Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… Si può! Il Dubbio, 15 agosto 2023 Almeno 45 morti in meno di 8 mesi. Il Dubbio rilancia l’appello: 5 interventi immediati per fermare il massacro. Dopo il record di 84 suicidi in cella registrati nel 2022, la strage continua. Soltanto venerdì scorso due donne si sono tolte la vita nel carcere delle Vallette di Torino: Azzurra Campari, 28 anni, e Susan John, 42. Due tragici fatti che scuotono le coscienze e riportano all’attenzione dell’opinione pubblica un’emergenza senza fine, dai numeri al momento ancora incerti. Per questo Il Dubbio ha deciso di rilanciare l’appello già sottoscritto lo scorso anno da numerosi scrittori, intellettuali, esponenti della politica e della giustizia. Sappiamo bene cosa si dovrebbe fare per evitare o contenere questo massacro quotidiano: depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al cittadino detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità. Chi è in custodia nelle mani dello Stato dovrebbe vivere in spazi e contesti umani che rispettino la sua dignità e i suoi diritti. Chi è in custodia dello Stato non dovrebbe togliersi la vita! Insomma, sappiamo bene, perché ne discutiamo da anni, da decenni, quali siano le strade per fermare la strage, ma la politica, quasi tutta la politica, è sorda perché sul carcere e sulla pelle dei reclusi si gioca una partita tutta ideologica che non tiene in nessun conto chi vive “dentro”, oltre quel muro che divide i “buoni” dai “cattivi”. Insomma, non c’è tempo: il massacro va fermato qui ed ora. E allora proponiamo una serie di interventi immediati che possano dare un minimo di sollievo al disagio che i detenuti vivono nelle carceri “illegali” del nostro Paese. 1. Aumentare le telefonate per i detenuti. È sufficiente modificare il regolamento penitenziario del 2000, secondo cui ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. Bisognerebbe consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari; 2. Alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata; 3. Creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi per valorizzare l’affettività; 4. Aumentare il personale per la salute psicofisica. In quasi tutti gli istituti vi è una grave carenza di psichiatri e psicologi; 5. Attuare al più presto, con la prospettiva di seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa e nel contempo rivitalizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Le adesioni Roberto Saviano, scrittore Vittorio Feltri, giornalista Gherardo Colombo, ex Magistrato Francesco Greco, presidente Cnf Patrizia Corona, vicepresidente Cnf Luigi Manconi, sociologo Gaetano Pecorella, avvocato Giovanni Fiandaca, giurista Massimo Cacciari, filosofo Ascanio Celestini, attore Fiammetta Borsellino Mattia Feltri, giornalista Francesca Scopelliti, Fondazione Tortora Giuliano Pisapia, eurodeputato Enza Bruno Bossio, già parlamentare Walter Verini, commissione Giustizia Senato Anna Rossomando, vicepresidente del Senato Mariolina Castellone, vicepresidente del Senato Pierantonio Zanettin, parlamentare Riccardo Magi, parlamentare Roberto Giachetti, parlamentare Devis Dori, parlamentare Marco Bentivogli, coordinatore Base Italia Maurizio Turco, Partito Radicale Rita Bernardini, presidente Di Nessuno Tocchi Caino Irene Testa, Partito Radicale Marco Cappato, associazione Luca Coscioni Igor Boni, presidente Radicali Italiani Massimiliano Iervolino, segretario Radicali Italiani Giulia Crivellini, tesoriera Radicali Italiani Alessandro Capriccioli, consigliere Regione Lazio + Europa/ Ri Mimmo Lucano, ex Sindaco Di Riace Riccardo Polidoro, osservatorio Carcere Ucpi Gianpaolo Catanzariti, osservatorio Carcere Ucpi Sergio Paparo, avvocato Michele Passione, avvocato Michael L. Giffoni, ex Ambasciatore Italiano Paolo Ferrua, giurista Giovanni Maria Pavarin, presidente Tribunale Di Sorveglianza Di Trieste Roberto Cavalieri, garante Detenuti Emilia Romagna Tommaso Greco, filosofo Tullio Padovani, giurista Luca Muglia, garante Detenuti Calabria Samuele Ciambriello, garante Detenuti Campania Ristretti Orizzonti Associazione Insieme Fabio Trizzino, legale Famiglia Borsellino Adelmo Manna, avvocato, già Ordinario Di Diritto Penale Università Di Foggia Giuseppe Rossodivita, segretario Associazione Calamandrei Francesco Palazzo, emerito Di Diritto Penale I Detenuti Del Carcere Di Busto Arsizio Le Detenute Del Carcere Di Torino I Detenuti Della Cooperativa Sociale “L’uomo E Il Legno” I Detenuti Del Carcere Di Ivrea Carceri: 11 proposte di legge, ma solo una affronta il sovraffollamento di Andrea Marini Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2023 Altre proposte puntano sulle tutele agli agenti penitenziari e quelle mediche per i detenuti. La questione carceraria è tornata al centro della cronaca. “Il mio primo pensiero va alla memoria di chi ha compiuto la drammatica scelta di togliersi la vita. È una consuetudine non solo nazionale ma mondiale. È una tragedia che dobbiamo fare di tutto per ridurre se non eliminarla. Ogni suicido è una sconfitta per lo Stato, per la giustizia e mia personale” ha detto il 14 agosto il ministro della Giustizia Carlo Nordio parla in un videomessaggio sui suicidi in carcere. E ha aggiunto che intende proporre “l’ampliamento dei colloqui telefonici per i detenuti nei contatti con i familiari”. Tuttavia la questione carceraria non sembra essere al centro dell’iniziativa legislativa di deputati e senatori. Dall’inizio della legislatura, sono stati presentati circa 11 progetti di legge di iniziativa parlamentare di cui, uno solo, quello che ha come prima firmataria Cecilia D’Elia (PD), si pone l’obiettivo di affrontare la questione degli spazi e della convivenza all’interno degli istituti carcerari. Si tratta di un disegno di legge che era già stato presentato nel 2013 dai senatori Manconi, Tronti e Torrisi e che ora Cecilia D’Elia ripropone praticamente nella sua interezza. Le condanne dell’Italia - Nella proposta che ha come prima firmataria Cecilia D’Elia si ricorda come l’Italia sia stata più volte condannata dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo (nel 2009 e nel 2013) per violazione, nelle carceri, dell’articolo 3 della Convenzione di Strasburgo che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano e degradante e si indica una possibile soluzione. Numero massimo di posti - Premettendo che nessuno possa “essere incarcerato se non sono garantiti dalle istituzioni dello Stato gli spazi fisici minimi e la piena tutela della dignità”, la proposta D’Elia prevede che il ministero della Giustizia debba indicare il numero massimo di posti letto per istituto, superato il quale, l’ordine di esecuzione della pena si converte in obbligo di permanenza in casa o in altro luogo indicato dalla persona. E si stabilisce una lista che segue un ordine cronologico. In caso di reati contro la persona salta il criterio cronologico e si potrà procedere direttamente all’ esecuzione della condanna. Ma, durante la sospensione del provvedimento di carcerazione, la pena scorre regolarmente come se fosse espiata. Gli agenti penitenziari - Gli altri testi presentati affrontano altre questioni. Ce ne sono due, a prima firma Michela Brambilla di Forza Italia (video), che si occupano di mense vegane e vegetariane anche all’interno delle carceri e della possibilità di far visitare il detenuto dal proprio animale domestico. Due disegni di legge della Lega si concentrano sulla tutela degli agenti penitenziari. Il primo, firmato da Jacopo Morrone, prevede pene più severe per i detenuti che uccidono o aggrediscono gli agenti e la possibilità per questi ultimi di avere in dotazione armi a impulso elettrico. Il secondo, sottoscritto dalla senatrice Erika Stefani, estende l’ergastolo (articolo 576 cp) anche nei casi di omicidio colposo nei confronti di una agente penitenziario. Un altro di Morrone punta a riorganizzare i dipartimenti del Ministero competenti in materia di esecuzione penale e a istituire il Dipartimento per la sicurezza della giustizia. Le intenzioni del governo - A marzo il sottosegretario Andrea Delmastro era intervenuto sul sovraffollamento delle carceri proponendo di far uscire i tossicodipendenti per affidarli alle comunità di recupero, ma, allo stato, non risulta che sia seguito alcun testo di legge in questo senso. A gennaio il ministro della Giustizia Carlo Nordio (video), in un question time alla Camera, durante il quale aveva già definito i suicidi tra le sbarre “un intollerabile fardello di dolore”, aveva detto che era intenzione del governo migliorare i luoghi di esecuzione della pena incrementando “la dotazione organica del personale” e migliorando le condizioni di vita di detenuti e agenti investendo “nel prossimo triennio 1 milione di euro per il supporto psicologico”. Estendere le tutele - Ed è proprio di supporto psicologico che parla la proposta di legge di Carmen Di Lauro (M5S) puntando a istituire la figura dello psicologo delle cure primarie anche nelle carceri. L’esame della proposta è cominciato il 5 luglio in Commissione Affari Sociali della Camera. Altri due testi, uno del M5S e uno della Lega, introducono misure di tutela e prevenzione per i malati di Aids e per gli affetti da celiachia. Altri due, targati 5 stelle, mirano a verificare la situazione patrimoniale dei detenuti per vedere che non ci siano stati arricchimenti durante il periodo di reclusione (firmataria Stefania Ascari) e a sostenere l’attività teatrale all’interno degli istituti penitenziari (Michele Bruno). Nordio proporrà più colloqui telefonici tra i detenuti e i familiari agi.it, 15 agosto 2023 Videomessaggio del Guardasigilli ai 189 istituti penitenziari: “Carceri troppo spesso dimenticate, ogni suicidio una mia sconfitta personale”. “Ho voluto fortemente farvi giungere il mio messaggio, perché all’interno delle carceri vive e lavora anche a Ferragosto, un pezzo della nostra Repubblica, ci sono servitori dello Stato, a cui dobbiamo essere grati, e ci sono persone private della libertà, che stanno in quelle carceri espiando la propria pena e riavviando quel percorso di reinserimento nella società, come vuole la Costituzione”. Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, saluta con un videomessaggio i 189 istituti penitenziari. “Troppo spesso il carcere viene dimenticato soprattutto in questo periodo quando le persone sono in ferie”, riflette il ministro che aggiunge ancora: “Approfitto di questo saluto per anticipare una mia intenzione di proporre l’ampliamento dei colloqui telefonici per i detenuti nei contatti con i familiari”. Il dramma dei suicidi - “Desidero rivolgere il mio primo pensiero alla memoria di tutti coloro i quali hanno compiuto questa drammatica scelta di togliersi la vita. Purtroppo è una consuetudine non solo nazionale ma direi mondiale, ed è una tragedia: dobbiamo fare di tutto per ridurla se non proprio eliminarla, vista la complessità e la imperscrutabilità della natura umana”, ha proseguito Nordio. “Comunque - aggiunge - ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, una sconfitta per la giustizia, una sconfitta mia personale e un dolore personale”. “La circolare che abbiamo emanato di recente per aumentare l’aiuto psicologico a quelli che versano in condizioni di particolare disagio - ricorda il guardasigilli - si inserisce in una volontà piu’ ampia di vicinanza ai detenuti. Siamo consapevoli che lo Stato deve garantite la certezza della pena per essere coerente con le proprie promesse di sicurezza nei confronti dei cittadini e anche di applicazione della sanzione per chi viola la legge. Ciò nonostante non possiamo dimenticare che la pena deve avere un significato e un senso rieducativo, non solo perché lo impone la Costituzione ma perché ce lo impone l’etica, laica o cristiana che sia”. “Per questo scopo - continua Nordio - non esistono soluzioni immediate facili, non esistono bacchette magiche però vi assicuro che stiamo lavorando con la massima energia e con la massima priorità per ridurre questi estremi disagi. Lo facciamo assumendo nuovo personale, abbiamo assunto 57 nuovi consiglieri penitenziari che prenderanno servizio alla fine dell’anno e abbiamo assunto 2.800 appartenenti alla polizia penitenziaria che colmeranno le deficienze di organico e contiamo nei limiti del possibile di assumerne anche di più”. “La nostra attenzione va soprattutto agli assistenti psicologici perché la situazione di disagio di chi si trova in carcere non necessita solo di controllo ma anche di aiuto, di ausilio per un recupero non solo spirituale ma anche fisico che possa essere prodromico al reinserimento nella società”, conclude. Se Nordio non vede la violenza in carcere di Donatella Stasio La Stampa, 15 agosto 2023 Troppo facile, ma anche inutile, indignarsi per l’ennesima sortita dal sen fuggita del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che stavolta ha sciaguratamente equiparato il suicidio di due detenute nel carcere torinese delle Vallette a quello dei due gerarchi nazisti, suicidi a Norimberga, Hermann Göring e Robert Ley. Uguali perché inevitabili, dice Nordio: non c’è sorveglianza che tenga quando qualcuno, per motivi “imperscrutabili”, decide di mettere fine alla propria vita. I due gerarchi erano sotto strettissima sorveglianza eppure sono riusciti a sottrarsi all’esecuzione della pena ingoiando cianuro. Morti inevitabili, quindi, proprio come quelle di Susan John e di Azzurra Campari - non certo condannate per crimini contro l’umanità, e già solo per questo ingiustamente equiparate ai due sgherri nazisti - che con il loro gesto “imperscrutabile” hanno portato a 43 i suicidi in carcere di questo 2023, non imputabili, però, alla responsabilità del carcere medesimo. Parola di Nordio. Che non vede alcuna responsabilità degli agenti, dei dirigenti, dei medici, dei vertici dell’amministrazione penitenziaria e meno che mai di sé medesimo, capo supremo di quell’amministrazione che, come dice espressamente la Costituzione, ha il compito di curare “l’organizzazione e il buon funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Già, perché il ministro della Giustizia è l’unico ministro a essere citato dalla Costituzione proprio per questo suo dovere specifico, che ha una rilevanza costituzionale: far funzionare i servizi della giustizia. E tra questi servizi c’è il carcere. Di cui porta tutta la responsabilità. Può sembrare banale, riduttivo o quello che volete, ma il carcere è un servizio pubblico e ha come utenti i detenuti. Dal modo in cui è gestito dipende la loro risocializzazione e, a cascata, la sicurezza collettiva. Dipende quindi la recidiva (che ha un costo molto alto per la collettività). Il resto - pene più severe, marcire in galera, buttare la chiave - sono solo chiacchiere, per lo più da bar, che parlano alla pancia dei cittadini/elettori. Sono inganno, propaganda, insulto alla civiltà del diritto. Forse Nordio stavolta si è reso conto della gaffe e ha cercato, seppure indirettamente, di scusarsi. Lo ha fatto a modo suo, senza rinunciare alla grandeur con cui ritiene di veicolare il suo pensiero, usando addirittura un videomessaggio all’universo penitenziario per annunciare la sua “intenzione di proporre” un “ampliamento” delle telefonate dei detenuti (purché non pericolosi) ai propri familiari (ora sono solo 4 al mese), come avveniva durante il Covid, quando l’emergenza, paradossalmente, aveva portato in carcere maggiore attenzione alla salute e alle relazioni affettive dei detenuti. Terminata la pandemia, la popolazione carceraria ha chiesto di poter tornare almeno al regime “ampliato” delle telefonate: una piccola cosa che dietro le sbarre significa moltissimo per uscire dalla solitudine. Eppure, finora è stata negata. Ma ora ecco il regalo di Ferragosto del ministro. In effetti, sembra una concessione, più nella logica del potere sovrano verso i propri sudditi che in quella del riconoscimento di un diritto. Tuttavia, qualcosa si muove, anche se è curioso che il ministro non annunci una decisione ma soltanto “l’intenzione di proporre”… Nello stesso videomessaggio Nordio ammette: “Ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, una sconfitta per la giustizia e mia personale”. Non chiede scusa ma parla di un “dolore personale”. Gli fa onore. Peccato, però, che poi annaspi nel cercare un filo, un’idea, una direzione in cui portare il carcere, per farlo uscire dal pantano in cui è tornato a sprofondare. La drammatica verità è che questo governo non ha alcuna seria politica sul carcere, e naviga a vista. La missione fondamentale della nostra Costituzione è la tutela dei diritti fondamentali della persona. Ebbene, se così è, il carcere è il luogo del paradosso. La Costituzione dichiara infatti inviolabili i diritti della persona, dalla libertà di movimento al diritto alla salute, dalla privacy all’istruzione, dal lavoro fino alle relazioni familiari e affettive, tutti diritti drammaticamente compressi in carcere e dal carcere. Un “male necessario”, si dice, per tutelare la sicurezza collettiva e le vittime. Eppure, dopo la catastrofe fascista, i costituenti posero dei limiti al potere punitivo statale, dettando precisi paletti al legislatore, che la Corte costituzionale è chiamata a far rispettare, a cominciare dalla funzione rieducativa della pena. È su questo terreno che si misura anche la cultura liberale di Nordio: nella sua capacità di dimostrare che il detenuto non è altro dalle persone libere quanto alla sua dignità e quindi non può essere trattato soltanto come fonte di pericolo da neutralizzare, ma resta titolare dei diritti fondamentali. A partire dal diritto alla salute, che deve essergli garantito in pieno, con gli stessi standard garantiti alle persone libere, sino al punto da fargli scontare la pena fuori dal carcere se il carcere è incompatibile con le sue particolari condizioni di salute, anche psichiche. È stato così nella vicenda di Susan? Questo è quello che Nordio ha il dovere di accertare, questa è la sua responsabilità di ministro della Giustizia. Non c’è bisogno di “bacchette magiche” per fare il proprio dovere e onorare la Costituzione sul senso della pena. Carceri, la misura della civiltà di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 15 agosto 2023 Sovraffollamento e mancanza di servizi essenziali soprattutto per le donne. Siamo ancora qui a parlare di morti ingiuste nelle carceri. Di morti evitabili. Di morti prevenibili. I suicidi sono un fenomeno multidimensionale, non è mai corretto imputarli ad una unica causa. Ne ha parlato magistralmente Marzio Barbagli nel suo libro Congedarsi dal mondo (ed. Il Mulino), evidenziandone le diverse tipologie in differenti contesti culturali. Il 2022 è stato l’anno con più suicidi nelle carceri. 85, pari al 15 per 10 mila detenuti. Circa 20 volte più della media. E questo succede sia perché le persone private della libertà hanno fragilità che spesso le rendono più a rischio; sia perché il contesto del carcere può spingere a togliersi la vita se non sono soddisfatti i bisogni primari di cura, di accoglienza e protezione delle persone, calpestando il rispetto della dignità umana. La nostra Costituzione è chiara al riguardo. I detenuti conservano intatti i loro diritti all’interno del carcere. E devono essere accompagnati in processi rieducativi. Al 31 luglio 2023 la popolazione carceraria è pari a 57.749 unità. Il 31,2% non ha cittadinanza italiana. C’è sovraffollamento. Siamo sopra la soglia al 113%. Ma il problema c’è da decenni e non viene affrontato e risolto. È elevato il numero di persone in carcere per scontare condanne molto brevi: 1.551 devono scontare una pena (non un residuo di pena) inferiore a un anno, altre 2.785 tra uno e due anni. Che progetto di rieducazione si potrà mai predisporre con un tempo così limitato? I detenuti sono, nella stragrande maggioranza, uomini. Le donne sono solo il 4,3%, 2.510 al 31 luglio di quest’anno. Sono invisibili, se ne parla poco. In questi giorni due si sono tolte la vita, a giugno un altro caso. I dati parlano chiaro: poche detenute, ma tanto disagio. Come riportato nel Report dell’Associazione Antigone, che ha raccolto i dati nelle carceri femminili e nelle sezioni femminili, le donne presentano un disagio psichico maggiore degli uomini. Quelle con diagnosi psichiatriche gravi sono il 12,4%. Il 63,8% fa regolarmente uso di psicofarmaci. Il 14,9% è in trattamento per tossicodipendenze. Gli atti di autolesionismo sono stati 31 ogni 100 donne, il doppio in percentuale di quelli degli uomini. E così i tentati suicidi: 3,7 ogni 100 detenuti negli istituti e nelle sezioni femminili. Il livello di violenza nei reparti femminili è analogo a quello maschile per le aggressioni al personale (2,6 per 100 presenze), ma maggiore e pari a 7,7 aggressioni a danno di altri detenuti. Dunque, grande disagio. Eppure nonostante ciò negli istituti che ospitano donne è coperto solo il 77% della pianta organica, con in media un educatore ogni 87 detenuti. Negli istituti totalmente maschili anche peggio. Le donne in maggioranza non risiedono in carceri femminili, ma in sezioni femminili di carceri maschili. La frammentazione in diverse piccole sezioni le svantaggia nell’accesso ai corsi di formazione o attività perché non essendo previste attività comuni con gli uomini, tranne messe e spettacoli, spesso non riescono a raggiungere un numero adeguato di richieste per attivare il servizio. Quanto ai servizi igienici in cella, secondo il Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario del 2000, entro 5 anni dovevano essere “forniti di acqua corrente, calda e fredda, dotati di lavabo, di doccia” e con riguardo alle donne “in particolare negli istituti o sezioni femminili, anche di bidet”. A distanza di 17 anni le docce sono presenti in cella nel 60% degli istituti che ospitano anche donne e il bidet nel 66%. