un calvario per le vittime, se alla ricerca della verità si sostituisce lo sforzo per decredibilizzarle. Un’altra giustizia è possibile: la racconta Giusi Palomba in “La trama alternativa”, partendo da un’esperienza interna ai movimenti di Barcellona. C’è voluta qualche settimana perché il presidente del Senato Ignazio La Russa si risolvesse ad adottare un basso profilo nella vicenda che coinvolge suo figlio Leonardo, accusato di violenza sessuale. Le prime esternazioni del politico, però, erano state paradigmatiche. Rovesciando sulla denunciante una serie di contro-accuse (drogata, millantatrice, mancava solo di facili costumi) La Russa non aveva fatto altro che anticipare i classici argomenti che nei tribunali vengono effettivamente snocciolati dagli avvocati della difesa. La denuncia di una violenza finisce spesso per diventare un ulteriore calvario, un processo al contrario giocato sulla decredibilizzazione delle testimonianze. Il mondo allora si sfalda in un’allucinazione in cui nessuna cosa è reale “oltre ogni ragionevole dubbio”. Si cerca la “vittima perfetta” e non la si trova. Non sempre, d’altronde, c’è un “colpevole perfetto”. L’invasione di campo del presidente del Senato è stata ampiamente condannata, mentre resta sostanzialmente irrisolto il nodo - ben più drammatico - del sistema con cui viene “fatta giustizia” in casi del genere. D’altronde sarebbe pericoloso rinunciare alla presunzione d’innocenza. Negli ultimi anni, come ha scritto The Intercept, sono esplose le contro-cause per diffamazione ai danni delle donne che denunciano. Dove stiamo sbagliando? Processo e contro-processo - È come se l’accertamento della verità giudiziaria, soprattutto quando si affrontano in tribunale la parola dell’uno contro quella dell’altra, inevitabilmente richiedesse la reciproca mostrificazione. A contrapporsi non sono più due persone, ma due strategie processuali. Si ripensi alla sentenza del 2015 per lo stupro della Fortezza da Basso a Firenze, dove venne soppesata la sessualità anticonvenzionale della vittima - una sentenza molto discussa, poi sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, per essere incorsa in una “vittimizzazione secondaria”. Nel processo l’attenzione si sposta dall’evento in sé, stratificato come nel Rashomon di Kurosawa, al giudizio sulla moralità dei suoi protagonisti. Le parti non sono in alcun modo spinte a cooperare per negoziare una versione dei fatti condivisa, ma incentivate ad annientarsi a vicenda. Finché dove prima c’erano due persone non resta nient’altro - per l’intera società e per il resto della loro vita - che una vittima e un colpevole. Nessuna verità, nessuna redenzione, nessuna rieducazione. E forse neanche nessuna dissuasione, dal momento che tutto viene fatto per occultare le cause fin troppo banali che portano all’evento traumatico. Il sesso non consensuale continua a essere pensato unicamente secondo la stereotipo dell’aggressore sconosciuto nel vicolo buio. Ma l’epidemia di denunce degli ultimi anni riguarda casi diversi, che meriterebbero ben altro approccio. Nella zona grigia tra due reati facilmente identificabili - da una parte la coercizione fisica o chimica, dall’altra la diffamazione - esiste uno spettro fin troppo ampio di situazioni frequenti e di esperienze traumatiche, di prepotenze, di ricatti, di malintesi, di clash culturali, di rapporti di forza. Queste situazioni grigie devono essere prevenute, ed evidentemente non stiamo ancora facendo abbastanza; ma non dovrebbero esserlo attraverso una repressione di massa, militarizzando lo spazio sociale o auspicando una nuova “grande reclusione”. Queste esperienze reclamano giustizia; ma è una giustizia che i tribunali faticano a produrre. Il problema è che l’attuale sistema di risoluzione delle controversie appare sempre più inadeguato. E se ne esistesse un altro? Altra