Un mondo sommerso di degrado e sofferenza di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 agosto 2023 Puntuale, d’estate torna l’emergenza carceri. L’anno scorso si registrò il record dei suicidi, 16 solo nel mese di agosto; quest’anno no, ma tre morti in due giorni (e due nello stesso istituto) riportano in primo piano una situazione di disagio straordinario che straordinario non è, poiché è strutturale. Le condizioni di vita dei detenuti (e degli agenti penitenziari) sono critiche sempre, anche quando non si verificano fatti eclatanti che le riportano d’attualità. Ma si tratta di un mondo sommerso, un po’ come quello dei migranti, che solitamente si preferisce ignorare. Nonostante la situazione sia sotto gli occhi di tutti. “La stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale”; sono parole scritte dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nell’ottobre 2013, nel suo unico messaggio alle Camere durante i nove anni trascorsi al Quirinale. “Le istituzioni e la nostra opinione pubblica non possono e non devono scivolare nell’insensibilità e nell’indifferenza convivendo, senza impegnarsi e riuscire a modificarla, con una realtà di degrado civile e di sofferenza umana come quella che subiscono decine di migliaia di uomini e donne reclusi negli istituti penitenziari”, aggiunse il capo dello Stato, intervenuto all’indomani delle sanzioni annunciate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia, per i trattamenti inumani e degradanti inflitti ai detenuti attraverso il sovraffollamento delle carceri. Napolitano si spinse a sollecitare un’amnistia, ma al di là dei rimedi proposti poneva l’ineludibile questione di un “dovere costituzionale” da assolvere. Ribadito dal suo successore Sergio Mattarella in diverse occasioni; non ultima quando, nel discorso del secondo insediamento, ricordò che “dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti; questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. Dopo il messaggio di Napolitano non accadde nulla. L’Italia evitò ulteriori condanne grazie all’introduzione di meccanismi risarcitori nei confronti dei reclusi costretti a vivere al di sotto degli standard di decenza, il numero dei detenuti è un po’ sceso (allora erano circa 64.700 stipati in 47.600 posti), ma poi ha ripreso a salire. Oggi siamo a 57.800 presenze per 51.000 posti (in realtà quelli disponibili sono 3.000 in meno), ma in alcune prigioni il sovraffollamento raggiunge percentuali allarmanti. Laddove sovraffollamento significa riduzione di attenzione e servizi da parte di strutture in sofferenza, a partire dalle “guardie” che costituiscono il primo avamposto a sostegno dei reclusi ma sono anch’esse in difficoltà. E l’assistenza - a partire da quella sanitaria, e poi psicologica, culturale, lavorativa - costituisce la base della “rieducazione” prevista dalla Costituzione, che vuol dire reinserimento nella società lasciata al di là dalle sbarre. Il Garante nazionale dei detenuti ricorda sempre che sono chiuse in cella migliaia di persone (almeno 6.000) che devono scontare pene o residui di pena inferiori a tre anni, e che dunque per legge avrebbero diritto a trascorrerli fuori dalle celle. Ma nella maggior parte dei casi non hanno un avvocato che presenti l’istanza, un posto dove scontare la detenzione domiciliare o qualcuno che offra un posto di lavoro. Sono reclusi “a perdere”, nel senso che dovrebbero essere impegnati nell’ultimo tratto di un recupero che invece, spesso, non è neppure iniziato; e in queste condizioni, una volta fuori, è molto più alto il rischio che tornino a delinquere. Ci perdono loro e ci perde la sicurezza di tutti. Ma affrontare questi problemi non porta voti né consenso, anzi c’è il diffuso timore che ne faccia perdere; per questo la politica è spesso sorda quando si parla di carcere. Nel 2018 il governo Gentiloni, su input di Matteo Renzi, all’epoca segretario del Pd, lasciò cadere gran parte del lavoro svolto per una riformulazione dell’ordinamento penitenziario, preoccupato dalle conseguenze elettorali. Che ci furono anche senza riforma carceraria, visto che nelle urne vinsero Lega e Cinque Stelle. Lo scorso anno gran parte delle proposte di revisione del regolamento penitenziario avanzata da un’apposita commissione voluta dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia rimasero sulla carta. Ora l’attuale Guardasigilli Carlo Nordio annuncia interventi per racimolare nuovi spazi detentivi, ma è da vedere se funzioneranno e quanto ci vorrà, in termini di tempo e soldi. Così come resta da vedere in che modo il governo uscirà dall’impasse in cui sembra caduto per la scelta del nuovo Garante, apparentemente improntata più a criteri di appartenenza politica che di competenze specifiche. In ogni caso, per qualunque provvedimento c’è bisogno di un avallo da parte dei partiti della maggioranza, sempre difficile da ottenere su questa materia. Nel frattempo le agevolazioni introdotte a causa del Covid (come le telefonate in più rispetto ai dieci minuti settimanali previsti, o la possibilità di non rientrare la sera per chi usufruisce del lavoro esterno) se ne sono andate con la pandemia. Passi indietro immotivati che pesano sulla vita quotidiana in carcere, senza che nessuno - a parte i reclusi e i loro familiari - se ne sia preoccupato. Fingendo di non vedere o non sentire. Come di fronte alle parole di due presidenti della Repubblica. Carceri affollate, governo e parlamento si sveglino di Rita Bernardini La Stampa, 14 agosto 2023 È stato un suicidio al rallentatore quello di Susan John. Diciotto giorni senza toccare cibo e acqua. Un modo dignitoso di chiedere ascolto da parte di una donna che si professava innocente e che aveva dovuto lasciare a casa un bambino piccolo, suo figlio. Mentre la sua vita si spegneva minuto dopo minuto, nessuno - fuori - ha saputo niente, né i garanti, né il mondo dell’informazione. Se lo avessero saputo, i garanti locali e nazionale, sarebbero potuti intervenire tempestivamente per comprendere le ragioni profonde del gesto estremo della donna instaurando con lei un dialogo. Niente, solo silenzio. Susan aveva l’aggravante di essere una straniera, una nigeriana. Non sappiamo se sia stato avvisato il magistrato di sorveglianza che, per legge, ha la responsabilità del trattamento che ricevono in carcere i detenuti, così come non sappiamo del supporto che la donna abbia potuto ricevere da educatori, psicologi, psichiatri, medici. Di questi ultimi sappiamo che le abbiano proposto di ricoverarsi in ospedale e che lei abbia rifiutato, il che appare logico nella psicologia di una persona disperata non certo per le sue condizioni di salute ma per le ragioni che l’hanno portata in carcere lontana dal suo bambino. Mi chiedo cosa siamo diventati - tutti - se ciò possa accadere nel 2023 a una persona affidata nelle mani dello Stato il quale, secondo Costituzione, avrebbe dovuto trattarla con senso di umanità disegnando per lei, come per tutti gli altri detenuti, un percorso di risocializzazione finalizzato al futuro reinserimento nella società. Dell’altra donna, che a distanza di poche ore dalla morte di Susan si è tolta la vita impiccandosi, sappiamo che si chiamava Azzurra Campari e che era appena stata trasferita nel carcere di Torino provenendo da Genova. Ma ce ne è una terza di donna che l’ha fatta finita nel carcere di Torino: è accaduto il 29 giugno scorso quando Graziana Orlarey si è impiccata a una manciata di giorni dalla sua scarcerazione per paura di ciò che l’avrebbe aspettata fuori. Questi tre suicidi rappresentano plasticamente quale sia lo stato delle carceri italiane: sovraffollamento, carenza di personale, scarsa assistenza sanitaria, detenzione all’insegna della mera punizione anziché di un percorso di risocializzazione in previsione del futuro reinserimento nella società. La realtà è che le misure alternative sono un miraggio e che il carcere non è l’extrema ratio. La popolazione detenuta è notevolmente cambiata negli ultimi anni. Spesso quando varchiamo la soglia di un istituto, ci sembra di entrare in un manicomio, in un lazzaretto. Sto preparando il report della visita che abbiamo fatto a Bergamo e leggo fra i miei appunti che su 550 reclusi 300 sono i consumatori problematici di sostanze stupefacenti e che il 60% di loro ha serie questioni di natura psichiatrica. Il problema è che “fuori” non ci sono comunità adeguate (sia per numero che per qualità) a seguirli e, quindi, pur avendone diritto per legge, queste persone continuano a rimanere in carcere dove non ricevono alcun sostegno se non quello farmacologico. Stanno entrando in carcere molti giovani fra i 18 e i 25 anni: è un fenomeno allarmante che dovrebbe allertare tutta la classe politica per correre ai ripari. A San Vittore, a Milano, ce ne sono più di 200 di questi giovani la cui dipendenza da sostanze non è mai stata intercettata dai servizi sanitari sul territorio. Piano Nordio contro il sovraffollamento: caserme dismesse e lavoro formativo e professionalizzante di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2023 In Italia i penitenziari registrano un sovraffollamento che viaggia verso il 121%: dietro le sbarre ci sono 10mila detenuti in più rispetto ai posti letto. Scontare la pena in carcere a due velocità: dietro le sbarre o per chi non si è macchiato di gravi reati nelle caserme dismesse che hanno una struttura compatibile con la reclusione, con muri, garitte, locali chiusi, ma anche ampi spazi aperti per lavoro e sport. Solo per condannati che devono scontare pene brevi per reati bagatellari che non destano allarme sociale. É il piano del ministro della Giustizia Carlo Nordio per combattere il sovraffollamento delle carceri. Nordio: costruire carceri è costoso e difficile - Un percorso per evitare la costruzione di nuovi istituti penitenziari lunghi e dispendiosi. Pieni di ostacoli burocratici ed economici. “Costruire un carcere è costoso e difficile, usare strutture perfettamente compatibili con la sicurezza in carcere è la soluzione su cui bisogna iniziare a lavorare, e ci stiamo lavorando con risultati che spero saranno abbastanza prossimi”, ha spiegato il ministro della giustizia Carlo Nordio al termine della sua visita nel carcere le Vallette di Torino, dopo la tragica morte di due detenute, una delle quali si è lasciata morire di fame. Dietro le sbarre ci sono 10mila detenuti in più - In Italia i penitenziari registrano un sovraffollamento che viaggia verso il 121%: dietro le sbarre ci sono 10mila detenuti in più rispetto ai posti letto. E si registra una tragica emergenza suicidi con 44 casi dall’inizio dell’anno, di cui 17 durante il periodo estivo. “Ogni suicidio in carcere è un fardello che angoscia ogni volta”, ma “lo Stato non abbandona nessuno”. Previsti dal Pnrr otto nuovi padiglioni, con 640 camere - Il progetto targato Nordio si affiancherà alla ricognizione sugli interventi di edilizia penitenziaria in corso e da attuare, a partire degli otto nuovi padiglioni previsti dal Pnrr, con la realizzazione di altre 640 camere detentive e spazi trattamentali. Stime ufficiali sul numero dei detenuti che potrebbero essere trasferiti nelle caserme dismesse per ora non ce ne sono ma si tratterebbe di alcune migliaia sulle oltre 57mila persone ristrette nelle carceri. I singoli provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria contatteranno Demanio e ministero della Difesa a livello territoriale per una ricognizione delle caserme disponibili, in vista di un piano nazionale. Misure alternative e aumento del personale - Previste anche misure alternative alla detenzione, in continuità con la riforma Cartabia. Si punta anche all’incremento del personale che presenta enormi carenze. É in svolgimento l’esame orale del concorso per 214 funzionari giuridico-pedagogici, gli educatori che accompagnano i detenuti nel percorso di reinserimento sociale. Il tentativo è quello di iniziare a sopperire alla sproporzione gravissima che c’è tra la popolazione detenuta e il numero modesto di operatori che invece dovrebbero essere una figura chiave nelle carceri. Un intervento che segue l’ingresso lo scorso autunno di 57 nuovi direttori delle carceri, prime assunzioni dopo uno stop di quasi 30 anni. Spinta al lavoro in carcere formativo e professionalizzante - Fra i progetti in atto c’è anche l’accordo interistituzionale firmato fra Cnel e ministero della Giustizia il 13 giugno, che ha l’obiettivo di diffondere in carcere un lavoro formativo e professionalizzante. L’obiettivo è quello di accrescere le competenze dei reclusi, rendendo proficuo il tempo passato in carcere. Carceri, servono 9 mila posti: i sopralluoghi nelle caserme di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 14 agosto 2023 Le prime mosse del piano anti-sovraffollamento, si cercano spazi tra 1.500 ex strutture dell’esercito. Potranno ospitare chi sconta pene sotto i tre anni. Troppi detenuti. Il dramma dei suicidi in carcere si potrebbe alleviare curando il primo dei mali: quello del sovraffollamento. Il ministro Nordio ha parlato di caserme dismesse da riconvertire. Un patrimonio che è di 1.500 strutture, secondo la quantificazione del Demanio che ne ha la custodia. Non tutte però sono utilizzabili allo scopo. E neppure tutte servirebbero: sono infatti circa novemila i detenuti condannati a pene brevissime, inferiori ai 3 anni, che potrebbero usufruire del trasferimento previsto dal piano del Guardasigilli, sostiene il garante dei detenuti Mauro Palma. Il ministero procederà a breve a una serie di sopralluoghi con le sue articolazioni regionali per individuare le strutture adatte in base alle esigenze territoriali e al tipo di caserme e depositi disponibili: nel mirino quelle in condizioni migliori, perché dismesse da meno di cinque anni, o con caratteristiche