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”, così diceva Voltaire nel XVIII secolo. E noi siamo nel XXI. E siamo una democrazia, dovremmo preoccuparci molto di questa situazione e soprattutto agire senza indugio. Perché, come diceva il poeta e aforista Stanislaw Jerzy Lec, ebreo polacco, sopravvissuto alla Shoah, “nei paesi nei quali gli uomini non si sentono al sicuro in carcere, non si sentono sicuri neppure in libertà’”. Nordio, sulle carceri così non va bene di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 agosto 2023 Il Guardasigilli paragona i suicidi di Torino a quelli dei nazisti durante il processo di Norimberga. Poi la proposta: usare le caserme dismesse per combattere il sovraffollamento carcerario. “Idea impraticabile”, ci spiega Gonnella (Antigone). Un’uscita infelice e una proposta che, nella realtà, risulta essere impraticabile. È ciò che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, consegna all’opinione pubblica in occasione del suo primo Ferragosto da Guardasigilli, alimentando perplessità persino tra i suoi più strenui sostenitori. Partiamo dall’uscita infelice. Riguarda il suicidio di due detenute avvenuto nel carcere di Torino, che il ministro ha visitato nel fine settimana. In un caso, a togliersi la vita è stata una donna detenuta con problemi psichiatrici che, non potendo vedere suo figlio di quattro anni, avrebbe deciso di lasciarsi morire di fame e di sete. Per rispondere a chi chiedeva se si sarebbe potuto fare qualcosa per evitare la morte, Nordio si è spinto a paragonare la vicenda al processo di Norimberga, dove persino “due imputati eccellenti come Ley e Goring, si sono suicidati uno impiccandosi e l’altro con una pillola di cianuro nonostante stessero con lo spioncino aperto 24 ore su 24”. Una dichiarazione del tutto fuori luogo, per quanto finalizzata a sottolineare l’impossibilità di realizzare una sorveglianza continua sui detenuti. La proposta impraticabile avanzata da Nordio riguarda proprio il sovraffollamento carcerario: trasformare le caserme dismesse in carceri per i detenuti non pericolosi. L’idea, avanzata da Nordio già lo scorso dicembre, “non sta in piedi né sul piano teorico né su quello pratico”, dice al Foglio Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che da anni si batte per i diritti dei detenuti. “Un carcere - spiega Gonnella - ha bisogno di un’architettura pensata per essere carcere, in grado di rispettare gli standard internazionali riguardanti gli spazi della detenzione. Queste caratteristiche non riguardano soltanto il pernottamento, che le caserme potrebbero garantire, ma anche i luoghi legati alle attività culturali, ricreative, sociali, sportive, religiose. La caserma è pensata con un altro obiettivo, cioè far dormire i commilitoni, e basta. Questo è l’aspetto teorico. Nella pratica il problema è semplice: si tratta di un processo lungo e costoso”. “Per sdemanializzare un bene e poi ridemanializzarlo occorrono anni - spiega Gonnella -. Le caserme dipendono dal ministero della Difesa, non possono diventare immediatamente luoghi patrimonio della Giustizia. Oltre a tutto ciò, occorrono tanti soldi. Visto che si tratta di caserme inutilizzate da anni, ci vorranno sicuramente risorse per renderle funzionali alla vita carceraria”. E non finisce qui: “Supponiamo pure che il governo sia rapido a ridemanializzare, che abbia le risorse e sia più rapido del passato (oggi per costruire un nuovo carcere o anche soltanto un padiglione servono in media cinque anni), poi si porrebbe il problema del personale - prosegue Gonnella -. Già nel sistema penitenziario attuale mancano le figure professionali necessarie. Se il modello viene esteso a nuove strutture il problema si ripropone: bisogna trovare direttori, poliziotti, medici, educatori, assistenti sociali. Ci vorrebbero tanto tempo e tanti soldi. Quindi non si può dire che le caserme dismesse rappresentano la risposta al sovraffollamento carcerario. È pura propaganda”. Insomma, siamo di fronte a una proposta che non si addice molto a chi vorrebbe proporsi come voce liberale nell’ambito della giustizia e del sistema della pena. “La cultura liberale - replica Gonnella - dovrebbe ripartire dai fondamenti, per esempio andando a rileggersi Beccaria. Bisognerebbe prima di tutto stabilire cosa noi vogliamo punire. Se allarghiamo l’area della penalità all’infinito ovviamente non riusciremo mai a garantire una pena carceraria dignitosa. Negli ultimi anni sono aumentati i numeri della carcerazione, ma anche quelli delle misure penali esterne. Tra pochi giorni il ministero dell’Interno comunicherà i dati relativi alla sicurezza e avremo conferma del fatto che negli ultimi anni non c’è stato un aumento degli indici di delittuosità. Eppure, l’apparato repressivo risponde più diffusamente di prima”. Ma se si volesse intervenire nell’immediato, cosa si potrebbe fare? “Nell’ordinamento penitenziario esiste una norma che prevede che dal carcere possano arrivare proposte per mandare fuori, in misura alternativa, i detenuti - replica Gonnella - E allora facciamo sì che in tutte le carceri questi consigli di disciplina allargati si riuniscano e facciano proposte rivolte alla magistratura di sorveglianza per mandar fuori persone che sono vicine alla fine della pena e che in realtà sono dimenticate. Se ciascun carcere, a seconda della sua dimensione, segnalasse 10, 20 o 50 casi potremmo avere ottimi benefici. Inoltre aumentiamo la disponibilità dei luoghi che sono già gestiti in modo aperto. Riproduciamo il modello Bollate anche in altre zone del paese”. Le donne in carcere sono poche e dimenticate: ora Azzurra, Susan e Graziana non ci sono più di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2023 Due donne, Susan e Azzurra, sono morte a distanza di un giorno l’una dall’altra nel carcere di Torino. La prima si è lasciata morire, la seconda si è tolta la vita deliberatamente. Qualche settimana fa, il 28 di giugno, era stata Graziana a mettersi un cappio attorno al collo. Storie molto diverse tra loro, accomunate dalla distrazione che il carcere ha sempre più per le persone che rinchiude e, in misura ancora maggiore, per le donne. Le donne in carcere sono una piccola percentuale, poco più del 4% della popolazione detenuta. Una cifra che si mantiene stabile da decenni. La media mondiale è circa del 9%, più alta di quella italiana ma sempre nettamente minoritaria. Inoltre, sono tendenzialmente in carcere con pene brevi, legate a piccoli reati dallo scarso allarme sociale. Bisognerebbe interrogarsi a fondo sul perché le donne delinquano tanto meno degli uomini, superando le spiegazioni parziali e insoddisfacenti che storicamente sono state proposte. Probabilmente capiremmo molte cose, non del carcere o delle vicende criminali, ma di noi stessi e della società che abitiamo. Le donne in carcere sono poche, e quindi si tende a dimenticarle. Le carceri femminili sul territorio nazionale sono solo quattro: a Roma, a Venezia, a Pozzuoli e a Trani. Tutte insieme ospitano circa un quarto delle donne detenute in Italia. Gli altri tre quarti sono sparsi nelle tante sezioni femminili all’interno di carceri a grande prevalenza maschile. Sezioni che possono arrivare a ospitare più di cento donne, come accade a Milano Bollate e appunto a Torino, ma anche solo poche decine o addirittura due o tre (a Mantova, a Barcellona Pozzo di Gotto). Per queste donne, la coperta è quasi sempre troppo corta. Le sempre scarse risorse economiche, di personale, di attività, di volontariato di cui la direzione si trova a disporre verranno inevitabilmente convogliate verso la parte del carcere che ospita centinaia di uomini, non verso quella dove le poche donne si ritrovano a oziare dimenticate. Ma sbagliato sarebbe chiudere queste sezioni e allontanare le donne dai loro riferimenti territoriali, dalle loro famiglie, dai loro figli. Scegliemmo simbolicamente lo scorso 8 di marzo per presentare al Senato “Dalla parte di Antigone. Primo rapporto sulle donne detenute in Italia”. Il racconto di un grande viaggio collettivo effettuato nei mesi precedenti, lungo il quale visitammo tutte le strutture che ospitano donne detenute in Italia: le carceri femminili, le sezioni, gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, il carcere e le sezioni femminili minorili, le sezioni che ospitano detenute trans. Entrammo ovunque, osservammo, leggemmo il disagio, cercammo di analizzare le varie situazioni sotto i tanti aspetti della vita detentiva: la solitudine, la tutela della salute, il rapporto con il mondo esterno, il bisogno di lavoro, di istruzione e di formazione professionale, la violenza di genere. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Suicidi in cella e proposte di legge snobbate. Nordio: più carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 agosto 2023 Almeno 45 suicidi in meno di 8 mesi. Azzurra era tornata in carcere per scontare la vecchia pena, interrompendo bruscamente il suo percorso di ripresa. Togliersi la vita in carcere non è un “mistero insondabile” come dice il ministro. Azzurra, la ragazza di 28 anni che si è impiccata nel carcere delle Vallette di Torino, lo stesso giorno in cui la donna nigeriana reclusa nel medesimo penitenziario ha scelto di lasciarsi morire di fame e sete, ha vissuto una vita difficile fin dalla sua infanzia. Ha avuto frequentazioni negative, è finita in un vortice dipeso da una sua problematica di fragilità psicologica che nel passato l’ha portata a compiere piccoli reati. Parliamo di violazioni della legge commessi dieci anni fa. E infatti ha cominciato a risalire dal vortice infernale. Ma è tornata in carcere per scontare la vecchia pena, e così il suo percorso di ripresa è stato bruscamente interrotto, facendola precipitare nuovamente nell’abisso. Era seguita dal Sert che - ricordiamo - non si occupa solo di tossicodipendenza, ma anche delle dipendenze patologiche dalle quali la ragazza era affetta. Il tragico gesto dell’impiccagione non è stato, quindi, una fatalità. Pertanto, a differenza delle affermazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, non c’è alcun mistero insondabile che circondano diversi suicidi in carcere. Formulato in questo modo, sembra quasi un tentativo di eludere la responsabilità e di non affrontare le questioni più profonde. L’atto estremo compiuto da questa giovane donna, così come tanti altri suicidi dietro le carceri, non è insondabile. Il sistema penale che abbiamo adottato, basato sull’idea di punizione attraverso il carcere a ogni costo, è intrinsecamente disastroso. Non possiamo addossare tutta la responsabilità esclusivamente agli agenti penitenziari, ai direttori e allo scarso personale sanitario. In questo contesto, emerge la rilevanza delle proposte come la commissione Ruotolo per l’innovazione del sistema penale, che è stata completamente ignorata dal ministro della Giustizia. Allo stesso modo, viene trascurata la proposta di legge nata su indicazione di Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, e promossa dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva, che riguarda la liberazione anticipata speciale. Questa proposta, rilanciata da innumerevoli appelli da parte delle “ragazze di Torino”, le detenute del carcere di Torino oggi al centro della cronaca, non ha avuto seguito. Inoltre, un’altra questione di vitale importanza è la mancanza di interesse verso l’appello di Sbarre di Zucchero, Ristretti Orizzonti e Antigone, che chiede un aumento dei colloqui e delle videochiamate per i detenuti. D’altro canto, persino il disegno di legge che mirava a porre fine all’incarcerazione dei minori è stato di fatto neutralizzato. Il ministro della Giustizia Nordio sembra non interessarsi alle proposte suggerite da chi conosce da vicino il sistema penitenziario. Cosa fa al posto di affrontare queste questioni cruciali? Parla di costruire nuove carceri e di trasformare caserme dismesse in strutture penitenziarie. Questo approccio sembra essere una soluzione antiquata e inadeguata. Anche in passato, l’ex ministro grillino Alfonso Bonafede ha tentato un’analoga strada senza successo. Aveva fatto approvare un decreto legge volto all’individuazione di edifici militari dismessi, tra i quali le caserme stesse. Ma nulla di fatto. Questi edifici non soddisfano i requisiti dell’attuale concetto di carcere moderno, che richiede strutture architettoniche idonee al nuovo concetto di pena. Il ministro Nordio menziona una differenziazione delle pene, ma al di là delle sue affermazioni sulle caserme dismesse, non è chiaro cosa intendi effettivamente. Non a caso il parlamentare Riccardo Magi di +Europa giustamente richiama l’attenzione del guardasigilli sulla proposta di legge da lui recentemente presentata, ma ancora non calendarizzata per la discussione, che mira a creare strutture specifiche per coloro che scontano pene brevi. Questi spazi potrebbero essere gestiti da enti locali o dal demanio, offrendo servizi essenziali con costi minimi o supportati dal volontariato. L’idea di case di reinserimento sociale rappresenta un approccio innovativo e umanitario al trattamento dei detenuti con pene brevi. Tali strutture potrebbero favorire un processo adeguato di reintegrazione nella società, contribuendo alla riabilitazione dei detenuti e riducendo il rischio di recidiva. Il segretario di +Europa sottolinea la necessità che il ministro Nordio spieghi in modo chiaro le sue intenzioni. Al momento, il guardasigilli si limita a parlare di “misteri insondabili” e di costruire “più carceri”. Tuttavia, è importante comprendere che quanto più degradante è l’istituzione penitenziaria, tanto maggiore è l’insicurezza che ne deriva. La destra al governo, che reclama “sicurezza e disciplina”, almeno su questo dovrebbe ragionarci su. Dentro le mura devono entrare i diritti. Non servono più spazi, ma più operatori di Riccardo De Vito Il Manifesto, 15 agosto 2023 Un carcere con una media di un funzionario giuridico-pedagogico ogni 71 detenuti, con picchi di un educatore ogni 379 non può conoscere le persone, prenderle in carico con efficacia. Chi era Susan John, lasciata(si) morire di fame e di sete nel carcere delle Vallette a Torino, l’11 agosto? Chi era Azzurra Campari, morta suicida lo stesso giorno in una cella dello stesso carcere? A queste domande non sappiamo rispondere. Di loro sappiamo pochissimo, quasi nulla. Susan, 42 anni, pare avesse una condanna definitiva a dieci anni per tratta di essere umani (un reato che a volte fa poche distinzioni tra vittima e carnefice), un fine pena al 2030 e una sofferenza indicibile per non poter vedere il figlio di tre anni. Azzurra aveva 28 anni, un pena di un anno per reati di piccolo cabotaggio commessi molto tempo addietro, un dolore gridato alla madre nell’ultima videochiamata: “Non ce la faccio più”. Di loro possiamo solo dire di non sapere, ma c’è poco coraggio filosofico a ripetere la saggezza socratica. Semmai, c’è scoramento di fronte a un carcere che nonostante gli sforzi soggettivi di chi vi dedica vita e passione (la direttrice del carcere di Torino è senza dubbio tra questi), ancora dimostra di non essere oggettivamente in grado di conoscere le persone che prende in carico, di intercettare i loro bisogni e riempire i loro vuoti. Non c’è possibilità di reinserire, non c’è tensione alla rieducazione, se sai di non poter conoscere nulla di donne e uomini che ricevi negli spazi detentivi. Per questo il problema del carcere oggi, nonostante il sovraffollamento, non sono (solo) gli spazi. E neppure le circolari che consentono di etichettare i problemi: disagio psichiatrico, evento critico, autolesionismo e così via. Credo che abbia poco senso, ora, verificare se siano stati rispettati i protocolli o se sia possibile usare le caserme dismesse per farvi nuovi luoghi di detenzione con i vecchi problemi. Se si vuole dare senso alle morti di Susan e Azzurra - e di Graziana, che pochi giorni prima si era tolta la vita sempre a Torino - occorre ragionare in termini di persone, progetti, diritti. Un carcere con una media di un funzionario giuridico-pedagogico ogni 71 detenuti, con picchi di un educatore ogni 379 (XIX rapporto Antigone) non può conoscere le persone, prenderle in carico con efficacia. Se a ciò si aggiunge il deserto di altre figure professionali (psichiatri, psicologi, mediatori) e il taglio dei ponti con la società esterna, si capisce che si ha necessità di persone e non di altri spazi in cui travasare un modello di pena basato sull’espropriazione di tutto e sulla restituzione di niente. Secondo punto: a dover cambiare è l’idea di carcere. È medievale che la detenzione, oltre alla libertà personale, sottragga ancora sempre e comunque (senza differenziazioni) affetti, relazioni, autonomia. Il penitenziario come luogo della segregazione alienante, almeno nei confronti di alcune categorie di detenuti, dovrebbe lasciare spazio, oltre che alle pene sostitutive e alle misure alternative, a un modo nuovo di housing detentivo. Bene hanno fatto la Società della ragione e la fondazione Michelucci, lo scorso 29 luglio, a ricordare Sandro Margara attraverso il rilancio della proposta di legge per l’istituzione delle case territoriali di reinserimento sociale. Un progetto detentivo integrato nella città, dove gli spazi si possano riempire di relazioni e senso, non di disperazione. Infine, i modelli cambiano lentamente, ma, intanto, occorre lanciare una battaglia culturale (anche dentro la magistratura) perché i diritti occupino sempre più il posto della premialità e del correzionalismo. È impensabile che una madre non possa avere risposte sul se e quando vedere suo figlio. Non è un tema di rieducazione, è un tema di vita. E la pena non può togliere la vita. Rita Bernardini è ancora fuori dalla corsa per la carica di Garante dei detenuti di Adriano Sofri Il Foglio, 15 agosto 2023 Come il Nobel di Borges, o di Philip Roth, o, meglio, di Jocelyn Bell o di Rosalind Franklin, gente che poté fregiarsi del Nobel mancato. Sarebbe bello che venisse spiegato il perché. Una giovane donna muore di sete in diciotto giorni nella sua cella, in un silenzio mortale: non il suo, il silenzio dei suoi custodi, l’intera scala dei suoi custodi d’ufficio, che sale dal più umile agente fino al cielo dei governi. Altre, altri, più sbrigativamente s’impiccano. È troppo comodo dire: non ho più parole. Ne ho, infatti. Ho anche un vantaggio, una specie di esenzione. Ogni volta che mi viene da dire: “Che caldo, si muore!”, mi mordo la lingua e mi ricordo delle celle. Certo mi sembra di aver dato fondo a tutte le parole, e a tutte le maledizioni - è una vanteria, in realtà - sicché seguo poco anche le parole d’altre e d’altri, che non temono di ripetersi. Perdo il filo della cronaca, afferro qualche notizia ogni tanto, detriti che galleggiano più in vista sull’alluvione. C’è da rimpiazzare l’ufficio del Garante dei detenuti, tre persone, sono stati proposti tre nomi, di tre maschi. Scelti dunque senza riguardo al genere, pur così evocato, e solo in una scrupolosa classifica di incompetenza. Non sono quelli definitivi, si avverte. Ogni volta di nuovo la notizia è che il nome di Rita Bernardini non è pervenuto. È come, con tutto il rispetto, il Nobel di Borges, o di Philip Roth, o, meglio, di Jocelyn Bell o di Rosalind Franklin, gente che poté fregiarsi del Nobel mancato. Rita Bernardini ha già una piccola progenie di garanti locali dei detenuti (“dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale”) ma lei no, lei niente. Cambiano i ministeri, todo cambia: quasi todo, lei niente. Lei continua a battere i marciapiedi, via Arenula, le altre vie tutte a sassi. Voglia scusarmi Rita, ma starei per dire che se la nominassero davvero ci rimarrei male, ci si affeziona alle tradizioni. Però per una volta mi piacerebbe che qualcuna, qualcuno di queste autorità solenni e responsabili, dal Molise al resto del mondo, spendesse una decina di righe di motivazioni: R.B. no, per questo e per questo. Noi saremmo saziati, e lei potrebbe metterselo sul biglietto da visita. Nordio senza caserme. Ma ha ridotto i permessi per uscire dal carcere di Mario Di Vito Il Manifesto, 15 agosto 2023 Dopo gli ultimi casi di suicidio, il ministro insiste con la ricerca di nuove celle. Prima aveva negato la proroga delle semi libertà. È con un videomessaggio inviato a tutte le carceri italiane che il ministro della giustizia Carlo Nordio ha deciso di celebrare il ferragosto. Qualche minuto per fare il punto della situazione, ribadire la linea e cercare di aggiustare (in parte) il tiro uscito storto sabato scorso, quando la sua visita alle Vallette - teatro di due suicidi tra i detenuti in nemmeno 24 ore - si è risolta in un mezzo disastro, tra i fischi dei carcerati ad accoglierlo e una serie di dichiarazioni che hanno scandalizzato l’opinione pubblica e chi abitualmente si occupa della vita dietro le sbarre. L’intervista rilasciata ieri al Corriere della Sera, in effetti, non bastava, soprattutto perché, tra tanti buoni propositi, il ministro ha insistito con il suo paragone tra i suicidi di Torino e quelli dei gerarchi nazisti a Norimberga: far passare i casi di Azzurra Campari e Susan John più o meno come quelli di Herman Goering e Robert Ley nel nome delle difficoltà della sorveglianza dei reclusi non è di certo la migliore metafora possibile, ma tant’è. Per il resto Nordio, nel suo videomessaggio, da un lato ha detto che “troppo spesso il carcere viene dimenticato, soprattutto in questo periodo, con la gente che è in ferie” e dall’altro però non ha offerto soluzioni all’infuori dell’idea di convertire alcune caserme a case circondariali per chi è condannato a pene brevi e che non destano allarme sociale, e assumere altro personale: “Vi assicuro che stiamo lavorando con la massima energia per ridurre i disagi, assumendo nuovo personale: abbiamo assunto 57 nuovi consiglieri penitenziari e 2.800 appartenenti alla polizia penitenziaria”. Questo dovrebbe in qualche modo placare le proteste dei sindacati, che periodicamente tornano a chiedere più assunzioni e di solito le ottengono dopo brevi trattative. Il piano Nordio sulle caserme, invece, prenderà quota a settembre, quando dovrebbe partire una ricognizione degli edifici che potrebbero diventare nuove prigioni. Si parla già di dieci siti individuati, ma le risposte sul punto dovrà darle il ministero della Difesa, con la mediazione per il passaggio di amministrazione che poi passerà per il Demanio. Il calcolo approssimativo dei benefici è incerto: in Italia ci sono 42.511 condannati definitivi, di questi 1.553 devono scontare una pena inferiore a un anno e altri 2.820 arrivano a due anni. Il totale fa 4.373, poco più del 10% del numero complessivo di ospiti dello Stato. L’altra