trama - Forse esiste. Lo racconta un libro di Giusi Palomba da poco uscito per minimum fax, La trama alternativa: un oggetto ibrido, tra il saggio e il romanzo, che offre il racconto dettagliato di un esperimento di giustizia molto diverso. Palomba racconta la sua esperienza barcellonese, quella di un attivista accusato di violenza che viene sottoposto a una particolare procedura interna alla comunità militante, per precisa volontà della vittima - la quale probabilmente non sarebbe stata presa sul serio dalla giustizia regolare, per la quale la zona grigia non esiste. Qui invece nessuno cerca vendetta. Nessuno vuole mandare in carcere o mettere in difficoltà una persona economicamente fragile. Nessuno vuole nemmeno “ricostruire una sequenza di eventi” bensì “constatare che la donna ha vissuto qualsiasi cosa sia successo” e indipendentemente dalla convinzione del suo responsabile, “come una violenza”. Perciò all’attivista accusato viene chiesto di seguire “un percorso collettivo per comprendere l’impatto della sua violenza e cercare di ripararla”. Questo significa per lui, tra le altre cose, sacrificare la sua posizione all’interno dell’organizzazione e i suoi incarichi pubblici: accettare di fare un passo indietro, fino a scomparire, lasciando spazi ad altri e ad altre. Può suonare un po’ hippie, scrive Palomba, eppure questo protocollo ha permesso di evitare sia una colpevolizzazione sterile che una repressione brutale, approdando a una sorta di riparazione del male commesso. E senza fornire nessun pretesto alla macchina securitaria dello stato per estendere il suo monopolio della violenza. Verità e riconciliazione - Questo può funzionare soltanto se il contrappasso risulta davvero all’altezza del torto subito, e la giustizia alternativa non appare alle vittime come una giustizia minore. Non si appaga la sete di giustizia con i buffetti e le sanzioni amministrative. Perciò sono necessarie nuove e solide istituzioni, per questo stanno già apparendo informalmente dalle singole comunità, prendendosi carico di ciò che lo stato non riesce a fare (nella società patriarcali lo faceva la famiglia estesa o il clan). Sappiamo che sarebbero molte di più le controversie che meriterebbero giustizia, ma non possono essere portate tutte a processo: scoppierebbero le carceri. L’esperienza barcellonese ricorda quella della giustizia transizionale in Sudafrica. Nell’impossibilità di processare l’intera popolazione bianca che aveva, in un modo o nell’altro, contribuito all’apartheid, si è preferito allestire una Commissione per la verità e la riconciliazione. I bianchi venivano incentivati a confessare in maniera trasparente le loro responsabilità così che fosse possibile negoziare una verità condivisa. Se quella che stiamo vivendo oggi nei rapporti tra i generi è una rivoluzione anche solo minimamente paragonabile, allora quel modello potrebbe essere produttivo. L’alternativa all’alternativa, spiega Palomba, è poco auspicabile: “femminismo carcerario” nel migliore dei casi, incubo burocratico-repressivo nel peggiore, confusione di “giustizia e punizione” in generale. Come se l’unica giustizia possibile per i casi nella zona grigia fosse quella penale. Nuove regole del gioco - Scrive ancora Palomba: “Credo senza indugi a una donna che ha subito un’aggressione, ma l’idea che chi l’abbia aggredita venga rinchiusa per anni mi risulta angosciante”. Se questo approccio può sembrare debole e idealista nei casi penalmente rilevanti, quelli fuori dalla “zona grigia”, esso costituisce probabilmente l’unico modo di ottenere giustizia per ciò che accade al suo interno. Si ripete spesso che la soluzione non è proteggere le donne, ma educare i maschi. Il problema di questa soluzione è che nessuno sa precisamente che cosa insegnare ai maschi né come insegnarglielo. La vera urgenza, oggi, è stabilire dei codici