compatibili con quelle detentive. L’associazione Antigone ha diffuso gli ultimi dati sui suicidi in carcere a inizio agosto. Nel 2023 si conferma l’andamento del 2022, che aveva destato allarme con 85 detenuti che si erano tolti la vita, il numero più alto dal 1990. Sedici le vittime del solo mese di agosto dell’anno scorso. Anche la fotografia dei primi otto mesi del 2023 testimonia l’aggravarsi del disagio durante la stagione estiva. In 47 si sono tolti la vita da gennaio, 15 da giugno. L’incidenza di 15,2 suicidi ogni 10 mila detenuti è di 20 volte più alta rispetto alla popolazione generale. Le condizioni imposte dal sovraffollamento - patologia cronica quest’anno misurata in un tasso del 112,6% con picchi del 144% in Puglia - sono particolarmente gravose quando le temperature si impennano. Il sindacato di polizia penitenziaria Sappe ricorda che a star male in carcere non sono soltanto i detenuti ma anche gli agenti, il cui rapporto rispetto ai sorvegliati è in costante diminuzione: se l’anno scorso ce n’era uno per 1,7 detenuti, quest’anno si è passati a 1,8. Ieri a Sollicciano, Firenze, uno di loro è stato aggredito a pugni da un detenuto. E le conseguenze potevano essere più gravi: quando è stato fermato, l’aggressore aveva estratto dalla bocca una lametta. I suicidi, poi, si contano anche tra la polizia penitenziaria: uno quest’anno, 4 nel 2022 e ben 11 nel 2019. L’ipotesi di una collocazione di detenuti che non si siano macchiati di reati gravi nelle caserme dismesse riconvertite è accolta con un rilievo dal garante dei detenuti. “In carcere per condanne sotto l’anno ci sono 1.582 persone - dice Palma -, 2.855 scontano pene tra uno e due anni, 4.511 tra due e tre anni. La loro presenza in carcere si definisce improduttiva, non sufficientemente lunga per approntare un piano di reintegrazione sociale. Ma vanno identificate con accuratezza le strutture di accoglienza alternative perché siano anche di supporto ai detenuti”. La riconversione di caserme in carceri è inoltre considerata dagli addetti ai lavori un’operazione dai tempi non brevi. Piano svuota-carceri di Nordio: coinvolti novemila detenuti di Lodovica Bulian Il Giornale, 14 agosto 2023 I condannati con pene sino a tre anni potrebbero essere dirottati in caserme dismesse. Resta alta la tensione nelle strutture penitenziarie e anche l’attenzione del governo dopo la visita del ministro della Giustizia Carlo Nordio alle Vallette di Torino, dove nei giorni scorsi sono morte suicide due detenute. Il Guardasigilli ha annunciato un piano per alleggerire la pressione sulle case circondariali sovraffollate attraverso un “trattamento detentivo differenziato” per i condannati in via definitiva a pene brevi, con il riutilizzo delle caserme dismesse e nuovi spazi. All’amministrazione del penitenziario delle Vallette ieri la Procura ha chiesto una serie di documenti nell’ambito delle due inchieste aperte sui decessi di Susan John, 43 anni, che si è lasciata morire rifiutando alimentazione e cure, e di Azzurra Campari, 28 anni, che si è impiccata in cella. Oggi verranno affidati gli incarichi per le autopsie. La 28enne, riferiscono fonti vicine agli ambienti della struttura penitenziaria, si sarebbe trovata in regime di sorveglianza “media”, e, sempre a quanto trapela, le sue problematiche sarebbero state portate a conoscenza degli operatori. Uno dei nodi sarà però chiarire perché sia stato abbassato il livello di sorveglianza su un soggetto così fragile. Susan John era invece in una cella della sezione riservata a detenute con fragilità mentali o comportamentali, con un sistema di videosorveglianza 24 ore su 24, ma sono state le agenti - a cui chiedeva continuamente di poter vedere il figlio - ad accorgersi che non stava più assumendo né cibo né acqua. Il personale medico che l’avrebbe visitata il 4 agosto a seguito di una caduta non avrebbe però riscontrato criticità e avrebbe certificato che la donna non voleva sottoporsi ad accertamenti. Per superare le condizioni difficili delle carceri italiane, il ministro Nordio ha annunciato un piano di riutilizzo delle caserme dismesse dove andrebbero trasferiti i condannati in via definitiva per reati che non destano allarme sociale. Si tratterebbe, nelle stime del garante dei detenuti Mauro Palma, di 9mila persone - tanti sono attualmente i detenuti con condanne brevissime, inferiori ai 3 anni - che potrebbero usufruire del trasferimento. Ma andrebbero identificate “con accuratezza le strutture di accoglienza, che siano non solo di controllo ma anche di supporto ai detenuti - spiega Palma all’Ansa - Bisogna anche coinvolgere il territorio, i comuni e le associazioni”. Dei 9mila detenuti con condanne brevi, quelli con pene inferiori a un anno sono 1.582, quelli con pene tra 1 e 2 anni sono 2.855 e quelli da 2 a 3 anni sono 4.511. Del resto, per queste persone, spiega Palma, la presenza in carcere sarebbe “improduttiva”, perché non sufficientemente lunga per un percorso di “rieducazione e reintegrazione sociale”. Il piano di ricognizione delle strutture dismesse disponibili a essere trasformate partirà in autunno, con incontri che i provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria avranno con i referenti locali del demanio e del ministero della Difesa per verificare quali e quante caserme possano essere considerate nel piano di riutilizzo. Restano critici i sindacati di Polizia penitenziaria, col Sappe che insiste per aprire invece un “tavolo permanente” con il ministero sull’organico degli agenti. Per Riccardo Magi, di Più Europa, “Nordio deve farci capire cosa ha in mente per trattamento differenziato, deve scoprire le carte per cercare insieme di risolvere la situazione. C’è una doppia faccia del ministro, si vuole depenalizzare alcuni reati, ma allo stesso tempo se ne creano di nuovi con pene molto alte, creando l’effetto opposto rispetto a quello di snellire le carceri. Quando lui dice edilizia, noi sappiamo che questa non può essere l’unica risposta e soprattutto non è quella più urgente”. Il piano Nordio e l’ipotesi di utilizzare le caserme dismesse per svuotare le carceri non convince di Valeria D’Autilia La Stampa, 14 agosto 2023 “Non si può risolvere tutto dicendo avevo le camerate, anziché le porte ci metto due cancelli. Oppure: visto che sono stanze grandi le divido con il cartongesso. La situazione è molto più complessa”. Il piano Nordio e l’ipotesi di utilizzare le caserme dismesse per svuotare le carceri non convince chi conosce bene gli istituti di pena. Attualmente, rispetto alla capienza sul territorio italiano sono detenute 10mila persone in più, ma per molti la soluzione non può essere questa. La Cgil è netta. Se per il Governo recuperare strutture inutilizzate del demanio per trasferirvi detenuti responsabili di reati minori è la strada più sostenibile, anche in termini economici, non lo è per molti altri. Prendiamo il caso Puglia. Taranto è uno dei penitenziari più affollati d’Italia con oltre 800 detenuti rispetto ai 500 previsti, mentre a Bari si conta il 30% in più di presenze rispetto alla capienza e il 30% in meno rispetto al numero di poliziotti. Il piano prevede anche un potenziamento dell’organico nella polizia penitenziaria. Ma ad essere in pochi sono anche educatori e assistenti sociali il cui sostegno psicologico prosegue anche all’esterno per chi è ai domiciliari. Per tutti una mole di lavoro ormai insostenibile, un’emergenza pressoché quotidiana. “Quanto ti costa rimettere in piedi una struttura e riconvertirla totalmente e quanto costerebbe invece provare finalmente a realizzare un carcere moderno, funzionale sia a chi dovrebbe ricevere un processo di rieducazione che a chi, lì dentro, ci deve lavorare?”. Una serie di domande che arriva dal segretario della funzione pubblica di Bari, Dario Capozzi. Anche il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, con il segretario nazionale Federico Pelagatti è netto. “Questa storia va avanti da anni. Ogni Governo la tira fuori per poi abbandonarla. Ma è comunque un falso problema. Per portare una caserma agli standard - anche di sicurezza - di un carcere faremmo prima ad abbatterla e ricostruirla. Pensiamo piuttosto ad affrontare la carenza di personale”. Restando nel Barese, molte strutture non risultano completamente dismesse, ma più che altro sovradimensionate perché costruite in un periodo storico in cui la leva militare era obbligatoria. Oggi i numeri sono molto diversi e, molte aree, sono sfruttate al minimo delle loro potenzialità. Ma resta il fatto che sono state pensate con altre finalità. È il caso delle cosiddette “ex Casermette”, oggi ruderi militari che dovrebbero trasformarsi nel Parco della Giustizia, accorpando in un unico luogo le sedi di procure e tribunali. E il progetto, di ampio respiro, prevede un completo stravolgimento dell’intero perimetro. Andando per esclusione, si potrebbe pensare alla struttura dell’ospedale militare Bonomo in via De Gasperi con i suoi 50mila metri quadri e alla caserma dell’aviazione di corso Sonnino. Entrambi abbandonati da circa un decennio. Ma qui, come in altre regioni, si porrebbe un altro problema: i locali sono in pieno centro cittadino. “Non si possono mettere i carcerati in una zona abitata, pensando che possano fare l’ora d’aria con la gente che si affaccia ai balconi. Bisogna tutelare la loro privacy e allo stesso tempo rispettare anche la popolazione, senza costringerla a scene che è bene rimangano dentro il carcere”. Capozzi, più volte, ha effettuato sopralluoghi nel carcere di Bari. “Non è che funziona come un hotel. Pensiamo ai bagni esterni: per un fatto evidente di sicurezza non possono essere chiusi, non possono avere porte. Quindi è impensabile immaginare palazzi intorno”. Da qui la richiesta, al contrario, di un vero piano di edilizia carceraria, provando ad intercettare magari terreni del demanio o del comune fuori dall’area cittadina. Le criticità, quindi, non sarebbero solo strutturali, ma anche di progettazione. E questo vale per l’Italia intera. Strutture obsolete, pensate nel Dopoguerra, molte delle quali andrebbero persino bonificate dall’amianto. Per il sindacato i limiti sono più dei vantaggi. La zona riservata agli uffici deve essere adiacente e non interna, poi bisognerebbe blindare tutta la parte che porta alla zona carceraria vera e propria. E via dicendo. “Gli istituti di pena vanno costruiti in maniera precisa, non si possono riadattare” è quello che ripetono molti operatori. Sempre prendendo il caso Bari, è anche hub sanitario. Quindi con al suo interno un vero e proprio ospedale. “Come facciamo - si chiede Capozzi - a metterlo in una caserma? La situazione è molto più complessa che dire recuperiamo una vecchia struttura. In tutto questo consideriamo che questi progetti non avrebbero certo un costo zero. E alla fine per avere cosa? Un semplice riadattamento”. Il piano a ostacoli per le carceri light: “Le ex caserme sono destinate ad altro” di Liana Milella La Repubblica, 14 agosto 2023 La ricognizione al via dopo l’estate. Ma molti immobili dismessi sono già stati assegnati. Ma le caserme dismesse, come promette Carlo Nordio, potrebbero essere davvero la panacea per risolvere i problemi delle carceri italiane sovraffollate al punto da poter essere anche la causa di 47 suicidi quest’anno e 85 l’anno scorso? Repubblica ha fatto un rapido sondaggio, grazie alle sue redazioni nelle principali città italiane, e ha scoperto che in realtà di caserme disponibili purtroppo pare proprio che non ce ne siano affatto, o ce ne siano pochissime. Forse lo scoprirà anche il ministro della Giustizia quando, come annunciano i suoi uffici, in autunno procederà a una “prima ricognizione” attraverso i contatti dei provveditori regionali delle patrie galere con i referenti locali del demanio e del ministero della Difesa. Ma il progetto sembra già partire su un piano inclinato. Vediamo perché. Nordio ha parlato delle caserme dismesse numerose volte da quando il ministro, lo ha fatto tra Camera e Senato a dicembre presentando il suo programma, lo ha ridetto in interviste, e ancora alla festa della polizia penitenziaria il 22 marzo scorso. E già lì sono cominciate le proteste dei sindacati della polizia, come quelle che adesso ribadisce Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa, che parla di “un’idea non ha fatto originale, concretamente impercorribile, perché per i detenuti sarebbero necessarie strutture appropriate e architettonicamente progettate per questo scopo. E poi ci vorrebbe il personale, mentre alla polizia penitenziaria mancano 18mila unità”. Oggi siamo 36mila ma il fabbisogno necessario sarebbe di 54mila”. Dunque la coperta del personale è cortissima. Ma eccoci alle caserme. Partiamo proprio da Torino - nel carcere delle Vallette si sono suicidate Susan John e Azzurra Campari - e dove tra le caserme storiche abbandonate c’è la Amione, 28.000 mq, su cui però c’è già un progetto di riqualificazione per ospitare uffici di 12 amministrazioni pubbliche con 1.200 dipendenti ed esiste già un bando di gara da 14 milioni di euro. Forse più chances ci potrebbero essere con la caserma Mardichi di via Bologna dismessa dal 2014, e da quattro anni inserita nell’elenco dei beni “non più utili a finalità istituzionali e suscettibili di valorizzazione”. A Milano non risultano caserme disponibili. Nella Montello di via Caracciolo, che ospitò nel 2016-17 centinaia di profughi, già da oltre un anno ci sono lavori per il maxi trasloco degli uffici di polizia dalla Garibaldi di Sant’Ambrogio, a sua volta da riconvertire a campus universitario della Cattolica. E anche la Santa Barbara di piazzale Perrucchetti, con l’annessa piazza d’Armi, attende un investitore che voglia farsi carico di un’area enorme e di pregio, tuttora sede del Primo Reggimento Trasmissioni