Il Ferragosto nelle carceri dove mancano aria, acqua e letti di Giulia Merlo Il Domani, 16 agosto 2023 I mesi estivi sono, insieme a dicembre, il momento più duro per i detenuti, con pochi agenti e attività ridotte. Il ministro Nordio ha annunciato di voler usare le caserme contro il sovraffollamento ma è destinato a fallire. “Se avessi la bacchetta magica…”, è l’esordio del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che in un’intervista del Corriere della Sera parla anche della tragica situazione delle carceri. Siamo a Ferragosto, l’aria è ferma e rovente per il caldo torrido nei penitenziari dove mancano spazi, in circa la metà anche le docce dentro le celle e in alcuni casi addirittura l’acqua. Proprio per questo in luglio ci sono state proteste a Ravenna e Caltanissetta e il carcere di Avellino è rimasto senza approvvigionamenti idrici per alcuni giorni. Anche respirare è complicato: secondo le ultime rilevazioni dell’osservatorio di Antigone, nel 50 per cento degli istituti le finestre sono schermate e durante la notte in alcuni casi viene chiuso anche il cosiddetto “blindo”, la pesante porta di ferro che chiude le celle e che d’estate riduce ulteriormente la circolazione dell’aria. Secondo quanto osservato dall’associazione Antigone, poi, un minimo di refrigerio è a carico dei detenuti: in molti penitenziari - segnalazioni sono arrivate da Cagliari, Tempio Pausania e Altamura - i ventilatori nelle celle sono a carico dei detenuti, come anche i frigoriferi per tenere fresche le bevande. “A Tempio Pausania i frigoriferi nelle celle sono a carico delle persone detenute e quindi presenti solo nelle celle di chi può acquistarli” e i detenuti “contribuiscono a pagare la corrente sia per i frigoriferi che per i ventilatori”, si legge nel report. Ma soprattutto è difficile quel che più chiedono i detenuti: le visite delle persone care. Il personale penitenziario, infatti, è ridotto a causa delle ferie e anche le attività sono sospese. Come ogni anno, le vacanze agostane - insieme a quelle natalizie in cui il clima di festa difficilmente oltrepassa le sbarre - sono i momenti più drammatici per chi sta scontando pene detentive, nonostante le associazioni si affannino per sopperire alle carenze. Quest’anno, Ferragosto è ancora più nero: le cronache hanno raccontato del doppio suicidio nel carcere di Torino di due detenute, morte a distanza di poche ora l’11 agosto scorso. La prima è stata una detenuta italiana di 28 anni, che si è impiccata con un lenzuolo nella sua cella, la seconda era una donna di 43 anni e di origine nigeriana, che era stata condannata per tratta e immigrazione clandestina con fine pena fissato al 2030. Era rinchiusa in cella alle Vallette in una zona della sezione femminile riservata alle detenute con fragilità mentali dal 22 luglio, aveva smesso di bere e di mangiare e rifiutava assistenza. Agli agenti aveva riferito di voler rivedere il figlio. In questo agosto, i suicidi sono già stati sei a cui si sommano altri 9 nei mesi di giugno e luglio, con un numero totale di 47 da inizio dell’anno. I numeri - Con la bacchetta magica, se potesse Nordio costruirebbe “subito almeno una cinquantina di carceri modello”. I numeri, infatti, parlano di un sovraffollamento che in alcune carceri supera il 183 per cento e che è ormai endemico: su 187 penitenziari, 121 ospitano più reclusi di quelli per cui sono stati costruiti, con un tasso che viaggia attorno al 121 per cento, e 10.000 persone detenute in più rispetto ai posti effettivamente disponibili. Tra i peggiori c’è Poggioreale, a Napoli, dove lo spazio sarebbe per 1632 detenuti ma ce ne sono 2035. Segue Rebibbia, a Roma, con 1499 detenuti rispetto ai 1170 posti e subito dietro Le Vallette di Torino, con 1118 unità di capienza massima e 1446 persone. Proprio in questo carcere è avvenuto il doppio suicidio che ha attivato il ministero della Giustizia. I maggiori disagi però si riscontrano in Lombardia, dove Opera a Milano ospita il 143 per cento di detenuti in più, con 1321 persone contro le 918 previste, ma la situazione è emergenziale anche nelle strutture detentive di Como, Varese e Brescia. L’ipotesi ex caserme - Proprio a ridosso della visita a Torino, Nordio ha annunciato il suo piano, già anticipato in altre occasioni, di utilizzare le ex caserme per alleggerire la pressione del sovraffollamento, adibendole ai detenuti non pericolosi. “È più facile assumere duemila agenti penitenziari e usufruire di spazi esistenti”, e “il monitoraggio delle caserme è già iniziato”, ha spiegato al Corriere. Nordio, da sempre contrario al carcere inteso come unico strumento di pena e che in passato si era detto anche contrario all’ergastolo, ha spesso parlato della necessità di “detenzione differenziata” per i detenuti a modesta pericolosità e di istituire percorsi di reinserimento oltre che di giustizia riparativa. Il piano dovrebbe interessare i circa 9000 detenuti che sono condannati a pene detentive inferiori ai 3 anni: più o meno la stessa cifra del sovraffollamento, visto che al 30 aprile 2023 nelle carceri erano detenute quasi 57 mila persone, contro una capienza complessiva standard di circa 48 mila posti. Dell’ipotesi di utilizzare le caserme come strutture detentive, tuttavia, si parla da almeno vent’anni senza che un progetto concreto abbia visto la luce. Ne aveva parlato nel 2013 la ministra Anna Maria Cancelleri, poi anche Alfonso Bonafede ed erano stati siglati dei protocolli. Nessun progetto, però, è mai davvero decollato. Anche perché molte delle x caserme di proprietà della Difesa o del demanio hanno già altre destinazioni d’uso previste, per uffici pubblici o spazi destinati a funzioni militari per cui le caserme sono state pensate. Del resto, l’iniziativa di Nordio ha incontrato reazioni negative anche da parte dei sindacati della polizia penitenziaria, molto ascoltati dal governo Meloni. Il segretario della Uilpa, Gennarino De Fazio, ha definito l’ipotesi “concretamente impercorribile, perché per i detenuti sarebbero necessarie strutture architettonicamente progettate a questo scopo”. Critiche arrivano anche da Spp, il cui segretario Aldo Di Giacomo ha detto che “la cosiddetta detenzione differenziata con l’intenzione di trasferire detenuti cosiddetti meno pericolosi in caserme o immobili demaniali dismessi, denota la grande confusione che regna nella gestione dell’Amministrazione Penitenziaria con l’effetto di aggravare una situazione che è già ampiamente sfuggita di mano al controllo dello Stato”. L’unica certezza, dunque, per ora rimangono le criticità strutturali di moltissime carceri, primo tra tutti l’istituto di Torino dove sono avvenuti i due suicidi, e la mancanza di risorse per mettere mano agli immobili. Alle carceri, infatti, sono stati tagliati 35 milioni di euro per i prossimi tre anni. Con un problema ulteriore: per ristrutturare gli edifici, le celle andrebbero comunque svuotate almeno parzialmente, spostando altrove i detenuti residenti. Dove, però, non è facile immaginarlo visti i numeri del sovraffollamento. Suicidi in carcere: un inferno ignorato dalla politica di Davide Ferrario Corriere della Sera, 16 agosto 2023 Un’inefficienza totale che ricade sull’ultimo anello della catena: i detenuti. Con doversi ostaggi della situazione: polizia penitenziaria e dirigenti. Serve un cambiamento vero, che non arriva: né da destra né da sinistra. Un giorno il direttore del carcere di Torino, dove ho fatto il volontario per una decina d’anni, si fermò davanti a una porta in un corridoio, la aprì e mi disse: “Guarda dentro”. Lo spazio era quello di un salotto piuttosto ampio, pieno fino al soffitto di rotoli di carta igienica non confezionati. “È roba fallata che la ditta non può mettere in commercio, allora me la sono fatta dare”. Ecco, fuori dai convegni, dai paroloni della politica e dai picchi drammatici di questi giorni, il carcere in Italia è questo: un rifiuto tra i rifiuti, dove ci si arrangia giorno per giorno. Finché l’inefficienza del tutto finisce per scaricarsi sull’anello più debole della catena: i detenuti, come dimostrano i due suicidi di venerdì proprio a Torino e, lo stesso giorno, quello di via Gleno. Ma assieme ai prigionieri, ci sono anche gli ostaggi di questa situazione: personale e dirigenti, alcuni dei quali sono straordinari esempi di “servitori dello Stato”, come si diceva una volta. Anche se immagino che talvolta non si sentano servitori, ma veri e propri servi. Gli agenti, per esempio, sono tra i lavoratori regolari più sfruttati e sottopagati in circolazione. Il carcere mette in cortocircuito la politica, sia di sinistra che di destra. La sinistra perché, pur essendo consapevole dei problemi (come dimostra l’intervento sulla Stampa di Giorgio Gori di due settimane fa), non ha il coraggio né la forza di andare contro un’opinione pubblica forcaiola e giustizialista. La destra perché a parole difende l’istituzione carcere in quanto tale, ma nei fatti se ne frega ampiamente, sia di chi ci langue sia di chi ci lavora, come stanno accorgendosi anche i sindacati del personale, che pure sono un naturale bacino elettorale di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e soci. E così, a cicli periodici, si ripete la solita messa in scena: che talvolta è commedia, più spesso dramma. Intanto, in galera continua a starci gente che, come i tre suicidi di questi giorni, dovrebbe stare in un altro posto, perché il loro problema non è la violenza, ma la tossicodipendenza o il disagio sociale. Il che non significa “liberi tutti”, ma affrontare i problemi per quelli che sono. Altrimenti il carcere continuerà a essere come un ospedale dove si entra, si resta senza cure, e si viene dimessi facendo finta di essere guariti. A spese dei contribuenti. Suicidi in carcere, il Ministro Nordio, Massimo Lopez e Zerocalcare di Umberto Rapetto giano.news, 16 agosto 2023 “Una telefonata allunga la vita” lo aveva già detto Massimo Lopez in una storica pubblicità della SIP (la società telefonica privatizzata quando faceva affari d’oro e prossima ad esser ricomprata dallo Stato ormai spolpata e piena di debiti). Il Ministro Nordio ricorda certamente quello spot, ma esaltarlo a panacea per guarire il “vizio assurdo” (giusto per indicare Pavese e fare una citazione dotta per la gioia di mia moglie che aberra i miei consueti riferimenti clowneschi) mi sembra un pochino eccessivo. Non c’è bisogno di scomodare il Garante per la tutela delle persone private della libertà personale, l’associazione Antigone o le altre realtà che lottano per una detenzione nel rispetto dei diritti umani, per capire che l’italico pianeta penitenziario non eccelle e probabilmente ha necessità di una revisione concettuale, strutturale, organizzativa, logistica… Pensare di frenare lo tsunami di suicidi in carcere concedendo maggiori possibilità ai detenuti di telefonare alle famiglie indurrebbe a sorridere, ma qualunque smorfia dinanzi ad una simile enormità sarebbe irriguardosa nei confronti delle vittime, dei loro cari e di qualunque cittadino cerebralmente ed emotivamente normodotato. Il gesto estremo non si ferma con quel gettone in più che un tempo consentiva di avere ancora una manciata di minuti per dialogare con qualcuno in grado di capire e di interpretare il disagio di chi è disperato. Non si tratta di schioccare le dita e trovare un rimedio dalle magiche proprietà che - come si narra nella sempiterna campagna elettorale - dimostri la superiorità rispetto le fazioni avverse su cui pesa il fardello delle rogne insolute. Quello dei suicidi (tanto in carcere, quanto - non lo si dimentichi - nelle Forze di Polizia) è un problema da comprendere e da affrontare seriamente. E davvero non è cosa facile. A volte le immagini e qualcosa di non urlato possono far riflettere più di ponderosi tomi dottrinali, predisponendo ad una maggiore apertura verso scenari di complessità inaudita. Il primo colpo di scalpello per scalfire la nostra insensibilità può essere la visione della sesta puntata della delicatissima novella grafica “Strappare lungo i bordi” di uno straordinario Zerocalcare. La miniserie - attualmente fruibile su Netflix - è una cornucopia di suggestioni di tale profondità da avere l’impressione che lo schermo sia 3D… Il destino di Alice e le domande conseguenti possono essere il bandolo di quella matassa inestricabile la cui soluzione non può più essere rinviata. Nordio dice che ogni suicidio è una sua sconfitta personale. Purtroppo, lo è di tutta la società e la discesa nelle viscere del dolore va fermata al di là delle troppe chiacchiere che divorano le fondamenta del Paese. Le parole di Nordio sui suicidi nel carcere di Torino? Essere poveri è una colpa da espiare di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 16 agosto 2023 Nel casinò globale del capitalismo d’azzardo essere poveri è una colpa da espiare, peggio che i nazisti a Norimberga. A questo mi fanno pensare le parole del ministro Nordio, riferite ai drammatici suicidi in carcere a Torino. La giustizia sociale è come un muro nel quale continuano ad aprirsi falle dalle quali spruzza acqua gelida e sembra che a poco valgano i tentativi affannosi di tappare ora questa, ora quella: il muro stesso è destinato a crollare. La condizione disumana che si vive nelle carceri italiane e che si ripercuote spesso anche sul personale che di quelle strutture ha la responsabilità è una di queste falle, una delle più odiose. È particolarmente odioso e inaccettabile infatti che a soffrire siano le persone affidate alla custodia necessaria dello Stato: che siano i migranti che entrano nel nostro Paese, o i detenuti nelle carceri, quelli in attesa di giudizio e quelli condannati in via definitiva, donne, uomini e minorenni (bisognerebbe guardare ai fatti del carcere di Torino, senza dimenticare quanto successo soltanto pochi mesi fa nel minorile Ferrante Aporti, con le dimissioni della direttrice, esasperata dalle condizioni di lavoro), oppure quelli tenuti nelle REMS (dove esistono) che hanno sostituito i manicomi giudiziari, troppe storie parlano di una umanità di scarto, che contraddice i valori della nostra Costituzione. Quella delle carceri è una falla che assomiglia appunto ad altre: la cancellazione del Reddito di Cittadinanza, l’ostilità del Governo verso il salario minimo, lo sfruttamento bracciantile nelle campagne (e non soltanto) del quale si sottovaluta colpevolmente e pericolosamente il carattere criminale, i tagli nella destinazione dei fondi del Pnrr, il collasso della sanità pubblica - che fa rima con lo stato della pubblica istruzione e con la qualità dell’edilizia scolastica: l’elenco è senza fine. Lo sconforto provocato dalla demolizione sistematica della giustizia sociale è, se possibile, aumentato dalla guerra senza fine, che sembra l’unica grammatica dei rapporti di forza, con tanti saluti alla libertà e al futuro della Terra (ma tanto “Stiamo per tornare sulla Luna per restarci”!). Il rischio di arrendersi o di imboccare disastrose scorciatoie è forte, che fare? Come in una storica pubblicità dei rubinetti Zucchetti, che la tv passava nel 1986, non bisogna smettere di occuparsi delle “falle”, opponendosi ognuno dove può e come può alla demolizione del muro: non è una rivoluzione, ma un modo ragionevole per prendere tempo. Ora, tornando alla questione carceri, c’è almeno una partita aperta dal Governo il cui esito potrebbe non essere scontato: la nomina del nuovo Garante nazionale per i detenuti e le persone private della libertà personale. L’attuale direzione, composta da Mauro Palma, Daniela de Robet ed Emilia Rossi, la prima e unica da quando l’Istituto è stato inventato per legge (su indicazione delle Nazioni Unite) durante la XVII Legislatura, dopo aver svolto in maniera più che apprezzata il proprio mandato, sta operando in regime di proroga e al governo spetta la proposta dei nuovi nomi. Proposta che in verità è già arrivata nelle settimane scorse e che ha lasciato sconcertati: profili professionali molto distanti da ciò che servirebbe in termini di competenze e di sensibilità. Certo è che questa destra ha già dimostrato di non risentire dello sconcerto di chi a buon diritto si sente offeso dalle scelte che fa: lo schiaffo tirato ai famigliari delle vittime delle stragi con la elezione di Chiara Colosimo alla presidenza della Commissione Antimafia ancora brucia. Per questo è prevedibile che pure sulla nomina del Garante la destra tiri dritto e che magari pure qualche pezzo di opposizione, incassata una compensazione, sia tentata dal non mettersi di traverso, visto che l’iter che porta all’approvazione delle nomine prevede un passaggio necessario nelle Commissioni parlamentari competenti, che prelude