minimi, delle “regole del gioco” condivise (Palomba cita le leggi spagnole sul consenso). Regole che, tra le altre cose, impediscano a politici di alto rango, cresciuti negli anni della rivoluzione sessuale, di cadere dal pero quando gli si fa notare che certi comportamenti sono socialmente distruttivi. Ma se per cambiare il mondo accettiamo di delegare l’autonomia degli individui e delle comunità a poliziotti, burocrati e algoritmi, allora il mondo che avremo costruito sarà il più pervasivo dei dispotismi tutelari. Forse si tratta del destino inevitabile per una civiltà che produce rischi di ogni genere, ma l’idea che esistano delle forme di regolazione dal basso lascia sperare in un’alternativa. “La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere” (minimum fax 2023, pp. 243, euro 18) è un libro di Giusi Palomba *Scrittore Sulla presunta “non pericolosità” del taser. Comunicato Forum Salute Mentale APS di Peppe Dell’Acqua* Ristretti Orizzonti, 17 agosto 2023 La drammatica notizia del 35enne con problemi psichiatrici morto, in un centro in provincia di Chieti, dopo essere stato bloccato con un taser e quindi, secondo le notizie di cronaca che leggiamo, essere stato sedato. Sarà l’inchiesta aperta con l’ipotesi di omicidio colposo a chiarire i molti dubbi sulla dinamica del tragico episodio. Ma intanto alcune cose riteniamo vadano dette per invitare a un serio momento di riflessione che riteniamo vada fatto. Della necessità del taser, “arma che non uccide”, ci si affrettò a parlare alcuni anni fa dopo l’uccisione di un ragazzo di vent’anni, di origine ecuadoregna, Jefferson Tomalà, ucciso a Genova con cinque colpi di pistola, nel corso di un presunto TSO. Enfatizzando, come ultimamente troppo spesso si fa, l’aspetto della sicurezza piuttosto che favorire il ragionamento su come meglio aiutare, gestire, controllare anche, una persona in un momento di confusa, disperata agitazione. Ricordiamo che sulla presunta “non pericolosità” del taser, introdotto come strumento di prevenzione del crimine, serie obiezioni sono state a suo tempo avanzate innanzitutto in campo medico, mentre da tempo Amnesty International denuncia le decine e decine di morti collegate all’uso del taser nei paesi, fra cui gli Stati Uniti, dove è in uso da tempo. Un’arma “meno che letale”, si insiste, contro i malviventi… ma da subito ci siamo chiesti quante altre persone, agitate, magari sconvolte o persone esasperate (e quante ne incontriamo di questi tempi per strada) con scarsa capacità di autocontrollo, persone che magari con gesti inconsulti temiamo attentino alla nostra tranquillità, corrono il rischio di essere inchiodati allo spasmo di una sorta di elettrochoc. E la vicenda di questi giorni purtroppo conferma questi timori… Questo strumento non fa altro che confermare una sorta di distanza, come una voragine, che si va creando sempre più fra noi e le persone che vivono un’esperienza di disturbo mentale, per cui qualsiasi strumento diventa lecito dal momento in cui quella persona finisce di essere tale. Tornando indietro di decenni, la persona affetta da disturbo mentale diventa oggetto. Qui si parla di una persona nuda per strada, ma cosa sia successo a lui prima, il suo percorso, il suo dolore, nessuno se lo chiede. Come il suo sconvolgente malstare era stato preso in carico dai servizi di salute mentale che pure ben conoscevano questo giovane uomo. Noi continuiamo a pensare che questa supremazia della pericolosità e della sicurezza non fanno altro che indurre a cancellare una visione della cura che è quanto di più necessario mettere in campo se si vogliono davvero affrontare il disagio che ci interroga sempre più drammaticamente. Al primo posto è la persona col suo dolore, e a partire da qui bisogna agire. Noi ci domandiamo quale cultura avessero quegli inconsapevoli agenti di polizia che hanno