dell’Esercito. Non va meglio a Firenze dove risultano dismesse la caserma di Rovezzano, già destinata ad ospitare un comando Nato, e la caserma Lupi di Toscana, al confine con Scandicci, dove però sono previste case, alloggi per studenti e un centro commerciale. Pure a Bologna la situazione è compromessa, perché le due ex caserme più importanti sono la “Staveco” di ben 93mila mq, ma dove sorgerà la nuova cittadella della giustizia. E la Stamoto di 120 mila mq dove sono già previste residenze per gli studenti. Tappa a Roma dove le ex caserme sono state già cedute dal Demanio al Comune. Come per l’ex direzione Magazzini del commissariato “Porto Fluviale” che sarà trasformato in abitazioni da destinare alle famiglie che già lo occupano. L’ex caserma Guido Reni diventerà il Museo della Scienza. Chance forse per l’ex caserma Bellosguardo tra Pisana e Bravetta che due anni fa è tornata al Demanio perché il dipartimento Patrimonio del Comune di Roma non l’aveva mai valorizzato. Al Sud ci aspetta una delusione. A Bari le uniche caserme dismesse sono già state utilizzate per costruire la futura cittadella della giustizia. Il progetto è già operativo. Quanto a Palermo non risultano caserme disponibili. In via Arenula si vagheggia di numerose caserme disponibili al confine con il Friuli. Ma a questo punto toccherà al ministero fare in autunno la verifica, augurandosi che nel frattempo non aumentino i suicidi. Visto che ancora ieri, il Sappe del segretario Donato Capece, ne citava uno “sventato grazie ai poliziotti penitenziari” nel carcere di Vasto. Stesso film a Potenza. Senza contare che, come denunciano i sindacati, alle carceri sono stati tolti 35 milioni di euro nei prossimi tre anni, nonostante Nordio avesse garantito, il 6 dicembre 2022 tra Camera e Senato, che avrebbe fatto una battaglia per evitare i tagli. E sempre dai sindacati arriva l’espressa critica a Nordio per via dei nuovi reati introdotti, rave party, decreto Cutro, reato universale per l’utero in affitto, le maggiori pene per chi appicca incendi, che aumenteranno gli arresti. Qualora davvero, con la bacchetta magica, in autunno le caserme dovessero spuntare fuori, dovranno essere verificati i lavori da fare, cercati i fondi per realizzarli, effettuare i lavori. Ipotizzare un anno è davvero poco per ultimarli. Ma chi dovrebbe finire, stando ad oggi, nelle ipotetiche caserme? Il garante dei detenuti Mauro Palma ipotizza che potrebbero essere 9mila se il piano Nordio coinvolge detenuti condannati a meno di tre anni. Attualmente sono 1.553 quelli sotto un anno, mentre sono 2.820 i condannati a due anni, quindi 4.373 detenuti. Come affrontare intanto l’emergenza di detenuti fragili in carcere? Un esempio è proprio quello di Azzurra Campari, la detenuta di 28 anni che si è impiccata nel carcere delle Vallette a Torino. Servirebbero i cosiddetti “educatori”, cioè i funzionari giuridico pedagogici. Ne mancano 200 rispetto a una pianta organica che ne prevede un migliaio, pochissimi rispetto alle quasi 200 carceri. Sono in corso le prove orali per il concorso da 214 posti. I mediatori culturali sono solo 67. E chiudiamo la desolante carrellata con le telefonate che un detenuto può effettuare. Erano cresciute col Covid, ma sono state ridotte di nuovo. In via Arenula dicono che la questione è ancora “in fase di valutazione”. Caserme dismesse da trasformare in carceri: 23 anni di annunci e ora arriva Nordio di Marco Palombi Il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2023 Progetti, protocolli e nulla più. Il ministro ne parla da dicembre, ora dice che in autunno forse inizia la ricognizione degli immobili adatti. E alla fine questo agosto 2023 ci ha riportato pure le caserme dismesse da trasformare in carceri gentili per i detenuti non pericolosi. Forse qualcuno avrà pensato che il ministro della Giustizia Carlo Nordio abbia tirato fuori l’ideona sabato per contrastare l’enormità di quanto stava vivendo: la visita nel carcere di Torino in cui il giorno prima erano morte due detenute (una si è impiccata, l’altra si è lasciata morire di fame). In realtà il Guardasigilli tira fuori le benedette caserme da mesi, più o meno ogni volta che parla di carceri: già a dicembre in Senato proponeva le caserme dismesse per il transito degli arrestati, a marzo con la primavera le caserme dismesse erano invece già ottime “per i detenuti che hanno commesso reati di minore gravità”. D’altronde per Nordio gli immobili della Difesa sono proprio fondamentali: “Poiché è impossibile costruire carceri nuove, bisognerebbe adattare una serie di caserme militari dismesse”. Perché è impossibile? “Perché nessuno le vuole alle proprie spalle, il principio not in my back” (Ansa, 23 aprile), riscrittura artistica della sindrome Nimby, not in my backyard, non nel mio giardino, luogo più probabile per costruire un carcere rispetto alle spalle di chicchessia. Il ministro aveva pure una mezza idea su come trovare i soldi: “Ci sono carceri in appetibili centri città che potrebbero essere venduti a prezzi di mercato per costruire strutture più adeguate”. Come che sia, sotto con le caserme dismesse per i detenuti che hanno commesso reati “minori”. I dettagli non si conoscono, ma - dice il garante dei detenuti Mauro Palma - la platea interessata può arrivare a 9mila persone (su 42.500 condannati definitivi), tutti quelli che hanno da scontare pene sotto i tre anni: ad oggi quelli sotto un anno sono 1.582, quelli con pene tra uno e due anni sono 2.855 e quelli da due a tre anni 4.511. Tutti e novemila possono stare tranquilli che la faccenda non li riguarderà: e non tanto perché Nordio ne parla da dicembre e non ha ancora fatto nulla, né perché la ricognizione delle strutture idonee inizierà “in autunno” (campa cavallo), ma perché questa faccenda delle caserme dismesse è una sorta di ritornello della Seconda Repubblica dacché si è prima svuotata e infine abolita la leva obbligatoria (2004). Era il luglio di 23 anni fa quando l’allora Guardasigilli Piero Fassino illustrava il suo piano di investimenti per la giustizia: “1.060 miliardi di lire andranno all’edilizia penitenziaria (nuove carceri, carceri ristrutturate, utilizzo di caserme dismesse)”, riportava l’Ansa. Nel 2006 era Alleanza nazionale a presentare “un programma di interventi per l’adeguamento e l’utilizzo delle caserme vuote da destinare all’accoglienza e al pernottamento dei detenuti e degli internati in semilibertà assegnati al lavoro esterno”. Due anni dopo l’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa insisteva: “Utilizzare anche le caserme dismesse” come “luogo di detenzione per chi è in semilibertà”. Persino i sindacati di base, siamo nel 2010, invocavano le “caserme dismesse o in via di dismissione” che “a costi contenutissimi” potrebbero “essere trasformate in idonei edifici per gli arresti temporanei”. La faccenda sembrava finalmente risolta quando, era il 2013, la Guardasigilli Anna Maria Cancellieri scolpì quanto segue: “C’è un circuito di detenuti non pericolosi da sistemare in caserme distribuite in varie regioni: ne abbiamo già individuate una decina da ristrutturare in tempi rapidi senza grossi investimenti”. E poche settimane dopo: “Abbiamo un progetto approvato per una caserma a San Vito al Tagliamento” (i lavori, affidati a Pizzarotti, forse inizieranno quest’anno…). Sei anni dopo il successore Alfonso Bonafede spiegava che al ministero era stato “avviato un piano per la riconversione in istituti penitenziari di complessi ex militari”. Anzi, c’era già il protocollo di intesa con la Difesa per le caserme Cesare Battisti di Bagnoli, Nino Bixio di Casale Monferrato e altre pregevolissime che poi, purtroppo, stanno ancora come stavano. E ora le caserme dismesse ce le rivende Nordio, ovviamente nell’attesa che lo faccia il suo successore: a occhio non ci vorrà molto. “Suicidi in carcere, servono misure alternative” di Niccolò Magnani ilsussidiario.net, 14 agosto 2023 Il Garante dei detenuti Mauro Palma: “9mila potrebbero già uscire ora. Bene la differenziazione di Nordio sulle detenzioni”. Due donne morte suicide in carcere negli ultimi giorni hanno riacceso i riflettori - colpevolmente spenti nella stragrande maggioranza dei media fino ad oggi, ndr - sull’emergenza delle condizioni carcerarie in Italia: raggiunto dai giornali del “Quotidiano Nazionale”, il professor Mauro Palma parla da Garante dei detenuti e critica la mancanza di accortezza di magistrati e personale carcerario per il caso della donna nigeriana morta di inedia per protesta contro la sua condanna. “Questa donna era arrivata a Torino il 21 luglio. Comincia a non mangiare né bere, rifiutando ogni sostituzione. Il 4 agosto stramazza. La portano in ospedale e rifiuta il ricovero. Di segnali insomma ce n’erano. Un poco di attenzione in più ci poteva essere. Ma non essendoci esplicita protesta, non è stato attivato alcun protocollo”, racconta il professore. E così il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale riflette anche sui piani alternativi da considerare al più presto per contrastare la lunghissima lista di morti nelle carceri in questo solo 2023: “A oggi sono 5 donne morte su 42 suicidi nel 2023. Ma le donne carcerate sono 2.496 su 57.832 persone: le donne soffrono di più in carcere. Anche al 41 bis. Non perché il carcere è più punitivo, ma perché è un sistema non pensato per loro”. Secondo il Garante, il carcere non può essere un luogo di attesa: “42.968 condannati. In attesa di primo giudizio sono 8.040. Altri 3.530 in attesa appello, ma con prima condanna. In 2.223 aspettano la Cassazione. E 688 sono in posizione mista senza nulla di definitivo. A oggi hanno avuto pene da 0 a un anno in 1.582. Persone senza domicilio, uno straccio avvocato né altro, che avrebbe loro consentito misure alternative”. Servono insomma misure alternative alla carcerazione per diversi detenuti che ad oggi invece restano nelle celle sovraffollate spesso in condizioni sanitarie, igieniche e psicologiche terribili: “Portar fuori dal carcere chi si può. Se si considera che da 2 a 3 anni ci sono altri 4.511 condannati, si arriva a circa 9mila persone per cui già l’ordinamento prevede pene alternative”, rileva ancora il Garante dei detenuti nell’intervista al QN. Tali misure in alternativa alla normale detenzione però, al momento, ancora non esistono in quanto “perché non si realizzano strumenti sociali di supporto. Sostengo da sempre di ragionare su strumenti alternativi al carcere: dei luoghi che siano di controllo, ma insieme di responsabilità territoriale e degli enti locali. Già portando fuori queste persone il carcere respira”. La visita di ieri al carcere di Torino del Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha portato qualche buona novità in termini di provvedimenti urgenti per contrastare l’emergenza carceri - in realtà già dal suo insediamento a Via Arenula sono in corso progetti per studiare delle misure alternative al carcere oltre al garantire strutture esterne alla prigione. “Bene la proposta Nordio di differenziare le detenzioni in base ai reati. Più di 4mila persone oggi sono in carcere con condanne inferiori a due anni. Sono in carcere perché non hanno case o strutture sociali che possano accoglierli. Si possono per queste persone pensare strutture territoriali che siano di controllo e di reintegrazione”, così ha commentato sempre il Garante Mauro Palma in collegamento con RaiNews24 davanti alla proposta del Ministro di differenziare la detenzione oltre che predisporre caserme dismesse per alcuni detenuti con reati “minori”, in modo da sfoltire le celle. Manconi: “Il governo cerca soluzioni magiche. La strada da seguire è depenalizzare” di Pierangelo Sapegno La Stampa, 14 agosto 2023 L’ex senatore Pd: “Mettere a norma le caserme dismesse sarebbe un costo enorme. In Italia troppe persone finiscono in carcere rispetto alla gravità dei reati”. Dopo i suicidi nel carcere di Torino di Azzurra e Susan, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha indicato la strada: “Dobbiamo sfruttare le caserme per alleggerire le celle sovraffollate”. Tutti d’accordo? Non proprio. “È una ricetta di cui si abusa e che risulta insensata già prima che se ne sia fatta la più modesta delle sperimentazioni”, ribatte Luigi Manconi, già docente di sociologia e dei fenomeni politici, ex senatore Pd e sottosegretario con delega alle carceri. “Una soluzione magica a cui si ricorre davanti a situazioni di emergenza che non si è in grado di affrontare”. Cominciamo da qui per fare un viaggio nella realtà crudele di un mondo sconosciuto, che non racconta solo suicidi e prevaricazioni. Allora, perché non vanno bene? “Innanzitutto, la caserma tipo è uno stabile dismesso che ha subito un processo di decadenza che richiede un impegno economico rilevante, anche sotto il profilo dei tempi. La caserma è un guscio vuoto che non risolve i problemi”. Ecco, parliamo dei problemi. A cominciare da quello del personale. Un agente per quasi due detenuti, ma un educatore ogni 80… “Si può anche dire uno psicologo ogni 150. Che è un dato ancora più drammatico. Una disponibilità irrisoria”. A fronte di una situazione esplosiva… “Partiamo dall’inizio. Fra due giorni il ministro dell’interno illustrerà i dati della criminalità in Italia. Sulla base della serie storica, mi è facile anticipare quelli essenziali. Il più importante: nel 1992 gli omicidi volontari oscillano tra o 700 e gli 800. Nel 2022 è altamente probabile che saranno meno di 300. Il reato più efferato del nostro codice è più che dimezzato”. E gli altri? “Parallelamente tutti gli altri, compresi quelli di strada hanno conosciuto una curva calante anche se con modeste oscillazioni”. Sicuro? “La tendenza è quella da 30 anni”. Non ci sono reati in crescita? “Quelli informatici. Ora non posso escludere