alla valutazione e alla definitiva formalizzazione da parte del Presidente della Repubblica. Sarebbe invece auspicabile che le opposizioni facessero di tutto per opporsi a questa nomina e per rimetterla in discussione a partire da criteri condivisi. Il Garante non è la bacchetta magica: per le carceri serve una politica complessiva dai tetti alle fondamenta, ma qua stiamo a “tappare falle” e sicuramente il lavoro del Garante, con le sue articolazioni territoriali, ha già ampiamente dimostrato di servire egregiamente allo scopo. Sarebbero auspicabili altre due scelte da parte delle opposizioni a questo Governo: il massimo coinvolgimento dell’associazionismo, che si occupa meritoriamente del mondo carcerario, e l’individuazione di figure credibili nelle rispettive direzioni nazionali delegate esplicitamente a presidiare questo baluardo di giustizia sociale, con l’altrettanto esplicito mandato a parlarsi. Perché, dopo tutto, l’unione fa ancora la forza. *Attivista antimafia ed ex deputato del Partito Democratico Antigone: “Nelle carceri è emergenza salute mentale, con psicofarmaci si gestisce l’ordine” di Sibilla Bertollini Adnkronos, 16 agosto 2023 Disagio psichico e carcere, un argomento particolarmente complesso e rilevante destinato ancora a non far rumore, se non quando la cronaca lo riporta tristemente alla ribalta. Eppure l’incidenza dei suicidi (siamo già a 47 da inizio anno dopo il record nel 2022) e di atti autolesionistici rappresentano un campanello d’allarme del crescente malessere dietro le sbarre. Che diventa ancora più impattante con l’arrivo dell’estate, il caldo e la chiusura di molte attività negli istituti penitenziari sovraffollati. Separazione dai familiari, frustrazione, disperazione, il carcere finisce per acutizzare le fragilità spesso portate già dall’esterno. Di fatto, esiste una “emergenza” salute mentale ‘dentro’ sempre più diffusa. “Negli ultimi 12 mesi, dal 1 agosto del 2022 al 1 agosto di quest’anno, abbiamo visitato 69 istituti in tutta Italia ed è stato rilevato che l’8% dei detenuti ha diagnosi psichiatriche gravi, un dato enorme rispetto alla popolazione libera. Il 22% di chi è ristretto assume psicofarmaci come stabilizzanti dell’umore, antipsicotici, antidepressivi, mentre il 44% di persone ingerisce sedativi o ipnotici. Una situazione che fotografa il malessere in carcere con un utilizzo sempre più diffuso di psicofarmaci”, afferma all’Adnkronos Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone. “Va evidenziato - continua - che molti di coloro che entrano in carcere hanno già dietro storie di abuso di sostanze o farmaci. Specie chi assume psicofarmaci più pesanti dovrebbe essere visitato periodicamente dal medico rispettando i protocolli di somministrazione, ma la regolarità dei controlli non è costante. Vengono comunque distribuiti, il che fa pensare che siano utilizzati come strumento di gestione dell’ordine interno, per tenere tranquille le persone ristrette”. “Quello della salute mentale in carcere è comunque un dibattito monco, un tema che merita una riflessione allargando però lo sguardo all’esterno, perché di fatto noi non conosciamo esattamente quel che sta succedendo intorno a noi: i dati disaggregati tra regioni, Asl per Asl, non restituiscono un quadro complessivo decifrabile - sottolinea Scandurra - Più facile l’osservazione tra le persone private della libertà perché il carcere amplifica le fragilità. Il 2022 è stato l’anno con il numero più alto di suicidi nei penitenziari italiani ma non si ha idea di quante persone si siano tolte la vita fuori, si saprà tra qualche anno con l’Istat. Porsi la domanda se è un problema soltanto del carcere aiuterebbe la politica a dare risposte più adeguate. L’idea che ci siamo fatti è che vi sia un’emergenza in corso nella nostra società (e non solo in Italia) che riguarda soprattutto il malessere dei giovani, un’impressione scaturita anche dalle visite negli Ipm”. Secondo il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, “occorre rivoluzionare il sistema carcerario, afflitto da una visione pre-moderna. Bisogna aumentare i rapporti con l’esterno, rendere quotidiane le telefonate, assicurare anche d’estate vita nelle sezioni. La pena è la reclusione in carcere non la reclusione in cella, dove a volte le persone sono costrette a stare in ambienti disadorni e malmessi anche 20 ore su 24?. Il tema del disagio psichico chiama in causa le Rems, le Residenze per l’Esecuzione delle misure di Sicurezza nate con la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. “Parliamo di strutture che hanno una vocazione strettamente sanitaria, il concetto di ‘lista di attesa’ è normale”, dice Scandurra. Secondo i dati del Garante nazionale dei detenuti sono 675 che attendono il ricovero nelle 31 Rems sul territorio. “La soluzione non è l’aumento dei posti letto, serve invece evitare i ricoveri impropri e potenziare i servizi psichiatrici territoriali. Serve garantire una continuità terapeutica nel momento in cui le persone escono dalle Rems”, altrimenti il rischio è tonare al punto di partenza. Si va in galera con troppa facilità, e la politica si vende l’anima per un piatto di lenticchie di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 16 agosto 2023 Ci sono norme che andrebbero trattate con cura, ma la faciloneria diventa la regola. Invece di allargare il perimetro delle carceri, estendendolo anche alle caserme, perché non pensare di restringere quelle mura? E di pensare concretamente alla prigione solo come ultima spiaggia per ricucire quello strappo del patto sociale che è la commissione di un reato? Ci sono tanti modi per ridurre quell’affollamento che produce, prima ancora che disagio, soprattutto solitudine e abbandono. Si potrebbe pensare a un indulto, e sono vent’anni che non se ne parla. Ammesso che questa maggioranza sia in grado di una svolta culturale, soprattutto per il partito di Giorgia Meloni, che non pare più avere in sé quelle contraddizioni che nel 2003, quando fu votato “l’indultino”, attraversavano Alleanza Nazionale, in cui molti parlamentari come Enzo Fragalà, Sergio Cola e Altero Matteoli erano favorevoli anche all’amnistia. Ma il primo motivo per cui le carceri italiane sono sempre stracolme è che si arresta troppo e con troppa facilità. L’articolo 274 del codice di procedura penale che prevede le tre ipotesi di pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato come condizione per la custodia cautelare, non è stato scritto con la stessa superficialità con cui viene applicato. Spesso appiccicando un bel reato associativo per rendere necessarie le manette. Sono norme che andrebbero trattate con cura, ma la faciloneria sembra troppo spesso la regola. Se consideriamo che, secondo i dati del Garante delle persone private della libertà Mauro Palma, almeno 8.000 persone sono in carcere in attesa del primo giudizio, e che altre 7.000 attendono il secondo o il terzo grado, perché queste 15.000 persone devono stare recluse? Siamo proprio sicuri, visto che sono tutti innocenti secondo la Costituzione, che siano tutti così socialmente pericolosi? È una questione di mentalità, o meglio di cultura, di pubblici ministeri, ma troppo spesso anche di giudici. Troppe ordinanze abbiamo letto, che erano solo una ricopiatura delle richieste del pm, che a sua volta si ispirava, fino alle virgole, alla relazione della polizia giudiziaria. Il ministro Carlo Nordio potrebbe cominciare a mettere il naso lì dentro, alle modalità per cui, nella fase delle indagini preliminari, si senta così tanto la necessità di stringere i polsi dell’indagato. Se a questo aggiungiamo il dato statistico per cui il 75% delle prescrizioni del reato avviene proprio in questa fase processuale, vediamo come lo sbattere qualcuno in galera con così tanta superficialità sia diventato quasi l’unico metodo per condurre le indagini, fino a lasciarle morire, spesso, di scadenza dei termini. Ma c’è qualcosa di ancor maggiormente tragico nella disattenzione permanente della politica nei confronti delle carceri. Salvo risveglio brusco nelle estati dei suicidi. La popolazione in detenzione è molto cambiata negli ultimi anni, ci racconta Rita Bernardini, la presidente di Nessuno tocchi Caino che il ministro farebbe bene ad assumere velocemente al vertice dell’ufficio del Garante per i diritti dei detenuti. Ci sono tanti ragazzi tra i 18 e i 25 anni, i “giovani adulti”, con problemi psichici e di tossicodipendenza. Tenerli chiusi nelle carceri italiane è soprattutto un delitto, una condanna a morte. Sono loro, e le donne, le persone più a rischio. Non solo a rischio suicidio, ma proprio per il pericolo di vedere la propria vita frantumarsi, involversi in un giorno dopo giorno che a un certo punto passa dalla disperazione all’indifferenza. Questi ragazzi vanno tolti immediatamente dal carcere, qualunque cosa abbiano fatto, di qualunque reato siano accusati o condannati. È vero che l’Italia è molto carente sul piano dell’assistenza sociale. Ma ci sono tanti “Don” con le loro strutture di aiuto, e ci sono anche tanti bravi sindaci e assessori pieni di capacità e voglia di fare. Date a tutti costoro risorse e aiuti, e anche alle famiglie, nei casi in cui sia possibile reinserire qualcuno in custodia domiciliare. Questo è lo spirito riformatore che ci aspettiamo da un ministro liberale, anche se capiamo le buone intenzioni nel discorso sul reperimento delle caserme in disuso, anche per differenziare il tipo di detenzione. Lo capiamo, ma ne sappiamo anche misurare le difficoltà di reperimento fondi, tempi di realizzazione del progetto e necessità di assunzione e formazione di nuovo personale. E intanto, quanti suicidi e quante vite buttate mentre il ministro si arma di cazzuola per cominciare a ristrutturare? E infine. Se c’è stato qualcosa di buono fatto dal premier Conte e il guardasigilli Bonafede è stato quel provvedimento che gli stolti ancora oggi chiamano “svuota-carceri”, dando disvalore al concetto, e che ha invece probabilmente salvato molte vite umane nei giorni dell’epidemia da covid. Il merito maggiore di quella sospensione di pena per i detenuti più anziani e malati va ai giudici di sorveglianza, che quel provvedimento avevano sollecitato. Tutto sparito ormai, compreso l’aumento del numero di videochiamate con la famiglia concesso ai detenuti nello stesso periodo. Ma perché? Se a tutto ciò si aggiungesse una più frequente applicazione della norma sull’alternativa al carcere a chi deve scontare una pena, o un fine pena, inferiore a tre anni (sono circa 6.000 detenuti), ecco che magicamente il problema dell’affollamento sarebbe risolto. Ma c’è una vera volontà politica? L’Italia è già stata ripetutamente condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni disumane delle sue carceri. Gli ultimi due Presidente della repubblica, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, oltre allo stesso Papa, hanno rivolto al Parlamento appelli accorati. Ma nulla cambia mai, chiunque governi e chiunque sia all’opposizione. Possibile che, rispetto alla civiltà di un Paese che dipende anche dalle condizioni delle proprie carceri, prevalga sempre quel piatto di lenticchie del calcolo elettorale? Carceri: a Ferragosto iniziative di solidarietà, ma il caldo amplifica il disagio di Cristiana Raffa rainews.it, 16 agosto 2023 Come da tradizione i delegati del Partito Radicale visitano gli istituti penali in tutto il mese di agosto e anche nella giornata di ieri. Diverse le iniziative per portare conforto ai detenuti. Un’ondata di calore, seppur meno intensa di quella di luglio, sta attraversando la nostra Penisola. Da oggi, giorno di Ferragosto, il caldo tornerà intenso quasi ovunque. Secondo l’osservatorio dell’associazione Antigone nella metà degli istituti penitenziari le finestre sono schermate e l’aria circola poco soprattutto la notte, quando vengono chiusi i portoni blindati. Come segnalano gli osservatori che in queste giornate stanno visitando le carceri in tutta Italia, a partire dagli esponenti Radicali secondo il tradizionale “agosto in carcere”, molti detenuti non possono avere neanche il sollievo dei ventilatori. Non possono permettersi acquisti di dispositivi di refrigerio perché sono nullatenenti. Anche i frigoriferi sono beni di lusso per pochi, per chi può permettersi di affrontare costi elettrici. Le visite di amici e parenti, e dei volontari, a causa del personale in ferie, sono ridotte in questo periodo. Anche questo, secondo le associazioni, unito alle condizioni ambientali che peggiorano, in estate rende la vita nelle celle ancor più insopportabile e gli atti di autolesionismo aumentano. I suicidi dall’inizio del 2023 sono 47 (nel 2022 85 in totale). Il sovraffollamento è cronico, sono 10.000 le persone detenute in più rispetto ai posti effettivamente disponibili. Tra le situazioni peggiori quella del carcere delle Vallette di Torino, dove nei giorni scorsi si sono suicidate due donne a distanza di poche ore, e dove si è recato il ministro della Giustizia Carlo Nordio dando adito a un serrato dibattito sulle condizioni carcerarie e le possibili soluzioni in tempi brevi. Stanno facendo discutere le ipotesi del Guardasigilli per far fronte al disagio e al sovraffollamento, quello su cui punta sono: riconversione di ex caserme per accogliere detenuti per reati minori e aumento degli organici. Secondo le associazioni sono iniziative utili, ma non basteranno, sta di fatto che ci sono tagli lineari per questo settore, di oltre 30 milioni di euro, per i prossimi tre anni. Lo stesso Nordio, due giorni fa, ha risposto ai cronisti che della mancanza di fondi per ristrutturare il sistema va chiesto conto al ministro dell’Economia e delle Finanze Giorgetti. Dall’inizio della legislatura sono stati presentati 11 progetti di legge di iniziativa parlamentare per affrontare la questione. L’Italia è stata già condannata dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione di Strasburgo che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano e degradante e si indica una possibile soluzione. Le iniziative di Ferragosto - Oggi decine tra parlamentari, consiglieri regionali, amministratori locali, garanti dei detenuti e anche alcuni magistrati, sono in visita in gran parte degli istituti penitenziari italiani. Mentre gli esponenti Radicali oggi raccontano in collegamento con Radio Radicale quel che trovano nei diversi istituti in cui si trovano, i resoconti sono disponibili su sito della radio, molte altre iniziative stanno cercando di portare conforto tra le sbarre. La Comunità di Sant’Egidio come sempre appronta la rituale cocomerata ferragostana a Rebibbia a Roma (1499 detenuti rispetto ai 1170 posti), ai detenuti sono distribuite fette di anguria, ma anche saponi, shampoo e altri prodotti per l’igiene. Sempre a Roma Sant’Egidio ha organizzato il “pranzo dell’amicizia” nella mensa di via Dandolo con 500 invitati e un menù tradizionale del Ferragosto (lasagne, pollo con i peperoni, cocomero e dolce), servito a tavola da volontari, tra i quali alcuni afghani a due anni esatti dalla grande fuga di Kabul, iniziata proprio il 15 agosto 2021. Ma il “Ferragosto della solidarietà” è stato vissuto anche nei numerosi cohousing e convivenze realizzati da Sant’Egidio con anziani, persone con disabilità, ex senza fissa dimora. Grande festa anche alla Villetta della Misericordia, all’interno dell’area del Policlinico Gemelli, con i residenti (ex senza dimora) e i loro amici. Feste, pranzi ed altri eventi organizzati dalla Comunità si sono svolti anche a Milano, Genova, Padova, Napoli e in altre città italiane. A Volterra si svolgono in questo periodo le “Cene galeotte” con detenuti che si occupano dell’accoglienza e della cucina sotto la guida di chef stellati. A Sassari, la danza del Candeliere di San Sebastiano realizzato dai detenuti dell’istituto “Giovanni Bacchiddu”. Alla vigilia di Ferragosto una processione danzante di dieci grandi ceri simbolici portati da rappresentanti delle antiche corporazioni di arti e mestieri percorre le vie del centro storico, mentre all’interno del carcere 8 detenuti muovono, secondo antichi passi di danza, il Candeliere di San Sebastiano, simbolo di appartenenza alla comunità cittadina. Nel cortile del carcere di Paliano (Frosinone), struttura che occupa parte della Fortezza Colonna del XVI secolo, si è svolto il 12 agosto parte del Corteo storico che rievoca il trionfo di Marcantonio Colonna nella battaglia di Lepanto. Nell’ambito della stessa iniziativa, organizzata dall’Associazione Culturale Palio dell’Assunta e Corte Storico della città di Paliano, rientrano anche le visite guidate a Ferragosto agli affreschi della Sala del Capitano, oggi