usato questo strumento di “distanziamento” che è il taser. Come hanno potuto vedere in un uomo che corre nudo e disarmato una minaccia grave per la l’incolumità degli altri. Siamo molto colpiti dal silenzio (ma forse potevamo attendercelo) delle psichiatrie che sempre più tendono a ridurre uomini e donne a oggetto. Psichiatrie che non sono più in grado di scandalizzarsi né di fronte a queste morti, né di fronte alle morti per contenzione o per abbandono, né alla morte per riduzione all’invisibilità del “cronico”, proprio da queste psichiatrie dominanti prodotte. Noi pensiamo che ripartire con molto rigore da una riflessione intorno alla cura può rappresentare un concreto punto di partenza. La cura, intesa come miglior modo per riconnettere la frammentazione che c’è stata e che porta a episodi come questo da cui parte la nostra riflessione. La cura che, come ha insegnato Basaglia, è quanto di meglio possiamo mettere in campo. Per praticarla abbiamo strumenti efficaci: da una vasta cultura su come affrontare la presenza dolente degli altri, alle tante esperienze fatte che da cinquant’anni a questa pare indicano la strada da seguire. Condividendo quanto detto da Mauro Palma, garante dei diritti delle persone private della libertà, che “non è accettabile che l’operazione per ricondurre alla calma una persona in evidente stato di agitazione e, quindi, di difficoltà soggettiva, si concluda con la sua morte”, *Forum Salute Mentale APS Migranti. Il Viminale studia le espulsioni: rimpatri per chi è sotto processo di Serena Riformato La Stampa, 17 agosto 2023 L’intervento annunciato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi entro settembre avrà l’impianto dei precedenti decreti Sicurezza: una parte dedicata alla gestione dei flussi migratori, l’altra sviluppata intorno a nuove norme per la tutela e il rafforzamento dei corpi di polizia. Sull’immigrazione l’obiettivo ribadito rimane uno solo: “Espulsioni più rapide”, sintetizza il sottosegretario leghista all’Interno Nicola Molteni. Dal punto di vista infrastrutturale è la continuazione del processo già avviato con la legge di Bilancio e il decreto Cutro per la costruzione di nuovi Cpr, strutture in cui i migranti non dovrebbero essere trattenuti più di un mese in attesa dell’esecuzione dei provvedimenti di espulsione. A Pozzallo, in Sicilia, sono iniziati i lavori per il primo di questi centri, come annunciato dal commissario per l’emergenza Valerio Valenti. L’inedito di settembre riguarderà invece la “cornice normativa”. Gli uffici del Viminale stanno lavorando con il ministero della Giustizia in direzione di uno “snellimento procedurale”, spiegano, nello specifico per allontanare dal Paese i soggetti pericolosi. Oggi, per fare un esempio concreto, i migranti in attesa di processo non possono essere rimpatriati. Su impedimenti di questo tipo si starebbe concentrando la valutazione dei due dicasteri. Ma le espulsioni scontano le difficoltà di sempre: pochi accordi con i Paesi di origine; gli ostacoli pratici nell’organizzazione. E quindi se la strategia del governo è chiara, sull’efficacia è impietoso lo scontro con i dati ufficiali forniti dallo stesso Viminale con il tradizionale dossier di ferragosto. Il ministro dell’Interno Piantedosi si rallegra per aver “ottenuto nell’ultimo anno un incremento delle espulsioni del 30 per cento”. In numeri assoluti, questo vuol dire che da gennaio a luglio 2022 sono stati rimpatriati 2mila irregolari; quest’anno, nello stesso periodo, ne sono stati allontanati 2.500. L’incremento del 30 per cento si quantifica in 500 persone in più. Una cifra che sbiadisce se accostata agli arrivi: 12mila migranti sbarcati sulle coste italiane solo ad agosto, oltre centomila dall’inizio del 2023, più del doppio rispetto all’anno scorso (+107%). Una delle cause è evidente, l’instabilità della Tunisia che