che gli scippi siano aumentati per chissà quale motivo. Ma la realtà resta questa”. Come si spiega una percezione diversa? “Siamo vissuti in una bolla, all’interno dell’opinione pubblica la sicurezza rimaneva sempre ai primi posti delle ansie collettive, perché gli allarmi sociali erano funzionali a una certa politica”. E come mai i detenuti aumentano? “Il problema non è aumentare la capacità delle carceri, ma ridurre i nuovi carcerati”. Rovesciare l’analisi comune? “Certo. Non inseguire la spirale dell’allarme sociale. Oggi all’interno della popolazione detenuta il 30 per cento deve scontare una pena inferiore ai tre anni, un numero esagerato”. E quanti sono i suicidi fra loro? “I suicidi. Le donne sono il 5% della popolazione detenuta e fra loro il numero è doppio rispetto ai maschi. I suicidi fra i detenuti sono 16, 17 volte superiori a quelli fuori. Io ho fatto 3 ricerche sociologiche su questo tema, sono datate, ma i dati sono più o meno gli stessi. Una elevatissima incidenza è fra i detenuti nel corso della prima settimana e un numero elevato nei primi 2, 3 giorni”. Questo perché? “La spiegazione è che il suicidio nasce dall’impatto. È l’impatto di un detenuto con un universo a lui sconosciuto rappresentato dall’universo carcerario, di cui ignora tutto. Il codice, le gerarchie, gli stili di vita, le appartenenze. La lingua”. La lingua? In che senso? “Perché dentro le carceri c’è una lingua propria, straniera. Esiste un codice linguistico speciale che governa le relazioni come in ogni sistema chiuso. Ignorarla può determinare forti incomprensioni, ma pure effetti negativi”. Torniamo all’impatto. “La condizione di un detenuto è quella della propria solitudine. La ragazza Azzurra è stata vittima di questo. Un detenuto ha bisogno di socialità. Nelle carceri quello che chiamano sovraffollamento io la definirei congestione. Provi a immaginare una cella in una condizione di promiscuità coatta. Provi a immaginare questo sovrapporsi di muscoli, arti, questo incrociarsi di effluvi, umori, liquidi, secrezioni. Questa è congestione, non è il sovraffollamento sulla spiaggia di Rapallo. Preservare un frammento di umana dignità è impresa gigantesca”. La situazione europea com’è? “Un po’ diversa. Nell’Europa del Nord di sicuro migliore. In Italia tra i condannati il 55% va in prigione. In Francia, Germania, Inghilterra e Spagna solo una percentuale oscillante tra il 27 e il 37”. Colpa delle nostre leggi? “Certo. Sono leggi carcerocentriche. La recidiva tra chi sconta interamente la pena in carcere è del 70 per cento. Tra quelli che scontano la pena fuori crolla al 20, in determinate circostanze al 2”. Quali? “Il cosiddetto articolo 21, lavorano durante il giorno e dormono in cella. Tra quelli che ottengono benefici, tipo il permesso di una settimana, è meno dell’1 per cento. Solo che i nomi noti che evadono scatenano tutta l’attenzione”. Per tirare le somme? “Depenalizzare il maggior numero di fatti di reato. Basta pensare a cosa vorrebbe dire una politica antiproibizionista. C’è il problema degli immigrati che sono il 35%, nella maggior parte arrestati perché non in regola col permesso di soggiorno. E finiscono in carcere, nell’università del crimine. Bisognerebbe ricorrere al maggior numero possibili di sanzioni alternative alla cella. In Germania il 55 per cento delle condanne è di sanzioni pecuniarie. Infine rivalutare il lavoro, che riguarda solo l’11% dei detenuti ed è in buona parte attività di riproduzione del carcere stesso”. Tutto questo sarebbe meglio delle caserme? “Come stabilì un rapporto del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di 20 anni fa, i detenuti socialmente pericolosi costituiscono il 10 per cento della popolazione carceraria. Oggi sarebbero 5500. Altro che caserme dismesse”. Muoia Susanna, muoia Azzurra, muoia Andrea. I risultati elettorali mica cambiano per questo di Piero Sansonetti L’Unità, 14 agosto 2023 Susan è morta di fame e di sete, perché faceva lo sciopero della fame e della sete. Lo Stato l’aveva in custodia. L’ha lasciata morire. Lo Stato l’ha condannata a morte. Deve risponderne perché in Italia la pena di morte è vietata dalla Costituzione. Non risponderà. Azzurra invece è morta perché aveva deciso di morire. Perché non sopportava il carcere. Perché lo viveva come una sopraffazione, un’ingiustizia, un’ingiustizia più grande ancora del suo istinto di conservazione. Azzurra si è impiccata. Nello stesso giorno nel quale è morta Susan. Nella stessa prigione. Lo Stato non le ha impedito di morire. Le ha imposto la sua legge, la follia di una sua legge che prevede il carcere per punire. Il carcere, la tortura, l’infamia. Ieri invece è morto Andrea Muraca. A Rossano, in Calabria. Il suo nome lo abbiamo scoperto su Facebook. Lo Stato non ce l’ha detto. Aveva in custodia anche lui, lo Stato. Anche Andrea. Non lo ha custodito bene. Aveva 42 anni, qualche anno fa aveva perduto un figlio. Immagino un ragazzo. Non sappiamo altro. Sappiamo che numero è: il numero 47. Cioè la quarantasettesima persona che si è suicidata in carcere quest’anno. I suicidi sono numeri. Sigle. Età. Reati. Reato stupefacenti, dicono al carcere di Rossano. Come Susan. Era in prigione da febbraio, detenzione preventiva imposta dalla Dda di Catanzaro. Quella di Gratteri. Lo accusavano - se ho capito bene - di piccolo spaccio. Le prigioni italiane sono ormai piene zeppe di ragazzi, di donne, di adulti che sono accusati di questo reato. Mica solo a Rossano. Probabilmente se si legalizzasse la droga leggera le carceri non sarebbero più affollate. Ma non sarebbe questo il rimedio definitivo. Le carceri vanno abolite perché non servono a punire i delitti: le carceri sono un delitto. Il più grave delitto dello Stato. Ieri nel carcere di Torino dove è morta Susan John, 42 anni, due figli, uno di 4 anni, è esplosa la protesta quando si è presentato il ministro Nordio. Urla, e la tradizionale battitura coi cucchiai sulle sbarre delle celle. Come è possibile che nessuno sapesse che da 20 giorni una detenuta stava facendo lo sciopero della fame, perché si dichiarava innocente e perché voleva rivedere il suo bambino piccolo, che vive senza la mamma. Spesso succede così: la mamma viene mandata in prigione e lascia a casa dei bambini piccoli che scontano così la condanna anche loro. Ma non ci avevano spiegato che le carceri sono il rimedio estremo? Non ce l’avevano detto anche il latino: extrema ratio? E vi pare che sia così, extrema ratio, se si mette in prigione una signora che ha un figlio di quattro anni, che soffre come un cane senza la sua mamma? E vi pare che sia extrema ratio tenere in cella una donna che da 20 giorni non mangia e non beve e che i medici dicono che sta per morire? Nessuno si muove per salvarla? La magistratura di sorveglianza è stata avvertita? Perché non è stata avvertita la garante dei detenuti? Qualcuno ha preso in considerazione l’ipotesi di liberarla? Per una società moderna e civile vale di più lo scalpo di una donna forse innocente o forse colpevole, o vale di più la vita umana? La politica, la politica! Dov’è la politica? Si è manifestata nella persona del ministro Nordio che è andato al carcere, ieri, per dire che quella signora non stava facendo lo sciopero della fame e non ce l’aveva col governo, e ha detto che le circostanze e la ragione della morte sono “dettagli tecnici” che non ha approfondito: Non ci credete? Sì, sì, ha detto così il ministro garantista. Ha voluto prenderla lui la medaglia d’oro che spetta al ministro più cinico dell’anno. E il resto della politica? E i liberali? E la sinistra? Si, lo so, lo so, non portano voti i detenuti. Anzi, cacciano via i voti delle persone per bene che vogliono che i carcerati stiano lì, serrati nelle celle, e dicono che se i detenuti non vogliono mangiare affari loro: crepino. Lo so, me lo ricordo. Però penso che tanti anni fa, quando in Italia infuriava la mafia e il terrorismo, c’erano dei politici che si occupavano dei carcerati, c’era un parlamento che votava quasi all’unanimità la legge Gozzini che alleggeriva la sofferenza e aumentava la possibilità di uscire. Quanto tempo è passato? Due secoli, dieci secoli? Come si è dissolto quel fiume carsico della politica che erano le idee, i valori, persino i sentimenti? Oggi il cuore della politica sono i sondaggi. E i sondaggi dicono di lasciare stare le carceri. Muoia Susanna, muoia Azzurra, muoia Andrea. I risultati elettorali mica cambiano. Suicidi nelle carceri, la fotografia del fallimento di un contesto di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 14 agosto 2023 In questi giorni i suicidi in carcere si rinnovano con la stessa precisione matematica di sempre, come fatto ripetitivo che rimane stampato nella memoria ma che si vuole sia solo un ricordo, quindi un fatto ripetibile. Oggi ero sulla tua tomba di un giovane suicidatosi in carcere l’anno in corso: “Non ti ho conosciuto né ho ascoltato la tua storia, né dato soccorso alla tua richiesta di aiuto, neppure ho visto le tue lacrime o sentito il tuo imprecare; sono alla tua tomba per chiederti scusa, e con te a tutti i suicidi nelle carceri, per quanto non si è fatto, per quanto ti è stato tolto, sulle manchevolezze, troppe, enormi e non scusabili. Dai giornali emerge il sentimento momentaneo di sdegno, che avvolge tutti, ma poi presto è dimenticato. Sono davanti alla tua tomba, persona sconosciuta, ma che rappresenti tutti quei visi ignoti che come te non hanno potuto, saputo, voluto dire sì alla sopportazione ed alla vita. Sono sulla tua approssimativa tomba, dove una madre ha posto in un vaso di marmellata vuoto dei fiori ancora non del tutto appassiti, scrivendoci il tuo nome e le date di nascita e di morte e il nome, mamma, per rassicurarti che lei non ti aveva mai abbandonato anche in quel momento fatale del no alla vita. Se si avesse il senso della responsabile consapevolezza, dovrebbe sorgere il rimorso per non aver riconosciuto o affrontato adeguatamente i segnali di sofferenza, tue e delle altre persona che come te hanno attuato un gesto innaturale per affermare il loro basta. Penso a te che nell’affrontare il suicidio, avevi tanta rabbia e frustrazione verso il sistema carcerario e la sua immutabilità che non poteva far altro che portarti a questa soluzione, di un carcere che è mancato al dovere di fare di più per aiutarti, o sostenerti nel tuo grido di aiuto e nel momento che precede il suicidio, un momento breve ma sufficiente da individuare per mettere in atto l’aiuto. La tua vita l’hai terminata in una cella, che dicono sovraffollata, ma non tanto per permettere a te e agli altri di suicidarsi”. Sulla tua tomba di un giovane suicida, quali ammonimenti e riflessioni possono servire come monito potente per superare le sfide dell’abbandono; quali riflessioni per dare vita ad una sensibilizzazione sull’ altalenante interessamento alla situazione detentiva e sulla prevenzione al suicidio, atto ormai sorto a stillicidio continuo e quotidianamente ripetuto in carcere? Meglio: le carceri sono strutture in grado di risanare se stesse o invece questo è il momento per riconoscere il fallimento istituzionale e passare la mano ad altre realtà? Perché non chiedere al contesto esterno Locale e Sociale quella collaborazione ben presente nell’Ordinamento Penitenziario del 1975, considerato ingiustamente vetusto e da accantonare? Non si tratta di fare nuove leggi, ma solo di attuare i due punti focali dello stesso: l’offerta di servizi e la territorializzazione della pena. Posso dire con cognizione di causa, in quanto presente all’epoca, che l’offerta di servizio non è da intendersi come una modalità organizzativa interna delle carceri ma una complessità di interventi da affidare a una Agenzia che comprendesse sia l’organizzazione carceraria ma anche l’Ente Locale, che per statuto offre servizi, e il Privato Sociale che li attua. Questa modalità operativa attua la territorializzazione della pena considerata solo come un modo per tenere il ristretto in un carcere vicino casa, ma la partecipazione diretta dell’Ente Locale e del qualificato Privato Sociale nella gestione della pena. Un altro punto che non può essere dimenticato è il contenitore carcere dove si espia la pena o la restrizione della libertà personale, non lo si può pensare senza considerare che altre strutture pubbliche dismesse come ex caserme o ex ospedali possono offrire medesime opportunità custodiali ma con una offerta di servizi più celere, fondamentale nell’ azione preventiva nei casi di suicidio, e diversificata per la presenza di più figure professionali e meno legate ai ritmi lenti del carcere. “Dinanzi alla tua tomba penso che se tu fossi stato ristretto in un contesto diverso dal carcere non ti saresti suicidato, e sento il peso di non aver saputo gridare il vostro diritto ad essere ascoltati, di vivere per voi e per gli altri ricordando che un solo suicidio non rappresenta il fallimento di un momento ma di tutto il contesto”. Ora è il Ministro della Giustizia Nordio a chiederlo, e questo è per chi scrive un indiretto riconoscimento di una sua proposta formulata nel giugno 2008, Progetto Casa Giustizia, non accolta in quanto anticipava i tempi e intaccava potentati che a tutto pensano, escluso a chi vive e opera nella sezioni delle carceri italiane. *Ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza I suicidi nei penitenziari, quelle voci inascoltate di Paolo Doni L’Eco di Bergamo, 14 agosto 2023 Susan e Azzurra a Torino, Federico a Bergamo. Sono solo gli ultimi tre, ma l’associazione Ristretti Orizzonti, nel suo triste database, ne ha compilati altri 46 dall’inizio dell’anno. Dal 2000 sono 1.356. Sono i morti suicidi nei penitenziari italiani. Sabato 12 agosto il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha visitato il carcere delle