idea per migliorare almeno di un po’ le condizioni all’interno delle patrie galere è di ampliare i colloqui telefonici dei detenuti con i loro familiari (“Scintille preziose nel percorso di ravvedimento di chi espia la pena”, dice il ministro). A questo va aggiunto un generico impegno ad “aumentare l’aiuto psicologico a chi versa in condizioni di disagio” e a favorire il lavoro sia dentro le carceri sia per chi ne esce. Duro il commento di Walter Verini del Pd, che invita il ministro a “fare più fatti e meno proclami”, perché “nei mesi scorsi, il governo ha respinto le proposte del Pd e altri per prorogare ai detenuti semiliberi la possibilità di continuare a dormire fuori del carcere dopo una giornata di lavoro. Durava da due anni senza alcun problema. Ha fatto orecchie da mercante sugli appelli dei garanti e nostri per garantire alle persone detenute video-telefonate e telefonate quotidiane con le famiglie e i figli”. Dall’inizio di questa legislatura sono state depositate undici proposte di legge sul carcere, ma una sola (a prima firma Cecilia D’Elia) prende in considerazione il problema del sovraffollamento e degli spazi all’interno degli istituti di pena. Lo scorso marzo, poi, il sottosegretario Andrea Delmastro era arrivato addirittura a proporre di far uscire almeno i tossicodipendenti per affidarli alle comunità di recupero ma l’idea è morta lì senza che nessuno dal governo o dalla maggioranza abbia cercato di darle seguito. Intanto, per quello che riguarda il suicidio a Torino della ventottenne Azzurra Campari, la procura ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio. Per ora non ci sono indagati e la formulazione dell’ipotesi di reato è funzionale alla possibilità di svolgere gli accertamenti di rito. Il caso, comunque, è stato separato da quello di Susan John, la 42enne morta dopo alcune settimane di sciopero della fame. Di carcere si muore, la civiltà in Italia ha le ossa rotte: Susan, Azzurra e il sistema da ripensare di Benedetta Frucci Il Riformista, 15 agosto 2023 Di carcere, in Italia, si muore. Si muore a 28 anni, togliendosi la vita, come è successo ad Azzurra. Si muore perché si sceglie di smettere di nutrirsi, come è successo a Susan, madre di 43 anni. Azzurra aveva detto alla sua mamma, una settimana prima del suicidio, che non ce la faceva più. Immaginate il dolore di quel genitore, l’impotenza. Vi chiederete quali crimini avesse commesso Azzurra per stare lì: era una ladra di biciclette, tanti piccoli reati l’avevano portata a Le Vallette. La verità è che Azzurra in carcere non avrebbe dovuto esserci. Susan, per il reato commesso, immaginiamo di sì, ma non in quelle condizioni. Susan e Azzurra sono solo due delle vittime del sistema carcerario italiano. Un sistema che va ripensato completamente. Da un lato, si dovrebbe partire dal paradigma per cui la reclusione dovrebbe essere l’ultima istanza: la pena non coincide con il carcere. E allora, andrebbe limitato ai casi in cui non è possibile in altro modo garantire la sicurezza della collettività. E quella pena dovrebbe essere eseguita in strutture dignitose: non nelle gabbie per polli che sono le prigioni italiane. Per gli altri, esistono i domiciliari, il braccialetto elettronico, l’affidamento in prova. Parliamo degli innocenti in attesa di sentenza definitiva ma anche dei condannati per reati che non destano particolare allarme sociale. E alle vittime chi ci pensa? Diranno in molti. Ebbene, considerato che il carcere favorisce la recidiva, le pene alternative sono nell’interesse anche e soprattutto dei cittadini. Qualche dato potrà essere utile per capire: dei 18.654 detenuti che hanno avuto accesso al lavoro in carcere, solo il 2% ha commesso recidiva. La media è al contrario quasi del 70%. E ancora, i numeri ci dicono che la percentuale di chi commette un nuovo reato dopo essere stato in carcere è del 68,45%: al contrario, per chi è stato condannato a misure alternative alla detenzione la percentuale è del 19%. Fatti, non sensazioni. È la differenza fra buon governo e populismo, di cui quello giudiziario è forse la forma peggiore: se il fine è garantire la sicurezza dei cittadini, come uno dei compiti essenziali dello Stato, e non la ricerca di facile consenso, allora il carcere non è sempre la scelta migliore. Altro che caserme dismesse: da un Ministro garantista come Nordio, ci aspetteremmo meno carcere, non nuove celle. È proprio dal modo in cui lo Stato tratta chi è in sua custodia (il famoso habeas corpus) che si misura il grado di civiltà di un Paese. E l’Italia ne esce con le ossa rotte. La nostra preghiera e il nostro pensiero vanno quindi a chi è dietro quelle sbarre oggi, il giorno dell’Assunzione: persone, uomini e donne, non numeri di matricola. I suicidi di Torino come quelli di Norimberga, Nordio insiste nel paragone come se quelle morti fossero inevitabili di Liana Milella La Repubblica, 15 agosto 2023 Lo ha detto durante la visita nel carcere di Torino. E lo ripete. Come se davvero i suicidi in cella fossero inevitabili. Questa è “Toghe”, la newsletter sui temi della giustizia di Liana Milella. Ministro Nordio faccia il Guardasigilli, e non lo storico. E se lo fa - com’è purtroppo sua abitudine - abbia almeno un briciolo di rispetto per le vittime. Due donne, Susan John e Azzurra Campari, nel carcere delle Vallette di Torino, per l’evidente incuria e sottovalutazione del personale di servizio e dei magistrati di sorveglianza, muoiono suicide. Entrambe potevano essere salvate. Poteva essere chiamato il Garante dei detenuti di Torino e quello nazionale Mauro Palma, che sicuramente sarebbe corso lì per salvare quelle vite. Non è stato fatto. Poteva essere coinvolto il capo delle carceri Giovanni Russo, e non è stato fatto. Lei, sotto i riflettori, corre a Torino. E che fa? Anziché annunciare un’immediata e severa ispezione interna, che vada di pari passo con le verifiche dei pm, pronuncia l’ignobile paragone con i gerarchi nazisti suicidi a Norimberga. I nomi di Hermann Göring e Robert Ley vengono accostati a quelli di Susan John e Azzurra Campari. Lo dice a Torino, e continua a ripeterlo. Lei offende i familiari delle vittime, ma evidentemente non se ne rende neppure conto. Lei sta offrendo un’evidente copertura a chi ha sbagliato. Sta dicendo che è impossibile evitare il suicidio di un detenuto. Da quando è Guardasigilli sono morte 50 persone. Di queste lei porta la responsabilità. Spieghi agli italiani che cosa ha fatto. Apra il dossier di queste morti, faccia una conferenza stampa in cui illustra, caso per caso, che cosa ha scoperto. Lei si vanta di continuo di essere stato pm per 40 anni. Bene. Allora faccia il pm adesso, anziché lo storico. Illustri, nei minimi dettagli, i perché di questi suicidi, ci dica se queste vite potevano essere salvate, ci indichi chi ha sbagliato. Ci faccia l’elenco degli agenti che ha sospeso. E se non ha fatto nulla di tutto questo, per favore, ci risparmi i suoi ignobili paragoni. Nel nome di Susan John e di Azzurra Campari le chiedo di non accostare mai più il loro nome a quello di gerarchi fascisti condannati dalla storia per difendere l’inefficienza e la sottovalutazione dei suoi agenti. Perché questo paragone suona come una copertura per i passati e i futuri suicidi che lei considera inevitabili. Invece proceda subito con l’ispezione e i controlli. E alla fine faccia dimettere i responsabili. Fino al capo delle carceri e a lei stesso. Sperando che nel frattempo altri detenuti non decidano di togliersi la vita. “Caro ministro Nordio, quei suicidi in carcere erano prevedibilissimi” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 agosto 2023 Parla Giovanni Fiandaca: “Il carcere in molti casi è veleno piuttosto che medicina, il vero rimedio consiste nel ridurne drasticamente l’impiego”. Con il professor Giovanni Fiandaca, emerito di diritto penale all’Università di Palermo e già Garante dei diritti dei detenuti siciliani, affrontiamo il dramma dei suicidi in carcere e il tema delle possibili soluzioni per migliorare l’esecuzione penale. Susan John e Azzurra Campari sono le due donne che si sono suicidate in carcere a Torino. Cosa ci consegnano queste vicende? Queste tristissime vicende confermano e ribadiscono che la situazione penitenziaria presenta aspetti di così cronicizzata drammaticità che sarebbe finalmente il caso di affrontarli, innanzitutto sul piano politico governativo, con soluzioni e mezzi davvero adeguati. Ma dubito purtroppo che in atto vi siano, oltre alla volontà, le idee e le reali competenze per farlo. Il ministro Nordio in un’intervista al Corriere ha detto: “Per quanto ho potuto capire era stato fatto tutto il dovuto. Ma la prevenzione di un suicidio è praticamente impossibile: persino due prigionieri del processo di Norimberga si tolsero la vita, uno impiccandosi e l’altro avvelenandosi, benché sotto il controllo della polizia militare”. Secondo lei è un paragone azzeccato? Non è un paragone indovinato. L’accresciuto rischio di suicidi, e più in generale di atti autolesivi, è prevedibile quantomeno in astratto, specie nel periodo estivo che determina, come noto, in molte persone recluse un aggravamento del sentimento di solitudine e di abbandono, in particolare se si tratta di persone fragili o al primo impatto con la prigione. Certo, è complicato verificare di volta in volta in che misura questo rischio astratto tenda a diventare concreto. Tuttavia non manca soltanto una sufficiente dotazione di psicologi e psichiatri per far fronte oggi alla maggiore vulnerabilità di non pochi detenuti. Nella mia esperienza di Garante regionale, ho maturato l’impressione che il personale specialistico, pur disponibile, non sempre possegga la competenza e l’esperienza necessarie per accertare il grado di possibile concretizzazione del rischio suicidario. Essere anche bravi psicologi o psichiatri non equivale ad essere automaticamente esperti delle reazioni psicologiche riconducibili alla cosiddetta sindrome di prigionizzazione e all’insieme degli effetti ulteriormente desocializzanti dello stato detentivo. Il Guardasigilli ha aggiunto: “Va detto, però, che la nostra situazione carceraria è la sedimentazione di decenni di disinteresse, per non dire di errori, trascuratezze ed economie esasperate”. Non è una scusa per deresponsabilizzarsi? Che la situazione carceraria sia trascurata da decenni è vero, in questo Nordio ha ragione. Solo che ora tocca a lui affrontare i tanti problemi incancreniti e non lo invidio. Penso però da tempo che per prendere veramente in mano la situazione non basti un Guardasigilli, eventualmente più attento e sensibile. Ho maturato la convinzione, come ho detto in precedenti interviste, che occorrerebbe un soggetto politico apposito, dotato di pregresse conoscenze ed esperienze in materia che presieda a tempo pieno e con autonomia alla politica penitenziaria, e più in generale, all’intera esecuzione penale: insomma una sorta di ministro specificamente addetto al settore, operante in diretto collegamento con la presidenza del Consiglio e non un delegato come avviene oggi con il ministro della Giustizia. Quest’ultimo infatti deve occuparsi di troppe cose per potere dedicare una continua attenzione alle carceri e d’altra parte mi pare improprio che le scelte politiche specifiche in campo penitenziario finiscano con l’essere di fatto delegate al capo del Dap, che è più un vertice amministrativo che un decisore politico. Nordio propone le caserme dismesse come soluzione per contrastare il sovraffollamento. Che ne pensa? A me pare che la trovata della caserma sia un comodo diversivo o palliativo. Intanto vi è incertezza sull’effettiva disponibilità quantitativa di caserme dismesse. Inoltre, ammesso e non concesso che si tratti di una soluzione astrattamente praticabile, i tempi di attuazione sul piano tecnico burocratico sarebbero comunque lunghi. Ma il rilievo a mio avviso determinante è che la dimensione spaziale della detenzione non è da sola decisiva per incidere sui disagi psichici e le condizioni di fragilità e vulnerabilità psicologica. La vera esigenza è di disporre di educatori e psicologi in numero adeguato e professionalmente attrezzati. Questa è a mio giudizio la priorità. Quali sarebbero invece le altre soluzioni per lei da attuare a medio e lungo termine? Le soluzioni giuste sono note da parecchio tempo, almeno in linea teorica. Premesso che il carcere in molti casi è veleno piuttosto che medicina, il vero rimedio consiste nel ridurne drasticamente l’impiego: estendendo legislativamente i presupposti e le tipologie delle sanzioni extra detentive, evitando comunque l’ingresso in carcere alle persone fragili responsabili di reati di modesta gravità, consentendo ai non pochi soggetti con pene residue molte basse di essere affidati a strutture socio-assistenziali che ne agevolino il reinserimento nelle realtà esterna. Insomma, occorrerebbe prendere una buona volta sul serio il principio della pena detentiva come extrema ratio. Sono sicuro che Nordio sia in teoria d’accordo. Però non basta un ministro della Giustizia di cultura liberale per promuovere inversioni di tendenza nella politica sanzionatoria. La questione non è personale ma sistemica e temo purtroppo che l’attuale contesto sistemico induca ad essere ancora alquanto pessimisti. Quindi è impossibile pensare a provvedimenti quali l’indulto e l’amnistia? Credo che non ci siano i presupposti politici e culturali minimi per immaginare tali provvedimenti. In questa situazione drammatica è allora sempre più importante avere un futuro Collegio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale all’altezza... Dalle possibili candidature di cui ha sinora dato notizia la stampa, non mi sentirei di sostenere che l’attuale Governo si faccia adeguatamente carico dell’esigenza del rinnovare i componenti dell’ufficio del Garante in maniera corrispondente alle migliori aspettative. Anche questa volta non ne faccio una questione di persone, ma soprattutto una questione di reali competenze ed esperienze maturate in precedenza. Con tutto il rispetto per i nomi delle persone menzionate, addirittura due docenti di diritto civile non mi sembrano la soluzione più adeguata e non mi pare che basti a compensare questo limite la presenza di un anziano ex magistrato di sorveglianza. Dal mio punto di vista, la figura del garante ha caratteristiche tali da distinguerla anche da chi in passato si è occupato di detenuti in qualità di magistrato. La tragedia nel carcere di Torino è intollerabile di Mario Giro* Il Domani, 15 agosto 2023 Susan si è lasciata morire in prigione, nel disinteresse di tutti (anche perché era nera e nigeriana). Ora facciamo appello alla senatrice Ilaria Cucchi perché qualcuno paghi per quanto è avvenuto: nelle nostre prigioni si muore troppo, troppi sono i suicidi nell’abbandono più totale. Susan John, una donna di 43 anni è morta di fame e di sete nel carcere di Torino. Sarebbe più giusto dire che è stata uccisa dall’incuria e dal disinteresse generale delle autorità carcerarie, malgrado fosse in grave pericolo rifiutando cibo e acqua. Ciò è accaduto - fa orrore dirlo ma non può che essere così - perché Susan era nigeriana, nera e povera. Fosse stata italiana o “bianca” - ripeto fa orrore ammetterlo - avrebbe ricevuto certamente più attenzione. Intollerabile - Questa ennesima tragedia carceraria non può essere tollerata in un paese civile. Vista la sua sdegnata e immediata reazione, vogliamo sperare che la senatrice Ilaria Cucchi prenda in mano tale morte scandalosa e, nell’accertare la verità, metta tutta l’energia e la resilienza di cui sappiamo è capace. Ci permettiamo di chiederlo perché di questa assurda morte sono responsabili le istituzioni e purtroppo sappiamo già che tenteranno di insabbiare e far dimenticare tutto al grande pubblico. È necessaria invece un’azione esemplare che lasci inciso nella coscienza nazionale un fatto incontrovertibile che serva da deterrente. È tempo di portare a conoscenza del paese che le morti nelle carceri italiane sono troppe, ingiustificate e assolutamente evitabili. Di Alfredo Cospito e del suo sciopero della fame si è parlato molto, così come delle condizioni dei condannati al 41 bis. Ma degli altri, della stragrande maggioranza dei detenuti, siano essi italiani o stranieri, non si parla mai. Soprattutto non si affronta la questione dei suicidi che sono tanti: secondo gli stessi dati del ministero, nel 2022 in media c’è stato un suicidio in carcere ogni 4 giorni e mezzo. Sono 84 casi che rappresentano più di 20 volte la media nazionale. Si tratta della cifra più alta dal 1990, anno in cui è iniziata la raccolta dei dati. Ci sono in realtà molti studi e numerose associazioni che si occupano del fenomeno e frequentano le carceri italiane portandovi conforto, formazione e assistenza. Senza voce - Ma tutto ciò raramente appare sui media. Ciò che qui si vuole rimarcare è l’assenza di attenzione nazionale al tema delle carceri in generale e allo scandalo dei suicidi in particolare, a cui si devono aggiungere le morti accidentali a causa delle cattive condizioni di detenzione, e quelle per malattia dovute alle cattive cure. Il periodo del Covid-19 è stato tragico per chi era in prigione, senza distanziamento, ausili e vaccini in ritardo. Ciò che più impressiona è l’abbandono degli stranieri poveri, così come dei rom in carcere: la durezza della nostra società, sempre più spietata con chi viene da quei mondi dimenticati, si trasforma in una condanna ancor più dura a causa del disprezzo per le loro vite, lasciate deperire nel più totale disinteresse. Possibile che nessuno sapesse che Susan si stava lasciando morire? E se qualcuno sapeva - come pare dai primi accertamenti - possibile che non abbia reagito? Come siamo giunti a tale livello di disumanità? *Politologo “Susan John poteva essere salvata” di Manuela D’Alessandro agi.it, 15 agosto 2023 Il magistrato della Sorveglianza di Verona, Vincenzo Semeraro, interviene in un’intervista all’AGI sulla vicenda della detenuta che si è lasciata morire di fame e di sete nel carcere di Torino. Lui stesso un anno fa chiese scusa “per aver fallito” quando si suicidò una giovane reclusa. “Si sarebbe potuto fare di più” per Susan John, la detenuta che si è lasciata morire di fame e di sete nel carcere di Torino. Lo dice all’AGI Vincenzo Semeraro, il giudice della Sorveglianza di Verona che un anno fa chiese “scusa per aver fallito” quando una delle recluse che seguiva da anni nel suo percorso di rieducazione, Donatella Hodo, si uccise a 27 anni in cella. “La storia di Susan John colpisce in modo particolare anche pensando al modo in cui ha deciso di porre fine alla sua esistenza. Come nel caso di Donatella Hodo, forse, si sarebbe potuto fare di più per acquisire la fiducia della ragazza per far sì che continuasse a nutrire speranza in un domani che sicuramente sarebbe stato migliore finalizzato, come sarebbe stato, alla cura dei figli che tanto amava. Che cosa in concreto si poteva fare? Non saprei dire con precisione se non che i detenuti, e in particolare le donne private della libertà personale, hanno bisogno di essere ascoltati per fargli comprendere che la pena non è la chiusura definitiva per un’esistenza normale”. È giusto nutrire un detenuto contro la sua volontà? Il caso della donna nigeriana solleva anche il problema dell’alimentazione forzata che già era emerso durante il lungo sciopero della fame dell’anarchico Alfredo Cospito. “Occorre chiedersi se sia legittimo un intervento della pubblica autorità e, per rispondere a questa domanda, bisogna partire dai principi costituzionali che sono alla base dell’habeas corpus contemporaneo della persona - riflette il magistrato -. Per il solo fatto di essere sottoposto al controllo dello Stato per tramite dell’ordinamento penitenziario, la persona non perde i propri diritti fondamentali, la cui tutela deve continuare a essere assicurata. Le limitazioni alla libertà personale e ai diritti a essa connessi sono consentite solamente entro gli stretti limiti della Costituzione e delle leggi penali. Se così non fosse, si giungerebbe alla negazione della dignità umana, trasformando la detenzione in un trattamento contrario al senso di umanità, in contrasto con la Costituzione e con la Cedu. E tra i diritti fondamentali non sacrificabili ci sono il diritto alla salute e quello all’autodeterminazione terapeutica”. Questo significa che “anche nel contesto carcerario si impone la necessità di rispettare la volontà della persona rispetto alle cure e ai trattamenti sanitari, in quanto espressione della sua dignità”. Tuttavia il discorso si complica quando si scende nel caso particolare del singolo detenuto. “L’indagine sulla reale volontà di astenersi dall’alimentazione e dall’ idratazione deve essere condotta in maniera molto penetrante perché non si può negare che il contesto in cui il recluso si trova non incida, anche in maniera rilevante, sulla sua determinazione. Le mura di una cella non coartano solo la libertà di movimento, ma anche la reale autocoscienza e la libertà di effettiva autodeterminazione”. Susan John era rinchiusa in un reparto delle Vallette destinato a chi ha manifestato problemi di salute mentale. La solitudine di agosto - Da quando Hodo si tolse la vita inalando troppo gas spingendo Semeraro a scrivere una lettera per il suo funerale in cui esprimeva anche il suo affetto per lei, il giudice dice che è cambiato “molto poco”. In questi giorni di agosto, mese per tradizione molto difficile nelle carceri quando aumentano problemi e suicidi, Semeraro è da solo nonostante sia prevista la presenza di quattro giudici della Sorveglianza. “È il frutto di una sfortunata congiunzione astrale: alla fine dello scorso anno la pianta organica dell’ufficio è stata aumentata da tre a quattro magistrati, con il riconoscimento che il carico di lavoro era tale da dover essere fronteggiato da un magistrato in più rispetto a quelli del precedente organico. Nel frattempo, però, dei tre presenti, una è andata in pensione e un altro è stato eletto al Csm. La situazione migliorerà a metà settembre quando arriverà un collega dalla Cassazione. Gli altri due posti saranno coperti tra gennaio e febbraio del prossimo anno”. Le caserme proposte da Nordio “solo un rimedio episodico” - Semeraro