negli ultimi sette mesi ha superato la Libia ed è diventato il primo Paese nordafricano per partenze verso l’Italia. Dal governo, però, negano che il Memorandum firmato a luglio con il presidente tunisino Kais Saied stia tardando a dare i suoi frutti: “La Guardia costiera tunisina ha già soccorso e riportato a riva 40mila persone”, sottolinea il sottosegretario Molteni: “In ogni caso - aggiunge - l’accordo non è il punto di arrivo, ma di partenza in una gestione delle frontiere concentrata sul blocco degli imbarchi”. Così pure il ministro degli Esteri Antonio Tajani si dice certo che “se non avessimo aiutato la Tunisia, sarebbero partite decine di migliaia di persone da Sfax”. Più di quanto già avvenga: “Ne partono qualche centinaio, è vero - commenta il vicepremier alla Versiliana - ma siamo riusciti comunque a frenare la fuga da quel Paese, che è diventato di transito”. Migranti. I numeri del Viminale che smentiscono Piantedosi di Giansandro Merli Il Manifesto, 17 agosto 2023 Il dossier annuale mostra sbarchi in aumento non solo dalla Tunisia, come sostenuto dal ministro. E intanto il memorandum fa flop. Ostacolare le Ong ha solo scaricato tutto il peso dei soccorsi sulla guardia costiera. I numeri del rapporto ferragostano del ministero dell’Interno misurano la distanza tra la retorica del governo e la realtà dei fatti sul terreno delle politiche migratorie. Sono aggiornati al 31 luglio, dunque per gli sbarchi complessivi meglio guardare al Cruscotto statistico giornaliero del Viminale che ieri ha certificato ufficialmente il superamento di quota 100mila: 101.386 persone alle 8 del 16 agosto. Il dossier presentato l’altro giorno, però, mostra i dati in forma disaggregata permettendo di approfondire alcuni fenomeni. Per esempio quello delle diverse rotte migratorie. In un’intervista apparsa martedì sul Messaggero il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha provato a giustificare il “record di sbarchi” con la “drammatica crisi socio-economica in Tunisia”. “Prova ne sia che se le statistiche fossero limitate agli altri paesi tradizionalmente di partenza (Algeria, Libia, Turchia e via dicendo) - ha sostenuto il ministro - i dati degli arrivi nel nostro paese sarebbero addirittura in calo”. Falso. Lo mostrano i numeri del suo ministero. Nei primi sette mesi del 2022 dalla Libia erano arrivate 22.787 persone. Nello stesso periodo dell’anno in corso 30.075. L’aumento è del 32%. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) mostra che le intercettazioni della sedicente “guardia costiera libica” sono calate: 9.756 quest’anno, 12.063 nel periodo corrispondente del 2022. Forse anche per questo il governo ha pensato di regalare altre tre motovedette a Tripoli (da aggiungere alle dieci unità veloci già date in dotazione). Questa volta, ha rivelato il giornalista di Radio Radicale Sergio Scandura, i mezzi sono nuovi di zecca: erano destinati alla guardia costiera italiana ma finiranno ai libici, avrebbero potuto salvare vite invece le riporteranno a forza nei centri di prigionia. Tornando alle dichiarazioni di Piantedosi, è vero che gli sbarchi sono diminuiti dalle altre rotte, ma si tratta di numeri residuali. Dalla Turchia sono scesi da 6.468 a 4.003. Dall’Algeria da 461 a 387. Per non parlare degli arrivi da Grecia, Siria e Libano: sono stati zero. Nel 2022 furono rispettivamente: 6, 8 e 595. Non si capisce, poi, perché il ministro usi “l’anomalia Tunisia” per giustificare un esecutivo, il suo, che proprio sul memorandum anti-migranti siglato tra Ue e Tunisi ha puntato tutto. Il giorno della firma la premier Giorgia Meloni celebrava “un obiettivo molto importante che arriva dopo un grande lavoro diplomatico”, parlando addirittura di “un modello per costruire nuove relazioni con i vicini del Nord Africa”. Era il 17 luglio. Un mese dopo i conti li fa il ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) Matteo Villa: “Nelle quattro settimane precedenti il memorandum Ue-Tunisia, gli sbarchi dalla Tunisia in Italia erano stati 16.507. Nelle quattro settimane successive 17.592”. Nel dossier del Viminale c’è un altro particolare degno di nota: quello dei migranti salvati in operazioni di ricerca e soccorso (Sar). Nei primi sette mesi dello scorso anno erano stati 19.171, il 46% sul totale degli arrivi via mare. Nel 2023, anche grazie all’indignazione per la strage di Cutro oltre che all’aumento complessivo degli sbarchi, sono state 64.764, ben il 72% del totale. La strategia di spedire le Ong a centinaia di chilometri subito dopo il primo soccorso, salvo chiedere loro aiuto nei momenti di estrema difficoltà, ha però fatto diminuire l’incidenza delle organizzazioni umanitarie. Nonostante navi e velieri siano di più hanno salvato il 4,24% delle persone sbarcate. Nei primi sette mesi del 2022 la percentuale era del 15,2%. Che significa? Semplice: ostacolare le Ong non ha ridotto gli arrivi via mare - come sarebbe dovuto avvenire secondo il falso teorema del “pull factor” agitato da Piantedosi & co. - ma solo la capacità di intervento delle navi umanitarie, moltiplicando il peso dei soccorsi che ricade sulla guardia costiera. Non è un caso se nei giorni di bel tempo le squadre di Lampedusa sono costrette a turni massacranti e vanno in affanno. Un vero capolavoro del Viminale e del governo tutto, compreso quel Matteo Salvini che si trova a capo del ministero delle Infrastrutture da cui la guardia costiera dipende. Altro capitolo sono i canali di accesso legale che, insieme alla caccia agli scafisti “in tutto il globo terracqueo”, secondo Meloni avrebbero dovuto far calare sbarchi e morti in mare. Dal 22 ottobre scorso, quando il suo esecutivo è entrato in carica, in Italia sono arrivate 1.042 persone attraverso i tre percorsi esistenti per chi necessita di protezione (reinsediamento, corridoi umanitari, evacuazione umanitarie). Le nazionalità ammesse sono solo cinque: afghana, siriana, eritrea, sudanese, etiope. Gli arrivi dalla Libia, seguendo la terza strada, sono stati 101. Numeri che dimostrano come, al di là dell’uso politico del tema, l’accesso sicuro e legale al territorio nazionale è ben lungi dal poter rappresentare un’alternativa ai pericolosi attraversamenti del Mediterraneo. Purtroppo. Immigrazione: sbarchi, sparate e la riflessione che manca di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 17 agosto 2023 Gli immigrati già sbarcati nel 2023 sono il doppio di quelli sbarcati nel 2022 quando al governo c’era Luciana Lamorgese accusata dalle destre d’essere “inerme”. “Sbarchi a raffica: ripresa la pacchia per le Ong”. “Ormai gli sbarchi sono un festival”. “Sbarchi e solo sbarchi”. “Più fondi più sbarchi”. “Sbarchi incontenibili”. “Forza sbarchi”. “In 4 giorni 13.000 sbarchi. Ne aspettiamo altri 300mila”. “Nuovi sbarchi, barricate leghiste: “Basta clandestini”. “Fermare gli sbarchi si può. Basta l’esercito”. “Sbarchi, non c’è tregua”. “Nuovi sbarchi e nuovi allarmi: “Governo troppo debole con Ue”. “Sbarchi, non se ne può più”. “Sbarchi raddoppiati nel giro di un anno”. “Chi pagherà le spese dei continui sbarchi?” “Soluzione all’emergenza sbarchi / “Far fuori i trafficanti di uomini”. “Un Machete contro gli sbarchi”. “Fermate gli sbarchi!” “Sono veri profughi solo 5 stranieri su 100. Ieri altri 3000 sbarchi”. “Sbarchi e infezione. Chi ci protegge?” “Record di sbarchi. Salvini sui social: l’invasione continua”. “Basta col finto buonismo. Sì ai blocchi anti sbarchi”. “Parliamo solo di Ucraina dimenticando gli sbarchi”. “Qui aumenta tutto: povertà e sbarchi”. “Effetto Papa: riprendono gli sbarchi”. Quelli che abbiamo elencato così, alla rinfusa, sono solo una parte dei titoli pubblicati in questi anni sulle pagine dei quotidiani italiani