Vallette, a Torino, dove in un solo giorno due donne si sono tolte la vita (Susan si sarebbe lasciata morire di fame). Una visita segnata da una durissima protesta dei detenuti che hanno in tutti i modi leciti manifestato il loro dissenso (urla, fischi, battiture delle sbarre). “Lo Stato non abbandona nessuno - ha detto il Guardasigilli -. Il suicidio in carcere è un fardello di dolore che affligge tutti i Paesi al mondo e a volte è imprevedibile”. Per poi ammettere però che “siamo di fronte a una disparità tra risorse disponibili e compiti che ci proponiamo”. Nordio non è il primo ministro della Giustizia che si trova ad affrontare la situazione drammatica delle carceri italiane e sicuramente non ignora che in Italia la frequenza dei suicidi tra i reclusi è 13 volte superiore a quella fuori. E che i mesi estivi in celle sovraffollate sono quelli più drammatici: sospensione delle attività, caldo torrido... Un mix micidiale che sulle personalità più fragili agisce da detonatore. Le carceri italiane sono allo stremo: i detenuti sono 57.749 e il sovraffollamento medio è del 120%, con qualche punta negativa, come a Bergamo, dove è del 160% (521 su una capienza regolamentare di 319). Per capirci, siamo quasi ai livelli del 2006, prima dell’indulto, i cui effetti benefici sul funzionamento delle carceri sono durati non più di cinque o sei anni. Rispetto al 31 dicembre del 2006 ci sono quasi ventimila detenuti in più. Eppure le statistiche ci dicono che i reati in Italia sono in costante calo (dal 2015 al 2021 mezzo milione di denunce in meno). Cosa è successo? Triste dirlo, ma purtroppo non è successo niente. I due principali dispositivi normativi che “producono” detenuti, vale a dire la legge sull’immigrazione e quella sugli stupefacenti, sono rimasti grossomodo immutati e continuano a portare dietro le sbarre, essenzialmente, tossicodipendenti, spesso con diagnosi psichiatriche, e immigrati irregolari, privi di risorse e reti parentali che li sostengano. Due terzi dei detenuti nelle carceri italiane appartiene a queste due tipologie umane. Si tratta di persone che raramente riescono ad accedere alle pene alternative, perché prive di domicilio o di documenti e che il più delle volte rimangono intrappolate nel famigerato meccanismo della “porta girevole”: entrano e escono dal carcere senza intraprendere nessun percorso di reinserimento. Nonostante la buona volontà di chi ci lavora (a proposito, alla Casa circondariale di via Gleno i 185 agenti in servizio sono arrivati ad accumulare 27mila ore da recuperare) e dei tanti volontari che si spendono per far sì che la pena sia davvero rieducativa, come prevede la Costituzione, la sfida appare impari. Anche perché le soluzioni prospettate, è stato detto anche ieri a Torino, riguardano sempre la costruzione di nuove carceri o l’adattamento di strutture dismesse a penitenziari, senza pensare troppo a chi poi si troverà a viverci, o a lavorarci. E la politica sembra concentrata su altro. Per esempio sull’individuazione di nuovi reati o nel tentativo di inasprire pene. La triste conta dei suicidi in carcere l’abbiamo fatta troppe volte, puntualmente a ogni agosto, ma ogni anno che passa le voci di chi prova a dire “stop” sembrano sempre più inascoltate e i principi che ispirarono, ormai quasi cinquant’anni fa, il nostro ordinamento penitenziario, uno dei più avanzati d’Europa, relegati a un manuale di buone intenzioni. Carceri senza dignità di Mario Alberti rivieraweb.it, 14 agosto 2023 A Palermo è stato recluso un uomo di ottantasei anni, in sedia a rotelle. Penso che lo Stato non possa permettersi cadute simili e credo sia necessario riflettere, una volta per tutte, sulle condizioni delle persone nelle carceri, se vogliamo veramente che dopo la pena questa gente non sbagli più. Mi cattura l’attenzione, all’alba, un articolo di un grande quotidiano, scritto dal corrispondente di Palermo. All’Ucciardone, carcere del capoluogo siculo, viene recluso un uomo di ottantasei anni, in sedia a rotelle; non è dato a sapere il motivo della condanna, ma si sa che l’uomo è incensurato, non è mai stato in carcere e le condizioni in cui versa son ben note. L’uomo viene praticamente assistito dai suoi compagni di cella che l’aiutano a lavarsi e ne spingono la carrozzina, la notizia viene fuori perché cattura l’attenzione del Garante dei detenuti, che incontra l’uomo e i suoi assistenti nonché compagni di cella ed emette una nota auspicando si possano ottenere a brevissimo, visto le condizioni, gli arresti domiciliari. Mi torna in mente la discussione sul fine vita di criminali di ben altro spessore, nemmeno lontanamente paragonabile; ricordo molti pensieri espressi nei canali pubblici e sociali, tendenti alla ferocia, diciamo tesi alla vendetta, confondendo quest’ultima con la giustizia. Ma andiamo oltre, penso che lo Stato non possa permettersi cadute simili e mi voglio augurare che, mentre esce questo pezzo, il detenuto in carrozzina sia stato quantomeno spostato agli arresti domiciliari e abbia adeguata assistenza, perché, paradossalmente, ma non troppo, l’umanità alberga ovunque, per fortuna, in carcere ha trovato altri detenuti solidali e disposti ad assisterlo. Come dovrebbe idealmente finire questa storia? Così, ma c’è una storia più grande, fatta da piccole storie e da silenzi ed è quella delle carceri italiane luogo in antitesi al dettame costituzionale di rieducazione; carceri luogo di sofferenza, di prevaricazione, di annullamento della dignità, di abbrutimento e rafforzamento dello spessore criminale di molti detenuti, in quanto lo Stato si rivela distante dall’umanità possibile, mentre invece deve essere portatore dell’umanità scontata, dare segnali di un diverso modo di vivere, in un quadro di regole e rispetto della persona e quindi consentire la riflessione in chi sbaglia. Il detenuto e la sua famiglia devono avere fiducia nello Stato, noi che ogni tanto pubblicamente scriviamo, siamo a volte cantori di un mondo ideale, sospeso tra la cruda e irregolare realtà e l’indispensabile e scontata aspirazione; si rifletta una volta per tutte sulle condizioni delle persone nelle carceri, se vogliamo veramente che dopo la pena questa gente non sbagli più. Se lo vogliamo veramente, però. Susan, morta a Torino di invisibilità e di silenzio societadellaragione.it, 14 agosto 2023 Dichiarazione del Gruppo delle promotrici della campagna Madri fuori dal carcere e dallo stigma. Il gruppo delle promotrici della campagna Madri fuori dal carcere e dallo stigma interviene con questa dichiarazione dopo la morte di Susan John nel carcere di Torino a seguito del rifiuto di acqua e cibo dopo aver chiesto invano di poter vedere il figlio di 3 anni: “Di Susan, che nel reparto psichiatrico del carcere delle Vallette a Torino ha rifiutato di bere e alimentarsi fino a morirne, sappiamo poco: che era una giovane donna, migrante dalla Nigeria, con una pena lunga che considerava ingiusta. Con un figlio che aveva chiesto di vedere e per questo era stata trasferita dal carcere di Catania: per rivedere i suoi cari e soprattutto il figlio. Troppo poco sappiamo, ora che è morta, per ricostruire il percorso interiore e le ragioni che l’hanno portata a morire. Troppo poco per vederla come persona che col suo gesto estremo chiede attenzione, non come detenuta che col suo comportamento anomalo crea problemi all’istituzione carcere. Susan era in una sezione per detenute con problemi psichiatrici. Un modo per curarla meglio, oppure una mossa per etichettarla come caso psichiatrico esentando così tutti dal confrontarsi con lei come persona, con le sue ragioni e con i suoi bisogni? Lo stesso dibattito che ha preso avvio, su come intervenire/non intervenire sui detenuti in sciopero della fame, è sconcertante: sembra confermare che il problema del carcere sia come gestire il comportamento di chi sciopera, invece che ascoltare e interloquire con chi è ristretto (e che, non fosse altro che per questa ragione, ha diritto all’ascolto), per trovare il modo di tutelarne la vita riconoscendone le ragioni, invece e prima di affrettarsi a una diagnosi psichiatrica incapacitante. Invece e prima di lasciare che la morte ‘risolva’ la situazione, venendo meno ad ogni responsabilità di tutela. Neppure sappiamo il senso del gesto di Susan, quanto il fatto di non avere ancora potuto vedere il figlio abbia inciso sulla sua determinazione. È questo vuoto nel ritratto di Susan come persona che ci addolora. È questo vuoto l’accusa più grave nei confronti dell’istituzione: Susan è morta di invisibilità, di silenzio, di irrilevanza. Come promotrici della campagna Madri fuori dal carcere e dallo stigma, che lo scorso maggio in tutta Italia ha posto con forza il tema dei diritti delle donne detenute madri alla relazione con i propri figli e alla potestà genitoriale, rilanciamo come non più rinviabile il varo di misure a difesa e promozione del mantenimento dei legami famigliari e genitoriali, e per forme alternative al carcere per le donne che hanno figli. Poche ore dopo la morte di Susan, un’altra donna si è tolta la vita alle Vallette, impiccandosi in cella, sarebbe uscita tra nemmeno un anno. E a fine giugno un’altra ancora si è uccisa, pochi giorni prima di uscire. Il drammatico numero dei suicidi in carcere, tra cui aumentano le donne, pone il tema delle disastrose condizioni di detenzione e del senso della pena ben più di quello delle fragilità individuali. Individua insomma un problema politico cruciale, cui il rituale e unico appello governativo a costruire più carceri non può in alcun modo rispondere.” La campagna Madri Fuori: dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini e bambine è stata lanciata in occasione della Festa della Mamma 2023 che ha visto oltre 15 delegazioni visitare le carceri italiane e pone l’impellente necessità che le madri, insieme ai loro “bambini dietro le sbarre”, trovino prima possibile una soluzione di esecuzione penale esterna, dopo l’affossamento della proposta di legge. Al 31 luglio di quest’anno erano 19 le madri detenute - con 19 figli al seguito - sulle 2510 donne in carcere, che a loro volta rappresentano il 4,35% della popolazione detenuta italiana (57.749). L’appello e tutte le iniziative della campagna sono disponibili su societadellaragione.it/madrifuori. Ancora vittime di carcere a Torino, no all’ipocrisia di Nordio e al panpenalismo di Meloni di Maurizio Acerbo* e Giovanni Russo Spena** rifondazione.it, 14 agosto 2023 La condizione carceraria, ci hanno insegnato Voltaire e Beccaria (e lo ha ricordato Aldo Moro in uno splendido intervento all’Assemblea Costituente), è l’indice della civiltà di un paese. Ebbene, il governo dichiara ogni giorno che bisogna abolire il pur tenue reato di tortura e, soprattutto, come le ultime due tragedie civili drammaticamente segnalano, nelle carceri italiane cresce la tremenda numerazione dei morti e dei suicidi. Non possiamo far finta di nulla, rimuovere. La politica deve intervenire. Vi sono certo inadempienze; ma, soprattutto, permane nel ministero di Giustizia, un ideologismo giustizialista. Da anni avvertiamo, ad esempio, che il caldo e l’isolamento psicologico estivo rendono insopportabile per i detenuti la carcerazione. I suicidi, le morti delle ultime ore sono l’urlo straziante che rivendica un urgente, profondo intervento riformatore. E, invece, nulla. Vengono, anzi, contrastate dal governo misure alternative al carcere e le sperimentazioni coraggiose del carcere come sanzione di ultima istanza. La Costituzione, la concezione della pena che essa delinea, sono vilipese. Il governo mette alla porta, anzi, il dott. Mauro Palma, un Garante dei detenuti e della lotta contro la tortura nelle carceri che tutta l’Europa ci invidia. Lotteremo contro l’ipocrisia del ministro Nordio e il panpenalismo populista della Meloni. *Segretario nazionale Partito della Rifondazione Comunista-Sinistra Europea **Resp. Area democrazia e diritti Partito della Rifondazione Comunista-Sinistra Europea Dalle aggressioni ai suicidi, la mappa delle carceri dove si rischia di più di Giulia Torlone La Repubblica, 14 agosto 2023 Un terzo delle strutture sono sovraffollate e manca il personale. Nel carcere di Poggioreale i detenuti sono 2.035 e in estate i problemi aumentano. Così i detenuti più fragili rischiano di più, Agosto è il mese più duro per i detenuti. Non solo perché il caldo è insopportabile per la poca aria che filtra dalle finestre o perché nella metà delle carceri italiane non c’è la doccia. L’estate è la stagione peggiore perché in cella si è più soli, il personale penitenziario in ferie e molte attività sono sospese. E in condizioni come queste gli episodi di autolesionismo e violenza inevitabilmente aumentano. Come a Barcellona Poggio di Gotto, in Sicilia, dove il tasso di aggressione tra detenuti è al 33 per cento, il più alto in Italia, e le aggressioni al personale sono al 13,4 per cento, dato che ha subito un incremento nei mesi estivi. “In questo periodo, all’interno delle carceri, è difficile intercettare e seguire le situazioni più critiche, il personale è troppo poco” racconta Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone. Un terzo delle carceri italiane sono sovraffollate - Dopo i sei suicidi nel solo mese di agosto, che fa salire a 47 il numero totale dall’inizio dell’anno, è evidente che sono molti i punti critici che il sistema penitenziario deve affrontare e probabilmente non basterà la conversione delle caserme dismesse in nuove carceri, come ipotizzato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il sovraffollamento, secondo Scandurra, è sicuramente un indice che evidenzia il malfunzionamento di tanti istituti, perché da questo, a pioggia, scaturiscono problemi e sofferenze. Secondo i dati del ministero dell’Interno, su 187 