ritiene che l’individuazione di nuove strutture per i detenuti, annunciata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, possa essere “soltanto un rimedio” temporaneo, episodico”. “Occorre, invece, un intervento ben più sistematico. Penso alla possibilità di allargare la fruibilità di misure alternative per i detenuti con problemi di tossico o alcoldipendenza, penso alla individuazione di strutture sanitarie dove inserire i detenuti con patologie psichiatriche, che non di rado sopravvengono proprio in carcere. Si possono anche individuare caserme dismesse per allocarci detenuti, ma, poi, bisognerebbe reperire personale di Polizia Penitenziaria e, soprattutto, personale dell’area educativa, psicologi, psichiatri, medici da adibire alla assistenza, prima di tutto, e alla vigilanza di quei detenuti, che, altrimenti, finirebbero per essere chiusi tra quattro mura e là dimenticati”. La sicurezza, secondo il magistrato, è necessaria per permettere agli operatori di lavorare con serenità. “Il trattamento deve essere un’opera sartoriale: un ‘abito’ cucito su misura a seconda delle esigenze del singolo condannato. Ovvio che, per ottenere tale risultato, sarebbe necessario avere un maggior numero di educatori, di psicologi, di psicoterapeuti, di medici. È altrettanto ovvio, però, che tale personale deve essere posto in condizione di lavorare in tranquillità”. Carcere e suicidi. E lo Stato sta a guardare di Antonella La Morgia* vocididentrojournal.blogspot.com, 15 agosto 2023 Puoi essere preso a calci e botte. Avere lesioni e traumi che ti portano alla morte, mentre dovresti essere assistito e curato proprio in quanto è lo Stato a prenderti in carico, anche quando tutto questo avviene perché sei in carcere. Eppure diranno, come hanno detto di Stefano Cucchi, che sei morto per arresto cardiaco. E ci vogliono una sorella coraggiosa e anni di processi per stabilire che la tua morte è stata conseguenza di quelle botte. Puoi rifiutare il cibo, perché in carcere lo sciopero della fame è l’unica forma di protesta non violenta che ti rimane, quando senti che proprio quello Stato che ti ha giudicato e punito, secondo Costituzione, non c’è. O non ce la fa ad esserci. Ad ascoltarti. Ad aiutarti. E invece dovrebbe accompagnarti in un percorso di consapevolezza e rieducazione, essere questo il senso della pena non contraria al senso di umanità, sempre secondo la Costituzione. Invece nel carcere trovi il deserto della tua solitudine, del tempo vuoto e fine a se stesso nella ripetizione dell’esistenza che si ferma come gli orologi che hanno le lancette immobili, fino a quando la libertà, scontata la pena, solo in pochi casi restituirà al mondo di fuori una persona che ha compreso il disvalore del fatto per cui è stata condannata. Nel 75 percento dei casi quella persona commetterà ancora reati e tornerà in carcere, sancendo così il fallimento dell’istituzione detentiva e dei suoi fini. Puoi digiunare come Gandhi, Pannella e molti altri che scelgono questa pratica dimostrativa per opporsi a qualcosa o qualcuno, a leggi ingiuste o governi, per rivendicare diritti o protestare per la negazione degli stessi. In carcere se lo fai diranno, come hanno detto di Susan John, la detenuta morta alle Vallette di Torino dopo aver rifiutato il cibo e l’acqua e chiesto di vedere il proprio bambino, che ti sei lasciato morire. Non è dunque sciopero della fame, non è un atto “politico”, una disubbidienza civile e pacifica. È una tua seppur dolorosa scelta di non vivere più. E sul mistero insondabile di quella scelta, non vanno informati il Garante dei detenuti, i media, preventivamente allertati i parenti. Lo Stato non entra in quel mistero. Lo Stato è fermo, come gli orologi, aspetta la tua morte. E sta a guardare. Come Susan John, pochi mesi fa anche nel carcere di Augusta (provincia di Siracusa) due detenuti, Liborio Davide Zerba e Victor Pereshchako, sono deceduti dopo settimane di sciopero della fame e la notizia è stata data solo dopo quindici giorni dal loro decesso. Nessuna informativa ai garanti. Poi c’è Azzurra che si è impiccata in cella, sempre a Torino, nello stesso carcere dove Susan ha digiunato ed è morta e a distanza di sole 24 ore. Ad agosto, l’anno scorso, Donatela Hodo nel carcere Montorio di Verona, 27 anni, si era suicidata con il gas del fornello in uso per scaldare e cuocere il cibo. La sua morte, e le sue foto avevano fatto il giro dei social. L’eco delle parole del Magistrato di sorveglianza al suo funerale sul fallimento del sistema carcere pareva aver scosso qualcosa nel dibattito sullo stesso. Poi quell’eco sembra essersi spenta del tutto. A parlare di suicidi dietro le sbarre sono rimasti i soliti delle associazioni del settore. Il problema dei suicidi dei detenuti, secondo l’attuale Ministro Nordio, dipende da due cause: una è il sovraffollamento, perenne mantra, ancorché dato numerico incontestabile (57.749 le persone recluse, con 6.464 in sovrannumero rispetto alla capienza totale degli istituti). L’altra causa è “il mistero insondabile della mente umana”. Altri e vecchi limiti invalicabili, altri muri che la nostra memoria militare conserva, separeranno il carcere del futuro dal resto della società, che il carcere deve continuare a non vederlo. Anche a non considerarlo tra le priorità. Secondo Nordio, sono da recuperare le vecchie caserme dismesse, dove i soggetti socialmente meno pericolosi tra sport e lavoro all’aperto, avrebbero da costruirsi quella “speranza” per tornare ad essere sani, forti ed utili alla società da cui sono stati tenuti lontani. E che domani potrà riaccoglierli, obbedienti e disciplinati come soldati. Che importa che non ci siano spazi per la scuola (si leggano le cifre sul livello d’istruzione dei detenuti per farsi un’idea), il teatro, la cultura, biblioteche e quanto faticosamente oggi avviene grazie a direttori illuminati e un volontariato che investe sul capitale umano. Che non è solo corpo da rinvigorire e mani operaie. E sappiamo a quali modelli, che sono stati parte di un’educazione di regime, questa logica si ispira. Una volta tanto anche la polizia penitenziaria è perplessa sulla ricetta del Guardasigilli. Invoca l’aumento di personale ma anche una formazione adeguata, perché il carcere, oltre che in peggio (strutture, sovraffollamento) è cambiato nelle caratteristiche della popolazione detenuta: stranieri, soggetti con problemi psichiatrici, dipendenza da sostanze, giovani con disturbi comportamentali. Il carcere della speranza, che la speranza non uccide e riabilita nella volontà di vivere l’oggi per il domani, era già prefigurato nella Riforma dell’Ordinamento Penitenziario della vecchia Legge 354/1975, con al centro la persona reclusa e i suoi diritti (alla famiglia e agli affetti, alle relazioni sociali, al lavoro, alla salute, alla cultura e istruzione, all’attività fisica). A quel che andava migliorato dopo i molti anni trascorsi da questa riforma ci hanno pensato giuristi, tecnici, le circolari, gli Stati Generali dell’Esecuzione penale, le Relazioni del Garante Nazionale e la Commissione presieduta dal prof. Ruotolo che ha lavorato a dare indicazioni sulle criticità esistenti sotto la Ministra Cartabia. Appena un’era fa, prima di Nordio. Siamo sempre scettici sulla costruzione di nuove carceri, come soluzione al sovraffollamento. È una misura strutturale che dovrebbe affiancarsi ad altre di natura tecnico-giuridica o di organico amministrativo: ampliamento delle figure, enti sociali, operatori per l’attuazione delle misure alternative, modifiche alle previsioni edittali di alcune fattispecie penali, formazione, aumento di psicologi, mediatori linguistici, funzionari giuridico-pedagogici, insegnanti e medici nelle carceri, potenziamento e diverso riconoscimento del ruolo del volontariato e terzo settore nelle attività trattamentali. All’indomani dei vergognosi fatti di Santa Maria Capua Vetere, Mario Draghi, in visita come Nordio al carcere teatro dei pestaggi ai detenuti della sezione Nilo da parte di agenti (alcuni oggi sono indagati per reato di tortura), aveva dato per certa la realizzazione di otto nuovi padiglioni grazie ai fondi del PNRR. Vedremo se questi fondi saranno utilizzati e quanto costerà (ammesso che serva) riaprire le caserme. Sì, lo chiederemo a Giorgetti, come ha detto Nordio. Il resto dei problemi farà parte del “mistero insondabile della mente umana”. *Vicedirettore Voci di dentro, membro del Direttivo dell’Associazione Carceri e caserme: Nordio bocciato dal suo ministero di Vincenzo Bisbiglia Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2023 Trasformare le ex caserme in carceri? Un refrain annoso. Lo stesso ripetuto ancora ieri al Corriere della Sera dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Il bilancio di questa “intuizione”, perseguita da quasi un quarto di secolo, parla chiaro: decine di dichiarazioni, altrettante riunioni effettuate ma nessun risultato tangibile ottenuto. Il motivo è che è tutto molto difficile, quasi impossibile. E gli ostacoli sono di varia natura: logistici, economici, urbanistici. Su tutto il territorio nazionale, stima l’Agenzia del Demanio, vi sono circa 1.500 caserme non utilizzate o abbandonate. Molte si trovano nel nord-est del Paese, realizzate negli anni della Guerra fredda. Di queste strutture non esiste un elenco pubblico ufficiale, molte sono ancora in dotazione al Ministero della Difesa, utilizzate dall’Esercito come depositi. Tecnicamente dovrebbero passare al ministero della Giustizia attraverso il Demanio, iter molto difficile. “Quando il Comune di Roma negli anni scorsi si interessò all’acquisizione della ex ‘Ruffo’, non lontano da Rebibbia, il ministero ci chiese 19 milioni di euro perché avevano un problema di trasferimento di materiali”, racconta Luca Montuori, ex assessore capitolino all’Urbanistica con Virginia Raggi. Al Ministero della Giustizia, l’ultimo protocollo d’intesa per adibire una caserma a carcere risale al maggio 2020 e riguarda la ‘Barbetti’ di Grosseto, ad oggi effetti l’unico progetto ufficialmente in piedi. L’accordo fra Giustizia, Difesa e Demanio fu siglato nel 2000, ben 23 anni fa. Solo a novembre 2022 il comune di Grosseto ha annunciato lo “sblocco” della pratica per una struttura da poche decine di posti: a marzo è partita la procedura per “l’affidamento dei servizi di architettura e di ingegneria per frazionamento e operazioni di tipo mappale e catastale ai fini dell’acquisizione” da parte del Dap, dipartimento amministrazione penitenziaria. In altre parole, siamo solo alle fasi preliminari. Gli ultimi casi, poi, non lasciano spazio a facili ottimismi. A gennaio 2020 venne l’idea di utilizzare una parte delle caserme “Capozzi” e “Milano” di Bari, proprio dove dovrebbe sorgere il “Parco della Giustizia”, riunificando i diversi uffici giudiziari sparsi per la città. Ma del progetto si sono perse le tracce, mentre nel maggio scorso sono partite le demolizioni fra le proteste degli ambientalisti che denunciano la privazione di un “polmone per la città”. A giugno 2019, invece, a Napoli è stato firmato il protocollo per la trasformazione della caserma “Battisti” in una Icam, istituto per detenute madri, o una struttura minorile. L’immobile si trova a Bagnoli, zona della ex Italsider. I residenti protestarono a lungo perché sarebbe stata messa a repentaglio la vocazione turistica del territorio e, alla fine, l’allora ministra del Sud, Mara Carfagna annunciò: “Il governo Draghi non ha nessuna intenzione di destinare la caserma ‘Battisti’ di Bagnoli ad istituto penitenziario. Ho appena parlato con la collega Marta Cartabia e abbiamo concordato in proposito”. Discorso chiuso, insomma. Risale allo stesso periodo l’ipotesi della riconversione della caserma “Bixio” di Casale Monferrato: progetto annunciato, discusso e rilievi eseguiti. Ma, anche in questo caso, nulla di fatto. Ha dovuto prenderne atto lo stesso ministro Carlo Nordio, lo scorso 18 gennaio al Senato, ammettendo di aver “avviato le procedure di restituzione all’Agenzia del Demanio dei relativi compendi immobiliari”. Fa scuola a sé il caso romano. Sono 15 le caserme inutilizzate nella Capitale, 6 quelle per cui è iniziato l’iter di passaggio al Campidoglio e solo 2 quelle davvero “convertite” in 30 anni: l’ex ‘Sani’, presa in carico dalla Sapienza, e l’ex “Guido Reni”, che Roberto Guatlieri vuole trasformare nella Città della Scienza. Insomma, pare che nelle caserme ci si possa far di tutto (a Taranto vogliono costruire addirittura uno stadio del nuoto) tranne che le carceri. “Per la mia esperienza, l’unica che a Roma potrebbe ospitarne uno è la ex Cerimant, sulla Prenestina”, dice ancora Montuori, che però avverte: “Pur non cambiando la destinazione d’uso e il piano regolatore, è necessaria una conferenza dei servizi con tutti gli attori. Servono le autorizzazioni per i servizi e le utenze e la disponibilità dei territori. Senza intoppi, ci vogliono almeno 2 anni”. Esiste poi il problema del personale. Nordio al Corriere ha ribadito il progetto del governo Meloni di assumere, a stretto giro, di circa 5 mila agenti penitenziari. “Si tratta di un dato non reale, perché nello stesso periodo saranno 3.200 gli agenti pensionati”, dice Aldo Di Giacomo, segretario del Sindacato Polizia Penitenziaria, che avverte: “L’incremento di personale sarà di meno di 2 mila agenti, mentre la pianta organica manca di oltre 14 unità”. Dai dati del ministero della Giustizia si apprende che i detenuti oggi presenti nelle carceri sono 57.749: circa 6.400 detenuti in esubero oltre la capienza regolamentari, di cui 4.373 che hanno pene inferiori ai 2 anni. “Nordio non deve inventarsi nulla - insiste Di Giacomo - La soluzione? Nel 2022 ci sono stati 83 suicidi in cella, contro i 47 del 2021: serve uno stato di emergenza sulle carceri che permette di individuare subito quattro terreni edificabili, avviare le gare con procedura d’urgenza e realizzare 4 carceri da 700 posti dove piazzare, comodamente, 3 mila detenuti. Suicidi in carcere. Don Grimaldi: “Avere maggiore attenzione verso le situazioni di fragilità” di Gigliola Alfaro agensir.it, 15 agosto 2023 L’estate è un periodo particolarmente difficile che chi si trova a vivere “dentro”: caldo, sovraffollamento, solitudine. Solo negli ultimi giorni si contano tre gesti estremi. Ne parliamo con l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. Un fine settimana doloroso per le carceri italiane. Una detenuta si è lasciata morire nella sezione femminile del carcere di Torino: rifiutava cibo e acqua fin dallo scorso 22 luglio, giorno del suo arrivo in carcere dalla Sicilia, dove era avvenuto il suo processo. La donna, Susan John, 43enne, era madre di due bambini e residente a Torino. Stava scontando una pena per cui era previsto il termine nell’ottobre 2030. Sempre a Torino una giovane detenuta italiana, di 28 anni, Azzurra Campari, si è impiccata. Anche nel carcere di Rossano un uomo di 44 anni di Catanzaro è stato trovato morto e si ipotizza che si sia tolto la vita. Di questo agosto tragico in carcere parliamo con l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi. Tre morti in una manciata di giorni… Se non c’è un profondo ascolto di coloro che vivono in carcere situazioni difficili perché hanno problemi di salute, fisica o mentale, di solitudine, di abbattimento psicologico per la loro situazione personale, possono succedere drammi come quelli degli ultimi giorni. L’unica risposta che si può dare è una maggiore attenzione a coloro che hanno questi problemi. L’estate è un periodo difficile per i detenuti, ma questo è ben noto: non può essere più affrontato come un periodo di emergenza, bisogna programmare delle attività, una vicinanza particolare soprattutto nei reparti in cui si registrano le situazioni di maggiore fragilità. Dobbiamo continuamente dire questo, ricordarlo, chiedere un cambiamento su questo versante. Tragici gesti possono capitare anche in reparti in cui non si vivono particolari fragilità e apparentemente le persone stanno fisicamente bene: non possiamo mai sapere qual è stato l’ultimo pensiero che ha portato il suicida alla sua drammatica e terribile decisione. Perché abbiamo tanti suicidi? Non possiamo nascondere che con i tagli effettuati il personale nei penitenziari è dimezzato. Quando ci sono maggiori fragilità psicologiche in carcere l’aspetto sanitario andrebbe maggiormente rafforzato. Il taglio di tante risorse nelle carceri, invece, non ha favorito una presenza più forte di educatori e di medici e tutto ciò influisce sulle situazioni tragiche che si stanno effettuato in questo periodo nei penitenziari italiani. Se pensiamo alla vicenda drammatica della detenuta di origini nigeriane che ha smesso di mangiare e bere probabilmente poteva essere evitata se ci fosse stato un maggiore supporto, una maggiore attenzione, se questa donna fosse stata ricoverata in ospedale. È stato un caso che poteva essere affrontato ed essere seguito diversamente. Ma non stiamo qui a colpevolizzare nessuno, perché quando avvengono tali tragedie facilmente le colpe ricadono o sull’uno o sull’altro, ma la realtà delle carceri è difficile e la viviamo quotidianamente sotto i nostri occhi. Sicuramente l’estate è un periodo particolarmente duro per i detenuti e si possono verificare, purtroppo, gesti estremi, ma il carcere ha bisogno di uno sguardo e di un’attenzione tutto l’anno. C’è una situazione generalizzata di sofferenza? La realtà delle nostre carceri ha bisogno di essere affrontata con maggiore competenza e con maggiore responsabilità. Gli operatori che lavorano in carcere fanno del loro meglio, la Polizia penitenziaria fa tutto quello che è possibile fare, anche loro, mi si passi l’espressione, sono “prigionieri” come gli altri, per questo il mondo carcerario ha bisogno di essere aiutato, a partire dal problema del sovraffollamento, che è sulla bocca di tutti ma ancora non è stato risolto. Infatti, il sovraffollamento non aiuta a gestire bene la realtà delle nostre carceri, perché il personale è poco e le difficoltà sono molte. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio è andato in visita nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, dopo la morte delle due donne, e in quell’occasione ha parlato di “detenzione differenziata” tra “i detenuti molto pericolosi e quelli di modestissima pericolosità sociale” e di “una situazione intermedia che può essere risolta con l’utilizzo di molte caserme dismesse e che hanno spazi meno afflittivi”. Che ne pensa? Questa potrebbe essere una delle soluzioni. Infatti, non possiamo pensare di offrire lo stesso sguardo sia per detenuti di alta sicurezza o del 41 bis sia per altri detenuti che hanno delle fragilità e che hanno commesso reati meno gravi, a volte condannati per cose futili. Il sovraffollamento potrebbe essere superato anche ripensando quali sono i veri crimini da considerare per la detenzione in carcere. Per reati lievi potrebbero essere ipotizzate soluzioni diverse come comunità, case di accoglienza, che potrebbero essere supportate come un cammino parallelo con il carcere. Dunque, la differenziazione potrebbe essere una delle soluzioni per risolvere problemi oramai atavici delle nostre carceri. Sempre a Torino Nordio ha parlato della necessità di “garantire l’umanità del detenuto e il trattamento rieducativo”… Davanti alle tante difficoltà e a questi episodi tragici, a volte anche gli operatori si sentono scoraggiati e sconfitti, molte volte mettono tutte le loro forze ma hanno l’impressione di combattere contro i mulini a vento senza portare frutto. Per questo, c’è bisogno che i nostri istituti siano rivisti. Ci sono carceri con una lunga storia, ma come si evolve il mondo fuori, così anche dentro c’è necessità di cambiamenti. E questo lo capiamo anche se ci confrontiamo con altre carceri europee. Allarme carceri, il sottosegretario Delmastro: “Più soldi e più agenti” di Giuseppe China Il Tempo, 15 agosto 2023 Dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane si sono suicidate 47 persone. Gli ultimi tre casi in ordine cronologico - due donne nella sezione femminile della casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino e un uomo a Rossano (Cosenza) sono alla base dell’acceso dibattito politico e non solo. Sottosegretario Andrea Delmastro alla luce dei recenti casi di cronaca quanto è allarmante la situazione delle carceri nel Paese? “È indubbio che questi tragici eventi ci impongono un supplemento di riflessione. Da una parte abbiamo il problema del sovraffollamento carcerario al quale abbiamo destinato 84 milioni di euro che serviranno per costruire otto nuovi padiglioni di edilizia penitenziaria. Dall’altra c’è il tema discorso della carenza di organico della polizia penitenziaria. A tal proposito stiamo correndo ai ripari: il 2 agosto scorso sono stati inseriti negli istituti di pena 1.479 nuovi allievi e agenti di polizia del 181esimo corso, poi due cicli per il reclutamento di altri 3.471 poliziotti sono già stati finanziati. Inoltre scorreremo le graduatorie per 300 nuovi agenti. È faticoso invertire il trend, ma lo stiamo facendo con delle risorse che non erano mai state messe in campo. Posso aggiungere una cosa?”