In quelle celle muore lo Stato di diritto di Luigi Manconi La Repubblica, 13 agosto 2023 Difficile trovare un luogo del mondo più isolato e desolato di una cella di un carcere di mezza estate. Più isolato dal punto di vista simbolico, dal momento che gli altri, coloro che non sono privati della libertà, cercano un altrove dove ricavare, bene o male, un qualche respiro e un qualche conforto per le pene del corpo e dell’anima. E più isolato concretamente, perché, in quel tempo sospeso che è la settimana di Ferragosto, le attività e le presenze rallentano e si diradano, si fanno fatalmente più distratte e indifferenti. Ma questo non basta a spiegare quanto è accaduto nel carcere di Torino, dove una donna nigeriana di 43 anni, Susan John, madre di due bambini, ha cercato e trovato la morte, privandosi del cibo e dell’acqua: perché ha evidentemente pensato che quella morte fosse l’unica possibilità di dare un qualunque senso a ciò che restava di una esistenza di cui le andava sfuggendo qualsiasi significato e prospettiva. Nessuno ha potuto o voluto darle una mano. Ora l’Amministrazione del carcere scrive che la donna avrebbe “rifiutato il ricovero d’urgenza in ospedale”. Ma queste parole certificano il senso ultimo e più tragico di questa vicenda: il vero e proprio fallimento dello Stato di diritto. Una persona detenuta, che si trova dunque nella custodia dello Stato, rappresenta per esso il bene più prezioso. Le istituzioni, i loro apparati e i loro uomini, sono i garanti della incolumità di quel corpo prigioniero, ne devono tutelare la salute e la sopravvivenza. E ciò perché lo Stato è responsabile, nel significato più alto del termine, della vita e della dignità della persona in sua custodia: e su questo si fonda la sua legittimazione giuridica e morale a rappresentare la comunità dei cittadini e a chiedere loro il rispetto delle leggi. Quando l’autorità pubblica non garantisce l’incolumità di chi le è affidato, essa entra in una crisi irreversibile. Questo è accaduto a Torino, dove il fallimento del carcere come istituzione dello Stato si è tradotto nell’assenza di cura e di assistenza, di sollecitudine e di preoccupazione, di attenzione e di riguardo da parte, evidentemente, del personale nei confronti di quel corpo che decadeva e deperiva. Lo conferma il fatto che, di quel digiuno disperato, non era stata informata l’opinione pubblica e non erano stati avvertiti i Garanti dei diritti dei detenuti, quasi vi fosse stata una dichiarazione generale di dimissione di responsabilità. Dunque, un sistema penitenziario che si conferma criminogeno e patogeno, che riproduce all’infinito delitti e malattie, regressione mentale e autolesionismo, violenza endogena e scialo di morte e speranza, sembra volersi chiudere ancora di più in sé stesso. Qualche mese fa si è appreso, solo dopo la loro morte, del fatto che due detenuti del carcere di Augusta erano impegnati da mesi in uno sciopero della fame. Evidentemente le autorità del carcere avevano ritenuto che la cosa fosse priva di qualsiasi interesse pubblico. Alla stessa sorte sembra destinato Domenico Porcelli, che digiuna da oltre cinque mesi nel carcere di Bancali nei pressi di Sassari, senza che vi sia un intervento delle autorità e uno straccio di mobilitazione, destinati a salvargli la vita. Ma come è pensabile che questo accada? Come è possibile che la nostra organizzazione sociale e il nostro sistema politico-istituzionale rinuncino a proteggere tante vite di concittadini? È come se si desse per scontato che una quota della nostra società, messa ai margini dalle più diverse circostanze della vita, sia obliteratile. Ovvero faccia parte, ma solo fino a un certo punto, del nostro sistema di cittadinanza: possa esserne escluso, espulso, sospeso e, infine, cancellato. Il sistema penitenziario italiano è lo specchio oscuro e sinistro di tutto ciò. All’interno della popolazione detenuta i suicidi sono 16-17 volte più frequenti di quanto siano all’esterno; e negli ultimi dieci anni si sono tolti la vita 100 poliziotti penitenziari (il numero più alto tra tutti i corpi di Polizia). Intanto, il collegio nazionale dei Garanti delle persone private della libertà personale attende di essere rinnovato ormai da molti mesi. Il ritardo pare si debba a raffinatissimi calcoli di spartizione all’interno della maggioranza