carceri italiane, sono 121 quelle sovraffollate. A Poggioreale, Napoli, ad oggi ci sono 2035 detenuti per una capienza di 1632 (il 124 per cento in più); nel carcere di Rebibbia, a Roma, dietro le sbarre ce ne sono 1499 invece dei 1170 consentiti (+ 128 per cento) e in quello di Opera, a Milano, la capienza è di oltre il 143 per cento con 1321 detenuti, quando quella ufficiale è di 918. È la Lombardia la regione che, nel suo complesso, vive la situazione più critica: gli istituti di Varese, Brescia e Como, hanno una presenza nelle carceri quasi al 185 per cento. C’è un filo rosso che lega i casi più eclatanti di sovraffollamento: sono tutte Case Circondariali. Queste strutture sono, o dovrebbero essere, il primo approdo in attesa di una sentenza di primo grado, quindi momentanee. Ma il meccanismo si inceppa. In primis c’è la difficoltà nella redistribuzione nelle Case di Reclusione definitive e poi c’è la fragilità dei detenuti. Secondo Antigone gli episodi di autolesionismo e suicidio accadono all’inizio della detenzione e, soprattutto, li compiono coloro che si macchiano di reati minori come i piccoli spacciatori, spesso con dipendenze o problemi psichiatrici. “Con persone così fragili, dovrebbe esserci un agente per ogni sezione. Nella realtà ne abbiamo una ogni tre” racconta Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato della polizia penitenziaria. “Solo quest’anno nelle carceri di Torino, Milano e Viterbo 17 tra medici e psicologi hanno dato le dimissioni perché i ritmi di lavoro erano insostenibili” conclude Di Giacomo. Manca il personale - Nel carcere di Foggia il sovraffollamento è al 177 per cento e l’anno scorso ha avuto il triste record di suicidi, ben cinque. “La Puglia è una regione da attenzionare con rapidità” avvisa Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Tra le criticità, Palma ravvede anche quella di avere pochi direttori ovunque. “In Sardegna ce n’è solo uno per quattro istituti e in Lombardia la provveditrice deve occuparsi anche del Veneto, del Trentino e del Friuli. Come può avere un rapporto diretto con la struttura?” Palma denuncia anche la carenza generale di educatori e mediatori culturali, problemi che creano estremo isolamento nelle persone detenute straniere. Nel carcere romano di Regina Coeli sono tre gli educatori a fronte degli 11 previsti, per un totale di 1002 detenuti. “Negli ultimi anni chi lavora nelle carceri pensa a sopravvivere nel caos, non c’è più quel sentirsi all’interno di una missione condivisa” Questa, per Palma, è la prima rotta da invertire. Vita amara da donne recluse. “Niente bidet e chi sta male si rifugia negli psicofarmaci” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 14 agosto 2023 I racconti delle detenute del carcere romano di Rebibbia in un libro denuncia sul sistema carcerario italiano: “È un ambiente pensato per i maschi”. “Noi stavamo in quattro - racconta la giovane donna appena uscita dalla cella numero 8 di Rebibbia - ci muovevamo fra due letti a castello di colore celeste sbiadito, un tavolo, gli sgabelli, i pensili, un water e un lavandino che utilizzavamo sia per lavare i piatti che il viso”. Una sua amica, che di celle ne ha vissute tante durante la detenzione, si è sempre battuta per avere il bidet: “Il 60 per cento delle detenute italiane non lo ha, nonostante sia previsto dalla legge”, spiega. “E non è certo un lusso, vorrei ricordare, le donne sono più a rischio degli uomini di sviluppare un’infezione urinaria, soprattutto nel periodo delle mestruazioni hanno una maggiore necessità di igiene intima”. Ma nelle quattro carceri italiane che ospitano esclusivamente donne (599) il bidet continua ad essere un lusso. Così come nelle 44 sezioni femminili dei penitenziari dove si trovano le altre 1779. “Il carcere ha una struttura maschiocentrica, è questo il vero problema - dice un’altra detenuta che ha appena finito di scontare la sua pena - e le donne devono adattarsi”. È un grido disperato quello raccolto dalla giornalista catanese Katya Maugeri, che ha incontrato alcune detenute uscite dal carcere romano di Rebibbia per un progetto di ricerca sulla vita delle donne dietro le sbarre. Ne è nato un libro (“Tutte le cose che ho perso”, appena pubblicato da Villaggio Maori edizioni) che è un atto d’accusa contro il sistema carcerario italiano. “Quasi dieci anni fa, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva attivato un apposito settore dedicato alla riflessione sulla detenzione femminile, alle proposte, al monitoraggio delle situazioni concrete - viene denunciato - Di ciò non si è più avuta notizia: il progetto è stato completamente abbandonato”. Sono le ex detenute a svelare un mondo davvero poco conosciuto: “Del carcere femminile se ne parla poco e male - dice una di loro - i piccoli numeri che siamo non fanno testo e nessuno fa niente. Se sei forte ce la fai, altrimenti entri a testa bassa, da vittima, ed è lì che inizia davvero la tua prigione”. Quando si intravede il fondo, le detenute scoprono “la soluzione”. “Meglio anestetizzarti per sospendere il pensiero, perché se pensi impazzisci - è drammatico questo racconto - In carcere lo chiamavamo il carrello della felicità: tre volte al giorno, a volte quattro, passano gli infermieri per la distribuzione dei farmaci”. L’ultima indagine dell’associazione Antigone rivela che quasi il 64 per cento delle donne detenute fa uso di farmaci per il trattamento di disturbi psichiatrici o neurologici. “Insieme alla tossicodipendenza, il disagio psichico è la seconda causa di suicidio femminile dietro le sbarre”, spiegano i volontari. Un’altra intervistata parla di “diritto alla salute negato”. Spiega: “Per una donna l’ingresso in carcere rappresenta un’esperienza lacerante, tutto è amplificato, un tumulto di sofferenza e preoccupazioni che il corpo, piano piano, somatizza fino a manifestare quella sofferenza sottopelle che mai nessuna cura potrà alleviare. Ecco, allora, perché è importante la prevenzione. Ma, troppo spesso, in carcere mancano medici e psicologi. Quelli che ci sono fanno un lavoro straordinario, ma sono davvero troppo pochi”. Le donne a Rebibbia chiedevano più visite della ginecologa: “Per fare esami di routine come il Pap test, la mammografia, lo screening globale. Esami che non possono diventare un lusso”. Nel carcere italiano maschiocentrico nell’anima, è difficile pure far partecipare le donne ad attività e progetti: “In alcune sezioni mancano anche le attività scolastiche, perché non ci sono i numeri minimi necessari per comporre una classe”, denuncia la ricerca di Katya Maugeri. E allora le detenute devono accontentarsi di fare lavori a maglia o all’uncinetto per riempire in qualche modo il tempo sospeso del carcere: “Attività figlie di una visione stereotipata e patriarcale secondo cui le donne possono e devono svolgere solo questo genere di mansioni”, protesta un’ex detenuta. Commenta l’autrice del libro-denuncia: “Occorre però specificare che la discriminazione non nasce da una reale volontà istituzionale, bensì dalla mancanza totale di una rigorosa riflessione sulla differenza di genere”. Che è forse ancora più grave. Sulle donne dietro le sbarre c’è insomma una grande approssimazione: rappresentano solo il 4,2 per cento della popolazione carceraria, ma non possono essere certo trascurate. “Il carcere è già un non mondo - racconta un’altra donna - Con l’arrivo della pandemia è crollato addosso alle nostre fragilità. E tante di noi hanno raddoppiato la terapia di psicofarmaci per non pensare. Ma le pillole non possono essere la soluzione per vivere qui dentro”. “Vogliono fermarci, ma non si illudano”. Nordio tira dritto sulla riforma della giustizia di Luca Sablone Il Giornale, 14 agosto 2023 Nessun passo indietro sulla riforma della giustizia, un atto ritenuto necessario per apportare una rivoluzione in senso liberale e garantista seguendo la scia del mandato popolare ricevuto dalla gran parte degli italiani il 25 settembre 2022. Carlo Nordio tira dritto per la propria strada, conferma le intenzioni del governo e smentisce in maniera netta ogni voce di spaccature interne o addirittura di presunte dimissioni. E sullo sfondo continua a essere presente un sospetto ben preciso. Nordio tira dritto - Il ministro della Giustizia, intervistato dal Corriere della Sera, è stato interpellato su dei retroscena riportati da alcuni quotidiani del nostro Paese secondo cui sarebbe in contrasto con il presidente del Consiglio e con Fratelli d’Italia. Indiscrezioni che lui stesso ha messo a tacere replicando con una realtà dei fatti che probabilmente deluderà qualcuno: “Capisco che la politica sia insidiosa e talvolta crudele, ma ritengo puerile che si inventino contrasti inesistenti, nella vana speranza di farci innervosire o magari litigare”. Nordio ha assicurato di trovarsi “in sintonia perfetta” con Giorgia Meloni, con cui ha rivelato di sentirsi “regolarmente”. A testimonianza del solido legame politico. Eppure da giorni c’è chi aveva ipotizzato un suo addio in un ipotetico rimpasto estivo, arrivando a parlare pure delle dimissioni. A suo giudizio tutto ciò rappresenta “il riflesso pavloviano di chi teme le riforme che stiamo elaborando”. Ed ecco il dubbio: per caso qualcuno sta tremando e di conseguenza sperando che la riforma della giustizia non vada in porto? Comunque il ministro ha mandato un messaggio inequivocabile ai detrattori: “Non si illudano. Le riforme le faremo, come da cronoprogramma”. Gli interventi sulla giustizia - La volontà del Guardasigilli è quella di intervenire su molteplici fronti di rilievo. Ad esempio si vuole riportare la prescrizione nell’ambito del diritto sostanziale, “come causa di estinzione del reato e non di improcedibilità: soluzione, quella della riforma della ministra Cartabia, che ha creato enormi difficoltà applicative”. Intercettazioni, si cambia. Saranno accentrate in un archivio più sicuro - Inoltre ha rivendicato la decisione della stretta sulle intercettazioni a cui è stato affiancato un utilizzo più esteso per una serie di crimini di grande allarme sociale. D’altronde ne ha sempre riconosciuto la grande importanza nel corso delle indagini per i reati contro la sicurezza dello Stato, la pubblica incolumità e la lotta alla corruzione. Ovviamente resta ferma la lotta agli utilizzi impropri ritenuti intollerabili: “Che siano effettuate a strascico; che abbiano costi insopportabili e del tutto fuori controllo; che vengano selezionate, pilotate e diffuse illecitamente, compromettendo l’onore dei cittadini, anche non indagati”. Il piano sulle carceri - Il doppio suicidio nelle Vallette a Torino ha subito fatto tornare in primo piano l’emergenza carceri. Dal suo canto Nordio ha fatto notare che l’attuale situazione non trova radici nelle ultime settimane, ma che rappresenta “la sedimentazione di decenni di disinteresse, per non dire di errori, trascuratezze ed economie esasperate”. Con gli occhi dell’oggettività e della trasparenza ha riconosciuto che “non si possono cambiare in pochi mesi situazioni così complesse”, ma ha posto l’attenzione sulle prime iniziative già messe in campo. “Detenuti nelle caserme dismesse”: il piano di Nordio per le carceri - Nello specifico il ministro della Giustizia ha parlato dell’ampliamento degli organici, dell’assuzione di nuovo personale e della progettazione di un sistema di edilizia carceraria che costituisca un rimedio al sovraffollamento: “Se potremo continuare a lavorare così, e lo auspico, in tempi ragionevoli vedremo i primi risultati”. Il monitoraggio delle caserme è già iniziato perché tra le ipotesi rientra l’utilizzo di strutture già esistenti piuttosto che la costruzione di nuove aspettando molti anni. “Se avessi la bacchetta magica e i soldi a sufficienza costruirei subito almeno una cinquantina di carceri modello. Ma la costruzione è impresa ardua: nessuno le vuole vicino casa e se scavando trovi un coccio etrusco si blocca tutto”, ha concluso. Nordio va avanti: tra intercettazioni, prescrizione e carceri la strada è già tracciata. Con buona pace dei detrattori. Nordio: “Bizzarro definirmi un castigamatti dei pm. Le mie ispezioni? Sono un deterrente” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 14 agosto 2023 Il ministro della Giustizia: “Chi spera che io mi dimetta non si illuda”. Carlo Nordio, ministro della Giustizia: le sue numerose ispezioni fanno sperare settori interni ed esterni alla maggioranza che lei si stia trasformando nel “castigamatti” dei pm. Sbagliano? “Per la verità le mie ispezioni straordinarie si contano sulle dita di una mano. O poco più. È vero invece che ho annunciato ispezioni nei casi di fughe di notizie e di diffusioni di intercettazioni riservate, che per fortuna in questi mesi sono diminuite. Forse anche per effetto di questa deterrenza, che evidentemente funziona. Pensare però che un ministro che per 40 anni è stato un pm diventi un “castigamatti” dei suoi colleghi è quantomeno bizzarro”. Una di queste ispezioni però ha scatenato polemiche... “La fermo: di casi singoli non posso parlare”. Al di là del contenuto, l’azione disciplinare sui pm che indagano sull’ex premier Renzi per finanziamento illecito non pone su un crinale delicato i rapporti politica-esecutivo-magistratura? “Gliel’ho detto. Non ne parlo”. Come descrive i suoi rapporti con la magistratura? “Con pochi ex colleghi, pessimi. Con molti ottimi. Con tutti utili”. E con l’Anm che l’ha accusata di sottomettersi a Renzi? “In generale con i vertici dell’Anm, che ho ricevuto più volte, i rapporti sono molto buoni dal punto di vista personale. Le idee sull’efficienza della giustizia, soprattutto quella civile, sono in gran parte coincidenti. Quelle su alcune riforme penali sono spesso diverse. Ma spero che troveremo un accordo”. Nei retroscena è stato descritto spesso in