. Prego... “Il sovraffollamento non si affronta solo con l’edilizia penitenziaria o con le assunzioni degli agenti. Non nascondo che sto parlando con il mondo delle comunità terapeutiche per immaginare una misura ad hoc per i detenuti tossicodipendenti che rappresentano circa un terzo della popolazione carceraria. Per loro la vera forma di reinserimento nella società non può non passare dalla disintossicazione. Molto spesso questo tipo di detenuto è in galera per reati “minori”, quindi è possibile immaginare un percorso su base volontaria per chi voglia scontare la pena in comunità. L’attuale normativa prevede che in caso di sentenza di condanna, anche per un vecchio reato, il soggetto tossicodipendente torni in carcere e presenti in un’istanza per accedere nuovamente alla comunità. Spesso quando questo tipo di percorso viene interrotto il detenuto ripiomba nella sciagura della droga. Tale modello può essere superato”. Quanto incidono i reclusi stranieri nel nostro sistema? “Sono anch’essi una parte consistente delle persone che scontano una pena nelle carceri italiane. Infatti stiamo lavorando con chi ha accordi bilaterali con l’Italia per rendere più veloci e snelle le espulsioni degli stranieri socialmente pericolosi. Inoltre non sono da escludere intese sulla gestione dei flussi per il lavoro nel nostro Paese con nazioni in grado di sottoscrivere e rispettare i patti sull’esecuzione penale in patria dei soggetti colpevoli. Infine non dobbiamo dimenticare che all’interno del cosiddetto Piano Mattei per l’Africa un ruolo chiave è affidato alla cooperazione. Quest’ultima in passato si basava quasi esclusivamente su fattori culturali, noi invece crediamo che possa concretizzarsi anche nella creazione di infrastrutture nel continente africano. Dunque potrebbero essere costruite delle case circondariali, con parametri e criteri occidentali, dove dare esecuzione alle pene”. Una nuova amnistia è da escludere come alternativa? “Assolutamente sì. Non è all’ordine del giorno perché siamo contrari all’amnistia e a qualsiasi provvedimento svuota carceri che rappresentano una resa dello Stato che così certificherebbe di non essere più in grado di far rispettare le sentenze di condanna”. Il capitolo della riforma della giustizia è molto delicato. Lo scontro con l’Anm su intercettazioni, separazione delle carriere e prescrizione è alla luce del sole... “Sulle intercettazioni mi sono sgolato per mesi a dire che il governo non ha mai voluto ridurne il perimetro e l’uso, ma colpire chirurgicamente l’abuso. Per molto tempo un utilizzo distorto delle intercettazioni ha alimentato il cortocircuito mediatico procure-giornali. Su questo siamo intervenuti, ma non ridurremo mai la capacità di uno strumento essenziale per la ricerca delle prove. La separazione delle carriere, invece, è un obiettivo storico del centrodestra e di legislatura che realizza veramente il giusto processo previsto dall’articolo 111 della Costituzione. Per quanto riguarda la prescrizione con la riforma dell’ex Guardasigilli Marta Cartabia, a causa di una mediazione al ribasso, sono riusciti a creare un mostro processuale che non ha pari in Europa: per cui in primo grado non c’è prescrizione, nel secondo vige quella processuale cioè l’improcedibilità”. Dunque cosa farete? “Torneremo alla legge Orlando con qualche aggiustamento per avere una prescrizione sostanziale per cui, a seconda della gravità del reato, ci sarà il tempo di arrivare a sentenza definitiva”. Il caso dell’intervista della Verità alla pm di Rovereto Viviana Del Tedesco ha creato più di un imbarazzo nel mondo delle toghe... “Senza entrare nel merito della questione e delle indagini non esito a catalogare le sue parole come agghiaccianti. Definire “poveretto” e “modello per i giovani universitari” una persona che ha quell’elenco di reati alle spalle mi lascia perplesso. Chi viene trovato con 56 dosi di eroina e poi uccide una signora di 61 anni (la signora Iris Setti, ndr) per me può essere chiamato solo con una parola: criminale”. Nordio studia di riaprire i piccoli tribunali di Massimo Carugno* Il Riformista, 15 agosto 2023 È notizia di questi giorni che dalle parti di Via Arenula sarebbe allo studio un concreto provvedimento per rivedere il già tristemente noto decreto Severino che, sotto il governo Monti, revisionò la geografia giudiziaria sopprimendo, con quella che l’allora Ministro Paola Severino e il Presidente del Consiglio Mario Monti definirono una svolta epocale, 37 tribunali e 220 sezioni distaccate, uffici giudiziari impropriamente definiti minori. Sulla genesi e la natura di quella triste operazione di “polizia giurisdizionale” mi sono già espresso proprio da queste colonne il 31 marzo scorso, e quindi non mi dilungo oltre. Quello che qui preme sottolineare invece è il diverso spirito, che sembra animare Nordio e il sottosegretario, pare proprio con delega alla materia, Andrea Del Mastro Delle Vedove, volto a interpretare la giustizia come servizio e non più come azienda e quindi, depurata da tutte le menate riguardo a produttività per numero di cause, economicità degli uffici, e compagnia cantante, riordinarla nel senso di maggiore vicinanza al cittadino. Sembra di fare un bellissimo balzo indietro e di essere tornati ai tempi della Costituente quando fu scritto l’art.5 della Costituzione che recita che la Repubblica “attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo”. Altri tempi. Una norma tra l’altro voluta proprio dalla componente socialista della Assemblea. Ovviamente a queste indiscrezioni che hanno fatto il giro dell’Italia, specie nei territori che subirono il provvedimento di soppressione, si sono scatenate le reazioni, molte positive, ma anche diverse negative. Quest’ultime, tutte di matrice giustizialista, si sono equamente divise tra alcuni giornali, che sono di fatto organi ufficiali del partito delle toghe, e personaggi provenienti proprio dal mondo dei giudici. Del resto è stato appena in primavera che giudici come Edmondo Bruti Liberati o Nicola Gratteri tuonarono contro gli spifferi di riapertura dei tribunali sostenendo non solo che non dovevano essere riaperti ma addirittura che ne dovevano venire soppressi altri. Vien da ridere a sentire queste parole proprio da chi pensa che tutto, in una nazione, debba fondarsi sulla giustizia e poi propugna la soppressione dei tribunali riducendo i presidi di legalità sul territorio. Ma dietro queste parole c’è il disegno della magistratura che, coprendosi dietro l’accattivante concetto della “specializzazione”, vuole solo garantirsi di lavorare meno e più comodamente. Il problema per loro è evitare di passare da un settore all’altro della nobile materia del diritto. Insomma il problema è evitare che un solo giudice oggi faccia il Gip, domani i divorzi e dopodomani i pignoramenti immobiliari. Questo cambio continuo di materie è, secondo loro, robaccia da avvocati e non una palestra ove cimentarsi in esperienze nuove ed allargare il proprio scibile giuridico. Non è una opportunità formativa ma piuttosto un faticoso fastidio a cui dare rimedio. Ed è venuto fuori il concetto tutto particolare di efficienza legata ovviamente a quello di specializzazione. Si è pensato quindi che i tribunali ideali fossero quelli composti da un numero tale di giudici (oltre una trentina) da permettere a ognuno di essi di dedicarsi ad un pezzettino della scienza giuridica e pronunciare ed emettere sentenze con i container (tanto sarebbero state tutte le stesse: solo da cambiare, con il copia/incolla, i nomi delle parti) e fare quello per tutta la vita. Insomma la famosa riforma Severino, figlia della legge Nitto Palma, ministro del Governo Berlusconi non fu altro che un atto di ossequio alle esigenze, forse è meglio dire i capricci, dei magistrati e affatto un intervento per migliorare l’efficienza della giustizia. E fa niente se una tale riforma ha creato solo delle megalopoli giudiziarie che hanno investito il cittadino con una agilità elefantiaca, fa niente se sono state create delle cattedrali nel deserto distanti mille miglia dal paese reale, fa niente se un povero sventurato, per muoversi all’interno di tali alveari di giudici e cancellieri, ha avuto bisogno del navigatore e del GPS, fa niente se interi territori della penisola sono rimasti sguarniti di presidi giudiziari ancorché fossero all’interno, o adiacenti, a zone ad alta densità criminale, fa niente se aree che ospitano carceri importanti e ad alta sicurezza, si sono trovate all’improvviso sguarnite di uffici giudiziari esponendosi ai rischi di lunghi e pericolosi trasferimenti per permettere a temutissimi detenuti di partecipare alle udienze, fa niente se i cittadini sono stati costretti a percorrere centinaia di chilometri, magari in inverno pure sotto la neve, per andare a ritirare un certificato penale o a rinunciare a una eredità. Fa niente infine che tutto ciò è un crogiuolo di tali e tante illogicità da far restare basiti. E in questa fiera dell’assurdo, attraverso la tecnocrazia operativa, rappresentata tutta da magistrati, distaccati ai posti chiavi e dirigenziali del Ministero di Giustizia dalle loro sedi e funzioni, i giudici si sono inseriti come un braccio armato di una setta segreta (sì proprio come il Priorato di Sion di Dan Brown) a fare gli interessi e i desiderata della loro corporazione. E se tanto mi dà tanto dalle parti dell’ufficio di Nordio sarà guerra se davvero procederanno in quelle che sembrano essere le loro intenzioni. E poi c’è un’ultima considerazione da fare che resta d’attualità ancora oggi: alcuni studi, come quello condotto da un noto giornale finanziario, destinati a monitorare la efficacia del provvedimento, bocciarono la riforma stimando tra quelli più efficienti d’Italia proprio quei tribunali la cui soppressione era in corso, mentre tra i più inefficienti vi erano quelli che avevano accorpato i territori dei soppressi. Quindi anche sotto il profilo dell’efficienza quel decreto adottato dalla Severino e voluto dai giudici si è rivelato fallimentare. La chiamano “giustizia di prossimità”, i giudici, con toni sprezzanti, per cercare di sminuirne la portata e demolirne il senso e il richiamo all’azzeccagarbugli di manzoniana memoria è evidente. Ma non è vero, è giustizia vicina ai cittadini e ai territori, è giustizia funzionale e decongestionata, è giustizia accessibile e poco costosa. È giustizia di civiltà. *Avvocato e scrittore Parla Carbone: “Riformiamo insieme la giustizia” di Giovanni M. Jacobazzi Il Riformista, 15 agosto 2023 Ernesto Carbone, laico del Csm: “La separazione delle carriere fra pm e giudici è un finto problema. La separazione ci deve essere fra magistrati bravi e magistrati meno bravi”, afferma l’avvocato Ernesto Carbone, dallo scorso febbraio componente laico del Consiglio superiore della magistratura. Consigliere Carbone, la sua è una provocazione? “Per nulla. Prendiamo ad esempio un paio di sentenze che hanno fanno discutere l’opinione pubblica nelle ultime settimane. Come dovrebbe essere giudicato il magistrato del Tribunale di Roma secondo il quale se un uomo ‘palpeggia’ una donna per meno di dieci secondi va tutto bene e non c’è violenza? O quello di Firenze che ha spento il wi-fi nelle scuole sostenendo che fa male alla salute ed ha affermato che i vaccini, dopo aver salvato milioni di vite umane, sono pericolosi? La prego, siamo seri”. È favorevole alla responsabilità civile dei magistrati? “Io penso che chi sbaglia debba pagare ma che non dobbiamo farci trascinare in una sorta di terrore bianco in risposta al giacobinismo di alcuni pm. Sono favorevole ad una responsabilità ‘attenuata’ rispetto agli altri funzionari pubblici. Il magistrato è detentore di uno dei tre poteri dello Stato e deve essere sereno nello svolgimento del proprio lavoro, quanto mai difficile e complesso. Certamente, se l’errore è grossolano e reiterato deve essere sanzionato. Ma soprattutto sanzionato in fretta. Il tema, però, è un altro”. Quale? “Un pm che vede cento inchieste finire nel novantanove percento dei casi con una assoluzione o, addirittura, con una archiviazione già nella fase delle indagini preliminari è un problema per il sistema giustizia. Significa che quel magistrato non lavora bene e va dietro a teoremi che non hanno alcun fondamento. Bisogna pur avere il coraggio di dirlo. Non si può continuare a far finta di nulla. Ci si dimentica che una indagine costa centinaia di migliaia di euro di soldi dei contribuenti. Pensiamo soltanto all’attività che viene delegata dai pm alle forze di polizia. Ci sono intercettazioni che durano mesi e mesi e poi non portano a nulla. E se vengono fatte intercettazioni in maniera abusiva nei confronti di un parlamentare che poi non potranno essere utilizzate chi pagherà il conto? È indispensabile procedere con dei correttivi”. A cosa ha pensato? “Prima di fare il pm bisogna aver fatto per almeno cinque anni il giudice, magari anche in collegio. Oppure, meglio ancora, il gip che è un pilastro del nostro processo penale. Bisogna pensare a come normare questi scambi fra giudicante e requirente. Nessuna separazione delle carriere ma ‘commistione’ delle carriere, se mi passa il termine”. Un bilancio di questi primi mesi al Csm? “Credo che il Consiglio stia lavorando molto bene. Un po’ per colpa del covid, un po’ per mesi e mesi di prorogatio di chi ci ha preceduto, abbiamo trovato un enorme arretrato. Faccio parte della Commissione per gli incarichi direttivi e stiamo imprimendo una grande accelerazione ai lavori. C’erano pratiche incagliate da tantissimo tempo e uffici senza un capo da anni. Noi siamo anche quelli che hanno rinunciato alla ‘settimana bianca’ (ultima settimana del mese in cui i lavori al Csm sono sospesi, ndr) su richiesta del vice presidente Fabio Pinelli per smaltire l’arretrato”. Argomento incandescente: le correnti in magistratura. Male assoluto? “Le correnti esistono perché esiste l’Associazione nazionale magistrati, il sindacato unico delle toghe a cui è iscritto il novanta percento di esse. E mi creda, non voglio fare polemiche. Anzi. Io non mi scandalizzo se il presidente dell’Anm o di una delle correnti che la compongono interviene su un provvedimento del governo: è normale dialettica fra poteri dello Stato. In tale ottica, però, un politico deve essere legittimato a criticare una sentenza o l’operato di un magistrato. L’importante è che non ci sia confusione fra poteri. Il magistrato è chiamato ad applicare le leggi ed il Parlamento ha il compito di scriverle. Punto”. E la lottizzazione all’interno del Csm? “Il sistema elettorale dei togati del Csm obbliga i magistrati ad organizzarsi per essere eletti. L’alternativa sarebbe il sorteggio, soluzione apparentemente risolutoria alla quale sono contrario. Discutiamo pure eventualmente di sistemi elettorali, maggioritario o proporzionale, ma certamente non il sorteggio. Il Csm, oltre ad essere un organo di rilevanza costituzionale, è pur sempre l’organo di auto governo della magistratura e trovo giusto che siano i magistrati a sceglierne i membri e quindi i loro rappresentanti. Per fare un paragone sarebbe come se uno dicesse che il Parlamento non lavora bene, presenta criticità, e quindi come miglior rimedio proponesse di estrarre a sorte tra gli italiani chi debba sedersi in Senato o alla Camera”. Torniamo alle correnti… “Sì. Se le correnti sono forti e rappresentano - veramente - tutta la magistratura sono un bene. L’eccessivo potere di alcuni magistrati in questi anni è stato dovuto non alle correnti ma alla loro debolezza. A me cittadino piace sapere chi ho di fronte. Sensibilità culturali diverse fra i magistrati sono un fatto positivo ma sempre nel rispetto della legge che non deve essere piegata per interessi di parte”. Non cambierebbe nulla? “Se gli accordi vengono fatti con una logica meritocratica, personalmente non ci trovo nulla di sbagliato. In Plenum siamo trentadue e se io ritengo che il dottor Rossi sia più adatto a ricoprire un determinato rispetto al dottor Bianchi proverò a convincere i miei colleghi della bontà di questa scelta. E la volta successiva sarà il mio collega, laico o togato che sia, a persuadermi della sua. Cosa ben diversa sono gli accordi fatti solo per appartenenza correntizia. Quelli sono la mortificazione della magistratura”. Ha visto le polemiche sul voto del vicepresidente Pinelli per il procuratore di Firenze? “Come ha detto l’amico consigliere Roberto Romboli, docente di diritto costituzionale, il vicepresidente è espressione del Parlamento: votare non è un suo diritto, ma un suo dovere. A volte la stampa, per fare dietrologia, fa finta di non capire o non riporta le notizie in modo completo. Sulla scelta del procuratore di Firenze c’erano più proposte e alla fine ha vinto il dottor Filippo Spezia per un voto di scarto. Nessuno ha scritto che il giorno dopo, il dottor Ettore Squillace Greco, l’altro candidato, era stato votato all’unanimità procuratore generale di Firenze. Un incarico ancora più importante, dovendo sovraintendere a tutte le attività inquirenti del distretto e con la possibilità di avocare le indagini nei casi previsti dalla legge. Sono entrambe scelte legittime del Plenum e non ci vedo nulla di scandaloso”. Anche questo Consiglio è alle prese con le mitiche chat di Luca Palamara... “Ma lasciamocele alle spalle una volta per tutte queste chat! Non mi fanno appassionare, lo dico senza problemi. Premesso che risalgono al biennio 2017-18, sono state lette e rilette mille volte con discussioni interminabili durate settimane intere. Alcune di queste chat sono finite in Procura e ci sono inchieste in corso, altre sono finite invece alla sezione disciplinare e sono state valutate dai miei colleghi. Continuare quindi dopo tutti questi anni a discutere delle chat fa male solo alla magistratura, non a Palamara. E posso dirlo io che questo signore non l’ho mai visto e né incontrato in vita mia”. Le chat, però, sono state micidiali per il dottor Emilio Sirianni, non confermato nell’incarico di presidente di sezione a Catanzaro... “È un caso molto diverso. Sirianni parlava con un indagato poi condannato a 13 anni e 2 mesi di prigione, l’allora sindaco di Riace Mimmo Lucano, e soprattutto attaccava i carabinieri ed il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Tralasciando il linguaggio colorito, per usure un eufemismo, non si può definire “fascista” e “sbirro” chi quotidianamente in quella regione martoriata sacrifica e rischia la propria vita per la giustizia”. È favorevole all’eliminazione del reato di abuso d’ufficio? “Abolirlo? Non lo so, spetta al Parlamento. Rimane comunque il fatto che le assoluzioni superano il novantanove percento dei casi (su 5.000 procedimenti, 9 condanne). Andrebbe sicuramente riscritto e meglio tipizzato per evitare dubbi interpretativi che possano lasciare ampio margine di discrezionalità. Evitiamo `abusi’ dell’abuso d’ufficio”. Si parla sempre di reati… “Ecco, appunto. Siamo troppo concentrati sul processo penale. A me farebbe piacerebbe che si potesse discutere anche di giustizia civile. Ma sa quanti investimenti perdiamo per i processi civili troppo lunghi? Il cittadino non può aspettare anni e anni per un suo diritto. Penso al settore fallimentare dove sono in ballo posti di lavoro. E poi riflettiamo anche sul carico enorme che hanno i magistrati in Cassazione. Sarebbe interessante affrontare ogni tanto questi temi e non solo quelli che riguardano le Procure della Repubblica”. Cosa fare nell’immediato? “Ad esempio, con la riforma Cartabia alcune competenze riservate ai giudici sono state deferite ai notai. Mi riferisco alle autorizzazioni al compimento degli atti negoziali di minori e incapaci rilasciate in sede di volontaria giurisdizione, prima riservate in via esclusiva al giudice tutelare. Ciò è sensato se pensiamo che poi sarà il notaio a stipulare l’atto. La riforma sta funzionando egregiamente, alleggerendo il pesante carico di lavoro della magistratura. Lo stesso si potrebbe fare allora con tutti i provvedimenti di volontaria giurisdizione, così come con le omologhe per gli accordi in sede di separazione e divorzio. Oggi l’accordo tra i coniugi, per divenire efficace e vincolante, necessita dell’omologa del giudice. Il notaio, in quanto pubblico ufficiale, si trova in una posizione di terzietà ed esercita un potere dello Stato e già svolge analoghe funzioni in altri ambiti. Può dunque assolvere a tali compiti adesso riservati in via esclusiva alla magistratura. Si ridurrebbero i tempi di procedimento in quanto si salterebbe il passaggio davanti giudice che potrebbe in questo modo dedicarsi ad altre attività”. Veneto. L’allarme suicidi e le nuove carceri nelle ex caserme. “Un piano arduo” di Roberta Polese Corriere del Veneto, 15 agosto 2023 “L’unica strada è il riadattamento delle caserme”. Le parole del ministro della Giustizia Carlo Nordio pronunciate nelle carceri di Torino dove due detenute si sono tolte la vita, potrebbero trovare un seguito già nei prossimi giorni. La prossima settimana inizieranno i sopralluoghi nelle caserme dismesse per individuare quelle più adatte ad ospitare detenuti a fine pena. L’obiettivo è infatti decongestionare le carceri sovraffollate e spostare nel patrimonio demaniale della Difesa chi sta arrivando a fine pena. In Veneto le caserme che rientrano tra gli immobili disponibili per essere affidati in concessione ci sono la Miraglia, isola di Sant’Andrea a Venezia, e la caserma Trainotti di Verona. Dello stabile lagunare si è parlato di una possibile ristrutturazione in vista della costruzione di un resort, ma non se ne è più fatto niente. La caserma di Verona invece fa parte di un più ampio piano di valorizzazione che prevede la realizzazione di uno studentato con 199 posti. A Padova ci sarebbe la caserma Romagnoli, che però è stata destinata al Comune di Padova ad uso commerciale. Tutto questo nella teoria. Nella pratica, secondo gli addetti ai lavori la strada del ministro è impraticabile. “Nordio non sa di cosa parla” è il commento unanime dei sindacati Cgil e Uspp, oltre che gli operatori volontari. Ma prima di tutto i numeri: in Veneto ci sono nove carceri con 2.435 detenuti, la capienza è di 1.947 posti. Dal luglio del 2022 a oggi ci sono stati sette suicidi (dati di Ristretti Orizzonti), tutti detenuti che si sono impiccati, l’ultimo a Venezia, si è soffocato ingerendo un tappo di sughero. Altri tre detenuti sono morti per cause da accertare, s’indaga per sospette overdose. La situazione peggiore si registra alla casa circondariale di Treviso che ha un sovraffollamento del 154% (dati Cgil), subito dietro c’è il carcere di Montorio che ospita il 153% in più di detenuti rispetto alla capienza, segue la casa di reclusione di Padova (Due Palazzi) che è al 142% segue la circondariale “Santa Maria Maggiore” di Venezia piena al 140%, e poi Vicenza (131%). Se sui suicidi ci sono dei dati certi, i tentati suicidi non vengono segnalati, ma gli addetti ai lavori ne rilevano a decine. Soprattutto d’estate, per il caldo soffocante, e perché in questo periodo non ci sono attività che tengano impegnati i detenuti. “Ho la sensazione che il ministro Nordio, che pure vorrei incontrare, non sappia di che cosa parla - spiega Leonardo Angiulli del coordinamento triveneto del sindacato Uspp - chi andrebbe a controllare i carcerati nelle caserme? lo sa il ministro che siamo in sottorganico e non facciamo solo i