sede di un laboratorio di sartoria frequentato da detenuti. A Rimini la notte di San Lorenzo nella casa circondariale è stato organizzato dalla Polizia Penitenziaria cittadina e l’AVIS provinciale di Rimini un concerto tributo a Fabrizio De Andrè. Le ali della libertà di Vincenzo Carriero cosmopolis.media, 16 agosto 2023 A Ferragosto, da tradizione, si rende visita ai detenuti. Ci s’interroga sul sistema penitenziario nazionale. I Radicali ci hanno abituato a questa solitaria consuetudine. All’epifania dei diritti che non vanno in vacanza. L’occasione diviene propizia, ogni volta, per interrogarci - e interrogare - sui nostri ritardi culturali. Sulle falle di un modello che odora di naftalina. Che sa di vecchio, superato. A fronte degli attuali 60 mila detenuti nelle strutture detentive italiane, i posti realmente disponibili non superano le 50 mila unità. Esiste uno sovraffollamento, una forbice, pari a 10 mila carcerati rispetto ai posti realmente disponibili. I dati forniti dall’associazione “Antigone” tratteggiano un quadro dai tratti inquietanti. Da Terzo Mondo della dignità umana volata via. Il sovraffollamento non toglie solo spazi vitali, ma anche possibilità di lavoro e di svolgere attività che spezzino la monotonia della vita penitenziaria. Quella monotonia che porta all’emergere di situazioni di forte depressione, alla base di un aumento di suicidi e atti di autolesionismo nel periodo estivo. Proprio i suicidi, pur nel silenzio della politica e di parte del sistema dell’informazione, continuano ad essere una piaga a cui il carcere ha abituato. Dopo gli 85 dello scorso anno, quest’anno sono già 42. Come riferisce “Ristretti Orizzonti” 1.352 quelli avvenuti dal 2000 ad oggi. L’estate, da questo punto di vista, non aiuta. Il caldo è uno dei fattori che impattano maggiormente sulla qualità della vita negli istituti penitenziari, qualità della vita già non elevata neanche negli altri periodi dell’anno. A questo si aggiunge poi la chiusura di molte attività e quindi una situazione di ulteriore e sostanziale isolamento. Non è un caso che, durante i mesi estivi, proprio il numero dei suicidi cresca. Quest’anno, dei 42 già avvenuti, i soli mesi di giugno, luglio e i primi giorni di agosto ne hanno fatti contare 15. Come detto in estate in galera si sta male. In tantissimi istituti mancano i ventilatori, le finestre sono schermate, non ci sono frigoriferi in cella e a volte neanche nelle sezioni e in molti casi in cella non c’è neanche la doccia. Il Garante nazionale dei detenuti, lo ha sottolineato ieri Giovanni Bianconi sulle pagine del “Corriere della Sera”, ricorda che sono chiuse in cella migliaia di persone, almeno 6000, che devono scontare pene o residui di pena inferiore ai tre anni. E che, dunque, per legge avrebbero diritto a trascorrerli fuori dalle celle. Ma nella maggior parte dei casi non hanno un avvocato che presenti l’istanza, un posto dove scontare la detenzione domiciliare. Sono reclusi “a perdere”. Se il dato medio nazionale dell’affollamento ufficiale è del 112,6%, ci sono Regioni che registrano valori medi molto più alti: come la Puglia (144,2%). Ma sovraffollamento non vuol dire solo carenza di spazi, significa anche che ogni risorsa del carcere, risorse che raramente sono abbondanti, va “divisa” per un numero crescente di detenuti. A partire dal personale. Nelle 38 visite fatte dall’associazione Antigone nel primo semestre del 2022 si è registrata una presenza media di 1,7 persone detenute per ogni agente di polizia penitenziaria. Nelle 42 visite fatte dall’inizio del 2023 ad oggi, invece, questo valore è salito a 1,8. Ovviamente a causa della crescita delle presenze. Di segno opposto la variazione nel numero degli educatori, grazie alle immissioni degli ultimi anni, lungamente attese. Erano in media 88,6 persone detenute per ciascun educatore negli istituti visitati nel primo semestre del 2022. Sono in media 70,8 in quelli censiti quest’anno. Da ultimo, per modo di dire, bisognerà capire come l’attuale Governo uscirà dall’impasse in cui sembra essere caduto per la scelta del nuovo Garante. Una figura che dovrebbe rispondere più a competenze specifiche che a criteri di appartenenza politica. In Italia non c’è la pena di morte, ma la morte per pena. Credo lo dicesse Marco Pannella. Uno degli ultimi protagonisti italiani di una cultura laica e socialista caduta, nel frattempo, in disuso. Omologata nelle casematte del pensiero unico. Istigazione al suicidio di Mario Arpaia memoriacondivisa.it, 16 agosto 2023 La sofferenza psichica nelle carceri sta raggiungendo dei picchi intollerabili per un Paese che si ritiene civile. Cosa c’è di giusto nell’amministrazione pubblica che ci accomuna ai popoli del centro Nord dell’Europa. Morire con il cappio al collo, ben stretto dal lenzuolo in una estate torrida perfino sulla Costa Smeralda. Noi che abbiamo visitato le carceri, sappiamo in quale inferno sono costretti a vivere, contare minuti ore, giorni, anni senza fare letteralmente nulla. Morti che camminano straziati dall’angoscia che quando ti prende non ti abbandona più. La depressione ti fa due buchi, uno nello stomaco, l’altro il tunnel nel quale sei precipitato, con quel lumicino che giorno dopo giorno va spegnendosi. Non c’è Axanax che allenti il pensiero fisso del suicidio. Danno i sedativi senza l’antidepressivo che costa tantissimo, senza la sorveglianza dello psichiatra e del pisicologo. Vi suggeriamo di trasformate il carcere di Foggia, in Ospedale psichiatrico, la città ha una grande esperienza per la cura delle malattie mentali, ha avuto uno dei più grandi Manicomi d’Italia, il don Uva. Abbiamo allegato le promesse di qualche anno fa, ci sono foto ed un filmato. Uomini d’onore fatevi avanti, politici impegnati e sensibili alla causa, battete un colpo, Associazioni, spostate il macigno che chiude le strade tra il Dap, il Ministro della Giustizia, il Governo che, quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare. Dall’inizio di quest’anno fino a 2 giorni fa, 38 detenuti delle carceri italiane hanno scelto di togliersi la vita. Dei 38 suicidi, 18 erano stranieri; due le donne e ben 14 giovani tra i 20 e i 30 anni. Facendo un calcolo veloce e a spanne, ci si accorge che più di una persona si suicida ogni 5 giorni. Ce lo ricorda l’ennesimo rapporto di Antigone, al quale è stato posto il titolo: “La calda estate delle carceri”. “Il dossier Morire di carcere, curato da Ristretti Orizzonti, ci ricorda anche che da 10 anni a questa parte, nei mesi da gennaio a giugno, le persone che si toglievano la vita raggiungevano il numero minimo di 19 e un massimo di 27. Fu nei 12 mesi che intercorrono tra il 2010 e il 2011 che il numero di 38 suicidi fu simile a quello registrato oggi: rispettivamente 33 e 34. Le carceri italiane in quel periodo soffrivano del grave, endemico problema del sovraffollamento come forse non era mai accaduto prima, tanto che la Corte Europea condannava l’Italia per “violazione del divieto di tortura e di pene o trattamenti inumani e degradanti”. In carcere ci si toglie la vita 16 volte di più rispetto a fuori. La situazione odierna dietro le sbarre dei penitenziari italiani è assai diversa: il numero di detenuti è assai inferiore rispetto ad allora, ma nonostante questo le gravi mancanze strutturali e il malessere delle persone detenute permangono. È superfluo forse sottolineare che ogni scelta individuale di togliersi la vita, ha un suo percorso, una sua storia. Ma quando il numero complessivo dei suicidi mostra una netta tendenza a salire, il fenomeno nel suo complesso segnala origini comuni, che non possono essere ignorate e vanno affrontate nel loro insieme, si sottolinea nel report di Antigone. Il dato che emerge, insomma, è che in carcere ci si leva la vita 16 volte di più rispetto a quanto avviene al di là delle sbarre. Regina Coeli, Foggia e San Vittore. Il primo posto come numero di suicidi spetta alla Casa Circondariali di Roma Regina Coeli, Foggia e Milano San Vittore. Seguono con due casi la Casa di Reclusione di Palermo Ucciardone, la Casa Circondariale di Monza, la Casa Circondariale di Pavia e la Casa Circondariale Genova Marassi, dove nel 2021 nell’arco di 30 giorni si sono suicidate tre persone. Con due decessi avvenuti tra il mese di giugno e luglio, si arrivano così a contare cinque casi di suicidi nel carcere di Pavia in soli nove mesi. Il sovraffollamento cronico. A Foggia, Regina Coeli e Monza il sovraffollamento è del 150% della loro capienza. E ancora: a San Vittore, Pavia e Regina Coeli oltre la metà della popolazione detenuta è straniera. Monza ha invece il primato dei detenuti con patologie psichiatriche e più del 50% dei reclusi soffre di tossicodipendenze. A Foggia - altro esempio di carenze strutturali del sistema carcerario - c’è un educatore ogni 190 detenuti e una pressoché totale assenza di supporti psichiatrici e psicologici. Il carcere, luogo psico-patogeno. Eppure, risulta che il 13% dei detenuti ha una diagnosi psichiatrica grave. “Nell’ambito della questione delle condizioni di salute della popolazione detenuta, quello della salute mentale - si legge nel rapporto - rimane il capitolo più significativo nei numeri e più problematico nelle risposte date dalle aziende sanitarie e dall’amministrazione penitenziaria”. Ogni dato che emerge, continua a confermare come il carcere sia un luogo “psico-patogeno” dove il disagio psichico è diffuso e si autoalimenta, ed ha carattere capillare e omogeneo su tutto il territorio nazionale. I “disturbi psichici” dunque riguardano la metà delle patologie rilevate nella popolazione carceraria. Le altre patologie più diagnosticate sono quelle cardiocircolatorie ed endocrine, del metabolismo e immunitarie. Il massiccio uso di psicofarmaci. Le rilevazioni di Antigone mostrano la tendenza di gestire il disagio psichico ricorrendo meno possibile ai servizi sanitari esterni al carcere. La salute mentale, insomma, deve trovare soluzioni all’interno del perimetro carcerario. Un aspetto rilevante ha a che fare con l’uso massiccio di psicofarmaci, anche per persone senza una diagnosi psichiatrica certificata. Secondo Antigone, il 28% dei detenuti assume stabilizzatori dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e il 37,5% sedativi o ipnotici. Suicidi in carcere e madri detenute. Il comunicato di Sinistra Italiana Marche Ristretti Orizzonti, 16 agosto 2023 Sinistra Italiana Marche condanna le dichiarazioni del ministro Nordio che, dopo una visita di “fratellanza e non un’ispezione” al Le Vallette di Torino ha prospettato come soluzione d’emergenza al sovraffollamento delle carceri l’utilizzo delle caserme dismesse per ricollocare le 9.000 persone in sovrannumero. Se questo avesse dovuto essere un conforto, i detenuti, gli agenti di polizia penitenziaria i medici gli operatori pedagogici e le direzioni ne avrebbero fatto a meno. A riprova dell’inutilità di questo approccio, simile a quello che ebbe il suo predecessore Bonafede, altro giustizialista di pessimo esempio verso la popolazione, il 13 agosto Federico Galbiotti si è tolto la vita a Bergamo. Come sa chi si reca fra i ristretti per aprire sportelli informazioni, sperimentare punti INCA dei sindacati per umanizzare in parte le pratiche, cosa che da anni si tenta di fare da più parti anche per le persone immigrate nel cosiddetto mondo libero, chi insegna lingue o esperimenta azioni creative, la prima cosa che necessita loro è di esistere, di essere presi in considerazione. Per questo SI aveva sottoscritto l’appello Madri Fuori contro lo stigma, da parte della Società della ragione, che lo scorso maggio in tutta Italia ha posto con forza il tema dei diritti delle donne detenute madri alla relazione con i propri figli e alla potestà genitoriale, e rilancia come non più rinviabile il varo di misure a difesa e promozione del mantenimento dei legami famigliari e genitoriali, e per forme alternative al carcere per le donne che hanno figli. Al 31 luglio di quest’anno erano 19 le madri detenute - con 19 figli al seguito - sulle 2510 donne in carcere, che a loro volta rappresentano il 4,35% della popolazione detenuta italiana (57.749). L’appello e tutte le iniziative della campagna sono disponibili su societadellaragione.it/madrifuori, che ringraziamo per il faro nella notte che rappresentano. SI attiverà iniziative sul disagio psichico, altra grave marginalizzazione nella nostra società e sulle carceri a partire dall’autunno prossimo. La civiltà di un paese si misura dalle sue carceri (Voltaire) Il carcere è pena alla sofferenza... fino alla morte. Comunicato dell’Associazione Voci di dentro vocididentrojournal.blogspot.com, 16 agosto 2023 Tre persone erano in sciopero della fame, 44 hanno usato bombolette del gas o lenzuola, 53 sono morti per altre cause: dall’inizio dell’anno a oggi, sono cento le persone per le quali la pena del carcere è stata una pena di morte. Una pena di morte in un paese dove era stata bandita nel 1889 (con l’eccezione nel periodo fascista) e nei fatti cinicamente reintrodotta nel silenzio generale all’interno di strutture escluse da ogni controllo democratico e dove domina un sistema dispotico. Strutture che sono diventati luoghi di segregazione di persone sofferenti, vittime di disagi sociali ed economici e resi dipendenti da farmaci e sostanze. Persone alle quali sono stati tolti i diritti fondamentali di ogni persona come il diritto alla salute, il diritto alla parola eccetera. Vittime. Come vittime sono state quelle 86 morte “suicide” lo scorso anno. Nient’altro che vittime. Ignorate prima di finire in carcere e ignorate dopo, dentro quelle celle fatiscenti e putride dove la pena è privarle di affetti, amori, lavoro, e infine della vita stessa. Già un anno fa titolammo il numero di settembre di Voci di dentro “Non chiamateli suicidi” e facevamo riferimento al caso di Donatella Hodo trovata senza vita a Montorio. Lo ripetiamo oggi: non sono suicidi, troppo facile imputare tutto alla soggettività, quando ci sono evidenti, chiare e precise responsabilità: nelle morti in carcere c’è uno Stato che non ha rispettato le leggi e non ha rispettato la Costituzione. E intanto, di nuovo, mentre fioccano le solite frasi di circostanza, e appaiono articoli di giornali, riprese e servizi Tv, mentre politici e ministri riciclano vecchie e inutili idee (addirittura le caserme) il tempo passa e nulla cambia se non la solita chiacchiera e propaganda: ennesima conferma che il carcere è solo luogo concentrazionario e di segregazione. E dove si muore perché il sistema carcere (ricordiamolo, a monte c’è sempre un codice Rocco del 1930 e un sistema penale rimasto carcerocentrico) questo produce: cioè, trasforma migliaia di persone in devianti, poi in criminali da incarcerare, quindi in psichiatrici anche loro da incarcerare. Tre persone erano in sciopero della fame, 44 hanno usato bombolette del gas o lenzuola, 53 per altre cause… per tutte le altre 57 mila persone detenute, il carcere è pena alla sofferenza... fino alla morte. Giustizia, ecco la legge sulla prescrizione di Nordio per “fare pace” con i pm di Liana Milella La Repubblica, 16 agosto 2023 Secondo la riforma immaginata dal Guardasigilli, il tempo del reato si calcola quando viene scoperto e non quando viene commesso. Ma Forza Italia, Lega e FdI sono contrari. Per gli avvocati è inaccettabile. Vuole legare il suo nome a una legge che farà storia. Per essere famoso come Giuliano Vassalli, il giurista “eroe della Resistenza”, che da quando è Guardasigilli avrà citato un centinaio di volte. In ogni discorso e in ogni intervista. Dopo la legge Orlando, la legge Bonafede, la legge Cartabia, la prossima legge sulla prescrizione porterà il nome di Carlo Nordio. E servirà al Guardasigilli - ammesso che la maggioranza gliela faccia passare - per riguadagnare il pieno favore dei suoi ex colleghi pubblici ministeri. La prescrizione secondo Nordio (e i pm) - Legge semplice. Riguarda la prescrizione. E Nordio ne ha parlato con molti esponenti della maggioranza e dell’opposizione. È la legge che hanno sempre chiesto i magistrati. Prevede questo: far decorrere l’orologio della prescrizione dal momento in cui il reato viene scoperto, e non, come avviene adesso, da quando viene commesso. La legge Cirielli del 2005, dell’allora governo Berlusconi, regola poi i tempi di prescrizione per ciascun reato per poter indagare prima della “morte” del reato stesso. Legge che, se davvero la maggioranza consentirà a Nordio di presentarla, è destinata a rivoluzionare completamente l’organizzazione dei processi italiani. Perché con essa cadrebbero le leggi sulla prescrizione che si sono succedute dal 2017 ad oggi. La legge Orlando, che