bilico: in contrasto con Giorgia Meloni e FdI, in avvicinamento a FI. E c’è chi ipotizzava un suo addio al governo in un ipotetico rimpasto estivo. Come va? “Capisco che la politica sia insidiosa e talvolta crudele, ma ritengo puerile che si inventino contrasti inesistenti, nella vana speranza di farci innervosire o magari litigare”. E invece? “Con la premier siamo in sintonia perfetta e ci sentiamo regolarmente”. E le voci di dimissioni? “Sono il riflesso pavloviano di chi teme le riforme che stiamo elaborando. In latino si dice putant quod cupiunt. In inglese è un wishing thinking. Non si illudano. Le riforme le faremo, come da cronoprogramma”. Anche sulla prescrizione? “Sì, la riporteremo nell’ambito del diritto sostanziale, come causa di estinzione del reato e non di improcedibilità: soluzione, quella della riforma della ministra Cartabia, che ha creato enormi difficoltà applicative”. Nel frattempo le intercettazioni non sono state ridotte ma estese ad altri reati mafiosi. Era davvero favorevole? “Ovviamente sì. Ho sempre detto che sono indispensabili alle indagini, soprattutto nei reati contro la sicurezza dello Stato, la pubblica incolumità e anche nella lotta alla corruzione. Io stesso ne ho fatto ampio uso nell’inchiesta sul Mose che ho coordinato. Ma tre cose sono intollerabili”. Ovvero? “Che siano effettuate a strascico, cioè sperando di trovare qualcosa, magari contro un soggetto individuato: purtroppo le più numerose. Che abbiano costi insopportabili e del tutto fuori controllo, mentre ogni Procura dovrebbe avere un budget da gestire, come per le altre risorse umane materiali e finanziarie. E, più importante di tutte, che vengano selezionale, pilotate e diffuse illecitamente, compromettendo l’onore dei cittadini, anche non indagati. Su queste e altre anomalie, insieme con la meritoria opera di Giulia Bongiorno che ha concluso un lungo lavoro presiedendo la sua commissione, contiamo di intervenire”. Si poteva fare di più contro il doppio suicidio nel carcere delle Vallette? “Per quanto ho potuto capire era stato fatto tutto il dovuto. Ma la prevenzione di un suicidio è praticamente impossibile: persino due prigionieri del processo di Norimberga si tolsero la vita, uno impiccandosi e l’altro avvelenandosi, benché sotto il controllo della polizia militare. Va detto, però, che la nostra situazione carceraria è la sedimentazione di decenni di disinteresse, per non dire di errori, trascuratezze ed economie esasperate”. Lei cosa promette? “Non si possono cambiare in pochi mesi situazioni così complesse. Ciononostante abbiamo ampliato gli organici, assunto nuovo personale e soprattutto progettato un sistema di edilizia carceraria che costituisca un rimedio al sovraffollamento. Se potremo continuare a lavorare così, e lo auspico, in tempi ragionevoli vedremo i primi risultati”. Come ha vissuto le contestazioni in carcere a Torino? “Veramente non ce ne siamo proprio accorti, benché a due passi dalle celle. C’erano la vicesindaco di Torino, esponenti della magistratura, della polizia penitenziaria e i garanti dei detenuti. Può chiederlo a loro. Io ho visitato il reparto più critico, quello femminile. Non c’è stata alcuna contestazione. Invece sono lieto che il sindaco di Torino mi abbia ringraziato pubblicamente. Con lui abbiamo un progetto ambizioso”. C’è chi l’accusa di aver bloccato l’edilizia carceraria e ora di dover ricorrere alle ex caserme. È così? “Accusa stravagante. Se avessi la bacchetta magica e i soldi a sufficienza costruirei subito almeno una cinquantina di carceri modello. Ma la costruzione è impresa ardua: nessuno le vuole vicino casa e se scavando trovi un coccio etrusco si blocca tutto. È più facile assumere duemila agenti penitenziari e usufruire di spazi esistenti piuttosto che aspettare 10 anni per vederne nascere uno nuovo. Il monitoraggio delle caserme è già iniziato”. Torino. L’autopsia primo atto per capire come e perché sono morte in carcere Susan e Azzurra di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 14 agosto 2023 Le autopsie sui corpi di Susan e Azzurra, le due detenute morte venerdì nel carcere di Torino, di certo non serviranno a fare luce sui loro drammi interiori. Potrebbero però fornire preziosi elementi per capire che cosa è successo in quelle 14 ore che hanno scosso dal profondo la casa circondariale Lo Russo e Cutugno. Due storie molto diverse quelle di Susan John, 42 anni, cittadina nigeriana residente a Torino, in cella dal 22 luglio e Azzurra Campari, 28enne della provincia di Imperia trasferita al Lorusso e Cotugno lo scorso 29 luglio. Ad accomunarle c’è però la vicinanza temporale dei decessi e il fatto che siano avvenuti entrambi nell’articolazione per la tutela della salute mentale della sezione femminile. Si tratta di un’area a sorveglianza aumentata dove sono previsti controlli sanitari quotidiani. Le stanze sono quattro e quella di Susan era vigilata anche attraverso le telecamere. La 42enne nigeriana rifiutava cibo e acqua da 18 giorni e, lo scorso 4 agosto, dopo un malore e il conseguente intervento del 118, aveva negato anche il consenso al ricovero d’urgenza. Non ha mai inscenato proteste e l’unica richiesta avanzata durante le tre settimane di permanenza in cella riguardavano la possibilità di un incontro con il marito e il figlio di 3 anni e mezzo. Susan si è lasciata morire, ma l’autopsia dovrà chiarire se a stroncare la donna, che era alta 167 centimetri e pesava 80 chili, possa essere stata un’aritmia dovuta alla mancata assunzione di liquidi. “Aspettiamo l’esame autoptico - ha commentato il suo difensore Wilmer Perga -. Ma mi chiedo come sia stato possibile arrivare fino a questo punto” È la stessa domanda che continua a porsi anche l’avvocata Marzia Ballestra, che ha seguito Azzurra dopo la morte del suo primo difensore: “La mia cliente era molto affezionata a lui e la sua scomparsa è stato un altro duro colpo, dopo le tante sofferenze che ha dovuto affrontare nella sua breve vita. Aveva un passato difficile alle spalle, ha commesso diversi sbagli e il carcere aveva acuito le sue fragilità, che erano state comunque comunicate all’autorità penitenziaria. Ancora oggi, però, non conosco il motivo per cui la mia cliente sia stata trasferita da Genova a Torino, ma i suoi familiari erano certi che, quantomeno, sotto la custodia dello Stato sarebbe stata al sicuro. Probabilmente per una valutazione di carattere psichiatrico che avrebbe certificato la sua incompatibilità con il regime carcerario. Era una ragazza dolce, a cui era facile voler bene “ La stanza di Azzurra non era dotata di impianto di videosorveglianza, ma era comunque monitorata. Quando la 28enne di Imperia ha deciso per la seconda volta di togliersi la vita (il primo tentativo di suicidio l’aveva messo in atto fuori dal carcere) si trovava da sola. E deve aver impiegato parecchio tempo per confezionare il complicato cappio realizzato (probabilmente) con i pochi indumenti che le erano stati lasciati addosso, che poi ha utilizzato per impiccarsi. Per il momento la procura ha aperto due procedimenti distinti per istigazione al suicidio, senza indagati, un’ipotesi di reato che permette l’esecuzione degli esami autoptici che verranno assegnati e (quasi certamente) eseguiti nella giornata di oggi. Le inchieste, affidate alle pm Delia Boschetto e Chiara Canepa, dovranno appurare se sia stato fatto tutto il possibile per evitare il decesso di Susan John e il suicidio di Azzurra Campari. Rossano Calabro (Cs). Suicidio nel carcere: a togliersi la vita un 44enne di Lorenzo Gottardo rainews.it, 14 agosto 2023 A trovare il corpo, il suo compagno di cella dopo l’ora d’aria. Inutili i soccorsi. L’uomo, Andrea Muraca, era in carcere per reati di droga, arrestato nel corso dell’operazione “Svevia” della Guardia di Finanza. Un altro morto nelle carceri calabresi. Un altro detenuto che si toglie la vita dietro le sbarre. La tragedia a Rossano, dove un uomo di 44 anni, Andrea Muraca, originario di Lamezia Terme, è stato trovato senza vita nella sua cella. A dare l’allarme un suo compagno tornando in camerata dopo l’aria. Subito sono intervenuti gli agenti della polizia penitenziaria in servizio, ma non c’è stato nulla da fare. L’uomo, dicono dalla casa circondariale, era arrivato a Rossano da meno di un mese e non aveva mai dato segni di malessere. Finito in manette nel corso dell’indagine Svevia, operazione antidroga della Dda di Catanzaro su un’organizzazione armata vicina alla ‘ndrina Giampà. Pochi dubbi, secondo i dirigenti della struttura, sul fatto che si sia trattato di un suicidio. Proprio nel giorno in cui il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha fatto visita a due penitenziari di Torino. Dopo che anche qui due detenute si erano tolte la vita. Sulla morte del 44enne ha aperto un fascicolo la procura di Castrovillari che ha anche disposto il sequestro della salma per fare ulteriori accertamenti. Genova. Due detenuti malati terminali muoiono poco prima di tornare in libertà genova24.it, 14 agosto 2023 Uno di loro avrebbe finito di scontare la sua pena il 14 agosto. Pagani (Uilpa): “Il ministro Nordio eviti passerelle e risolva i problemi”. Due detenuti del carcere di Marassi, malati terminali, sono morti negli scorsi giorni poco prima di uscire dal carcere. Il primo dei due, deceduto la settimana scorsa al centro clinico, avrebbe finito di scontare la propria pena proprio domani, 14 agosto 2023. L’altro ha cessato di vivere ieri pomeriggio all’età di 66 anni all’ospedale San Martino di Genova, tre mesi prima di tornare in libertà. A darne notizia è il segretario della Uilpa Penitenziari, Paolo Pagani, che torna all’attacco: “Se non fosse per l’estrema tragicità degli aventi che l’hanno preceduta, la presenza del guardasigilli Carlo Nordio ieri al carcere di Torino potrebbe catalogarsi fra le passerelle ferragostane, pur con qualche giorno di anticipo. Sostiene di aver ascoltato tutte le proposte, ma non ha mai incontrato i rappresentanti di coloro che operano in carcere 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno e che tanto potrebbero offrire in termini di proposte e progettualità, e cioè i sindacati della polizia penitenziaria. Soprattutto, il ministro non offre alcuna soluzione concreta, ma solo vaghe promesse e la solita minestra riscaldata della riconversione, a scopo detentivo, delle caserme dismesse”. “Dopo dieci mesi dall’insediamento del governo Meloni e, con esso, del ministro della Giustizia, la verità è che la situazione carceraria continua a degenerare giorno dopo giorno ed è a un passo dalla capitolazione definitiva - è l’allarme lanciato dalla Uilpa -. Il ministro, quando pensa al riutilizzo delle caserme in disuso, dovrebbe specificare con quale personale, atteso che alla sola polizia penitenziaria mancano 18mila unità e di assunzioni straordinarie utili a invertire la rotta del decremento non se ne vedono. Allora il ministro agisca affinché le vecchie caserme vengano riadattate, più verosimilmente, per creare scuole in cui formare la polizia penitenziaria, s’impegni affinché venga varato un decreto carceri per immediate assunzioni straordinarie e risolva la grande questione, con tratti kafkiani, dei detenuti malati, malati di mente e lasciati marcire e, non di rado, come abbiamo visto a Torino (suicidi) e Genova (malati terminali), morire in carcere”. Domani i sindacalisti della Uilpa visiteranno il carcere di Marassi: “Noi non andiamo in ferie - prosegue Pagani - e se il ministro Nordio ha finalmente voglia di affrontare le questioni penitenziarie a 360 gradi, ci convochi, anche a Ferragosto, e fermi la strage che si consuma nelle nostre prigioni e il disastro complessivo i cui effetti si riversano pesantemente pure sugli operatori, in primis quelli del corpo di polizia penitenziaria, sottoposti a turnazioni massacranti con la compressione, persino, dei diritti costituzionali e oggetto di aggressioni da parte dei ristretti al ritmo di quattro al giorno, conteggiando solo quelle più gravi. Le visite del giorno dopo, in questi casi, non riparano alle distrazioni del giorno prima”. Sassari. Condizioni di salute di Marco Di Lauro, tante domande e una sola risposta: un silenzio assordante di Andrea Aversa L’Unità, 14 agosto 2023 Abbiamo chiesto informazioni sia al Garante per i diritti dei detenuti della città di Sassari che della Regione Sardegna: non sono a conoscenza dei fatti. Abbiamo cercato invano di parlare al telefono con il Direttore del carcere. Abbiamo inviato una mail e due Pec all’istituto penitenziario. Il risultato? Nessuna risposta. Abbiamo scritto delle presunte gravi condizioni di salute di Marco Di Lauro lo scorso 20 luglio. In merito abbiamo riportato le parole del suo avvocato, Gennaro Pecoraro. Successivamente abbiamo cercato di fare ulteriori verifiche. Le prime fonti alle quali ci siamo rivolti sono state quelle istituzionali: il Garante per i diritti dei detenuti e il Direttore del carcere di Sassari. In merito al primo, abbiamo parlato al telefono con quello regionale, Irene Testa, già tesoriera del Partito Radicale. Via mai, invece, abbiamo avuto una breve corrispondenza con quello della città di Sassari, Gianfranco Favini. I garanti - Entrambi non avevano notizie relative al detenuto Marco Di Lauro. Potrebbe anche essere comprensibile, un garante agirebbe solo in seguito ad una specifica segnalazione. Evidentemente per Di Lauro non ce ne sono state. Così ci siamo rivolti all’amministrazione del penitenziario di Sassari. Dopo aver cercato invano di parlare telefonicamente con il Direttore Marco Porcu (almeno tre le telefonate fatte in altrettanti giorni diversi), ci abbiamo provato via mail: una quella inviata all’indirizzo del carcere, due le Pec inviate alle caselle di posta certificata del penitenziario. Una di queste