poliziotti ma anche gli infermieri? abbiamo detenuti tossicodipendenti, malati psichiatrici, la chiusura degli Opg, poi è ricaduta su di noi”. “Detenuti nelle caserme? follia - tuona Giampietro Pegoraro della Cgil - abbiamo il carcere di Vicenza invaso dai topi, quello a di Rovigo ospita la manovalanza della criminalità organizzata senza essere classificato come carcere di massima sicurezza, la polizia penitenziaria è in sotto-organico... la soluzione è far uscire prima i detenuti a fine pena, non metterli nelle caserme”. “Chi è in carcere si sente abbandonato - dice Antonio Binocoletto, Garante dei detenuti di Padova - e c’è un uso massiccio di psicofarmaci per tenere a bada il disagio, a Padova almeno un quarto dei detenuti lavora, questo è l’unico modo per aiutarli a superare i momenti di depressione”. E poi c’è il lavoro immenso dei volontari. Come Ristretti Orizzonti che si occupa della riabilitazione delle persone in carcere e che sta facendo un lavoro monumentale raccogliendo le storie dei detenuti che si tolgono la vita, perché sia chiaro a tutti che non sono numeri, ma vite. “Abbiamo ottenuto che i detenuti facciano almeno ogni giorno una telefonata alla famiglia - spiega Francesca Rapanà, dell’associazione “Granello di senape Padova” che si occupa dello sportello di orientamento giuridico - ha un significato importante, eppure ancora troppe carceri non concedono questo che non è un beneficio, è un atto di civiltà, altro che caserme”. Lombardia. “Nelle carceri uso improprio della forza, manette ai detenuti per contenerli” di Rosario Di Raimondo, Massimo Pisa La Repubblica, 15 agosto 2023 A scriverlo in una circolare è il provveditore alle carceri lombarde. Le manette sarebbero state usate in diverse situazioni. L’oggetto della circolare firmata da Maria Milano, provveditore regionale alle carceri, non lascia spazio a interpretazioni: “Impiego della forza fisica e uso dei mezzi di coercizione”. Il testo è una bacchettata “ai Signori Direttori degli Ii.Pp.”, diciotto in totale: “Dalla lettura di eventi critici recentemente occorsi e descritti nell’apposito applicativo - si legge - è emerso, in talune circostanze, un utilizzo improprio dei mezzi di coercizione fisica. In particolare, è stato rilevato l’uso delle manette all’interno delle sezioni detentive per contenere gli agiti auto ed etero aggressivi posti in essere dai detenuti”. A estremi rimedi, ricorda l’articolo 41 dell’ordinamento, si può ricorrere “a fini disciplinari ma solo al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire l’incolumità dello stesso soggetto”. E, aggiunge il provveditore, “l’uso deve essere limitato al tempo strettamente necessario e deve essere costantemente controllato dal sanitario”. Manette in cella. Per punire e per tenere a bada. La nota nasce dall’esigenza di rimarcare il rispetto delle regole in contesti delicati e purtroppo frequenti, quando ci si trova davanti a comportamenti aggressivi dei detenuti verso se stessi o gli altri. Situazioni difficili e per questo inserite in un perimetro di norme che, evidentemente, è stato superato. Ma è una vicenda “significativa di un clima di grande ed inutile sofferenza del sistema penitenziario che non attenua le criticità”, come ricorda il garante dei detenuti milanesi, Francesco Maisto, che già ieri aveva affidato a Repubblica la sua analisi delle criticità del sistema carcerario. “Sono necessarie direttive e orientamenti immediati”, conclude. Il testo della circolare “mi sembra sintomatico di un’atmosfera di tensioni interne - sottolinea l’avvocata Valentina Alberta, presidente della Camera penale -. C’è un fortissimo disagio fra i detenuti e non credo debba essere affrontato attraverso strumenti coercitivi. A volte sono necessari, e per questo ci sono norme e limiti, ma in questa fase servono più che altro ascolto, presa in carico, risposte alle esigenze delle persone detenute”. Eccessi nient’affatto nuovi: “Mi è capitato più volte di avere dubbi rispetto a situazioni che mi venivano raccontate in modo edulcorato - ribadisce Alberta Se qualcuno non si comporta come deve, va individuato e punito. Anche noi, come avvocati, dobbiamo stare attenti. Non possiamo fare finta di niente”. Allarga l’orizzonte Daniele Nahum, presidente della sottocommissione carceri di Palazzo Marino: “Meno male che il provveditore svolge il suo ruolo in maniera esemplare. La Lombardia, con la Puglia, ha il più alto tasso di sovraffollamento in Italia, per cui tutto il pianeta carceri è sotto stress. Serve una terapia shock. Non costruire nuove carceri ma pensare a strumenti come l’indulto o l’amnistia”. Da applicare “ai 20-30 mila detenuti che hanno residui di pena da uno a tre anni, che dovrebbero scontare fuori dagli istituti, in particolare per i reati più lievi”. E poi a tossicomani e soggetti psichiatrici, “che non dovrebbero scontare la pena in carcere come invece accade”. Torino. Perché nessuno sapeva di Susan, e perché Azzurra era in carcere? di Marina Iadanza* Il Dubbio, 15 agosto 2023 Un anno fa, dopo il record di suicidi in carcere, ci stavamo organizzando per lo sciopero della fame a staffetta con Rita Bernardini. Oggi è peggiorato tutto e quell’appello è caduto nel vuoto. Un anno fa, a seguito dei molti suicidi, ci stavamo organizzando per lo sciopero della fame a staffetta, affiancando l’iniziativa di Rita Bernardini che dichiarò lo sciopero della fame per provare a scuotere la politica e si trovassero soluzioni deflattive. Era un’iniziativa per scuotere “tutta” la politica. Sinistra e Destra sul tema carcere si equivalgono. A oggi le cose sono peggiorate quell’appello è caduto nel vuoto. In questa estate tre donne hanno scelto di farla finita in carcere a Torino, se in una sezione in cui le donne sono attive e la Sovrintendente che se ne occupa è una donna che brilla per la Sua umanità e responsabilità accade ciò, significa che la realtà è solo sofferenza e neppure quei barlumi di sensibilità possono lenirla. Continuo a chiedermi perché nessuno al di fuori di quelle mura abbia saputo di Susan, che è morta dando in pegno il suo corpo chiedendo di vedere il figlio e perché nonostante il pregresso Azzurra non fosse in cura, ma in carcere. Continuo a chiedermi perché si chiami sezione di osservazione della salute mentale una cella spoglia, in cui queste donne vengono e osservate dalle poliziotte che però hanno una formazione militare. Allora prima si metta un presidio fisso con personale medico competente e figure specializzate poi gli si dia il nome di articolazione sanitaria o nomi simili. Il carcere non cura, aggrava, fino ad annientare chi non ha forza e strumenti. La tanto annoverata” certezza della pena” con cui si pensa di rendere sicure le città, sta diventando morte per pena: morte fisica, dell’anima; e del diritto. A seguito di questi suicidi il ministro Nordio è giunto a Torino a portare la Sua solidarietà al personale, è andato velocemente a veder la sezione, ma date le Sue dichiarazioni mi sa che non ha visto bene e che il Suo cuore non sia stato toccato dalle urla e dalla disperazione della contestazione dei miei compagni ammassati nei blocchi. L’emergenza carcere è perenne da anni, Nordio è ministro da poco ma le Sue considerazioni sono state fuori luogo e ciniche: la mente umana è insondabile riferendosi ad una donna morta che chiedeva del figlio, ma che significa? Parlare di caserme? Le carceri non vanno moltiplicate vanno svuotate di tutti quei poveri cristi che le occupano e di sicuro non rappresentano un pericolo. Servono misure urgenti per spezzare la catena di morti, suicidi, violenze, le soluzioni a costo zero ci sarebbero ma chi governa o ha governato non le considera è più semplice servirsi delle galere come discariche sociale ove far marcire ciò che le loro politiche hanno prodotto. Prima che sia troppo mi auguro che governo e opposizione si rendano conto, si prenda in considerazione la liberazione anticipata speciale e la proposta di legge di Giachetti e Nessuno Tocchi Caino. Mi auguro che non servano altre tragedie perché nei confronti degli ultimi la politica si umanizzi. *Ex detenuta de “Le ragazze di Torino” Torino. Susan, l’autopsia non rivela segni di disidratazione. Ora si indaga sull’assistenza di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 15 agosto 2023 Il Garante nazionale dei detenuti valuta di costituirsi parte civile. Non c’è nessun segno evidente di disidratazione sul corpo di Susan, la 42enne nigeriana morta venerdì notte nella sua cella del carcere Lorusso e Cutugno. Eppure, l’arresto cardiaco sarebbe da addebitare a uno squilibrio elettrolitico: cioè, una carenza di liquidi. L’autopsia, però, non scioglie del tutto i dubbi sulle ultime ore di vita della donna, che da oltre 20 giorni - da quando era entrata in carcere - aveva smesso di mangiare e bere sopraffatta dalla sofferenza di non incontrare il figlio di 3 anni. L’inedia sembrerebbe averla uccisa, ma il suo corpo potrebbe rivelare altri retroscena. Al momento del decesso pesava 80 chili: da un punto di vista fisico non appariva affatto denutrita, considerando che era alta circa un metro e settanta centimetri. Inoltre, non c’erano segnali inconfutabili di disidratazione. Bisognerà attendere l’esito degli esami istologici per avere un quadro completo. Nessuna incertezza, invece, sulla morte di Azzurra: confermato il decesso per asfissia. Le inchieste della Procura di Torino (s’indaga per istigazione al suicidio) sono all’inizio. I magistrati - Delia Boschetto, Chiara Canepa e Mario Bendoni - stanno acquisendo le relazioni degli operatori e dei sanitari del carcere. Non solo, si sta lavorando per ricostruire il quadro clinico e psicologico delle due donne. Il punto è capire se si potesse fare di più per aiutarle e se ci siamo state negligenze in termini di assistenza. Azzurra, 28 anni, aveva già tentato il suicidio in passato. Per questo lo scorso 29 luglio era stata trasferita dal carcere di Genova a Torino e ricoverata nell’Astm (Articolazione per la tutela mentale). È il reparto più sicuro della sezione femminile: stanze singole, telecamere, monitoraggio costante e controlli medici due volte al giorno. Al suo arrivo, la giovane era stata sottoposta a un livello di sorveglianza “alto”. Poi era passata a “medio” con una compagna di cella (in gergo definita “peer supporter”). Dei due episodi si sta interessando anche il garante nazionale dei detenuti, che sta valutando di costituirsi parte civile nell’eventualità che le inchieste portino alla luce responsabilità. E anche la Camera penale Vittorio Chiusano sta seguendo con attenzione gli sviluppi della vicenda. Il carcere, con tutte le sue problematiche e criticità, è sotto i riflettori. E persino il maltempo sembra accanirsi. Il nubifragio che si è abbattuto domenica sera su Torino non avrebbe risparmiato il Lorusso e Cutugno: un fulmine avrebbe mandato in tilt il sistema Afis (il programma che identifica la popolazione carceraria e regola ingressi e uscite) e l’acqua avrebbe invaso il pian terreno di alcune aree comuni, tra cui quelle del blocco E (la palazzina che ospita i detenuti che sono autorizzati al lavoro e ad attività sportiva). Torino. La versione delle agenti del carcere: “Abbiamo aiutato Susan, ma lei rifiutava di bere” di Luca Monaco La Repubblica, 15 agosto 2023 “Dispiace che la gente veda solo l’evento finale, non il lavoro che c’è dietro: facciamo di tutto per risolvere i problemi delle detenute. Siamo esseri umani e queste vite pesano anche sulle nostre vite”. Marta (nome di fantasia) ha 35 anni, da un decennio presta servizio come operatrice della polizia penitenziaria nella sezione femminile del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. L’agente è ancora sconvolta per le due morti che si sono consumate quattro giorni fa nella II sezione. Marta conosceva bene sia Azzurra Campari, la 28enne di Riva Ligure trovata impiccata in cella venerdì scorso verso le 19, che Susan John, la 42enne nigeriana morta poche ore prima, dopo 20 giorni di sciopero della fame e della sete. “Dal 22 luglio, giorno del suo ingresso in carcere - afferma Marta - io e le mie colleghe siamo entrate in stanza di Susan tutti i giorni, abbiamo cercato di parlarci: lei ripeteva che non avrebbe ricominciato a bere e mangiare finché non sarebbe tornata a casa da suo figlio di tre anni appena”. L’agente prova a individuare una soluzione: “Le abbiamo ripetuto che avrebbe potuto stare con suo figlio nella Icam (l’istituto a custodia attenuata per detenute madri), ma lei ha rifiutato, voleva tornare a casa”. Marta non si dà per vinta. “Le abbiamo parlato tutti i giorni - ripete - ma non c’era verso di farla tornare a bere o a mangiare. Rifiutava le cure mediche. Il 4 agosto ha avuto un mancamento, abbiamo chiamato il 118, ma Susan ha impedito al medico di visitarla, non ha voluto andare in ospedale”. Disidrata, poche ore dopo cede ancora: “La sera è caduta dal letto - prosegue Marta - è stata portata al Maria Vittoria e anche li non si è fatta visitare. Ha preteso di essere riportata in cella”. Tutti questi episodi dovranno risultare nei verbali di intervento del 118 e del pronto soccorso. Domani verrà conferito l’incarico per l’autopsia. “Sono sconvolta per quello che è successo - sospira Marta - non riesco a farmene una ragione, vi assicuro che molte di noi vanno ben oltre le nostre competenze pur di alleggerire il più possibile il peso della detenzione” alle donne del Lorusso e Cutugno. Eppure la II sezione “è così piena di soggetti psichiatrici che non abbiamo le forze per gestirli: sono imprevedibili, hanno scatti improvvisi”. Come è stato fulmineo il gesto di Azzurra. “Appena arrivata in carcere era stata quasi una settimana in una cella video sorvegliata - ricostruisce Marta - poi la psichiatra aveva allentato le misure di controllo, era stata spostata in una sezione comune anche perché aveva bisogno di socializzare”. Azzurra non era piantonata a vista “ma non era mai sola - insiste Marta - era monitorata ogni cinque minuti da noi agenti e dalle detenute che fanno l’affiancamento. Era in una sezione ordinaria, c’erano decine di persone lì vicino, non si sono accorte di nulla”. Marta e le sue colleghe avevano parlato ogni giorno con Azzurra: “Venerdì era tranquilla - spiega - le avevamo recuperato delle sigarette, nei giorni precedenti ci eravamo prodigate per farla parlare con la madre, per informare la famiglia. Lei era tranquilla”. Ma i tanti problemi irrisolti del carcere, “fanno sì che i nostri sforzi spesso siano vani”. Torino. “In questo carcere nessun medico vuole lavorare” di Gianni Giacomino La Stampa, 15 agosto 2023 La denuncia dei Garanti dei detenuti dopo le morti di Azzurra Campari e Susan John. C’è un dato su tutti che salta all’occhio e può riassumere il disagio patito dai detenuti rinchiusi nel carcere di Torino dove, nell’ultimo mese e mezzo si sono suicidate tre donne. Nel 2015 gli interventi del 118 per soccorrere persone ristrette al Lorusso e Cutugno risultano solo 2. Lo scorso anno sono stati ben 155 su una popolazione di circa 1.400 ristretti. La punta di un iceberg in costante crescita dal 2016, come evidenzia uno studio realizzato proprio dal Servizio di Emergenza sanitaria Territoriale 118. Che non interviene solo per medicare le ferite degli agenti della polizia penitenziaria aggrediti dai reclusi, ma corre anche per curare chi tenta di farla finita, si procura lesioni o chi ha un attacco di cuore. “E all’arrivo dei medici e degli infermieri i codici di gravità sono quasi sempre confermati, anzi in alcuni casi, si sono anche trasformati in decessi - riflette amara Monica Gallo, la garante comunale delle persone detenute -. Anche i tempi di intervento delle ambulanze, dalla chiamata all’arrivo nel penitenziario, superano del doppio quelli definiti dai Livelli Essenziali di Assistenza e dalle tempistiche previste dalla normativa. È necessario trovare subito delle soluzioni per ridurre questa latenza, legata alla burocratizzazione del carcere che prevede tempi troppo lunghi di identificazione e controllo all’ingresso dell’istituto”. In questo mondo a parte dietro le sbarre, però, manca il personale, le celle sono sovraffollate e si vive in un costante stato di tensione, nell’ultimo mese e mezzo si sono uccise tre detenute. Azzurra Campari, 28 anni, si è impiccata; Susan John, 43 anni, si è lasciata morire di fame e di sete, rifiutando cibo e cure per diciotto giorni, Graziana Orlarey, 52 anni, si è uccisa in cella a giugno. Le prime due erano recluse in quell’area destinata a chi ha fragilità psichiche e problemi comportamentali. Drammi umani vissuti nell’area per i detenuti con problemi sanitari e psichici che arrivano dopo gli allarmi quasi giornalieri lanciati dai sindacati dell’Osapp e del Sappe. “Diciamo che sono le celle alla soglia della dignità - denuncia Michele Miravalle, il coordinatore nazionale dell’Osservatorio Antigone sulle condizioni di detenzione - e il guaio è che anche da altri istituti piemontesi dei detenuti con problemi psichici vengono trasferiti lì e così aumentano le problematiche, soprattutto per quanto riguarda i reclusi più giovani che sono i più fragili”. Miravalle continua: “Noi visitiamo spesso il Lorusso e Cutugno e, non nascondo che un po’ queste tragedie ce le aspettavamo. La verità - dice - è che bisognerebbe incentivare i giovani medici a lavorare in carcere, anche se è un ambiente difficile. Ma, purtroppo, la maggior parte dei concorsi finiscono deserti perché nessuno vuole andare”. Per Antigone l’altro grosso problema è legato alla durata delle pene “corte”, di un anno e mezzo o due. Dove il detenuto, spesso non abituato a stare dietro le sbarre, vive molto male i mesi che gli restano da scontare e, spesso, finisce nel baratro dello sconforto e della depressione. “I dati emersi dalla mia richiesta di accesso agli atti fanno riflettere e dimostrano che c’è una forte esigenza di personale - dice il consigliere regionale Pd Daniele Valle -. Ora non bisogna più perdere tempo e servono investimenti concreti per ciò che riguarda la salute mentale in carcere e per i professionisti che lavorano nelle strutture. Servono incentivi e tutele”. Torino. Chi è Azzurra Campari, la 28enne si è tolta la vita in carcere L’Unità, 15 agosto 2023 Il fratello Mirko: “Ho letto molte bugie”. La giovane è stata una delle tante vittime dell’insano sistema penitenziario italiano. Troppi i detenuti che si tolgono la vita nelle celle del Belpaese. Il chiarimento del fratello con un post pubblicato su Facebook. Chi è Azzurra Campari la 28enne suicida nel carcere di Torino. Innanzitutto non era una tossicodipendente. Come se esserlo fosse una colpa. E non aveva neanche abbandonato gli studi. A chiarirlo, smentendo diversi articoli pubblicati in questi giorni dalla stampa, è stato il fratello della giovane, Mirko Campari. Quest’ultimo lo ha fatto attraverso un post pubblicato su Facebook. Il giovane ha anche specificato che la madre ha visto l’ultima volta la figlia in carcere, in presenza e non in video chiamata, lo scorso 5 agosto. Inoltre, la donna non ha rilasciato alcuna dichiarazione a nessuna testata giornalistica. Dunque, Azzurra vittima due volte: dello Stato e dello sciacallaggio mediatico. La 28enne è stata la seconda vittima in un giorno. Si è tolta la vita nel carcere di Torino. Con lei l’ha fatto anche Susan John. Il duplice suicidio ha fatto scattare l’allarme in via Arenula e costretto il Ministro dell’(In)Giustizia Carlo Nordio a correre presso il penitenziario piemontese per un’ispezione. Azzurra era una ragazza dolce e sensibile ma dal carattere forte. È cresciuta in provincia di Imperia insieme al fratello e solo con la madre. Il papà è andato via di casa molto tempo fa e con lui la 28enne non ha mai stretto un buon rapporto. Il post del fratello Mirko - “Sono Mirko Campari, il fratello di Azzurra Campari, la ragazza di 28 anni deceduta nel carcere di Torino venerdì scorso. Purtroppo molti giornali stanno scrivendo parecchie cose non vere in alcuni dei loro articoli. Ho provato a mandare delle email ad alcune testate per chiarire quali punti fossero imprecisi o totalmente errati, ma senza risultato: né rettifica, né risposta. Anzi, gli errori sono stati “copia/incollati” da una testata giornalistica all’altra e alcune menzogne stanno piano piano diventando “verità” (nel senso che si continua a divulgare il falso e sempre più gente lo scambia per vero). Ritengo importante chiarire alcuni punti: - Mia sorella Azzurra non era tossicodipendente. Mi sono chiesto come questa cosa fosse potuta saltare in mente a chi l’ha scritta, poi ho pensato che probabilmente lo hanno collegato al fatto che andasse al SERT. Bene, per chi non lo sapesse al Sert va anche chi ha alcune problematiche psicologiche non collegate all’utilizzo di droga/alcool et similia, ed era il caso di mia sorella. Inoltre, se davvero fosse stata tossicodipendente avrebbe potuto scontare la sua pena in una comunità di recupero e quindi non si sarebbe trovata in carcere. -Mia sorella non ha abbandonato l’istruzione, si era iscritta all’Ipc di Sanremo e ha lasciato al primo anno, ma in seguito ha ottenuto una qualifica di terza superiore presso Aesseffe a Sanremo. - Nostra madre Monica non fa la colf ma un altro lavoro. - Alcuni giornali dicono che nostra madre ha visto per l’ultima volta Azzurra in videochiamata, in realtà mia madre era stata in visita (di presenza quindi) nel carcere di Torino il 5 agosto. - Nostra madre, allo stato attuale delle cose, non ha parlato con nessun giornalista. Eppure, molti articoli menzionano addirittura dei virgolettati di frasi che nostra madre “avrebbe” pronunciato (…) Ci sarebbero altri errori e imprecisioni da segnalare, ma per il momento mi vorrei fermare qua. Qualora dovessi cambiare idea o dovessero uscire fuori altre falsità aggiornerò il post. Grazie per chi vorrà condividere”. Verona. Presunto suicidio in carcere: Cristian morto per overdose di farmaci. Aveva 44 anni di Andrea Aversa L’Unità, 15 agosto 2023 La vittima è cresciuta da sola e finita in cella a causa di un furto in un supermercato. Secondo alcune testimonianze aveva “paura del dopo”. La segnalazione all’associazione ‘Sbarre di zucchero’ fatta dalla parente di un altro detenuto. Un altro decesso in carcere. Un’altra persona che ha perso la