mantiene la prescrizione dei singoli reati, ma prevede che il processo in Appello e quello in Cassazione si sospendono per 36 mesi complessivamente, 18 in ciascuna fase, per consentire al processo stesso di andare avanti, naturalmente se l’imputato è stato condannato. Per gli assolti il processo va avanti comunque. La legge Bonafede, del 2019, che blocca invece la prescrizione dopo il processo di primo grado. Mantenuta dalla legge Cartabia del 2021 che però introduce il principio della cosiddetta “improcedibilità”, per cui il processo “muore” se i magistrati non rispettano un calendario strettissimo in Appello. Per ora niente accordo su un testo base - Un vero guazzabuglio, che Nordio vuole cancellare. Del progetto, che ha mente da tempo, ha parlato con i suoi al ministero. Lo hanno consigliato di essere prudente. E lo rivelano con un certo scetticismo. Soprattutto perché, proprio nelle stesse ore, la maggioranza ragiona su ben altro. Anche se non è affatto vero, come pure è stato scritto, che già esista un accordo su un testo base della nuova prescrizione depositato alla Camera. Questo testo non esiste. La fotocopia pubblicata è soltanto un appunto di Enrico Costa, il responsabile Giustizia di Azione, nonché vice segretario di Carlo Calenda, che in vista della prima seduta che si terrà il 6 settembre ha messo insieme i vari progetti di legge che esistono sulla prescrizione proprio a Montecitorio. Il suo disegno di legge, che ripristina in toto la legge Orlando e mantiene l’improcedibilità di Cartabia; il progetto di Fratelli d’Italia firmato dal presidente della commissione Giustizia Ciro Maschio simile al suo, e quello di Forza Italia, del vice presidente della commissione Pietro Pittalis, che invece cancella l’improcedibilità. Costa è un vero esperto di prescrizione, tant’è che tutti ricordano i suoi numerosi interventi da quando è parlamentare - cioè circa vent’anni - con tanto di tabulati alla mano per dimostrare che la maggior parte dei reati, circa il 75%, cadono già nella fase delle indagini preliminari, mentre quello che resta “muore” tra l’Appello e la Cassazione. Costa vuole ripristinare la legge di Orlando. E l’ex guardasigilli del Pd sarebbe ben favorevole a sostenere la sua stessa proposta. Anche se il suo partito non la pensa a fatto allo stesso modo e vuole invece conservare l’improcedibilità di Cartabia. Non solo per rispettare gli accordi fatti, ma anche per non perdere i fondi del Pnrr. Il no degli avvocati - Prima delle vacanze Costa - che lo conferma a Repubblica - ha messo insieme un testo, che non è dunque un testo base, ma solo una bozza su cui discutere. Per trovare un consenso nella maggioranza stessa. Una bozza che però, se Nordio presenta la sua prescrizione, salta del tutto per aria. Perché l’ipotesi Nordio è totalmente rivoluzionaria. Una soluzione da sempre sollecitata dai magistrati, da una toga come Pier Camillo Davigo, convinti che la moria dei processi sia proprio determinata dal fatto che la prescrizione parte troppo presto, quando il reato viene commesso, e non quando viene scoperto, soprattutto per i crimini dei colletti bianchi. I nemici giurati di un simile meccanismo sono gli avvocati, che, se dovesse passare un’ipotesi di questo genere, farebbero le barricate. Altro che sciopero di tre giorni com’è avvenuto fino a oggi, sarebbero pronti ad astenersi dal lavoro anche per un mese. Il Guardasigilli punta al consenso dei magistrati - Allora qual è la logica del Guardasigilli Nordio nel lanciare un’ipotesi del genere? Sicuramente è quella di mostrarsi pubblico ministero in mezzo ai pubblici ministeri. Acquisire la loro fiducia e il loro consenso, anche se si appresta a tagliare drasticamente le intercettazioni, e a introdurre un’altra mannaia nella vita dei pm, cioè regole sulla presunzione d’innocenza molto più stringate e invasive di quanto non siano quelle approvate con la Guardasigilli Cartabia. Un progetto che è in cantiere in via Arenula, e che dovrà essere pronto entro la fine dell’anno. Va di pari passo con le nuove regole che impongono il totale segreto nella fase delle indagini preliminari. Per far passare tutto questo a Nordio serve un grimaldello. E proprio la prescrizione che parte da quando il reato viene scoperto è lo strumento adatto. Con questa norma può conquistare l’entusiasmo dell’Associazione nazionale magistrati, il consenso delle tante toghe in pensione che rappresentano altrettanti guru pronti a criticare le leggi sulla giustizia. Il nodo del Pnrr - Ma purtroppo c’è un grosso handicap e cioè i fondi del Pnrr. I processi civili sono già in evidente difficoltà, e la riduzione del 40% previsto dagli accordi di Bruxelles è già irrealistica. Va meglio con il penale proprio grazie allo spauracchio della legge Cartabia sull’improcedibilità, che ha spinto le corti d’Appello ad accelerare i processi. Vale un esempio per tutti, quello di Napoli, dove lo spaventoso arretrato che si aggirava sul 70% si è sensibilmente ridotto. Cosa accadrebbe se Nordio dovesse spuntarla con la sua proposta sulla prescrizione? Può cavarsela con un escamotage. La norma può valere solo per i reati futuri. Nel frattempo continuerebbero a funzionare le norme di Cartabia. Ma Nordio potrebbe scrivere il suo nome accanto a una parola - prescrizione Nordio - che è tra le più citate sui manuali di diritto penale e nei dibattiti sulla giustizia. Marro: “Troppe azioni disciplinari da Nordio, a rischio il rapporto tra magistratura e politica” di Simona Musco Il Dubbio, 16 agosto 2023 Il presidente nazionale di Unicost: “Sicuramente rientra nel perimetro delle sue competenze, ma l’azione disciplinare dovrebbe essere esercitata in casi estremi, mentre stiamo assistendo a un uso frequente dello strumento da parte di Nordio”. Di fronte all’elevato numero di suicidi in carcere “la risposta va rinvenuta, innanzitutto, in una seria depenalizzazione, ma purtroppo i segnali che provengono dalla politica vanno in senso opposto”. A dirlo è Rossella Marro, presidente nazionale di Unicost, secondo cui sono stati troppi gli interventi della politica in materia di giustizia negli ultimi anni. E di fronte all’azione disciplinare avviata da Nordio contro i pm del caso Open dice: “Stiamo assistendo ad un uso frequente dello strumento disciplinare - spiega -. Questo rischia di acuire i rapporti tra politica e magistratura”. Sugli scandali che hanno sconquassato il Consiglio superiore della magistratura aggiunge: “Le distorsioni non sono state sintomo dello strapotere delle correnti ma, al contrario, della loro debolezza a fronte di singole personalità debordanti”. Il ministro Nordio ha promosso l’azione disciplinare nei confronti dei pm del caso Open. Per giunta esecutiva toscana dell’Anm si tratta di un disegno per screditare e delegittimare le toghe. Ma l’azione disciplinare è tra i poteri di un ministro. Trova davvero che ci sia un attacco? Sicuramente rientra nel perimetro delle competenze del ministro, anche se, va detto, l’iniziativa del ministro, proprio per il carattere discrezionale ed i rischi connessi ad una invasione nell’autonomia ed indipendenza della magistratura, dovrebbe essere esercitata in casi estremi, mentre stiamo assistendo ad un uso frequente dello strumento disciplinare da parte del ministro Nordio. Questo rischia di acuire i rapporti tra politica e magistratura, soprattutto quando si tratta di iniziative a sostegno di una richiesta di un esponente politico, a causa della ‘ lettura politica’ che potrebbe essere attribuita alla stessa iniziativa. È d’accordo con il decreto intercettazioni? Anche in passato il governo è più volte intervenuto, sposando uno dei possibili orientamenti giurisprudenziali, traducendolo in legge. Prevedere per legge l’estensione della disciplina delle intercettazioni prevista per la criminalità organizzata anche ai reati aggravati dal metodo o dalla finalità mafiosa, peraltro, scongiura la perdita irrimediabile di un patrimonio conoscitivo fondamentale per la lotta alla mafia. Rispetto a questo tema il nostro Stato non può indietreggiare di un millimetro. Non trova che dietro questa scelta ci sia populismo penale, come sostenuto dal procuratore aggiunto Stefano Musolino? Non parlerei in questo specifico caso di populismo penale, proprio in ragione degli interessi in gioco e dell’evidente opportunità di chiarire i dubbi interpretativi di una disposizione scritta dal legislatore in modo poco chiaro. È d’accordo sul fatto che esiste un abuso nella pubblicazione indiscriminata delle intercettazioni? È un tema delicato perché viene in rilievo l’esigenza di contemperare due interessi, da lato l’interesse pubblico all’informazione e dall’altro quello del singolo alla riservatezza. Senza dubbio è deplorevole la pubblicazione di intercettazioni che riguardano terze persone o aspetti della vita personale senza alcuna rilevanza per l’inchiesta in corso. In questa prospettiva vi è stato un intervento legislativo recente, in attuazione di una direttiva europea e sarebbe stato opportuno verificare l’impatto della nuova disciplina. Come giudica questo primo anno di interventi del governo nel campo della giustizia? Se posso permettermi giudico gli interventi in materia di giustizia degli ultimi anni (e quindi anche quelli del governo in carica) eccessivi nel numero. Da pochi mesi è entrata in vigore la imponente riforma Cartabia, prima ancora abbiamo avuto importanti interventi a guida del ministro Orlando. Il sistema è continuamente sottoposto a stress di adattamento. Non si dà il tempo alla precedente riforma di dispiegare gli effetti quando già si interviene nuovamente anche nella stessa materia (basti pensare al tema della prescrizione o delle intercettazioni). Tutto questo determina dubbi interpretativi e applicativi. È un male. Nelle ultime ore sono stati diversi i suicidi in carcere. Come si può affrontare questo fenomeno? Utilizzare caserme dismesse, come vorrebbe il ministro, è una soluzione? Il problema carcerario affligge il nostro paese da anni. Probabilmente la strada delle misure alternative alla detenzione, uno dei pilastri della riforma Cartabia, non si dimostrerà sufficiente. Nei primi mesi non pare ci sia una forte adesione da parte della stessa avvocatura in sede di giudizio di merito. La risposta va rinvenuta, innanzitutto, in una seria depenalizzazione, ma purtroppo i segnali che provengono dalla politica vanno in senso opposto. Il sovraffollamento e la carenza di personale (penso agli educatori e agli psicologi) richiedono inoltre investimenti economici che finora sono stati scarsi. Sicuramente prevedere forme di detenzione differenziata sulla base della diversa pericolosità può essere una strada. Ma ciò che più conta è che finalmente l’esecuzione della pena (sia essa in carcere o mediante l’accesso a misura alternative) diventi una strada per il recupero ed il reinserimento. L’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione presuppone volontà politica e stanziamento di fondi. Nell’agenda di governo c’è la separazione delle carriere… È utile per ottenere l’equidistanza del giudice dalle parti? La separazione delle carriere, come ripetiamo costantemente, peggiorerà senza dubbio la situazione. Il numero delle assoluzioni dimostra la piena autonomia dei giudici dai pubblici ministeri. Aspettiamo di valutare l’impatto della nuova regola di giudizio che consente il rinvio a giudizio solo in caso di valutazione di elevata probabilità di condanna, regola che dovrà essere osservata in primis dal pm. In precedenza il pm aveva l’obbligo di esercitare l’azione penale in presenza di “elementi idonei a sostenere l’accusa”, non c’era da meravigliarsi del numero elevato di assoluzioni. Oggi non è così, diamo il tempo alla riforma di dispiegare i suoi effetti. Trova che ci sia stato un cambio di passo al Csm? Pare ci siano ancora riunioni a Palazzo dei Marescialli con soggetti esterni al Consiglio, come i segretari dei gruppi. Lei partecipa a incontri simili? Ovviamente posso parlare per me e per i segretari nazionali del mio gruppo. Non parliamo con i consiglieri delle nomine, rispetto alle quali vi è assoluta autonomia, come è giusto che sia. Il gruppo però è libero di criticare l’operato dei consiglieri qualora si dovesse allontanare dai principi espressi nel programma elettorale, ma questo deve avvenire in modo trasparente e democratico. Le distorsioni che si sono verificate in passato non sono state sintomo dello strapotere delle correnti ma, al contrario, della loro debolezza a fronte di singole personalità debordanti. Ed ecco perché (almeno noi liberali) non possiamo non dirci garantisti di Giuseppe Benedetto* Il Dubbio, 16 agosto 2023 Il giustizialista pone priorità agli aspetti securitari di ordine sociale. Cercherò nel breve spazio concesso da un articolo di spiegare perché sono garantista e perché un liberale non può che essere garantista. Lo farò partendo dalla etimologia del termine garantismo, ovviamente “garanzia”. Così come in contrapposizione analizzerò l’etimologia del termine giustizialismo che non può che essere “giustizia”. Partendo da questo assunto è subito da rilevare come la garanzia non può che attenersi al singolo, al cittadino, all’individuo. Così come la giustizia non può che rivolgersi alla società nelle sue articolazioni “giustizia sociale”. Orbene per chi come me, come per chiunque si dica e sia effettivamente liberale, “la più piccola minoranza al mondo è l’individuo, chiunque neghi i diritti dell’individuo non può sostenere di essere un difensore delle minoranze” (Ayn Rand), le garanzie per l’individuo vengono prima di tutto. Anche prima delle pur comprensibili esigenze della società. Senza disturbare, sol per motivi di spazio, il maestro di tutti noi Friedrich von Hayek, a me pare che su questo aspetto tra liberali si possa essere d’accordo. La società è un insieme di individui. Prima ancora dunque dei sacri principi del Diritto penale liberale, di Cesare Beccaria, dell’afflato verso una giustizia giusta, equilibrata, non inutilmente afflittiva, noi liberali non possiamo che dirci garantisti in quanto difensori dell’individuo, nel caso di specie di quello speciale individuo che è il cittadino. Il giustizialista pone priorità agli aspetti securitari di ordine sociale, che possono giustificare la limitazione delle garanzie per l’individuo in nome di interessi superiori: lo Stato, la sicurezza, l’esemplarità della pena, la punizione del colpevole sino all’odiosa frase “gettare la chiave”. Appare del tutto ovvio che lo Stato etico, le dittature di destra e di sinistra, facciano del giustizialismo la loro stessa ragion d’essere. Sarebbe ben strano dunque trovare un liberale giustizialista, una vera e propria contradictio in terminis. Sono dunque scettico, stante l’evidente posizione minoritaria di noi liberali, che questo come altri Governi, di destra o di sinistra, possano giungere a riforme della Giustizia effettive, non solo declamate, che mettano al centro innanzi tutto l’individuo. Troppo forte è in loro il richiamo della foresta, la foresta oscura del “lo vuole il popolo”, da cui “populismo”. Tutto torna. Per questi Governi li popolo indistinto, non il cittadino, vuole pene sempre più dure (sino alla pena di morte); vuole punire e basta, poco interessa il 3° comma dell’articolo 27 della Costituzione, il quale sancisce che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”; giustifica ogni intrusione nella vita del cittadino (sino alla sua camera da letto) in nome della superiore esigenza del bene comune. I liberali si accontentano di vivere senza essere vessati, senza sentirsi controllati dal grande fratello. John Stuart Mill nel suo Saggio sulla libertà scriveva “lo scopo dei cittadini era di porre dei limiti al potere sulla comunità concesso al governante: e questa delimitazione era ciò che essi intendevano per libertà”. Per i liberali ancora ora questa è la Libertà. *Fondazione Luigi Einaudi Niente musica “per l’intero giorno” al 41 bis: la Cassazione vieta i cd in cella al boss di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 16 agosto 2023 Il detenuto chiedeva di poter tenere dietro le sbarre un lettore digitale “per l’intero giorno”, ma è stato invece condannato a pagare 3mila euro alla Cassa delle ammende. Per i giudici la detenzione dell’apparecchio richiederebbe un impegno troppo gravoso per l’Amministrazione penitenziaria con controlli maggiori e anche di notte. Niente musica in cella per il boss di Porta Nuova Alessandro D’Ambrogio, detenuto al 41 bis. La settima sezione della Cassazione, presieduta da Teresa Liuni, ha infatti rigettato il ricorso del mafioso che chiedeva di poter tenere con sé dietro le sbarre e “per l’intero giorno” un