più schierati contro l’immigrazione quando al governo c’erano altri. Dice oggi lo stesso ministro degli Interni Matteo Piantedosi, il quale si era fatto subito la fama di non essere uno smidollato parlando di “carichi residuali” e affermando che “la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”, che sì, è vero, gli immigrati già sbarcati nel 2023 sono il doppio di quelli sbarcati nel 2022 (quando al governo c’era Luciana Lamorgese accusata dalle destre d’essere “inerme”) ma che si tratta d’una contingenza “epocale”. Ha ragione: è davvero un momento di passaggio epocale. Così grave da far tremar le vene e i polsi a chiunque abbia la testa sul collo. E sarebbe assurdo, ingeneroso e indecente addossare a Giorgia Meloni, a Matteo Salvini e a questo governo la responsabilità delle enormi difficoltà a contenere la spinta alla fuga dei Paesi più poveri verso l’Europa. Riflettere su tante sparate del passato, però, può aiutare a inquadrare meglio i problemi. Come diceva Renzo Arbore in un vecchio spot: meditate, gente, meditate. Il silenzio assordante di Salvini, che ha perso la sua guerra contro i migranti di Luca Gambardella Il Foglio, 17 agosto 2023 Matteo Salvini non parla più di migranti. Dal vocabolario del segretario della Lega sembra che l’intero glossario sovranista dei tempi andati, alla voce immigrazione, sia stato depennato da mesi. Niente più “porti chiusi”, basta con la “lotta ai clandestini”, persino la Bestia delle campagne social anti ong sembra essersi spenta e nessun allarme “sostituzione etnica” è stato lanciato dalle rive del Carroccio. Un silenzio in curiosa controtendenza con un’emergenza che quest’anno non è mai stata tanto reale. Secondo i dati diffusi ieri dal ministero dell’Interno, nei primi otto mesi del 2023, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, sono sbarcati 101.386 migranti sulle coste italiane, in crescita del 107 per cento. Nonostante i numeri allarmanti, nelle vesti di ministro delle Infrastrutture Salvini si è ritrovato a parlare di sbarchi solamente fra le mura dell’Ucciardone. Ma lì, nell’aula bunker del carcere di Palermo, il segretario della Lega è costretto nella scomoda posizione di imputato, con l’accusa di omissione di atti d’ufficio e sequestro di persona, per aver negato nel 2020 lo sbarco a Lampedusa dei richiedenti asilo soccorsi da un’imbarcazione della ong spagnola Open Arms. Sui social, l’ultimo riferimento di Salvini ai migranti risale a maggio, prima della grande ondata di arrivi, quando il Capitano ha rivendicato con orgoglio la sua amicizia con Marine Le Pen: “Non accetto lezioni sull’immigrazione da chi respinge in Italia donne, bambini e uomini”, aveva scritto su Twitter in uno dei suoi slanci contro il presidente francese Emmanuel Macron. Da allora, silenzio. Messo sotto pressione per le vicende processuali del caso Open Arms, placato dalla sorprendente moderazione che accompagna questo primo anno di governo Meloni, smentito dai fatti e dai numeri sull’efficacia dei respingimenti a fronte di un flusso di arrivi che invece sembra inarrestabile, Salvini non pare voglia continuare una guerra ormai data per persa come quella dei migranti, e forse non più così utile nelle urne. Tanti, troppi i fallimenti. Prima di tutto quello sulle ong. La settimana scorsa, in appena 48 ore, la nave Ocean Viking dell’ong Sos Mediterranée ha compiuto ben 15 operazioni di salvataggio dei migranti - peraltro in zona sar maltese - su esplicita richiesta del Comando generale del Corpo delle Capitanerie di porto di Roma. Sono state 623 le persone recuperate nella più grande operazione di salvataggio di sempre compiuta dalla Ocean Viking. Con buona pace del decreto Cutro, che imponeva alle ong un solo intervento per volta, il comando di Roma ha chiesto aiuto alle navi umanitarie affinché compiessero più salvataggi consecutivi. La