vita mentre era in custodia dello Stato. Dopo il tragico e duplice suicidio avvenuto in cella nel penitenziario di Torino, l’associazione Sbarre di Zucchero ha denunciato un’altra morte avvenuta tra le mura di un carcere. E forse si tratterebbe dell’ennesimo suicidio. Un presunto gesto estremo per il quale il condizionale è d’obbligo visto che ancora non ci sono ufficialità di alcun tipo. Se non quella del decesso di Cristian Mizzon morto in carcere a Verona. Cristian Mizzon morto in carcere a Verona - Quest’ultimo aveva 44 anni ed è cresciuto senza i genitori. Il giovane non aveva nemmeno un rapporto con le sorelle. Dalle testimonianze raccolte e rese pubbliche da Sbarre di Zucchero, Cristian aveva ‘paura del dopo’, in pratica di quello che avrebbe dovuto affrontare fuori. In carcere era finito a causa di un furto dentro un supermercato. Poi il buio e le fragilità hanno preso il sopravvento. La causa del decesso potrebbe essere stata un’overdose di farmaci. La denuncia della morte è stata fatta all’associazione dalla parente di un altro detenuto che conosceva Mizzon. Il comunicato di “Sbarre di zucchero” - Nel carcere di Verona si continua a morire nel silenzio più totale, nell’indifferenza generale, invisibili tra gli invisibili. Ieri, domenica 13 agosto 2023, siamo stati informati della morte di Cristian Mizzon, 44 anni, e non lo abbiamo saputo dalla stampa perché, per l’ennesima volta, la notizia è stata taciuta, nascosta, ci è stato comunicato da una familiare di un altro detenuto che ci segue dai nostri social, altrimenti la sua scomparsa non avrebbe valicato le mura di cinta dell’Istituto scaligero. Ci racconta di lui e della sua vita, tra abbandoni e solitudine, Maurizio Mazzi, tra i fondatori di Sbarre di Zucchero, nonché volontario nel carcere di Montorio con La Fraternità e CNVG Veneto: “Cristian l’avevo conosciuto tramite una sua lettera pubblicata su Verona fedele, qualche mese fa, dove diceva che da bambino la madre aveva lasciato la famiglia, poco più avanti era morto il padre e verso i 15/16 anni anche le sorelle, con le quali viveva, lo hanno abbandonato e così è rimasto solo e per vivere girovagava e sopravviveva di espedienti, finché ha rubato in un supermercato ed è finito in carcere. Questo è quanto aveva scritto nella lettera e implorava che qualcuno gli scrivesse per non sentirsi abbandonato da tutti. Allora, tramite Frà Alberto, ho incominciato a scrivergli. Poi una volta mi ha risposto ringraziandomi e con toni disperati mi diceva che a novembre sarebbe uscito dal carcere e, non avendo nessuno a cui rivolgersi, avrebbe dovuto di nuovo girovagare per strada e questo lo angosciava molto, e questo lo comunicai a Frà Alberto. Nel frattempo ho scritto a Cristian, cercando di tranquillizzarlo, dicendogli che ci persone buone e avrebbe trovato possibilità di accoglienza. Avevo telefonato in posti che ospitano ex detenuti - Emmaus di Villafranca e una Casa di Ronco all’Adige - e di tutto ciò Frà Alberto è sempre stato informato. Come vedi dalle sue lettere, ha avuto una vita molto dolorosa, e delle sorelle che lo avevano abbandonato non ha più fatto nessun riferimento”. La testimonianza dell’agente Barbera - Il cordoglio per la morte di Cristian Mizzon ci arriva anche dalle parole di Matteo Barbera, agente penitenziario di Montorio e sindacalista AlSiPPe, che dice “Era un bravissimo ragazzo, mai una discussione, sempre corretto con il personale, mi dispiace davvero tanto”. Non sappiamo se si sia trattato di suicidio o di morte per altre cause, quel che è certo è che Cristian aveva paura del dopo, perché il dramma di tanti, di troppi, non è solo la detenzione di per sé, ma ciò che li aspetta fuori, una volta espiata la pena. Sbarre di Zucchero continuerà sempre a lottare contro il muro di gomma che vorrebbe tacere su questi drammatici e continui eventi. Non si può morire nel silenzio generale, quando la tua vita è nelle mani dello Stato. Mai più una/uno di meno! Verona. Cristian, morto in cella a 44 anni: scoppia la polemica di Laura Tedesco Corriere di Verona, 15 agosto 2023 Morte naturale o gesto estremo, lo chiarirà il medico legale. Stava per lasciare il carcere, “ma si sentiva abbandonato”: la lettera di disperazione. “Aveva il terrore di finire in strada”. È stato trovato morto dal suo compagno di cella. Ed è giallo sulla fine di Cristian Mizzon, 44 anni: al momento non si escludono cause naturali ma neppure il gesto volontario. Sarà l’autopsia a fare chiarezza sull’accaduto. Ma l’associazione Sbarre di Zucchero scatena la polemica: “Nel penitenziario di Verona si continua a morire nel silenzio più assoluto”, afferma. Cristian Mizzon mercoledì 9 agosto 2023, Donatella Hodo la notte tra l’1 e il 2 agosto 2022. Due morti giovani, troppo giovani - lui 44 anni, lei soltanto 27 -, entrambi nel carcere di Verona. Due vite prematuramente interrotte in cella a Montorio a distanza di 12 mesi, nel pieno di quella stagione estiva che statisticamente è quella a più elevato tasso di suicidi tra i detenuti. Ma mentre sul gesto volontario di Donatella non ci furono dubbi - si mise un sacchetto in testa, se lo strinse al collo con un elastico per capelli e inalò il gas del fornelletto da cucina, vuotando tre bombolette, dopo aver scritto una lettera d’addio al fidanzato per dirgli “Scusa, sei la cosa più bella che mi sei capitata, ma non ce la faccio più” -, sulle cause e la dinamica della improvvisa scomparsa di Cristian non c’è certezza. Al momento non si escludono cause naturali (il 44enne non era mai del tutto uscito dal tunnel della droga, tuttavia non risulta che accusasse o fosse in cura per uno specifico disturbo di salute), ma d’altronde non ci sono elementi per confermare o negare il gesto volontario, forse - stando a delle voci - ingerendo la sera prima “troppe pasticche”: sarà quindi il medico legale a fare chiarezza. È stato il compagno di cella a dare l’allarme al mattino, rendendosi conto che Cristian non apriva più gli occhi: inizialmente pare che il pm di turno volesse archiviare il caso come “morte per cause naturali” senza procedere all’autopsia: a sollecitarla sarebbe stata la direzione carceraria per dirimere ogni dubbio. “Cristian era un mio cliente da tanti anni, lo conosco bene, era stato più volte dentro e fuori dalla cella per una serie di piccoli reati, mai nulla di grave - lo ricorda commosso l’avvocato Simone Bergamini - Aveva avuto una vita difficile, l’ultima volta lo avevo visto 15 giorni fa. A Montorio stava lavorando e stava per tornare libero, non mi era sembrato una persona che potesse pensare di togliersi la vita”. Intanto però scoppia la polemica, soprattutto per la “mancata visibilità” data alla notizia, emersa solo a distanza di 5 giorni. “Nel penitenziario di Verona si continua a morire nel silenzio più totale, nell’indifferenza generale, invisibili tra gli invisibili - interviene l’associazione Sbarre di Zucchero, fondata da Micaela Tosato e Monica Bizaj all’indomani del suicidio di Donatella -. La notizia della morte di Cristian Mizzon è stata taciuta, nascosta, ci è stata comunicata da una familiare di un altro detenuto, altrimenti la sua scomparsa non avrebbe valicato le mura di cinta dell’istituto scaligero”. Come Donatella, anche Cristian aveva scritto una lettera di dolore, che nel suo caso però risale a qualche mese fa quand’era stata pubblicata su Verona Fedele: una lettera in cui il 44enne raccontava che “da bambino la madre aveva lasciato la famiglia, poco più avanti era morto il padre e così è rimasto solo e per vivere girovagava e sopravviveva di espedienti, finché ha rubato in un supermercato ed è finito in carcere. Questo è quanto aveva scritto - rivela Maurizio Mazzi - nella lettera in cui implorava che qualcuno gli per non sentirsi abbandonato da tutti. Allora tramite Fra’ Alberto, ho incominciato a scrivergli. Poi una volta mi ha risposto ringraziandomi e con toni disperati mi diceva che a novembre sarebbe uscito dal carcere e, non avendo nessuno a cui rivolgersi, avrebbe dovuto di nuovo girovagare per strada e questo lo angosciava molto, così lo comunicai a Fra’ Alberto e ho cercato di tranquillizzare Cristian, dicendogli che ci sono persone buone e avrebbe trovato possibilità di accoglienza. Infatti avevo telefonato per lui in posti che ospitano ex detenuti”. Matteo Barbera, agente penitenziario di Montorio e sindacalista AlSiPPe, descrive Mizzon come “un bravissimo ragazzo, mai una discussione, sempre corretto con il personale, mi dispiace davvero tanto”, mentre gli attivisti di Sbarre aggiungono: “Non sappiamo se si sia trattato di suicidio o di morte per altre cause, quel che è certo è che Cristian aveva paura del dopo, perché il dramma di tanti, di troppi, non è solo la detenzione di per sé, ma ciò che li aspetta fuori, una volta espiata la pena. Lotteremo sempre contro il muro di gomma che vorrebbe tacere su questi drammatici e continui eventi. Non si può morire nel silenzio generale, quando la tua vita è nelle mani dello Stato”. Un ultimo “ricordo triste” arriva dall’avvocato Bergamini: “Era un ragazzo sfortunato ma buono, sicuramente non cattivo, Cristian aveva delle fragilità che non era riuscito a superare però amava tanto pescare. Io ho ancora la sua attrezzatura da pesca in studio e la terrò in sua memoria”. Un triste ricordo di una persona “fragile ma buona”. Morta in cella a 44 anni. Sanremo (Im). Detenuto finisce in coma in circostanze misteriose di Marco Preve La Repubblica, 15 agosto 2023 La moglie va in procura: “Voglio sapere perché mio marito è in fin di vita, voglio capire cosa è accaduto in carcere”. Un cinquantunenne rumeno, Corneliu Maxim, detenuto nel carcere di Sanremo, dai primi di agosto è ricoverato in coma nell’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure. L’uomo ha riportato alcune contusioni e, soprattutto, una frattura alla testa per la quale i medici hanno dovuto intervenire con un delicatissimo intervento di “riposizionamento della teca cranica”. La moglie dell’uomo, Daniela C., venerdì scorso si è rivolta all’avvocato Andrea Rovere e ha poi depositato nella cancelleria della procura di Imperia un esposto con il quale, oltre ad esporre la situazione e le gravi condizioni del marito, chiede che venga fatta chiarezza. L’esposto è stato anche notificato per conoscenza all’ufficio del Garante regionale dei detenuti, ruolo ricoperto da alcuni mesi da Doriano Saracino: “Ho letto l’esposto e ci stiamo documentando, naturalmente attendiamo l’esito degli accertamenti della procura prima di trarre delle conclusioni”. La signora ha anche fotografato il marito disteso nel letto dell’ospedale, una pratica dolorosa ma - come dimostrano numerosi casi di cronaca degli ultimi anni - spesso necessaria per documentare la gravità di una situazione. Dal poco che si è potuto sapere, Corneliu Maxim è entrato nel carcere di Valle Armea il 24 giugno per scontare una pena definitiva per il reato di furto. Era autorizzato a incontrare moglie e figlia per colloqui di un’ora. Ai primi di agosto la moglie racconta di essere stata avvisata dagli uffici del carcere che il marito, per un malore non meglio precisato, era stato prima portato al pronto soccorso dell’ospedale di Sanremo e da lì trasferito d’urgenza a Pietra Ligure per essere sottoposto ad un delicato intervento chirurgico. La signora riferisce di aver raggiunto il Santa Corona e di aver trovato il marito in rianimazione “in condizioni pietose”. Visto che era privo di conoscenza alla donna è stato chiesto di firmare il modulo per il consenso alla donazione autologa di tessuto muscolo scheletrico finalizzato appunto all’operazione alla teca cranica. Daniela ha chiesto ai medici cosa fosse accaduto al marito, ma nessuno ha voluto o potuto darle spiegazioni se non quella di rivolgersi ad un legale per procedere in via formale. Dopo la presentazione dell’esposto la procura dovrà chiarire le circostanze che hanno portato Corneliu Maxim a finire in un letto di ospedale in coma. Fra le ipotesi circolate informalmente c’è anche quella delle conseguenze di una caduta avvenuta quando Corneliu sarebbe stato solo nella sua cella. Una ricostruzione che, però, deve fare i conti con la devastante frattura ed altre contusioni al capo. Gli inquirenti dovranno quindi capire, anche in base ai referti medico legali e a una probabile perizia, se si possa escludere che il rumeno sia stato colpito da altri detenuti o da agenti penitenziari, e in quali circostanze. In ogni caso, esistono anche norme che definiscono la responsabilità dell’istituto rispetto alla tutela e all’incolumità dei detenuti. Un tema drammaticamente emerso in questi giorni a seguito delle due donne morte nel carcere Le Vallette di Torino. Su quanto accaduto a Maxim non ci sono state comunicazioni neppure dai sindacati della polizia penitenziaria, in genere molto puntuali nel riferire di disordini, aggressioni e carenze di organici che rendono difficile la gestione di una struttura di detenzione. L’ultimo episodio, riferito da una nota sindacale, risale all’11 di agosto quando un agente sarebbe stato colpito a testate e calci da un detenuto italiano che nei giorni precedenti aveva appiccato il fuoco in una cella. Ieri mattina Repubblica ha contattato telefonicamente la Casa Circondariale di Sanremo chiedendo di poter parlare con la direttrice della struttura, Maria Cristina Marrè, ma la sua segretaria ha spiegato che la dirigente è in ferie. Chieti. Paziente psichiatrico fermato col taser: morto. “È inaccettabile” di Serena Giannico Il Manifesto, 15 agosto 2023 La reazione del Garante Palma. La preoccupazione del sindacato Fsp di polizia: “Non si riapra la polemica sull’arma elettrica”. Una fine improvvisa e drammatica per un giovane con problemi mentali. Un’oscura tragedia si è consumata domenica a San Giovanni Teatino, in provincia di Chieti e alle porte di Pescara. Un episodio su cui la procura di Chieti, con il pubblico ministero Marika Ponziani, ha aperto un’inchiesta. Nelle prossime ore verrà disposta l’autopsia, necessaria per far luce sull’accaduto. Un uomo del posto di 35 anni, Simone Di Gregorio, affetto da disturbi psichiatrici e seguito da una struttura sanitaria, dal Centro di igiene mentale, è morto. Il ragazzo, domenica scorsa, correva nudo per le strade della sua città, probabilmente in preda ad una crisi ed evidentemente alterato. Si aggirava per vie principali del centro in stato di confusione. Si sarebbe anche accanito sulla propria automobile. Sono stati allertati i carabinieri, che sono immediatamente intervenuti per tentare di fermarlo. Lui, alla vista delle forze dell’ordine, si sarebbe diretto verso i binari, in via Aldo Moro, sul tracciato Roma-Pescara. Era agitato. Momenti delicati, concitati, tra caos e frenesia. È stato usato il taser, pare a più riprese, per bloccarlo: ciò nonostante ha continuato a manifestare comportamenti ritenuti “anomali”. A quel punto sono arrivati i sanitari del 118, che hanno somministrato al paziente sedativi. Lo hanno caricato in ambulanza per portarlo all’ospedale di Chieti, dove era già stato ricoverato in settimana dopo aver minacciato il padre con un mattone. Ma è deceduto durante il tragitto: è giunto senza vita al Santissima Annunziata. Da qui il mistero e tanti dubbi che si accavallano. Cosa è accaduto durante il tentativo di fermarlo? Quali effetti su di lui ha avuto la pistola elettrica? Gli è stato fatale il farmaco inoculato? O la combinazione dei due elementi? Sono le domande a cui gli inquirenti adesso, davanti all’ennesimo dramma di un paziente psichiatrico, devono rispondere. Gli accertamenti sono in corso. Acquisite le cartelle cliniche. Ma solo gli esami sulla salma potranno dare lumi. Si cercherà anche di stabilire se il giovane abbia assunto altri farmaci o sostanze che abbiano influenzato il suo comportamento; se sia stato vittima di un trattamento inadeguato da parte dei medici o se, in ultima analisi, altre cause abbiano contribuito a stroncarlo. “Bisogna capire a che tipo di cura era sottoposto - afferma Danilo Montinaro, psichiatra di Lanciano (Ch) - e che genere di calmante gli hanno dato: magari può essersi generato un conflitto, incompatibilità, ma parlo in maniera teorica, senza conoscere i particolari. Prima di procedere con un intervento farmacologico - prosegue - occorre sempre comunque considerare le terapie già in atto. Bisognerà vedere se gli hanno somministrato Benzodiazepine oppure antipsicotici”. È intervenuto da Roma Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, per dire con forza che “Non è accettabile che l’operazione per ricondurre alla calma una persona in evidente stato di agitazione e, quindi, di difficoltà soggettiva, si concluda con la sua morte”. Mentre la preoccupazione del sindacato Fsp Polizia di Stato, dopo la tragedia, è “che non si riapra la polemica sul taser”. Bolzano. Carcere, visita di Radicali e Verdi: “È fatiscente e sovraffollato” di Davide Mayr Corriere dell’Alto Adige, 15 agosto 2023 “Il carcere non si racconta: devi vedere”. Con questo nome, la campagna di sensibilizzazione portata avanti a livello nazionale dai Radicali sbarca anche a Bolzano. Una delegazione di Radicali e Verdi ha infatti visitato il carcere di Bolzano per verificarne le condizioni: “L’intento è di mostrare il carcere ai cittadini - spiega la radicale Elena Dondio - per esporre la realtà dei fatti all’interno della struttura. E la realtà racconta di un edificio fatiscente e sovraffollato, con carenza cronica di personale e profondi problemi strutturali”. Criticità già note, confermate dalla visita di ieri mattina. Al sovraffollamento si aggiungono il caldo estivo, le docce che non funzionano, i servizi igienici ammuffiti, il cortile (vuoto, riferiscono, senza alcunché di ricreativo) infestato dai ratti. Cinque nuovi arrivi negli ultimi due giorni rendono il sovraffollamento ancora più grave. I numeri parlano di 113 detenuti, di cui una ventina di giovani, a fronte di un carcere tarato su una capienza in condizioni non critiche da 89 a 96 persone. “Rimango sempre abbastanza toccata dalla visita in carcere - testimonia la consigliera provinciale Brigitte Foppa - perché è una realtà di cui la società non si rende conto volentieri. Immaginate una cella da 9 uomini, grande come un normale salotto, con 4 letti a castello, una finestra coperta da giornali per non fare entrare il caldo, un gabinetto al di là di una inefficace divisoria e senza internet né telefoni”. Anche il personale soffre di gravi carenze: per una richiesta di 75 agenti, quelli in servizio risultano essere 51, le cui ore di straordinari annuali arrivano a 15mila. Vi è inoltre un forte turn over del personale, dato anche dalla richiesta del patentino che non sempre viene soddisfatta. Il tema è caldo in tutto il Paese: negli ultimi giorni i suicidi nelle carceri italiane sono stati 3, che diventano 17 considerando il periodo estivo e 44 dall’inizio dell’anno. Secondo Dondio, la recente proposta del ministro della Giustizia Nordio di usare le caserme dismesse come strutture detentive può essere una soluzione: “A patto che sia temporanea. A lungo termine servono politiche sociali che favoriscano il reinserimento nella società e nel mondo del lavoro dei detenuti” conclude Dondio. Africa. Il risentimento che accende il Sahel dei golpe di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 15 agosto 2023 In Niger la rabbia antifrancese non è solo un riflesso azionato da poteri locali ed esterni per accendere masse a comando. È il punto di caduta di desideri di emancipazione frustrati, promesse di libertà e speranze di sviluppo tradite. Sudan, Mali, Ciad, Guinea, Burkina Faso, Niger: sei Paesi, nove colpi di Stato in quattro anni. L’Etiopia in bilico dopo la finta pace del Tigrè. C’è un non detto nel discorso sull’eterno ritorno delle crisi d’Africa e la cronica instabilità del Sahel: un’idea di predestinazione che si riflette in complice rassegnazione, come se in certe parti di mondo la soglia di tolleranza per l’atrocità fosse più alta della nostra. Inestirpato pregiudizio razzista, spaccia distanze storiche per differenze costitutive e ne fa la comoda base per semplificazioni che sollevano dallo sforzo di calarsi nel dolore degli altri. E dal racconto scompare la prospettiva delle vittime. In Niger il risentimento antifrancese non è solo un riflesso azionato da poteri locali ed esterni per accendere masse a comando. È il punto di caduta di desideri di emancipazione frustrati, promesse di libertà e speranze di sviluppo tradite. Disperazioni cavalcate da chi ambisce a controllare snodi strategici di interessi e risorse. Il movimento civico M62 che ora sostiene l’odiosa violenza antidemocratica dei golpisti era nato un anno fa. Chiedeva il ritiro delle truppe di Parigi accusate di non aver sradicato dalla regione il terrorismo jihadista che indottrina e fa affari tra attentati, sequestri, tratta di uomini. A fronte dei lauti guadagni delle multinazionali e dell’impennata dei prezzi in un Paese tra i più poveri del pianeta, “gli anti-imperialisti” denunciavano la corruzione dei politici e invocavano il salario minimo. Lavoro, salute, istruzione, questo chiedono le popolazioni. Nella stessa estate Emmanuel Macron in Africa si richiamava allo spirito del discorso di Ouagadougou del 2017: basta paternalismi neocoloniali, costruiamo insieme l’avvenire. Paternalismo, leggere attraverso l’unica lente della spartizione un continente e affidarne il futuro a blocchi di potere in assetto di guerra. Avvenire che sa di passato. America Latina. Liberismo e polizie, nel continente è l’ora della destra di Claudia Fanti Il Manifesto, 15 agosto 2023 Buenos Aires e oltre. Il candidato di estrema destra ha indicato il presidente salvadoregno Nayib Bukele come un esempio da seguire. Il primo a restare sorpreso per la sua vittoria è stato proprio Javier Milei: se fosse arrivato al 20% delle preferenze, aveva detto, sarebbe stato un successo. Primo con oltre il 30% dei voti alle primarie di domenica in Argentina, l’economista ultraneoliberista può guardare ora con rinnovate ambizioni alle presidenziali di ottobre. E sono in molti a chiedersi se dietro il voto per il candidato di estrema destra ci sia qualcosa di più di una variante particolarmente aggressiva del que se vayan todos, legata ai suoi furiosi attacchi