lettore e dei cd. Per i giudici la richiesta è inammissibile e D’Ambrogio è stato condannato a versare 3 mila euro alla Cassa delle ammende. Sono state così confermate le decisioni già prese dal magistrato di Sorveglianza di Novara a marzo dell’anno scorso e del tribunale di Sorveglianza di Torino il 31 gennaio scorso. Il boss chiedeva di poter avere costantemente in cella un lettore digitale per ascoltare musica, ma questo avrebbe richiesto maggiori controlli, anche di notte, e dunque delle difficoltà nella gestione del carcere. Per la Cassazione “è legittimo il provvedimento dell’Amministrazione penitenziaria di diniego di autorizzazione all’acquisto ed alla detenzione di cd musicali e dei relativi lettori digitali qualora, per l’incidenza sull’organizzazione della vita dell’istituto, in termini di impiego di risorse umane e materiali, non sia possibile assicurare la messa in sicurezza di detti dispositivi e supporti”. Inoltre “il provvedimento impugnato rende conto della riscontrata inesigibilità dei controlli necessari, tenuto conto dell’orario notturno in cui la vigilanza è minore e comunque della prospettata esigenza di controllo delle camere di pernottamento, controllo che, per la presenza del descritto materiale viene considerato più gravoso da parte dell’Amministrazione penitenziaria ed inciderebbe sulle esigenze di sicurezza richiedendo l’impiego di risorse non a disposizione dell’Amministrazione”. Il boss D’Ambrogio vuole vedere le partite anche al 41 bis: no dei giudici - Visto che “dalla condizione detentiva - si legge ancora nella sentenza della Suprema Corte - possono derivare limitazioni, anche significative, alla ordinaria sfera dei diritti soggettivi della persona, anche quale diretta conseguenza dell’adozione di misure e provvedimenti organizzativi dell’Amministrazione stessa, volti a disciplinare la vite degli istituti, a garantire l’ordine e la sicurezza interna e l’irrinunciabile principio del trattamento rieducativo; misure e provvedimenti che, ove adottati nel rispetto dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità, incidono legittimamente sulla posizione soggettiva del ristretto, andando ad integrarne l’ambito di autorizzata e lecita compressione”, il ricorso è stato rigettato. Sicilia. Bisagna (Antigone): “Nelle carceri mancano gli psichiatri. Alto il rischio di suicidi” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 16 agosto 2023 Caduto nel vuoto l’appello per rafforzare la sanità penitenziaria: “Troppe poche risorse”. “Nelle carceri, l’estate è sempre un disastro”, dice Giorgio Bisagna, l’avvocato palermitano che presiede Antigone Sicilia: “Non solo per il caldo terrificante, ma anche per la sospensione delle attività”. Com’è possibile? “Il personale va in ferie, anche i volontari sono spesso in vacanza. I detenuti invece no, e devono fare a meno delle attività scolastiche e di tutti quei progetti che rendono migliore la permanenza dietro le sbarre”. Continuano ad arrivare notizie di suicidi dalle carceri. Perché non si riesce a fermare questo drammatico stillicidio? “Non abbiamo mai smesso di denunciare che dietro le sbarre si vive una situazione di disagio. Le brutte notizie continueranno ad arrivare se non si rafforzeranno le squadre di medici e psichiatri: gli operatori sono bravi e preparati, ma troppo spesso non riescono a far fronte a tutti i casi che vengono loro affidati”. La sanità penitenziaria dipende dalle aziende sanitarie locali... “Dopo l’ennesimo caso e l’ennesimo appello, il presidente della Regione Renato Schifani aveva fatto un’accorata dichiarazione promettendo più finanziamenti su questo fronte. Ma, al momento, le Asp hanno fatto ben poco. Continuano a mancare medici e psichiatri, ci vorrebbero nuovi concorsi”. Sembra caduto nel vuoto anche l’appello a realizzare altre residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezze. Perché? “Non ci si rende conto della gravità della situazione. Siamo di fronte a casi di assoluta illegalità: ci sono detenuti dichiarati dai giudici del tutto incapaci di intendere e di volere, non potrebbero proprio stare dietro le sbarre. E, invece, accade anche questo. Con ricadute pesanti sulla vita dei penitenziari: delle persone che stanno male devono occuparsi i compagni di cella, poi gli agenti della polizia penitenziaria, e poi medici che spesso non ci sono. Dunque, a fronte di questa situazione, la politica non faccia finta di indignarsi dopo l’ennesimo suicidio in carcere, sarà l’ennesimo suicidio annunciato”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, propone di utilizzare le caserme dismesse per risolvere il problema del sovraffollamento. Cosa ne pensa? “È una proposta del tutto inadeguata per far fronte a un problema ormai cronico. La soluzione non è mettere più gente in carcere, ma lavorare per un’applicazione migliore delle misure alternative al carcere. In un’ottica della finalità rieducativa della pena, bisognerebbe anche cambiare la gestione degli arresti domiciliari, attivando pure per questa forma di detenzione i servizi sociali e le attività di risocializzazione che vengono fatte per chi sta dietro le sbarre”. Quali progetti ha Antigone Sicilia? “Continueremo le visite nei 23 penitenziari dell’Isola, per monitorare in presa diretta cosa accade. E non smetteremo di raccogliere le segnalazioni dei detenuti e dei loro familiari. È necessario che la politica e la società civile prendano sempre più coscienza che l’universo carcere non può essere un ghetto, ma fa parte della nostra comunità”. Sardegna. La Garante: “Bancali e Uta vivono situazioni esplosive, il sistema va riformato” di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 16 agosto 2023 Irene Testa si è soffermata sulle criticità che innescano i drammatici fatti di cronaca sempre più frequenti. La Garante regionale per i detenuti oggi giorno di ferragosto ha visitato il carcere di Alghero, “un tempo istituto modello e ora purtroppo afflitto dagli stessi problemi delle altre strutture carcerarie dell’isola”, come ha spiegato Irene Testa dopo la visita. Nel piazzale la Garante ha incontrato i giornalisti, tante le domande su una situazione grave, non abbastanza denunciata, soprattutto dimenticata appena si spengono i riflettori sui fatti di cronaca più gravi, ultimo dei quali il doppio suicidio di due detenute. Il ruolo del Garante è di denuncia, di stimolo e di proposta, ma diventa inefficace quando il sistema non interviene con una riforma radicale. “La pena va scontata - ha detto la Garante -, ma non ha senso per nessuno scontarla in questo modo”. Il problema del sovraffollamento rende la situazione esplosiva per la presenza di detenuti con tossicodipendenza e detenuti con disturbi psichiatrici, la metà ormai dell’intera popolazione carceraria. “Gli agenti penitenziari e i direttori sono allo stremo”, ha sottolineato la Garante, che ha segnalato sia la gravità della situazione soprattutto a Bancali e a Uta, sia la contraddizione del sistema, in questo caso in Sardegna, dove c’è la colonia penale agricola di Mamone, esempio virtuoso di istituto penitenziario orientato al recupero delle persone detenute, ma sottopopolato perché non ci sono detenuti da mandare: potrebbe ospitare 300 persone, ne ha appena 130. Campania. La denuncia di Ciambriello: “Carceri sovraffollate e invivibili col caldo” lacittadisalerno.it, 16 agosto 2023 Sovraffollamento da record, temperature bollenti e ora d’aria nel momento più caldo della giornata. È la denuncia che arriva per le case circondariali della Campania dal Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello. Una situazione che ha reso ancora più insostenibile il clima all’interno delle strutture detentive della regione e della provincia di Salerno. “È normale far fare il secondo turno d’aria dalle 13 alle 15 con questo caldo”, lo sfogo rabbioso di Ciambriello. “È una vendetta contro i reclusi? La pena, se scontata in questa maniera, ha più il sapore di un accanimento. Oltretutto a questo si aggiunga che nei mesi estivi le attività sono ridotte all’osso: non c’é scuola, sono chiusi i blindati, non c’è un’adeguata formazione. E mentre aumentano i suicidi mancano i defibrillatori”, le accuse che arrivano dal garante dei detenuti della Campania. “Stare in carcere in questo periodo è un po’ come per noi stare su un bus sovraffollato e senza aria condizionata. Mal sopportiamo il viaggio, naturalmente, ma sappiamo che comunque nel giro di poco scenderemo. Chi deve passare un periodo dietro alle sbarre non ha ovviamente la prospettiva di una uscita imminente e si arrende a passare ore senza aria, mettendo il naso fuori tra il cemento con temperature proibitive”. Per questo, dunque, Ciambriello ha chiesto alla Regione alcuni immediati provvedimenti per le situazioni più a rischio, come quella di Poggioreale. “A volte, seppur in mezzo a un mare di difficoltà, basta poco per migliorare le condizioni di vita dietro alle sbarre. So che il mio è un urlo contro il silenzio, ma confido che prima o poi qualcuno ascolti”, la conclusione del garante dei detenuti della Campania. Palermo. Inferno Pagliarelli, nelle celle sovraffollate caldo record: 42 gradi di Salvo Palazzolo La Repubblica, 16 agosto 2023 Il Garante per i detenuti Pino Apprendi ha visitato la struttura che oggi accoglie 1.335 reclusi, ce ne dovrebbero stare al massimo 1.164. “E gli agenti sono pochi”. “Sono stati giorni d’inferno a Pagliarelli”, racconta Pino Apprendi, il garante per i detenuti di Palermo, appena uscito dal carcere dove ha incontrato le ospiti del reparto femminile. “Nei giorni più caldi - dice - la temperatura è arrivata fino a 42 gradi. Mentre i numeri dei detenuti continuano a crescere in modo vorticoso”. Dovrebbero essere 1.164, sono 1.335. “Un sovraffollamento del 15 per cento”, è l’ennesima denuncia del Garante. “Dato reso ancora più drammatico dalla carenza cronica di agenti della penitenziaria: la notte, un solo poliziotto deve sorvegliare due reparti. Una situazione francamente complessa, che provoca una condizione di stress nel personale, che è l’anello debole di tutto il sistema in crisi: gli agenti sono spesso presi di mira con aggressioni piccole e grandi, e devono farsi carico anche dei detenuti con problemi psichiatrici. È il vero tema da affrontare”. Pagliarelli rispecchia la situazione delle altre 23 carceri siciliane. Piene di detenuti con un forte disagio psichiatrico: “Non dovrebbero stare neanche in carcere”, dice Apprendi, 73 anni e quasi trenta a occuparsi della condizione di chi sta dietro le sbarre. Come consigliere comunale, deputato regionale, fondatore e presidente dell’associazione Antigone Sicilia e, dallo scorso aprile, nel ruolo di garante per le persone detenute del Comune di Palermo, figura mai esistita prima. Non usa mezzi termini: “Così com’è strutturato, il carcere è un inferno”. Nei mesi scorsi è stata annunciata l’apertura di un reparto psichiatrico a Pagliarelli: “Spero che non si trasformi in un ospedale psichiatrico giudiziario - dice Apprendi - strutture che sono state ormai abolite dal 2013. Oggi dovrebbero esserci le Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ma in Sicilia sono in numero insufficiente”. In tutta l’Isola ci sono solo un ex ospedale psichiatrico giudiziario, a Barcellona, e due Rems, strutture sanitarie che accolgono gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi: sono a Naso e a Caltagirone. E, intanto, dietro le sbarre c’è un disagio crescente. L’ultima relazione del garante nazionale per i detenuti rivela che l’anno scorso in Sicilia ci sono stati 9 suicidi, 54 tentativi e 740 atti di autolesionismo. Quest’anno i suicidi sono sei, due sono stati ad Augusta dopo un lungo sciopero della fame su cui adesso indaga la procura di Siracusa diretta da Sabrina Gambino. L’ultimo episodio, invece, nel carcere di Ragusa, ha riguardato un giovane di 26 anni, sposato e padre di due figli. Si è impiccato, e adesso c’è un’inchiesta della procura. Mentre la famiglia chiede come sia stato possibile che gli agenti non si siano accorti del gesto che il giovane stava mettendo in atto. Ieri mattina, Apprendi ha incontrato le 75 ospiti del reparto femminile. “Un modo per non dimenticare le due detenute che si sono uccise a distanza di 24 ore, a Torino”. Il reparto femminile di Pagliarelli è un’oasi nel sovraffollamento del carcere: le celle sono anche grandi, con due ampie finestre. “Ma le storie delle donne che ho incontrato sono drammatiche - racconta ancora il garante. Una giovane di Catania ha chiesto di essere riavvicinata alla sua città o di avere i domiciliari, per prendersi cura del figlio disabile. Una migrante vorrebbe invece non lasciare il carcere: “Io non ho una casa, non so dove andare”, mi ha detto. Lei verrà scarcerata a fine anno”. Per l’emergenza carceri, il ministro Nordio ha detto di voler aprire le caserme in disuso. “A Palermo non ce ne sono - dice Apprendi - ma è comunque un’idea che definirei bizzarra, non è possibile creare altri ghetti. Bisognerebbe piuttosto favorire l’applicazione delle misure alternative. Tante persone non dovrebbero neanche stare dietro le sbarre”. Cosenza. Il Garante regionale dei detenuti Luca Muglia in visita al carcere lanuovacalabria.it, 16 agosto 2023 Muglia: “Seguiranno importanti iniziative istituzionali”. Il Garante regionale dei diritti delle persone detenute, Luca Muglia, alla vigilia di ferragosto, ha effettuato una visita istituzionale presso la Casa circondariale di Cosenza, unitamente ad una delegazione, al fine di accertare le condizioni di vita delle persone detenute e l’attuazione delle misure “anti-caldo” precedentemente richieste dal suo Ufficio. La delegazione era composta, oltre che dal Garante regionale e dal neoeletto Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Cosenza, dal Presidente e dai Consiglieri del direttivo della Camera penale di Cosenza, dal Referente regionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere penali italiane e dal delegato dell’Osservatorio Carcere della Camera penale di Cosenza, i quali avevano formulato una specifica richiesta di accesso volta ad accertare la presenza di schermature e pannelli in plexiglass sulle finestre delle camere detentive. “Mi si consenta” - afferma il Garante Muglia - “di esprimere innanzitutto il mio compiacimento per la recente nomina del dottor Francesco Terranova quale Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Cosenza. Stamane ho avuto il piacere di conoscere il Garante del Comune di Cosenza, cui ho rivolto i miei auguri più sinceri. Sono certo che fornirà un contributo importante e che l’interazione tra i rispettivi Uffici potrà generare risultati apprezzabili”. “Quanto alla visita odierna una buona parte delle misure richieste dal mio Ufficio” - continua il Garante regionale - “sono state adottate. Il posizionamento dei punti idrici, l’apertura dei blindi nelle ore notturne, l’apposizione di impianti di ventilazione nei corridoi delle sezioni, la possibilità di acquistare ventilatori personali, la disponibilità di frigo e congelatori nei piani detentivi, la disinfestazione dei luoghi, la bonifica della rete fognaria, la predisposizione di riserve di acqua, la disponibilità di menù per la stagione estiva, i colloqui e la corrispondenza telefonica straordinari. Permangono, tuttavia, diverse criticità. La rimodulazione della permanenza all’aperto in orari meno caldi della giornata è preclusa, secondo quanto riferito, in ragione delle esigenze di sicurezza e della carenza di personale. Si aggiungano le segnalazioni di diversi detenuti - incontrati dalla delegazione - che lamentano l’assenza di areazione nei bagni, la scarsa qualità dell’acqua corrente e la mancanza di un’adeguata assistenza medico-sanitaria”. “Discorso a parte - conclude il Garante Muglia - “merita la presenza di schermature e pannelli in plexiglass sulle finestre esterne delle camere detentive ubicate ai piani superiori. La delegazione ha avuto modo di accertare le dimensioni e il materiale delle schermature, verificando direttamente che le camere detentive ove sono state posizionate le schermature presentano una circolazione di aria limitata, assenza di luce e temperature nettamente superiori. Pur prendendo atto che l’adozione delle schermature è originata da motivi di sicurezza e dalla finalità di impedire la comunicazione con l’esterno, a fronte di episodi negativi, è indubbio che le stesse rechino pregiudizio alla salute delle persone detenute, oltre ad aggravare le condizioni di vita quotidiana. Mi farò carico, pertanto, di tornare al più presto sull’argomento con nuove iniziative istituzionali”. Rimini. In carcere, tra scarafaggi e fornelli accanto al gabinetto. Innocenti: “Trattamenti inumani” di Carla Dini Corriere della Romagna, 16 agosto 2023 Scarafaggi, acqua fredda e fornelli accanto al water. Agosto in carcere non significa solo caldo soffocante o nostalgia dei propri familiari, mentre la città festeggia il Capodanno d’estate con i piedi a mollo e la testa sgombra di pensieri. Sono condizioni di vita pericolose e degradanti quelle che affliggono da anni la prima sezione del carcere circondariale di Rimini. Un luogo dove ieri mattina si è recata in visita una delegazione, su iniziativa del Partito radicale, nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Agosto in carcere” che prevede il monitoraggio di oltre 50 istituti penitenziari in Italia. Il gruppo era composto da Ivan Innocenti, esponente del consiglio generale del Partito radicale e Aldo Brunelli, militante dei radicali, oltre a Nicola Marcello, vice presidente del consiglio comunale di Rimini per Fratelli d’Italia, nonché Andrea Pari, consigliere comunale della Lega e Annalisa Calvano dell’osservatorio carcere Camera penale di Rimini. È passato un anno dal suicidio del 37enne Aziz Rouam, detenuto nella prima sezione. Una sezione ancora aperta come una ferita per l’intera comunità. Innocenti, partiamo dai numeri: quante persone ospita la casa circondariale di Rimini? “In totale sono 144 uomini, tutti abbastanza giovani, tra cui 95 detenuti stranieri. Fino a due mesi fa mancava all’appello un mediatore culturale. Un vuoto colmato da poco attraverso un professionista che viene da Modena due giorni alla settimana. Una finestra temporale insufficiente per imbastire una sana comunicazione fermo restando che ci sono diverse etnie. Ma non è tutto: secondo dati forniti dal reparto sanitario, sono circa 80 i tossicodipendenti. Tradotto: oltre metà della popolazione del carcere è composta da malati che avrebbero bisogno di un percorso sanitario e non di una vita dietro le sbarre”. L’afa è intensa: alcuni detenuti sono più a rischio? “Nella sezione tre sussistono gravi problemi arginati da soluzioni tampone. Un esempio? Si lascia aperto il cosiddetto blindo. In sostanza le celle hanno due chiusure: una porta a sbarre verticali e un’altra, detta blindo o blindato, dotata di una piccola apertura in alto che affaccia sempre sul corridoio e viene lasciata spalancata nel periodo estivo. Nonostante l’accorgimento, in quest’ala le condizioni di vita sono difficili. E c’è un dramma anche peggiore che una città come Rimini non può silenziare”. Quale? “I 30 detenuti della prima sezione sono esposti a un trattamento inumano e indecoroso. A sostenerlo da anni sono le istituzioni sanitarie e della giustizia. Non sono in discussione i rapporti umani, beninteso, ma la struttura stessa che necessita di interventi non risolvibili con ordinaria manutenzione come dichiarato dall’Ausl Romagna nella visita ispettiva del 2021. Condizioni igieniche scadenti, si legge nero su bianco, con rischio sanitario. L’area dovrebbe accogliere 23 persone al massimo ma negli anni ha superato quota 40 e l’ambiente è così ammalorato che lo stesso magistrato di sorveglianza, in visita nel dicembre 2022, sostiene la necessità di risarcimenti ai detenuti, perché quelle mura violano i principi dall’articolo tre della Carta europea dei diritti umani in tema di tortura. Si punta a un 10% di riduzioni della pena, ovvero ogni 10 giorni trascorsi qui dentro ne verrà “scontato” uno. La questione, lo ribadisco, è di enorme gravità: per terra scorrazzano gli scarafaggi e le celle sono prive di acqua calda e docce. Non va meglio per le cinque docce comuni, visto che ne funzionano solo tre. E ancora: alcune celle sono sprovviste della porta tra il bagno e il resto della stanza separate solo da una tenda. Per motivi di spazio infine tutte le cucine sono accanto al water. Un trattamento indegno che abbruttisce la nostra comunità”. Soluzioni? “Le istituzioni comunali potrebbero far di più ma forse la questione non è stata stigmatizzata a sufficienza. Bisogna chiudere questa sezione: che la città prenda le distanze almeno nel principio da questo scempio. L’Ausl ha mandato all’amministrazione il suo report già nel 2021. Alla visita del sindaco è seguito un consiglio in carcere nonché una commissione comunale sui trattamenti umani degradanti ma senza approdare alla stesura di alcun documento. Mi aspettavo che Rimini si indignasse ma finora non è avvenuto”. Si parla di ristrutturazione? “È prevista forse tra 7-8 mesi ma resta l’emergenza qui e adesso. Come partito radicale, lanciamo un appello perché la città gridi che questa situazione non può andare avanti un giorno. Capisco che le competenze non sono del sindaco, Jamil Sadegholvaad, ma occorre mettersi in moto”. Come arginare la situazione? “Molti detenuti sono così poveri da non avere un luogo di residenza, il che preclude la possibilità di pene alternative alla detenzione. Perché non mettere a disposizione abitazioni, mentre la casa circondariale si impegna a svuotare per sempre la sezione? Si tratta solo di una trentina di persone. Rimini non può restare a guardare: sono in gioco i diritti fondamentali”. Pisa. Carcere Don Bosco: “Situazione drammatica, disinteresse dal Comune” pisatoday.it, 16 agosto 2023 Il punto sulle condizioni della Casa circondariale pisana dal gruppo consiliare Una città in comune. Una situazione difficile anche quella della casa circondariale di Pisa in un momento particolare per le carceri italiane. A puntare il dito sulle condizioni del Don Bosco è Una città in comune. “Le ultime morti in carcere a Torino evidenziano ancora una volta una situazione carceraria nel nostro paese che in estate diventa sempre più insopportabile diventando, come ha ben scritto Patrizio Gonnella, una vera e propria mattanza. Sono 43 gli uomini e le donne che si sono tolte la vita nei nostri istituti penitenziari dall’inizio del 2023 - sottolineano da Una città in comune - la situazione, nella assoluta complicità e colpevolezza dei governi che si sono susseguiti, è sempre più esplosiva con un tasso di sovraffollamento che cresce di anno in anno in strutture sempre più invivibili e senza alcuna politica che affronti queste criticità. Non fa eccezione a situazione della casa circondariale pisana che è a dir poco drammatica, come testimoniano i rapporti di Antigone: l’inadeguatezza strutturale è in continuo peggioramento, i problemi di sovraffollamento e la carenza di azioni di inserimento lavorativo sul territorio per le persone detenute fanno del Don Bosco un luogo di negazione dei diritti fondamentali nel quale le rivolte, sempre più frequenti, lasciano solo intuire lo stato in cui sono costretti detenuti ed operatori”. “In tutti questi anni abbiamo ripetutamente sollevato queste problematiche, attraverso interpellanze e ordini del giorno e lo rifacciamo anche in questi giorni rilanciando l’iniziativa anche in Consiglio comunale. Innanzitutto, è urgente la realizzazione di una struttura esterna per accogliere i familiari delle persone detenute in attesa dei colloqui, da tutte le amministrazioni prima di centrosinistra e poi di centrodestra promessa e mai realizzata su cui abbiamo presentato una interpellanza - sottolineano ancora da Una città in comune - al contempo è necessaria la creazione di uno sportello interno per l’accesso ai procedimenti amministrativi comunali da parte dei detenuti, in linea con le indicazioni del garante nazionale. L’amministrazione comunale deve poi farsi parte attiva nel potenziare i servizi di mediazione sociale, linguistica e culturale, nonché nell’ingresso del mondo produttivo in carcere, attraverso la realizzazione di percorsi professionalizzanti ben strutturati, in collaborazione col centro per l’impiego. Ciò serve soprattutto nella sezione femminile che, per l’esiguo numero di detenute, vive uno stato di abbandono formativo e lavorativo se possibile maggiore del resto della popolazione carceraria”. Per Una città in comune è necessario potenziare anche l’intervento del Comune “per garantire l’accesso alle misure alternative alla detenzione attraverso percorsi di inclusione, nella duplice ottica di alleviare il sovraffollamento e offrire concrete opportunità di reinserimento. Serve un concreto impegno nella direzione di una cultura della giustizia riparativa, da realizzarsi attraverso uno sportello di giustizia di comunità costruito assieme all’ufficio esecuzione penale esterna e al terzo settore. Infine, attraverso la Società della salute, bisogna garantire l’accesso delle persone detenute ai servizi residenziali sanitari per i detenuti incompatibili con il regime detentivo”. “A fronte di queste urgenti necessità di intervento, l’amministrazione Conti, che della retorica sulla sicurezza ha fatto una bandiera elettorale, non ha mostrato che disinteresse, così come del resto era avvenuto con le precedenti amministrazioni; neanche le varie audizioni nella Seconda Commissione consiliare permanente del Garante Comunale dei detenuti e del personale volontario che lavora nella casa circondariale sono servite ad indurre il Comune ad interventi concreti. Eppure sono ormai innumerevoli gli studi che dimostrano che in una società in cui le difficoltà economiche e sociali delle persone sono affrontate adeguatamente il numero dei reati cala enormemente, così come cala il tasso di recidiva. Intervenire nel settore della marginalità sociale, stanziando fondi per gli interventi di sostegno ed assistenza alle persone in difficoltà è ciò che un’amministrazione locale può e deve fare per incidere realmente sulla questione della legalità e quindi sulla questione carceraria” concludono da Una città in comune. Bolzano. Un sovraffollamento colpevole di Elisa Brunelli salto.bz, 16 agosto 2023 I recenti sopralluoghi nel carcere di Bolzano puntano ancora una volta i riflettori sul sistema penitenziario. La struttura di Via Dante denuncia ferite profonde. Nonostante il sempreverde problema del sovraffollamento carcerario, le camere di sicurezza presenti nelle caserme di Polizia e Carabinieri a Bolzano non vengono utilizzate. Salto.bz lo denunciava già nel 2021 ma da allora nulla è cambiato. Una delegazione mista di Radicali Italiani e Verdi, guidata dall’ex referente fiduciaria del Comune di Bolzano “licenziata” dallo stesso sindaco, Elena Dondio, ha visitato ieri, 14 agosto, il carcere di Bolzano, nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Devi vedere”. “I problemi della struttura penitenziaria bolzanina sono noti da tempo e continuano a persistere: un edificio fatiscente e sovraffollato con carenza cronica di personale, spazi ristretti, servizi igienici malfunzionanti, un cortile inadeguato ed infestato dai ratti”, ha riportato la delegazione, sottolineando che la struttura carceraria continua a venire utilizzata in modo improprio, sopperendo alla mancata implementazione delle camere di sicurezza e che, la mancanza di una residenza priva il detenuto della possibilità di accedere alle misure alternative previste. Quello che accade nel concreto è che quando una persona viene arrestata in flagranza di un piccolo reato, come il furto di una bicicletta o il possesso di qualche decina di grammi di hashish, viene condotta in carcere nonostante la certezza pressoché totale di rilascio nel giro di 48 ore in sede di convalida. La casa circondariale, sovraffollata e sotto organico, è costretta a procedere con la visita medica, l’immatricolazione, il conto corrente, l’intero ciclo di osservazione iniziale e disporre la scorta fino al tribunale. Per evitare questa lunga e inutile trafila burocratica, senza contare che le persone sono costrette a vivere il dramma di due notti in un istituto penitenziario, la Legge ha offerto l’alternativa delle camere di sicurezza, ampiamente utilizzate in tutta Italia ma totalmente dimenticate a Bolzano. Già due anni fa, le Camere penali, imputavano il motivo alla mancata volontà di assumersi la responsabilità della persona arrestata. Le problematicità del carcere di Bolzano vengono sollevate da anni. Cedimenti strutturali, sporcizia, freddo d’inverno e caldo d’estate. La manutenzione è pressoché nulla, nonostante l’edificio, una pericolante prigione austroungarica, risalga all’800. Tutte le sezioni presentano forti criticità, dalle celle alle sale comuni, dai bagni (uno per stanza, solo wc) alle docce, da rifare completamente. La maggior parte dei detenuti presenta problemi di tossicodipendenza e un numero considerevole soffre di patologie di natura psichiatrica. I giorni scorsi, il sottosegretario Andrea Delmastro, in visita in via Dante ha affermato che nonostante le difficoltà, tutto sommato la struttura regge “grazie alla capacità degli agenti della Polizia penitenziaria di fare le nozze con i fichi secchi”. Per quanto riguarda il nuovo carcere, ancora una volta poche certezze ma solo vaghe promesse e decisamente difficili da realizzare (sia dal punto di vista logistico sia perché in contrasto con l’ordinamento) come quella di far scontare la pena nel paese d’origine per i detenuti stranieri. “Sono state rilevati una serie di problemi tecnici, giuridici ed economici, attendiamo il parere dell’avvocatura di Stato”, ha concluso Delmastro. Bolzano. Detenuti nelle caserme? Il sindaco Caramaschi dice no di Elisa Brunelli altoadige.it, 16 agosto 2023 Il ministro Nordio pensa di utilizzare le strutture vuote per scontare pene fino a tre anni. Il sindaco: “Le strutture dismesse - penso alle Huber - servono a noi per farci alloggi”. “Ho sentito anch’io la proposta del ministro alla giustizia Carlo Nordio, che prevede di usare le caserme dismesse per scontare pene fino ai tre anni. Facciano quello che vogliono, purché non usino la caserma Huber di viale Druso: quell’area serve a noi per costruire alloggi. Ne sono previsti alcune centinaia”. È la reazione leggermente preoccupata del sindaco Renzo Caramaschi al Piano, già annunciato e rilanciato dal ministro alla Giustizia, dopo il suicidio nel carcere delle Vallette a Torino di due detenute. Al momento non risultano contatti ufficiali, ma non è escluso che ci possano essere, visto che sul territorio provinciale ci sono tante caserme dismesse. Secondo Nordio, l’uso delle strutture militari vuote consentirebbe da una parte di ridurre il sovraffollamento e dall’altra di contenere le spese, rispetto alla costruzione di nuove strutture. Si calcola che attualmente, a livello nazionale, i detenuti con una condanna da scontare fino a tre anni, siano complessivamente 4.373. La Huber non è una caserma vuota. Lo diventerà nel momento in cui i militari si trasferiranno alla Vittorio Veneto, nella strada omonima. Ciononostante il sindaco ci tiene a rimarcare che la caserma di viale Druso rientra, assieme all’areale ferroviario, nel piano comunale delle aree da riservare all’edilizia abitativa, per rispondere all’emergenza. Il Comando Truppe Alpine dell’Esercito non si esprime, ovviamente, sulla proposta del ministro Nordio; si limita a dire che c’è un Piano di dismissione delle caserme non più utilizzate che, in base a degli step già fissati, verranno trasferite alla Provincia. In cambio di permute o di investimenti per migliorare strutture usate dai militari. Poi la Provincia, una volta diventata proprietaria degli immobili, potrà concordare con il ministero come utilizzarli. Verdi e Radicali in carcere - E mentre si discute della proposta Nordio, lunedì una delegazione mista di Radicali Italiani e Verdi, guidata da Elena Dondio e Brigitte Foppa, ha visitato il carcere di via Dante, nell’ambito dell’iniziativa nazionale di Radicali Italiani “Devi vedere”. “I problemi della struttura penitenziaria bolzanina - si legge in una nota - sono noti da tempo: un edificio fatiscente e sovraffollato con carenza cronica di personale, spazi ristretti, servizi igienici malfunzionanti, un cortile inadeguato ed infestato dai ratti. La mancanza di camere di sicurezza nelle questure, porta inoltre ad utilizzare la struttura in modo improprio e la mancanza di una residenza fuori dal carcere impedisce spesso l’applicazione delle misure alternative previste”. Sabato scorso era arrivato il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro: è stata l’ennesima visita da parte di un rappresentante dei governi che si sono susseguiti nel corso degli anni. Anche Delmastro ha riconosciuto che la situazione in via Dante rischia di diventare esplosiva e si è impegnato affinché venga realizzato il nuovo carcere di cui si parla da almeno 10 anni. Ma ci sono verifiche tecnico-giuridiche in corso e i tempi si annunciano ancora lunghi. Molto lunghi. Bergamo. Carceri “light” in ex caserme, coro di no. “Meglio potenziare le misure alternative” di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 16 agosto 2023 Il mondo che ruota attorno a via Gleno boccia l’idea del ministro. Non ci sono edifici e manca personale. Sovraffollamento al 165%, ma sono 296 i detenuti con fine pena entro i 4 anni che potrebbero scontare all’esterno. Il “piano”, per il momento, è ancora un’ipotesi. Un’ipotesi che a Bergamo, peraltro, pare difficilmente realizzabile. Come risolvere il problema del sovraffollamento nelle carceri? Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha lanciato l’idea di riconvertire le caserme dismesse in strutture per accogliere detenuti con pena breve, così da attenuare la pressione sui penitenziari esistenti. Proposta tuttavia al momento difficilmente realizzabile in Bergamasca, considerato che di caserme dismesse con quelle caratteristiche non paiono essercene. Carceri sovraffollate - Il dramma del sovraffollamento in via Gleno si pone però con numeri oggettivi, l’ultima ricognizione di fine luglio indicava 523 reclusi a fronte di 317 posti regolamentari: un tasso di affollamento del 165%, l’ottavo più alto d’Italia, con 206 detenuti in più di quanti dovrebbero essercene. La criticità è di lungo corso, basta mettere in fila i dati - a cadenza semestrale - dal 2010 a oggi, col tasso affollamento che ha sempre oscillato tra un minimo del 132,4% (a metà 2020, quando le direttive anti-Covid avevano temporaneamente ampliato le misure alternative) a un picco del 181,6% (metà 2018). Misure alternative al palo - Che fare, dunque? “La proposta di Nordio non è condivisibile - risponde Gino Gelmi, vicepresidente dell’associazione Carcere e Territorio -. Esiste invece un’alternativa molto valida e a portata di mano: incentivare veramente le misure alternative”. Gelmi richiama dati recenti: qui i detenuti con una condanna definitiva sono 409 (gli altri sono in custodia cautelare o in attesa di secondo grado o Cassazione), e 74 di loro hanno un “residuo di pena” inferiore a un anno, 85 tra uno e 2 anni, 79 tra i 2 e i 3 anni, 58 tra i 3 e i 4 anni. Totale: 296 condannati con un “fine pena” entro i 4 anni, “ed entro i 4 anni si può accedere alle misure alternative - ricorda Gelmi -. Se vi fosse una sistematica applicazione, supportata da un sostegno sociale con politiche specifiche per la casa e il lavoro di questi soggetti, andremmo incontro a uno svuotamento assolutamente significativo”. Le proposte - Per Valentina Lanfranchi, garante dei detenuti di Bergamo, “la costruzione di nuove carceri non è la priorità vera. È un tema, certo, ma le criticità principali sono altre: occorrono interventi per far fronte all’aumentare delle dipendenze e dei problemi psichiatrici, serve rafforzare il personale di polizia penitenziaria, amministrativo e sanitario, favorire le misure alternative. Bisogna partire dalle garanzie di dignità e diritti”. Di “situazione drammatica” parla Alfonso Greco, segretario generale del Sappe Lombardia, il Sindacato autonomo polizia penitenziaria: “Sono numerosi i detenuti che hanno un residuo di pena breve e che andrebbero accolti in strutture adeguate, con un regime differenziato. Tutto ciò che è utile a ridurre la popolazione carceraria è opportuno è adeguato, ma le nuove carceri, da sole, non risolverebbero il problema: servono interventi organici, rafforzare gli organici di polizia penitenziaria anche per ridurre gli eventi critici, aumentare gli educatori e gli psicologi, favorire le misure alternative, ammodernare le strutture che già ci sono”. Altro tema: in sofferenza ci sono appunto anche gli organici, a partire da quello della polizia penitenziaria che in via Gleno conta 132 agenti effettivi a fronte dei 243 previsti, mentre gli amministrativi sono 17 sui 22 previsti. Realizzare nuove strutture necessiterebbe anche di ulteriore personale. Ma quel personale non c’è, al momento. “Nel momento in cui si entra in carcere per scontare la pena, si è abbandonati a se stessi - commenta l’avvocato Enrico Pelillo, presidente della sezione di Bergamo della Camera penale della Lombardia Orientale -. Questo perché, nonostante le intelligenze e la passione dei singoli a partire dalla direzione del carcere di Bergamo, ci si scontra con carenze strutturali e di organico: la congestione del carcere di Bergamo si è cronicizzata. La soluzione, più che costruire nuove strutture, è rafforzare le misure alternative e la funzione rieducativa della pena: le statistiche, peraltro, mostrano chiaramente come la recidiva sia infinitamente più bassa tra chi usufruisce di misure alternative e di percorsi di reinserimento nella società”. Le sinergie necessarie - “C’è una responsabilità collettiva che riguarda tutti”, riflette Marcella Messina, assessore alle Politiche sociali del Comune di Bergamo. Palafrizzoni mantiene un dialogo costante con via Gleno, che “si traduce concretamente con diverse azioni, anche economiche a supporto di progetti, ma anche l’integrazione tra pubblico e privato diventa centrale per garantire più occasioni di emancipazione. Credo però che la situazione del carcere soffra di alcune altre carenze presenti nella società: in primis il trattamento delle dipendenze, dei disturbi psichiatrici i cui servizi e le cui risposte non sono sufficienti e sono causa di disagio forte e il carcere non può essere l’unica risposta”. Il disagio è appunto una criticità quotidiana. Sono circa 300 i detenuti di Bergamo con problemi di dipendenze, e il 60% di questi soffre anche di problemi psichici. Gelmi aggiunge un punto: “Più che nuove carceri, serve rafforzare i presìdi sanitari: sono servizi già in difficoltà sul territorio, in carcere la situazione è ancora peggiore”. “Del sovraffollamento - ragiona don Luciano Tengattini, cappellano del carcere di Bergamo - se ne parla in questi giorni anche a livello nazionale, per via dei suicidi, ma spesso poi il tema cade nel dimenticatoio. È un problema che c’è da sempre, sempre in aumento, con uno scoramento per chi vi opera quotidianamente. Il carcere rischia di diventare un “contenitore” per le situazioni irrisolvibili. Invece per queste persone c’è bisogno di altro”. Don Dario Acquaroli, l’altro cappellano di via Gleno, mette a fuoco la questione di fondo: “Serve una riflessione più generale sulla pena e sulla giustizia: come fare in modo che l’articolo 27 della Costituzione sia veramente praticato? Oggi affrontiamo criticità crescenti di dipendenze e di problemi psicologici o psichiatrici. La soluzione - conclude - non è aumentare i posti in carcere: è risolvere queste problematiche”. Brescia. Carceri nelle caserme, il piano del governo punta i riflettori anche su due poli bresciani di Nuri Fatolahzadeh Giornale di Bescia, 16 agosto 2023 Molte sono escluse in partenza (tra progetti privati e future destinazioni di servizio già individuate), altre invece sono - almeno sulla carta - potenziali candidate. L’idea del Guardasigilli Carlo Nordio di trasferire i detenuti con pene brevi nelle caserme dismesse ha riacceso i riflettori anche sui giganti vuoti della nostra provincia. Si tratta di spazi immensi, mini cittadelle di proprietà del Demanio che un tempo erano la casa dei militari e che oggi si sono trasformate semplicemente in contenitori vuoti, spesso abbandonati a loro stessi. Per questo nell’elenco delle strutture su cui operare la prima scrematura, per poi procedere con una più puntuale ricognizione, ci saranno anche alcuni indirizzi di Brescia. La fotografia - Il lavoro su questo dossier scoccherà a partire dall’autunno. Se Brescia rientrerà quindi infine certamente nel maxi-disegno è presto per dirlo, ma al momento non è esclusa a priori. Guardando al patrimonio demaniale, infatti, gli spazi collocati nella nostra provincia sono molti e due, in particolare, sono “disoccupati”: il primo è quello della ex caserma Serini di Montichiari, dove la riqualificazione non ha mai preso quota ma che - come ha più volte ricordato il sindaco Marco Togni - “si trova ormai in condizioni pessime”. Il secondo luogo su cui si potrebbe posare l’attenzione nazionale è la caserma Goito di via Spalto San Marco: se è vero che una parte della struttura è utilizzata e che il cortile interno è diventato un parcheggio, è altrettanto vero che c’è un’intera ala completamente sgombra. Ma ad eleggerla come strategica potrebbe essere soprattutto la sua posizione: esattamente di fronte al carcere di Canton Mombello, il che renderebbe di certo più agile il trasferimento dei detenuti. Gli altri spazi hanno invece conclamato già il loro “addio alle armi” anche dal punto di vista urbanistico e sono per questo in automatico tagliati fuori da un’ipotetica “metamorfosi” in carcere. La ex caserma Ottaviani di via Tartaglia, in città, è dal 2022 di proprietà di un fondo altoatesino che ha in programma di realizzare residenze e servizi e che, attraverso gli oneri di urbanizzazione, dovrebbe realizzare un parcheggio e il polo scolastico del centro storico. La ex caserma Gnutti era stata acquisita dal gruppo Nibofin e farà spazio a residenze di lusso. La Randaccio di via Lupi di Toscana - finita nell’occhio del ciclone solo una manciata di giorni fa come possibile casa del centro temporaneo d’accoglienza dei migranti, poi realizzato a Flero - rientra ancora tra le proprietà del Demanio, ma dovrebbe accogliere la sede dell’Agenzia delle Entrate. Stesso disegno per la caserma Papa: la cittadella tra via Oberdan e via Franchi accoglierà la Motorizzazione, le Dogane e la Guardia di Finanza che, oltre agli uffici avrà a disposizione anche gli alloggi. La road map - Il piano di cui ha parlato il ministro Nordio al termine della visita nel carcere delle Vallette di Torino per ridurre il sovraffollamento dovrebbe cominciare a concretizzarsi con incontri che i provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria avranno con i referenti locali del Demanio e del ministero della Difesa proprio per verificare quali e quante caserme dismesse si potrebbero prestare a questa riutilizzazione. Un passo necessario per arrivare alla stesura di un piano nazionale organico e dettagliato. Il progetto che ha in mente il titolare del dicastero della Giustizia scorrerà parallelo alla ricognizione sugli interventi di edilizia penitenziaria in corso e da attuare, a partire degli otto nuovi padiglioni previsti all’interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), con la realizzazione di altre 640 camere detentive e spazi trattamentali. Per il momento non ci sono stime ufficiali sul numero dei detenuti che potrebbero essere trasferiti nelle caserme dismesse dei complessivi 42.511 condannati in via definitiva presenti nelle carceri sovraffollate. Stando agli ultimi dati divulgati dal Ministero stesso, coloro che devono scontare una pena sotto un anno sono 1.553. Se si prendessero in considerazione anche le persone che hanno una condanna fino a due anni (2.820) si arriverebbe a 4.373. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Violenze in carcere, riammessi in servizio 22 agenti Il Mattino, 16 agosto 2023 Sono tutti ancora imputati nel processo per i pestaggi del 2020. Ventidue agenti della Polizia Penitenziaria servizio presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, sospesi a seguito dei pestaggi dei detenuti avvenuti nell’istituto samaritano nell’aprile del 2020, e attualmente imputati nel processo in corso (105 in totale gli imputati tra agenti, funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e medici), sono stati riammessi in servizio. Soddisfatto il sindacato di polizia penitenziaria Uspp, che più volte aveva sollecitato il ministero e il Dap a reintegrare in servizio almeno quegli agenti con posizioni più lievi, visto che lo stipendio, con la sospensione che dura dal giugno 2021, si è notevolmente ridotto con gravi disagi economici per gli agenti e i loro familiari. “Auspichiamo che anche gli altri sospesi vengono riammessi. Ringraziamo il sottosegretario, con cui prosegue un proficuo confronto allo scopo di ridare credibilità al sistema penitenziario e, con questo, dignità al lavoro della polizia penitenziaria. Siamo convinti - scrive l’Uspp - che la nostra azione non possa considerarsi ininfluente rispetto a questo risultato, certi, tra l’altro, della necessità che nel carcere di Santa Maria Capua Vetere occorra ripristinare un livello di presenza del personale idoneo a garantire sicurezza e legalità, e condizioni di lavoro più ordinarie a fronte degli elevati carichi di lavoro”. “Confidiamo nella concreta azione del Governo affinché valuti quanto stiamo chiedendo sin dall’atto dell’insediamento della nuova legislatura: la dichiarazione dello stato di emergenza delle carceri, al fine di incrementare le risorse umane. Tra l’altro, soltanto incrementando il personale di Polizia Penitenziaria, si può avviare l’iter per la riqualificazione di alcune strutture destinate ad ospitare i detenuti comuni che presentano particolari fragilità e vulnerabilità in un’ottica di più efficace differenziazione del regime penitenziario, di recente auspicata dal Ministro della Giustizia”. Cosenza. Suicidi in carcere, sit-in del movimento La Base: “Cambiare sistema che uccide” quicosenza.it, 16 agosto 2023 L’azione simbolica al carcere di Cosenza ieri mattina. Dall’inizio dell’anno sono 47 i suicidi avvenuti dietro le sbarre, uno ogni quattro giorni. “La morte di Susan e di Azzurra sono morti annunciate avvenute nelle mani e per mano dello Stato, esattamente come lo sono le decine e decine di persone detenute che ogni anno muoiono dietro le sbarre, in molti casi in circostanze non chiare. Dall’inizio dell’anno sono 47 i suicidi avvenuti dietro le sbarre, uno ogni quattro giorni”. Così il movimento La Base di Cosenza che ieri mattina, nel giorno di ferragosto, ha promosso un’azione simbolica “per ricordare che nelle mura dell’oblio non è garantito alcun diritto e per puntare il dito, ancora una volta, contro un sistema che continua ad auto assolversi rispetto a crimini che calpestano la dignità dei detenuti e delle detenute”. “Ogni crisi sociale, economica e sanitaria - scrive il movimento cosentino - colpisce prima fra tutte la popolazione detenuta, chi si trova in carcere ne paga sempre il prezzo più alto. Ne abbiamo avuto testimonianza durante la pandemia, quando a causa dell’abbandono e dell’inasprimento del sistema di detenzione le rivolte scaturite nelle carceri sono state soffocate nel sangue, impunemente. Ne hanno prova tutti i giorni i familiari di chi è in carcere, costretti a dedali burocratici per incontrare o avere contatti con i propri affetti”. “Il carcere è tortura, perché negare l’acqua fresca con 40 gradi lo è, perché costringere le persone in celle sovraffollate lo è, perché tagliare i finanziamenti per le attività occupazionali, formative e ricreative costituisce non riconoscere i detenuti e le detenute come persone. Dal Governo le proposte emerse in questi giorni, a seguito dell’impietosa passerella del Ministro Nordio al carcere di Torino, puntano a preservare lo status quo del sistema carcerario. Aprire nuovi spazi di detenzione vuol dire ridurre qualsiasi problematica al sovraffollamento, e soprattutto creare condizioni di carcere duro nelle strutture esistenti, volendo riutilizzare le caserme come istituti detentivi per chi ha una pena inferiore a tre anni”. “Il sovraffollamento nelle carceri è una cartina tornasole di come la detenzione sia mera amplificazione di disagio e sofferenza nonché uno specchio sociale di come marginalizzazione e repressione sostituiscano un welfare efficiente. La maggior parte della popolazione detenuta soffre di disagi psichici e gravi problemi economici e non solo il supporto psicologico continua a mancare anche nelle carceri, molte delle pene inferiori ad un anno vengono fatte scontare con il carcere duro, a riprova di come i servizi sociali siano completamente inesistenti, dentro e fuori le case circondariali. Di fatto l’insostenibilità della detenzione si palesa ancor di più rispetto a detenuti/e, giovani, donne o stranieri/e”. “Non possiamo non ricordare anche il recente suicidio nel carcere di Rossano, negli anni teatro di orrori ormai normalizzati dalle Istituzioni, e la morte di Francesco avvenuta due anni fa qui nel carcere di Cosenza a causa di un diniego al ricovero ospedaliero per “mancanza di personale”, nonostante le sue condizioni di salute fossero critiche e accertate. Oggi non vogliamo vedere ulteriori sopralluoghi farlocchi nelle carceri italiane, nè sentire dichiarazioni di ogni tipo funzionali all’autoreferenzialità. La classe politica deve assumersi le responsabilità del disastro creato e cambiare radicalmente sul piano legislativo e sociale questo sistema che uccide e isola”. Stati Uniti. San Francisco nella spirale infernale: il suo è un male