stessa cosa era accaduta a luglio, quando si era arrivati a sei interventi di fila da parte di Open Arms - anche in questo caso su richiesta della Guardia costiera -, la stessa ong che ha portato a processo Salvini per i fatti del 2020. A quelle prime avvisaglie di un “pericoloso” cambio di paradigma sulla cooperazione tra Guardia costiera e ong, seguì il silenzio imbarazzato dei leghisti, interrotto solamente dal Foglio per chiederne conto al sottosegretario al ministero dell’Interno, Nicola Molteni, la “mente” dei decreti Sicurezza: “Con Open Arms non collaboriamo, è stato un caso isolato”, ci aveva detto. Un mese dopo, sono i fatti a dimostrare invece che la collaborazione fra ong e Guardia costiera è ormai la prassi, non l’eccezione. Qualcuno fra le stesse navi umanitarie tira sospiri di sollievo sulla nuova gestione dei salvataggi, in discontinuità con gli anni di reggenza salviniana al Viminale. “Si interviene come si dovrebbe in una situazione di normalità”, aveva dichiarato Open Arms. Nel frattempo, Salvini ha mantenuto il basso profilo persino in queste settimane in cui il Mediterraneo pullula di navi delle ong in concomitanza con numeri di partenze elevati, sia dalla Tunisia (da dove sono salpate 54.693 persone da gennaio a luglio), sia dalla Libia (30.075 migranti diretti sulle nostre coste, al netto degli scontri scoppiati a Tripoli negli ultimi giorni e che potrebbero condurre ad ancora più instabilità). Nemmeno questo però è bastato a rilanciare il fantomatico “allarme pull factor”, tanto caro dalle parti del Carroccio fino a meno di un anno fa. Le crepe nell’impalcatura della propaganda leghista, costruita con pazienza in anni di opposizione prima e di governo poi, compaiono anche alla voce accoglienza. Salvini e i suoi hanno dovuto cedere quando il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto Flussi con i numeri più elevati di sempre (circa 500 mila posti). Una scelta “necessaria”, fu il commento a denti stretti di Salvini. Fino ad arrivare alla Bossi-Fini, messa in discussione dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Nessuno in 20 anni aveva mai osato rimettere mano alla legge. Ma ora “si è rivelata inefficace”, si è spinto a dire Piantedosi parlando del provvedimento giudicato da più parti ai limiti dell’incompatibilità con il diritto internazionale per la sua impostazione repressiva. Solo lo scorso gennaio, nell’ambito dei lavori nelle commissioni Trasporti e Affari costituzionali, la Lega aveva tentato invano di inasprire ulteriormente le disposizioni della legge. Oggi, a distanza di pochi mesi, si è capovolto il mondo. Al punto che persino il nuovo decreto Sicurezza, rivisitato a gennaio sotto la dettatura leghista, alla fine è risultato annacquato rispetto alla sua impostazione originaria. L’accesso al Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) era stato limitato ai soli beneficiari di protezione umanitaria, estromettendo i richiedenti asilo. Ma ecco che ora proprio tra le file della Lega si è aperta un’ennesima faglia, con Luca Zaia, governatore del Veneto, in testa a una “cordata” - bipartisan per giunta - di sindaci del nord-est a sostegno della necessità di ricorrere all’accoglienza diffusa piuttosto che agli hotspot. Salvini tace e manda avanti i suoi: “Sull’immigrazione, dati alla mano, l’unico che è davvero riuscito a fermarla si chiama Matteo Salvini”, ha ricordato ieri il presidente dei senatori della Lega Massimiliano Romeo. “Ci vorrebbe un altro decreto Sicurezza”, ha rilanciato Molteni. Ma probabilmente, visti i tempi, finirebbe per essere disatteso anche quello e gli elettori del Carroccio sembrano essere i primi ad accorgersene, se è vero che i tesserati del partito sono in calo (-44 per cento in Lombardia, -26 per cento in Veneto). La battaglia del Capitano è persa, meglio lasciare che sia Meloni a sbrigarsela.