contro la casta dei politici da prendere “a calci in culo” (con le sole eccezioni di Carlos Menem e di Mauricio Macri). Impensabile che l’istrionico candidato di La Libertad Avanza, per il quale persino la vendita di organi costituirebbe un’espressione come un’altra del mercato, possa offrire risposta a un popolo stremato dai micidiali effetti dei programmi di aggiustamento imposti dal Fondo monetario internazionale, nel quadro dell’accordo raggiunto con il governo Fernández, all’inizio del 2022, sulla ristrutturazione del colossale debito contratto durante la presidenza Macri. Con tutte le sue conseguenze in termini di aumento del precariato, salari al di sotto della soglia di povertà per la metà dei lavoratori, piani assistenziali che non bastano neppure a coprire le necessità di base. Oltre a un’accelerazione del modello estrattivista predatorio ed ecocida, che ha prodotto le innumerevoli rivolte socio-ambientali che attraversano il paese. Se sono proprio tali conseguenze a spiegare il deludente risultato, all’interno delle primarie di Unión por la Patria, del ministro dell’Economia Sergio Massa, il candidato gradito all’ambasciata Usa e al Fondo monetario, la ricetta di Milei - nel segno dell’individualismo più estremo, una sorta di “si salvi chi può” - è ancora più drastica: “L’Fmi non dovrebbe avere problemi con il nostro programma, considerando che noi proponiamo un aggiustamento fiscale molto più profondo del suo”. Piuttosto, se il voto per Milei è in grande misura un voto anti-sistema, ad attrarre una parte dell’elettorato è stata anche la sua promessa di usare il pugno di ferro contro il crimine - “No es mano dura, es mano justa”, ha spiegato - tanto più di fronte all’impatto che ha avuto sul paese il caso dell’undicenne Morena Domínguez, morta in seguito all’aggressione di due criminali che volevano derubarla. Non a caso, il candidato di estrema destra ha indicato il presidente salvadoregno Nayib Bukele come un esempio da seguire, inviando in El Salvador un suo deputato della provincia di Buenos Aires, Nahuel Sotelo, per studiare proprio quello che è stato definito come “sistema Bukele”: l’impressionante offensiva contro le bande criminali con cui il “dittatore più cool del mondo”, come lui stesso si è definito, ha praticamente azzerato la presenza delle gang nei territori, ma nel più completo disprezzo dei diritti umani e della democrazia. Cosicché dopo più di un anno e mezzo di regime di eccezione, grazie a cui polizia e militari possono arrestare chiunque appaia loro sospetto, 69mila persone - l’1% della popolazione - si trovano ora in carcere, spesso senza neppure sapere per quali reati siano accusate e altrettanto spesso vittime di maltrattamenti e torture. Ma non è solo in Argentina che si guarda al modello “vincente” di Bukele. Molti sono i suoi ammiratori in Cile, dove la destra è riuscita a imporre la sua agenda securitaria di fronte alle crescenti preoccupazioni della cittadinanza riguardo all’aumento della criminalità nel paese. Già a settembre del 2022, infatti, l’ex candidato presidenziale di estrema destra José Antonio Kast si augurava su Twitter che il presidente salvadoregno, durante l’Assemblea delle Nazioni unite, desse a Boric “un paio di consigli su come affrontare la crisi di sicurezza in Cile”: “Mentre in El Salvador gli omicidi calano, in Cile sono fuori controllo”. Ed è comprensibile che ancora più consensi Bukele raccolga in Ecuador, il paese con il maggior aumento di omicidi in America Latina, dove il recente assassinio del candidato presidenziale Fernando Villavicencio ha portato ancor di più alla ribalta, alla vigilia delle presidenziali del 20 agosto, il tema della lotta alla criminalità in stile salvadoregno, di cui si è fatto portavoce in particolare l’imprenditore Jan Topic, già soldato della Legione straniera francese, soprannominato il “Bukele ecuadoriano”. Ma non è solo l’estrema destra a cedere alle sirene di una scorciatoia autoritaria in tema di lotta alla criminalità: anche in Honduras il governo progressista di Xiomara Castro, che pure aveva promesso di smilitarizzare la sicurezza pubblica e di adottare un approccio preventivo alla violenza, ha operato una svolta di 180 gradi, imponendo lo stato di emergenza, annunciando l’intenzione di costruire una nuova prigione per i criminali più pericolosi e soprattutto cominciando a mostrare le stesse immagini del paese vicino di detenuti con la testa rapata, seminudi e ammassati come animali. L’idea delle enormi prigioni sul modello salvadoregno è approdata anche in Colombia, incontrando tuttavia il rifiuto indignato del presidente Petro, entrato recentemente in polemica proprio con Bukele riguardo alle strategie da impiegare per contrastare il crimine. In Colombia, aveva scritto su Twitter, “abbiamo ridotto i tassi di omicidi e violenza, non con mega carceri ma con scuole e università”. Stati Uniti. Due afroamericani torturati per ore da 6 agenti bianchi di Alan Friedman La Stampa, 15 agosto 2023 Taser usati a ripetizione, percosse, umiliazioni e persino un tentativo di stupro con un dildo. Sono scioccanti le torture subite da due afroamericani da parte di sei agenti bianchi nell’ultimo episodio di abusi da parte della polizia Usa. Ancora più sconcertante poiché dopo ore di violenza, gli ufficiali hanno cercato di insabbiare il tutto. L’episodio risale al 24 gennaio scorso a Braxton, in Mississippi, ma è venuto alla luce solo adesso. Secondo quanto riportato dalla Cnn, gli agenti si sono recati in una proprietà per gestire una denuncia ricevuta dall’investigatore capo dell’ufficio dello sceriffo della contea di Rankin, Brett McAlpin. Il vicino bianco di McAlpin gli aveva detto che alcuni uomini afroamericani si trovavano a casa di una donna bianca e riferito di aver visto comportamenti sospetti. I dettagli di ciò che i pubblici ministeri dicono sia successo quella notte sono stati condivisi in un documento di accuse federali, e sono terribili. I sei agenti (che ad oggi si sono tutti dimessi o sono stati licenziati) sono entrati in casa senza mandato di perquisizione e hanno trovato i due uomini di colore Eddie Parker e Michael Jenkins (il primo viveva lì e aiutava la proprietaria di casa, l’altro si trovava nell’abitazione temporaneamente), e hanno iniziato a sottoporli a violenze estenuanti. In particolare li hanno colpiti numerose volte con il taser - a quanto sembra addirittura in una gara per vedere quale fosse quello più efficace -, schiaffeggiati, minacciati di essere stuprati con un dildo, picchiati con pezzi di legno e una spada di metallo. E ancora hanno versato loro in bocca latte, alcol e sciroppo di cioccolato, ma anche grasso da cucina sulla testa, e hanno lanciato uova contro i due. A un certo punto, hanno tolto un proiettile dalla pistola, l’hanno messa in bocca di Jerkins e hanno sparato, lacerandogli la lingua e rompendogli la mascella. Poi li hanno costretti a spogliarsi e fare la doccia insieme “per lavare via le prove degli abusi” prima di essere portati in prigione. La storia di copertura usata dagli agenti era che avevano trovato sacchetti di droga fuori dalla casa ed erano intervenuti. Gli orrori subiti dai due uomini, così come i messaggi di testo che inchiodano gli agenti e altri dettagli, sono stati inclusi nel documento depositato al tribunale federale il 31 luglio. In uno degli sms, il vice dello sceriffo ha scritto “niente brutte foto segnaletiche”: frase che, hanno spiegato gli inquirenti, dava il via libera ad usare “forza eccessiva” su aree del corpo che non sarebbero state riprese dalle foto segnaletiche. I sei sono stati accusati di un totale di 13 crimini in relazione a “torture e abusi fisici” sui due uomini, ha spiegato il dipartimento di Giustizia, e giovedì scorso si sono dichiarati colpevoli di tutti i capi di imputazione davanti a un tribunale federale. Inoltre, sono anche accusati dallo Stato di associazione a delinquere per commettere ostruzione alla giustizia, violazione di domicilio e aggressione aggravata, e oggi si sono dichiararsi colpevoli anche di queste accuse come parte del patteggiamento. Egitto. A dieci anni dal massacro di Rab’a le autorità non hanno avviato nessuna indagine La Repubblica, 15 agosto 2023 Human Rights Watch: dopo quell’eccidio è nata una campagna di arresti e torture che ha cancellato ogni spazio di critica nel Paese africano. Era il 14 agosto 2013 quando la polizia, al Cairo, usò la forza per disperdere centinaia di manifestanti che chiedevano la reintegrazione dell’ex presidente Mohamed Morsy. L’Egitto precipitò in una morsa di violenza e di abusi dei diritti che continua ancora oggi e quella giornata viene ricordata come il massacro di Rab’a. I fatti avvenuti quel 14 agosto di dieci anni fa sono considerati da molte organizzazioni per i diritti umani come crimini contro l’umanità, ma le autorità non hanno voluto, fino a oggi, fare chiarezza su quanto accaduto. I fatti di quei giorni. L’esercito arrestò il presidente Mohamed Morsy il 3 luglio 2013 in quella fase storica che l’Occidente ha battezzato “Primavera Araba”. Morsy è morto in carcere nel 2019, in condizioni pietose. Dopo il colpo di stato, i sostenitori del presidente deposto organizzarono proteste in tutto l’Egitto, in particolare in due piazze del Cairo: Rab’a e al-Nahda. Il 14 agosto - documenta Human Rights Watch (HRW) - le forze di sicurezza per disperdere i cortei spararono contro le persone che manifestavano pacificamente e a Rab’a fecero almeno 817 vittime. Queste uccisioni - sottolinea l’organizzazione - costituiscono quasi sicuramente crimini contro l’umanità e avrebbero richiesto un’indagine internazionale, che però non c’è mai stata. Anche i tribunali nazionali di altri Paesi avrebbero dovuto perseguire gli autori del massacro in base al principio della giurisdizione universale, ovvero quell’impianto di norme che consente di fare giustizia ai sensi del diritto internazionale, indipendentemente dal luogo in cui i crimini sono stati commessi. Il diniego della giustizia. Nonostante le prove schiaccianti raccolte da Human Rights Watch sull’abuso della forza a Rab’a e le richieste delle Nazioni Unite affinché si avviasse un’indagine indipendente, le autorità egiziane non hanno indagato né perseguito nessuno degli autori dell’eccidio. Ancora oggi centinaia di manifestanti che parteciparono al sit-in sono incarcerati o già condannati con processi di massa iniqui. Qualcuno è stato condannato a morte, qualcun altro è in esilio. “Dal massacro di Rab’a è nata una campagna di arresti, processi fittizi e torture che ha tolto ogni spazio per il dialogo critico e ha spinto molti riformisti fuori dal paese”, dice Adam Coogle, vicepresidente per il Medio Oriente e il Nord Africa di HRW. “Affrontare ciò che è accaduto a Rab’a non riguarda solo le vittime di Rab’a e le loro famiglie, ma è un passaggio cruciale per la prospettiva dei diritti umani e della democrazia in Egitto”. I tentativi di fare chiarezza. In un rapporto del 6 marzo 2014, il Consiglio nazionale egiziano per i diritti umani scrive che alcuni manifestanti a Rab’a erano armati e avevano opposto resistenza alle forze di sicurezza. Tuttavia il dossier sottolinea anche che ci fu una “risposta sproporzionata” e “un uso eccessivo della forza da parte della polizia”. Il 26 luglio 2018 Abdel Fattah al-Sisi ha approvato la legge sul “trattamento degli alti comandanti delle forze armate”, in virtù della quale il presidente può concedere ai comandanti militari “l’immunità diplomatica” quando viaggiano all’estero, proprio con l’obiettivo di proteggerli dalle responsabilità. Oltre a non volere indagare sul coinvolgimento delle forze di sicurezza nell’omicidio di massa di Rab’a, le autorità non hanno aderito neanche all’articolo 241 della Costituzione, che richiedeva loro di approvare, nel 2016, una legge che “assicurasse la verità, la responsabilità e il risarcimento delle vittime, in conformità con gli standard internazionali”. Gli abusi. Dall’agosto 2013 le forze di sicurezza egiziane hanno ripetutamente commesso violazioni dei diritti umani: arresti arbitrari, sparizioni forzate e torture di attivisti politici veri o presunti, con il pretesto di combattere il terrorismo. Per sfuggire ai soprusi di stato, molti dissidenti sono stati costretti all’esilio. Altre volte, per evitare che scappassero e si sottraessero ai processi, il governo ha usato la tattica di non rinnovare i documenti di identità. Si è intensificato il ricorso alla pena di morte, in molti casi a seguito di procedimenti iniqui e processi di massa. Con il presidente Abdel Fattah al-Sisi l’Egitto si è classificato tra i primi tre paesi a livello mondiale per numero di esecuzioni e condanne a morte nel 2020, scrive Amnesty International. Le esecuzioni extragiudiziali. Negli ultimi anni l’Agenzia per la sicurezza nazionale ha ucciso dozzine di presunti terroristi in tutto il paese in quelle che le autorità locali chiamano “sparatorie” ma che molto probabilmente - denunciano le organizzazioni per i diritti umani - sono esecuzioni extragiudiziali. La repressione governativa riguarda i diritti di vari gruppi sociali, compresi i giornalisti, che sono stati perseguiti esclusivamente per il loro lavoro, le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender, che sono prese di mira per il loro orientamento sessuale e per l’identità di genere. Le autorità hanno anche utilizzato vaghe accuse di “moralità” per arrestare influencer e testimoni di violenze sessuali. L’impunità. Nonostante gli abusi, le Nazioni Unite non hanno ancora istituito un meccanismo di monitoraggio in Egitto. Anche Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Unione Europea, nonostante gli appelli del Parlamento europeo, non sono riusciti a imporre sanzioni mirate contro i funzionari egiziani coinvolti nei reati. Dopo il massacro di Rab’a l’Unione Europea ha deciso di interrompere le esportazioni al Cairo di armi e merci che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna. Tuttavia più di una dozzina di paesi tra cui Bulgaria, Cipro, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria, Italia, Romania e Spagna hanno violato questa decisione. Nel luglio 2013 l’Unione africana ha sospeso l’Egitto dopo il colpo di stato militare, ma ne ha ripristinato l’adesione nel 2014 nonostante la mancanza di progressi in materia di diritti. El Salvador. La macchina di Bukele che asfalta i diritti umani di Lamberto Franchi Il Manifesto, 15 agosto 2023 Il conto della guerra scatenata contro le gang lo pagano sempre i poveri. Un anno e mezzo di stato d’eccezione, 73mila arresti, zero processi. E in carcere si muore. Nelle ultime tre decadi El Salvador ha avuto a che fare con un fenomeno pestilenziale: le pandillas, gang criminali come la Mara Salvatrucha e Barrio 18, che nei barrios dimenticati da Dio imponevano la loro legge, il pizzo e la violenza erano la norma. Uscire incolumi da quelle zone era una sorta di lotteria. Oggi, quel terrore sembra un vecchio ritratto ingiallito, appeso alla parete della storia. Si può circolare, certo, ma non inganniamoci: è come se il mostro, stanco di un volto, ne avesse semplicemente assunto un altro, non meno minaccioso sotto il profilo dei diritti civili e del rispetto della costituzione. A un anno e mezzo dall’entrata in vigore del regime di eccezione, il presidente Bukele sbandiera cifre da capogiro: quasi 73mila arresti. Rina Montti, la directora investigativa di Cristosal - organizzazione che difende i diritti umani in Centroamerica - e altri alti rappresentanti della società civile, segnalano che un terzo potrebbero essere senza giusta causa. Nelle strade dei barrios, quei quartieri poveri di El Salvador dove la vita presenta il suo volto più crudele, la polizia arriva ed effettua arresti a tappeto, Così capita che le vittime siano le stesse persone, la gente comune un tempo afflitta dalle gang. Chiunque può essere prelevato con la forza davanti alla famiglia. È sufficiente un tatuaggio sospetto, una chiamata anonima. Un ragazzo di 17 anni è stato arrestato per la strada in pieno giorno, ha appena ricevuto del denaro dalla madre che vive negli Usa ma finisce in carcere con l’accusa di essere un estorsore legato alle gang. A casa non hanno avuto più notizie, e ai familiari è vietato far visita ai detenuti. Un padre prelevato con la forza insieme al figlio di 15 anni e rinchiuso in una cella sudicia e angusta, racconta che sono stati costretti a leccare il cibo per terra, a dormire sul suolo e a subire continui abusi delle guardie. Insomma, sono i salvadoregni poveri che pagano il prezzo. Finendo in carceri che somigliano a campi di concentramento, dove torture, pestaggi, omicidi, morti per fame o per suicidio, sono al’ordine del giorno. E l’accusa di essere associati alle pandillas diventa un martello che colpisce senza pietà. Una tragedia che nei sopravvissuti lascia ferite e ricordi indelebili non solo nel fisico, ad esempio l’immagine di una guardia che lancia un prigioniero dalle scale o il suicidio di un compagno di cella. E chi ne esce vivo in genere preferisce non parlarne. Cristosal ha rotto questo silenzio con un rapporto freddo e inesorabile. Sono 153 le persone morte in carcere tra il 27 marzo 2022, quando è stata varato lo stato di eccezione, e il 30 aprile 2023. Le vittime erano tutte in un regime di carcere preventivo. Ma Zaira Navas, una figura di spicco nell’organizzazione, ci ricorda che il bilancio potrebbe essere ancora più grave, parla di fosse comuni, di sepoltura senza nome né rito. “Questo non significa che solo loro sono morti”, sottolinea, facendo riferimento a prove e testimonianze. E poi, come un refrain in questa sinfonia macabra, torna l’eco delle parole di alcuni agenti di polizia, che in forma anonima rivelano il ricatto subito: gli ordini erano chiari, andate e arrestate indiscriminatamente più che potete, o ne pagherete le conseguenze. Ci sono quelli che hanno cercato di sollevare la voce, come il Movir, il Movimento delle vittime del regime. Hanno osato manifestare, e la risposta è stata immediata: la polizia li ha condotti in commissariato. Solo la presenza dei media li ha salvati da un destino più cupo. Bukele presenta con orgoglio i dati, e aggiunge che l’operazione non è finita. È un uomo di scena, un fuoriclasse nel vendere la sua immagine anche oltre i confini di questo piccolo Paese, che con i suoi circa 6 milioni di abitanti ha tutto l’aspetto di un laboratorio, un esperimento in miniatura. Molti media cantano la canzone di una pace ritrovata, e il carismatico presidente cavalca l’onda verso le elezioni del 2024 che si prospettano vittoriose. La macchina del marketing ha sconfitto i diritti umani in El Salvador. Afghanistan. “È diventato il Paese più repressivo al mondo con le donne” di Cristina Benenati La Stampa, 15 agosto 2023 Report di Amnesty International. Lo studio fotografa la situazione dall’avvento dei “nuovi” talebani. L’appello: “Minoranze schiacciate e voci libere oppresse, gravissima e profonda crisi dei diritti”. “In due anni l’Afghanistan è diventato il paese più repressivo al mondo nei confronti delle donne. Anche le voci libere, le minoranze etniche e religiose, la comunità Lgbtqia+ vivono una realtà sempre più difficile”. Lo scrive su Twitter Amnesty International Italia, pubblicando un approfondimento sulla situazione nel Paese asiatico a due anni dal ritorno al potere dei talebani. “Da quando hanno preso il potere in Afghanistan, i talebani hanno gettato il paese in una gravissima crisi dei diritti - spiega l’organizzazione nel Report - Era il 15 agosto del 2021 e da quel giorno la vita di donne, voci libere, minoranze etniche e religiose, persone della comunità Lgbtqia+ è diventata sempre più difficile”. Il report prosegue: “I talebani, che sono le autorità di fatto del paese, hanno commesso un’infinità di violenze e violazioni dei diritti umani in totale impunità. In due anni hanno sistematicamente smantellato le istituzioni chiave per la protezione dei diritti umani e represso la libertà di espressione, associazione, il diritto a un processo equo e altri diritti umani. I diritti fondamentali delle donne e delle ragazze sono stati soppressi. Migliaia di persone sono state arbitrariamente arrestate, torturate, rapite e persino uccise: esponenti del giornalismo, dello sport e dell’arte, attiviste, difensori dei diritti umani, accademici e accademiche, minoranze religiose ed etniche restano particolarmente a rischio. I diritti umani sono sotto attacco su tutti i fronti. Mentre la popolazione afgana continua a sfidare questa tempesta, noi dobbiamo essere al suo fianco e difendere il suo diritto a vivere in libertà, dignità e uguaglianza”. Dal 17 settembre 2021 le ragazze sopra i 12 anni non possono più studiare. “Molte donne non possono più uscire di casa o viaggiare senza la supervisione di un uomo. Nel 2022 le restrizioni aumentano a dismisura: le donne non possono più frequentare l’università, i parchi, le palestre, persino i bagni femminili. Alle giornaliste viene imposto il divieto di mostrare il volto, le donne non possono più lavorare nelle Ong locali o internazionali. Nel 2023 chiudono anche i saloni di bellezza: viene così chiuso uno dei pochi settori lavorativi rimasti accessibili alle donne”. C’è poi la questione della libertà di stampa. Amnesty evidenzia che “nel 2023, l’Afghanistan è stato classificato al 156° posto su 180 paesi nell’Indice mondiale della libertà di stampa di Reporter senza frontiere. Molti giornalisti sono stati arrestati, picchiati e torturati, solo per aver cercato di raccontare quello che stava succedendo nel paese”. Il racconto di un giornalista e attivista della società civile è emblematico sulla situazione: “Sono stato trattenuto per diversi giorni. Sono stato picchiato e frustato così forte sulle gambe che non riuscivo a stare in piedi. La mia famiglia aveva sentito da passanti che ero stato rapito dai talebani ma non avevano idea di dove fossi”. Amensty ricorda che uno dei primi casi di violenza contro i media si è verificato contro due giornalisti del quotidiano Etilaat Roz che stavano coprendo le proteste delle donne a Kabul il 9 settembre 2021. Nonostante lo scandalo internazionale che ne è derivato, le violenze non si sono fermate e fare giornalismo nel paese è più pericoloso che mai.