incurabile (e un regalo a Trump) di Federico Rampini Corriere della Sera, 16 agosto 2023 Un reportage del “Wall Street Journal” ha riacceso il dibattito sul degrado della città - che, in un certo senso, può spiegare perché le chance di Donald Trump di rivincere un’elezione non sono del tutto inesistenti. Questa è la storia di una città dove un’insegna luminosa di Elon Musk che infastidisce gli abitanti viene immediatamente rimossa dalle autorità. Ma gli spacciatori di fentanyl, i rapinatori, o gli homeless che aggrediscono i passanti e defecano davanti ai negozi godono dell’impunità più totale. La città, naturalmente, è San Francisco: una ex-perla che si avvolge in una spirale di degrado di cui non s’intravvede la fine. Qualche studioso di storia urbana evoca un’espressione inquietante: “Doom Loop” o spirale della rovina. È un ingranaggio che ha colpito altre città in passato, risucchiate in un degrado che si autoalimenta, condannate a precipitare sempre più in basso, incapaci per molto tempo di reagire. Detroit fu un caso da manuale. Torno a scrivere della “mia” San Francisco perché tanti italiani vi stanno trascorrendo una parte delle loro vacanze: nonostante tutto, è ancora una mèta turistica mondiale. Anche se vive di rendita sulle sue glorie del passato, ha delle attrattive indiscutibili (in poche parole: è bellissima, nell’architettura tradizionale e nel paesaggio). Torno a scrivere perché oggi la “mia” San Francisco è di nuovo in prima pagina sul Wall Street Journal con un reportage su tutto ciò che va storto e accentua la fuga di abitanti. Torno a scrivere perché - contrariamente a quel che credono molti europei - ciò che accade a San Francisco in un certo senso può spiegare perché le chances di Donald Trump di rivincere un’elezione non sono del tutto inesistenti. Quella che fu la mia prima residenza americana 23 anni fa, la città dove cominciai a mettere le radici e dove sono cresciuti i miei figli, è irriconoscibile rispetto al “modello” di cui mi innamorai allora. Se state viaggiando in California il reportage del Wall Street Journal vi consiglio di leggerlo per intero. Non dice cose veramente nuove, è un utile aggiornamento su una situazione della quale ho già scritto in passato. Uffici sempre più vuoti. Un’economia locale depressa. Giovani esperti di tecnologia che preferiscono lavorare da casa, il più lontano possibile, perché la città li repelle. Catene di negozi e supermercati e farmacie che chiudono perché depredate da ladri che agiscono alla luce del sole, indisturbati. Un’ecatombe di morti per overdose, con gli spacciatori che agiscono anche loro spudoratamente, senza preoccuparsi molto della polizia. Criminalità in aumento su tutti i fronti, dagli omicidi ai furti negli appartamenti agli scippi. Homeless aggressivi che “possiedono” i marciapiedi nei quartieri del centro. È un peggioramento in atto da anni, ma perché la città non reagisce? Per rispondere a questa domanda eccovi un aneddoto che vale mille analisi dotte. Collier Gwyn è una commerciante, sanfranciscana doc, che da una vita gestisce una piccola galleria d’arte in centro. Dal 1984, puntualmente, ogni mattina alza la saracinesca e pulisce il marciapiede davanti. Una mattina recente, per l’ennesima volta si è trovata di fronte una donna senzatetto, aggressiva, che stava defecando proprio lì davanti. Ha cercato di mandarla via, quella si è rifiutata. Collier Gwyn ha perso la pazienza e ha osato spruzzarle dell’acqua addosso. Dell’acqua. Per quel gesto è stata immediatamente ripresa da un passante sul telefonino, esibita e insultata sui social media, denunciata, fermata dalla polizia, processata per direttissima e condannata a 25 giorni di lavori nei servizi sociali. Ora pende su di lei una diffida: guai se si avvicina ancora a quella senzatetto, la sua “vittima”. Di quel gesto d’ira - un po’ d’acqua spruzzata a chi stava insozzando l’ingresso del suo negozio - lei si è scusata più volte pubblicamente, ammettendo di aver perso la pazienza e di aver fatto una cosa sbagliata. Ma il contesto andrebbe conosciuto. La donna senzatetto defecava abitualmente nei dintorni, molestava e aggrediva i passanti, senza che nessuno sia mai intervenuto a impedirglielo. Nei rapporti di polizia stilati in seguito a ripetute denunce figurano i suoi continui furti nei negozi, il fatto che sputa addosso a chi le si avvicina, e “si masturba in pubblico”. Essendo definita una malata di mente, è un’intoccabile, le forze dell’ordine se ne lavano le mani perché non è di competenza degli agenti curare chi ha turbe psichiche. La legge proibisce esplicitamente che siano ricoverati in istituzioni specializzate contro la loro volontà. Se non vogliono curarsi, questo è un loro sacrosanto diritto, e la comunità dei cittadini deve rassegnarsi a subirne tutte le conseguenze. San Francisco e la California spendono miliardi ogni anno per gli homeless: soldi dei contribuenti che spariscono nel nulla. “Nella mia città - conclude Collier Gwyn - rapinare un negozio o spacciare droga non sono trattati come reati, ma il mio gesto mi è valso una condanna immediata”. San Francisco e la California sono sulla West Coast ciò che New York e Philadelphia rappresentano sulla East Coast: le vetrine della sinistra al governo. Purtroppo è un malgoverno che dura da anni, accumula errori ma non li corregge perché non li considera affatto errori bensì valori. La cultura delle droghe equiparata ad una liberazione, è un equivoco mortale che affonda le radici nel movimento hippy che proprio a San Francisco ebbe il suo battesimo negli anni Sessanta. L’idea “poetica” dei malati mentali - “sono loro gli unici sani” era il principio che fu affermato da una cultura progressista di cui ricordo le tracce in un film come Qualcuno volò sul nido del cuculo. Infine la convinzione che chi ruba lo fa perché è povero e bisognoso, soprattutto se appartiene a una minoranza di colore; mentre i poliziotti sono razzisti, quindi i veri criminali. Quest’ultimo dogma, trionfante con Black Lives Matter, spiega perché non si riescano più a reclutare poliziotti. Quei pochi che continuano a indossare una divisa, fanno il meno possibile perché si sentono dei vigilati speciali; inoltre se arrestano un criminale in flagranza di reato di solito questo viene rimesso subito in libertà da un procuratore eletto nelle liste del partito democratico. Ma quando Musk ha accesso la sua “X” all’ultimo piano del palazzo ex-Twitter, la città progressista è esplosa d’indignazione e subito giustizia è stata fatta. Come contro la negoziante che aveva gettato un po’ d’acqua sulla homeless. Questo spiega perché i mali di San Francisco, al momento, sono incurabili. E perché il “modello” che questa città rappresenta è un regalo a Trump. Oppure, guardando verso altre direzioni, è un regalo a Xi Jinping, Putin, Erdogan, e altri “uomini d’ordine”. Il mondo ha lasciato l’Afghanistan, l’unica resistenza è interna di Giuliano Battiston Il Manifesto, 16 agosto 2023 Il 15 agosto di due anni fa i Talebani prendevano Kabul: tornava l’incubo della discriminazione di genere e dell’assenza di libertà. Le donne, escluse dall’istruzione, si sono organizzate in reti sotterranee e clandestine. I Talebani celebrano il secondo anniversario dalla conquista di Kabul. Rivendicano la piena sovranità, invocano il riconoscimento ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan e un seggio all’Onu. Ma dentro e fuori dal Paese sono privi di quel consenso senza il quale le loro richieste rimangono illegittime. Conquistato sul campo di battaglia, rafforzato al tavolo negoziale prima della spallata militare che nell’estate 2021 ha reso palese la fragilità della Repubblica islamica, consolidato poi con la repressione di ogni dissenso, il monopolio della violenza è minacciato solo parzialmente dalla Provincia del Khorasan, la branca locale dello Stato islamico. Una minaccia anche per i Paesi della regione, scontenti della mancanza di inclusività del governo afghano ma consapevoli che ogni alternativa - collasso statuale, guerra civile - sia perfino peggiore. Canzonati dopo la firma nel febbraio 2020 dell’accordo di Doha, gli Stati uniti e i loro alleati sono in pieno stallo diplomatico. Sconfitti sul campo di battaglia, ricorrono agli strumenti della guerra economica. Il Paese è isolato. Pesano le sanzioni, il blocco all’estero dei fondi della Banca centrale afghana, l’interruzione di quegli aiuti allo sviluppo che hanno tenuto in piedi la Repubblica, un regime crollato su se stesso perché cercava legittimità a Washington prima che a Kabul, Herat, Jalalabad, Mazar-e-Sharif o nelle campagne del Paese. Autorità di fatto ma non riconosciute dalla comunità internazionale, i Talebani sono convinti di averla, quella legittimità. Ma sbagliano. I loro sforzi sono ancora indirizzati ad assicurarsi la sopravvivenza del nuovo regime e a mantenere la tenuta interna. Gli esperti delle Nazioni unite per il monitoraggio delle sanzioni sui Talebani prevedono che le differenze tra le fazioni entro due anni sfoceranno in conflitto armato. Ma l’annuncio della fine dei Talebani continua a essere prematuro. Al contrario, la transizione dalla guerriglia ai ministeri non ha fatto implodere il movimento jihadista, le spinte centrifughe sono state trattenute dal centralismo autoritario del leader, Haibatullah Akhundzada. Che ha sabotato i tentativi di riavvicinamento con l’Occidente dell’ala pragmatica. E che nel futuro detterà la rotta anche sugli esteri: scelte radicali, ma più prevedibili per gli osservatori esterni. Molti dei quali sono rimasti sorpresi dalla governance degli islamisti: il cambio di regime, per quanto radicale e repentino, non ha portato al crollo o alla paralisi istituzionale. Quanto alla resistenza armata dei seguaci di Masoud junior, vale più sui social network che sul terreno. A ritenerla un’opzione reale e significativa, soltanto i Bernard-Henry Levy di turno. La vera resistenza è civile, interna al Paese. E proviene dalle donne, perlopiù in forme sotterranee, nascoste, lontane dallo scrutinio censorio dei Talebani e dall’ipocrita sostegno delle capitali occidentali. Due anni fa promettevano di non abbandonare il Paese. Oggi, di fronte a quella che l’Onu definisce la più grave crisi umanitaria al mondo, la loro politica è afona, ridotta agli aiuti umanitari. Sulla carta: la diminuzione rispetto all’anno scorso è del 25%. Nel suo Piano di risposta umanitario, le Nazioni unite a marzo chiedevano 4,6 miliardi di dollari. Ridotti a 3,3 a giugno. I donatori non donano e i Talebani fanno apartheid di genere. La decisione dell’aprile 2023 di vietare alle donne di lavorare anche per le Nazioni unite, ultimo di una lunga serie di editti discriminatori che negano l’accesso a lavoro, istruzione, salute, giustizia, libertà di movimento, ha messo in crisi anche il Palazzo di vetro di New York. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, tiene il punto: non possiamo abbandonare il Paese. Ma molti governi ne approfittano: la persecuzione di genere nei confronti delle donne, un crimine contro l’umanità secondo lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, è un pretesto per abdicare alle proprie responsabilità. Ma disimpegnarsi politicamente dall’Afghanistan retto dai Talebani in nome dei diritti delle donne è una vera e propria contraddizione. E un errore ripetuto. Durante la lunga parentesi della Repubblica islamica la diplomazia è stata subalterna o piegata all’opzione militarista, per poi investire su un accordo a tutto vantaggio dei Talebani. Oggi la politica è più necessaria di prima. Non ci sono scorciatoie o scelte facili. Solo opzioni meno peggiori delle altre. Ma l’alternativa è girare la testa dall’altra parte. Afghanistan. La vendetta la paga la gente: l’80% degli afghani è povero di Emanuele Giordana Il Manifesto, 16 agosto 2023 Sanzioni occidentali e blocco dei conti. Secondo l’Onu, la metà della popolazione ha fame e rischia la morte per inedia. Criticare i Talebani è un esercizio facile vista la natura del regime: negazione dei diritti di genere e della libertà di stampa, esclusione dal governo delle minoranze, esecuzioni capitali. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’ex primo ministro britannico Gordon Brown, che chiede alla Corte penale internazionale di intervenire sul trattamento riservato dai Talebani alle donne e alle ragazze, trattamento che considera un crimine contro l’umanità. Un esercizio più complesso però è quello di capire se anche i Paesi che hanno perso la guerra afghana non abbiano qualche responsabilità nella catastrofica situazione di un Paese sprofondato nella miseria e nella fame. Una piaga che va ben oltre le giuste accuse sui diritti ma che non sembra tener conto del primo dei diritti in assoluto: quello di potersi nutrire per sopravvivere. Non sono cose nuove: durante l’occupazione a guida Nato, uno studio delle Nazioni unite del 2010 rilevava che il 36% della popolazione viveva in assoluta povertà, percentuale che raggiungeva nel 2018 il 54%. Ma dall’agosto di due anni fa percentuale è andata aumentando, superando largamente i quattro quinti della popolazione afghana, siano donne, uomini, bambini o anziani. GIÀ NEL MARZO 2022, Achim Steiner, a capo del Programma di sviluppo Onu (Undp), sosteneva: “Alla fine dell’anno scorso (2021) abbiamo rilevato che circa il 97% degli afghani potrebbe vivere in povertà entro la metà del 2022 e, purtroppo, quel numero viene raggiunto più velocemente del previsto”. Secondo il Programma alimentare mondiale, su una popolazione di 41 milioni di persone, oltre 15 milioni (più di un terzo) vive un livello di “acuta insicurezza alimentare” e quasi tre milioni “di insicurezza di emergenza”. Modi eleganti per dire che nel Paese milioni di persone hanno fame e che quasi la metà degli afghani non ha da mangiare. Molti rischiano la morte per inedia. Tutta colpa dei Talebani? Prima dell’agosto di due anni fa, il bilancio statale afghano si sosteneva per la maggior parte su denaro esterno fornito dai Paesi della coalizione a guida Nato. Aiuto che non c’è più. Anche la cooperazione, bilaterale o attraverso l’Onu e le ong, si è contratta (a oggi l’appello delle Nazioni unite per il 2023 è stato finora finanziato per meno del 15%). Sanzioni e isolamento fanno il resto. Si potrebbe forse dire che i Talebani se lo meritano. Ma i vertici hanno sempre la scodella piena. Il resto degli afghani no. C’È INFINE un terzo elemento particolarmente odioso e per lo più taciuto: il congelamento delle riserve sovrane del Paese, un fattore critico nel crollo dell’economia e del settore bancario. Sono poco più di nove miliardi di dollari che la Banca centrale afghana (Dab) aveva messo in sicurezza all’estero e di cui ora non può tornare in possesso. Soldi del governo? No, soldi di cittadini afghani coi quali sarebbe possibile fare un commercio con l’estero ora ridotto al lumicino. Il blocco equivale anche a una drastica riduzione del circolante: la moneta si consuma ma non riesce nemmeno a essere sostituita. Per un Paese come il nostro, 10 miliardi non sono tanti soldi ma per l’Afghanistan sì. Per capirne il valore: lo Sri Lanka è fallito perché non aveva soldi per ripagare gli interessi di un debito complessivo da 50 miliardi di dollari. POCHE VOCI si sono levate a difesa del diritto legale della Dab, denunciando quella che viene definita una nuova “guerra economica” e che forse potremmo anche bollare come una vendetta consumata fredda per aver perso la guerra: sette miliardi sono bloccati negli Usa. Gli altri nelle banche europee. Bloccati da chi ha perso la guerra contro un esercito di straccioni in ciabatte e kalashnikov che ha ingannato analisti, spie e militari di alcuni tra gli eserciti più tecnologicamente avanzati del primo Mondo. Apparentemente qualcosa è stato fatto: il 14 settembre 2022, Washington e Berna hanno annunciato il lancio di un Fondo afghano in Svizzera costituito da 3,5 miliardi di dollari dei sette nella pancia americana. Ma a oltre un anno di distanza, nessuna delle risorse apparentemente stanziate “a beneficio del popolo afghano” è stata usata per ricapitalizzare la Dab. I soldi restano fermi, la malnutrizione avanza e le bocche restano cucite come le casseforti delle banche. SI POTREBBE persino aggiungere che l’estrema radicalizzazione dell’Emirato talebano si deve forse anche a questa condizione di patente ingiustizia. Quando il gatto è stretto in un angolo e teme per la sua vita, soffia e rizza il pelo: non diventa più mansueto. Che questo sia vero o meno, l’ingiustizia resta e a pagarla sono le persone che da oltre vent’anni - donne, uomini, anziani e bambini - continuiamo a sostenere di voler difendere.