esclusivamente dedicata ai detenuti reclusi al 41 bis. Il silenzio dal carcere - Ma anche in questo caso non abbiamo avuto risposta. Le telefonate sono state fatte tra il 21 e il 24 luglio. La mail e le Pec sono state inviate lo scorso 25 luglio. Con i garanti abbiamo comunicato il 21 luglio, sia con quello regionale che con quello cittadino. Entrambi hanno risposto lo stesso giorno, la prima al telefono e il secondo via mail. Insomma, la giustizia e i penitenziari continuano a vivere nel mutismo. Anche quando l’argomento riguarda il diritto alla salute di un detenuto. L’unica risposta che abbiamo ricevuto dalle istituzioni è stato un silenzio assordante. Eppure, proprio in questi giorni, si è tornato a parlare di carcere. O meglio dei suicidi che continuano a verificarsi senza sosta tra le mura di quelle celle. Spezzare le catene del lavoro povero di Chiara Saraceno La Stampa, 14 agosto 2023 La povertà nonostante il lavoro è un fenomeno drammatico e dalle molte cause. Lo ha ben documentato la relazione del Gruppo di lavoro sulle misure di contrasto alla povertà lavorativa, resa nota nella primavera del 2021, che parla di una “catena” di meccanismi e processi che portano, appunto, alla povertà lavorativa. Ne fanno parte salari insufficienti, ma anche tempi di lavoro ridotti, la composizione della famiglia, in particolare il rapporto tra numero dei componenti e numero dei percettori di reddito, l’azione redistributiva dello Stato (assegni per i figli, detrazioni e deduzioni fiscali, disponibilità di congedi genitoriali e livello della loro remunerazione), la disponibilità di servizi che consentano la conciliazione tra responsabilità familiari e occupazione e l’azione redistributiva dello Stato. A livello individuale, quindi, vi è certo un problema di troppo bassi salari orari, che non consentono di arrivare a guadagnare un reddito decente neppure lavorando a tempo pieno. Accade in alcuni settori dei servizi, come è emerso anche di recente a seguito di condanne del tribunale o di proteste di lavoratori “in subappalto” della grande distribuzione. Ma vi è anche un problema di part time involontario, molto aumentato negli ultimi anni, sia tra le donne sia tra gli uomini. Il rischio di basse retribuzioni è, infatti, particolarmente elevato per i lavoratori occupati solo pochi mesi all’anno, per i lavoratori a tempo parziale e per gli autonomi. A livello familiare, a questi fattori di rischio si aggiunge quello dello squilibrio tra numero dei percettori di reddito e numero di coloro che da quel reddito dipendono, un rischio particolarmente elevato nelle famiglie dove ci sono più figli minorenni e gli adulti sono a bassa istruzione, tanto più se vivono nel Mezzogiorno, dove non solo la domanda di lavoro è scarsa, ma scarsi sono anche i servizi che favoriscono la conciliazione tra responsabilità familiari e lavorative. Di conseguenza il tasso di occupazione femminile è molto basso. A fronte di questa catena di cause, la garanzia di un salario minimo adeguato, accompagnato da maggiori controlli sul suo rispetto e da un coinvolgimento di associazioni datoriali, sindacati, lavoratori nel monitorare ciò che succede, appare sicuramente indispensabile, anche se toccherebbe solo un anello della “catena”. Si può discutere il “quanto” e che cosa deve comprendere, essendo consapevoli che si tratta non solo di garantire l’operatività alle aziende, ma anche di stabilire quale è la soglia di remunerazione del lavoro al di sotto della quale un paese civile e democratico non può scendere. A questo proposito si parla spesso di produttività. Certo è una questione importante. Ma ci sono lavori a bassa produttività pure importantissimi per il buon funzionamento della vita quotidiana: dal lavoro di cura e domestico ai lavori di pulizia e manutenzione degli spazi pubblici, ad esempio. In Germania la prima forma di salario minimo fu introdotta per le operatrici/operatori socio-sanitari in quelle che corrispondono alle nostre Rsa. Per toccare gli altri anelli della catena occorrono altre misure, tra loro coordinate. Sicuramente occorre intervenire sugli ammortizzatori sociali, per arrivare a una forma di assicurazione dalla disoccupazione, o dal part time involontario, di tipo universale. Ancora più ambiziosamente, si potrebbe iniziare a ragionare sull’idea dell’economista tedesco Guenther Schmid di una sorta di assicurazione del corso della vita, che consenta di affrontare non solo le transizioni “negative” (perdita del lavoro, part time involontario), ma anche quelle positive: l’arrivo di un figlio, il ritorno in formazione. Occorre anche lavorare a stretto contatto con le imprese per costruire percorsi di formazione e aggiornamento lungo tutto il corso della vita, tanto più necessarie oggi in un contesto di rapide e radicali trasformazione del mercato del lavoro, con particolare attenzione per lavoratori e lavoratrici a bassa qualifica che oggi sono per lo più esclusi dalle, poche, occasioni di formazione e aggiornamento offerte dalle aziende. E, naturalmente, occorre rafforzare le politiche di conciliazione famiglia-lavoro per sostenere l’occupazione femminile. Anche queste sono tutte cose necessarie su cui occorre un confronto che possibilmente non parta da zero. Senza tuttavia usarle come scusa per non fare nulla, a partire dall’anello più semplice: un salario orario decente. Migranti e “strette” inefficaci. Le alleanze che servono di Paolo Lambruschi Avvenire, 14 agosto 2023 Mai come ora davanti alle tragedie dei migranti in mare e al caos del Sahel gli accordi per fermare i flussi stretti da Roma e Bruxelles da anni con Tripoli e da nemmeno un mese con Tunisi sembrano fallimentari. Lo provano i dati degli arrivi sulle coste italiane da Libia e Tunisia soprattutto. Siamo a un soffio da quota 100 mila e se le previsioni sono esatte, questo sarà un anno nero di esodi dolorosi e infiniti. Purtroppo, secondo l’Oim fino a luglio più di 2.060 persone sono scomparse nel Mediterraneo. Gli accordi prevalentemente securitari di Roma e Bruxelles con gli stati costieri e con quelli che si collocano sulle rotte migratorie per esternalizzare il controllo delle frontiere e fermare i flussi si rivelano inutili. Perché la storia sta cambiando velocemente l’Africa e perché nessuno vuole giovani poveri e arrabbiati sul proprio territorio e dunque i nostri partner hanno tutto l’interesse a fare il doppio gioco. Per essere espliciti la Tunisia, impoverita dal Covid e sovraindebitata, certo non ha chiuso le coste per consentire ai pescatori del golfo di Gabes - tutti elettori del presidente Sayed -impoveriti dalla crisi del turismo di organizzare le partenze e andare addirittura a recuperare i motori dei barchini. Nel frattempo, il presidente tunisino stuzzica gli umori dell’elettorato con politiche razziste e inaccettabili come la deportazione di subsahariani regolari e irregolari da Sfax - uomini, donne e bambini - nelle zone desertiche al confine con la Libia. Solo l’accordo invocato dalle organizzazioni internazionali tra le due guardie di frontiera che si sono divise i disperati del deserto ha evitato altre tragedie come la morte per stenti della mamma Fati e della piccola Marie. Sulla Libia e i suoi trafficanti spesso in divisa che fanno il doppio gioco incassando i soldi europei per tenere prigionieri i migranti e poi ricattano le famiglie per farli partire e riportarli nei lager c’è un’ampia letteratura. Più a sud il panorama non è mai stato così drammatico da un decennio. Ad est l’instabilità del Corno d’Africa sta generando nuovi flussi ai quali si è aggiunto quello dal Sudan, un tempo terra di transito e oggi fatto a pezzi da quattro mesi di guerra civile e che conta più di quattro milioni di sfollati e profughi. Ad ovest il golpe in Niger sta creando un vortice depressionario di instabilità in tutto il Sahel. Mali, Burkina Faso e Niger hanno in comune le frontiere la grande povertà nonostante le risorse regolarmente predate, la piaga del jihadismo e il fatto di essere snodi strategici del traffico di carne umana, spesso gestito dai terroristi che non esitano ad attaccare campi profughi e villaggi per mettere in fuga le popolazioni. Altro collante è il sentimento antifrancese, potenza coloniale che ha sempre tenuto nella zona una politica economica e di influenza deleteria che li ha portati a venire cacciati da Mali e Burkina e li vede in seria difficoltà in Niger. Li stanno sostituendo in chiave antijihadista i mercenari russi della Wagner, presenti anche in Sudan, che potrebbero in poco tempo avere il controllo delle rotte migratorie africane e spingere i flussi sul Mediterraneo per destabilizzare l’Ue. Che divisa davanti a questa sfida epocale non va oltre i pannicelli caldi. Serve subito una politica vera per l’Africa, che vuole crescere da sola con cooperazione e partenariato. Il Mattei tanto invocato dal governo italiano per il suo piano voleva lasciare il 75% delle risorse petrolifere ai Paesi produttori, ad esempio. Riconoscere la dignità umana e ricostruire solide alleanze non securitarie deve essere la via per governare i flussi. Prima che sia tardi. Migranti. Hub al collasso ma i Comuni rifiutano l’”accoglienza diffusa” di Cesare Zapperi Corriere della Sera, 14 agosto 2023 In Veneto il governatore Zaia evoca il pericolo “tendopoli”. Ma la sua proposta di coinvolgere le realtà locali è stata accolta solo da 19 comuni su oltre 500. Gli sbarchi di migranti sembrano inarrestabili. Solo negli ultimissimi giorni sulle coste italiane sono arrivate, con i più svariati mezzi, oltre duemila persone (15 salvataggi in 48 ore). L’ultimo bilancio degli arrivi a partire dall’1 gennaio 2023 indica una cifra record: quasi 95 i migranti sbarcati (erano 45 mila un anno). Cifra imponente che rende ancora più complicato il problema di trovare una sistemazione a tutti i migranti in attesa che venga chiarito il loro status. Il ministero dell’Interno ha predisposto un piano di riparto che prevede di ricollocare sul territorio italiano 50 mila persone dall’1 luglio al 15 settembre. Ma la difficoltà di trovare strutture capienti e adeguati è enorme. È anche un tema che spacca la politica, con divisioni dentro gli stessi partiti. È emblematico quanto sta avvenendo in Veneto. Le prefetture delle varie città, attraverso i Consigli territoriali dell’immigrazione, stanno cercando luoghi dove accogliere i migranti, ma i bandi vanno deserti. È successo a Treviso, per esempio, dove due richieste per complessivi 450 posti non hanno trovato una risposta. Il copione si ripete nelle altre città. Non a caso, il presidente della Regione Veneto Luca Zaia ha evocato il pericolo di vedere presto sorgere qui e là “tendopoli”. Uno scenario che nessuno si augura ma che, alla luce dei continui arrivi, si fa ogni giorno più concreto. Per questo nelle scorse settimane sia Zaia che il sindaco di Treviso Mario Conte (anche in qualità di presidente regionale dell’Anci) si sono spesi perché si adottasse il modello dell’accoglienza “diffusa”. Cioè, non affidata a pochi, ma enormi, hub provinciali ma a piccole strutture sparse capillarmente sul territorio. Così da evitare le grandi concentrazioni, possibili fonti di tensioni, e da suddividere le responsabilità di fronte ad una vera e propria emergenza. Ma l’appello non ha dato risultati perché su 563 Comuni veneti solo 19 si sono dichiarati disponibili a fare la loro parte per dare un contributo all’accoglienza. E i numeri lo confermano: su 8.131 migranti ospitati, solo 748 sono stati distribuiti sul territorio. Le prefetture fanno affidamento sugli hotspot, sono già operativi in tutte le Regioni e lì cercano di concentrare il maggior numero di persone. Ma in molti casi la capienza è stata abbondantemente superata e si procede affannosamente a cercare soluzioni alternative, comunque sempre in grandi contenitori. Sull’altro fronte, il tentativo è quello di coinvolgere i Comuni, gli oratori, le strutture assistenziali perché assorbano quote di poche decine di migranti. Le resistenze sono forti perché si teme di dover pagare un “prezzo politico” per scelte che il più delle volte sono impopolari. Stati Uniti. Il governatore della Lousiana sollecita la clemenza per i condannati a morte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 agosto 2023 John Bel Edwards, governatore dello stato della Louisiana, da tempo ha maturato un’opinione critica nei confronti della pena di morte. Ecco un paio di dichiarazioni: “Dobbiamo renderci conto della natura imperfetta del nostro sistema penale. Troppo spesso, dopo una sentenza capitale, è emerso che la persona condannata era innocente”. “Quando c’è la pena di morte, se fai un errore non puoi tornare indietro. E sappiamo che di errori ne sono stati fatti”. Nello stato della Louisiana l’ultima condanna a morte è stata eseguita 13 anni fa, nei confronti di Gerard Bordelon, un detenuto che aveva chiesto di morire rinunciando a ogni appello a sua disposizione. Dal 1999 sono stati scarcerati perché innocenti nove condannati a morte. Per questo, il governatore Edwards ha sollecitato il Comitato per la grazia e la clemenza a riesaminare la situazione di 56 condannati a morte la cui richiesta collettiva di commutazione della pena di morte in ergastolo, mesi fa, era stata respinta. Il Comitato dovrebbe riunirsi domani e, sebbene non sia ufficialmente in agenda, potrebbe iniziare a prendere in esame la richiesta del governatore. Sarà comunque tenuto a farlo entro il prossimo gennaio, quando Edwards terminerà il mandato. Tra i condannati il cui destino è appeso alla decisione del Comitato, ci sono LaDerrick Campbell - affetto da schizofrenia e cui venne permesso di difendersi da solo - e Jimmie Duncan, condannato sulla base della “prova del morso”, una tecnica giudicata inattendibile da esperti di medicina legale.