di governo, mentre la candidatura di Rita Bernardini - che più di chiunque altro merita quel ruolo - sembra non esser presa in alcuna considerazione. E la macabra contabilità dei suicidi non conosce sosta: aveva 28 anni e aveva commesso piccoli furti Azzurra Campari che, sempre a Torino, si è impiccata nel pomeriggio di due giorni fa. La cella di un carcere di mezza estate può essere davvero il luogo più abbandonato e desolato del mondo. Punire il reato, non la persona di Marco Rutolo La Stampa, 13 agosto 2023 Due detenute si sono tolte la vita nel carcere delle Vallette a Torino. Una di loro si è lasciata morire rifiutando cibo, acqua e cure, per la disperazione di non poter vedere il figlio di quattro anni. Sono ormai storie ordinarie di vita penitenziaria, di un luogo ove la percentuale di suicidi è in costante crescita, specie nel periodo estivo. Le carceri sono affollate, ma le persone che le abitano si sentono sempre più sole, emarginate, dimenticate. Il sovraffollamento provoca anche questo, perché rende difficile proporre percorsi rieducativi che tengano davvero conto della specificità della singola persona detenuta, facendo svanire l’obiettivo di una vita carceraria impostata in modo da riflettere, nella misura più ampia possibile, le dinamiche della vita libera, come previsto dalle Regole penitenziarie europee. Non è così e i motivi sono diversi. La crescita dei tassi di carcerizzazione è anche conseguenza di politiche sociali inadeguate, confermando l’assunto per cui a meno Stato sociale finisce per corrispondere più Stato penale. Ma il problema sta anche nel modo in cui è ancora concepita l’esecuzione penale, nell’incapacità di una sua innovazione che possa migliorare la quotidianità penitenziaria. Eppure le proposte non mancano, dai lavori degli Stati generali sull’esecuzione penale, che indicavano la via di una riforma organica dell’ordinamento penitenziario, a quelli della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, che suggerivano puntuali e concrete misure, soprattutto attraverso modifiche del Regolamento penitenziario e con l’adozione di specifiche circolari da parte dell’Amministrazione penitenziaria. La risposta di giustizia non può guardare soltanto al passato, a ciò che è stato commesso, ma deve proiettarsi necessariamente verso il futuro, puntando al reinserimento del reo nella società, alla ricostruzione di quel legame sociale che il compimento del reato ha lacerato. A chiederlo è la Costituzione che guarda alla pena nella prospettiva della rieducazione (art. 27), ponendo sempre al centro la persona. A imporlo sono anche le Carte internazionali, a partire dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che rifiutano l’idea di una pena meramente afflittiva, guardando al reinserimento sociale del reo come obiettivo proprio dell’esecuzione della sanzione. In carcere entra la persona e non il reato che ha commesso, fece scrivere all’ingresso del carcere di Valencia un illuminato direttore. Eravamo nell’Ottocento e quell’affermazione, oggi ribadita con altre formule nei documenti costituzionali e internazionali, è ancora lontana dall’essere realtà. Intanto in carcere si muore. Schiacciati dal carcere di Ilaria Cucchi* La Stampa, 13 agosto 2023 Questa situazione è il fallimento di un Paese che vorrebbe apparire civile. I problemi non si risolvono buttando la gente in una cella angusta, sovraffollata e senza diritti. Sono ancora qui a dover parlare di morte in carcere. Mi sento tanto stanca, ma non posso permettermi di esserlo e, questo, lo so bene. È il mio destino, il ruolo che mi sono imposta per rispetto di mio fratello Stefano e di tutta la mia famiglia. Nel corso di questi primi mesi di mandato sono state numerose le mie ispezioni negli istituti di pena italiani. Sono avvenute quasi tutte a sorpresa e, cioè, senza preavviso. Ho potuto entrare nel vivo di una realtà inimmaginabile e tanto difficile da raccontare ma, questo è sicuro, mi farò carico di divulgarla perché tutti sappiano e nessuno possa voltarsi dall’altra parte senza doversi poi vergognare. Non ci sono buoni così come non ci sono cattivi. C’è solo il fallimento desolante di un Paese che vorrebbe apparire ciò che troppo spesso non riesce ad essere: civile e democratico. Oggi dobbiamo parlare di Azzurra Campari e Susan John. Due donne inghiottite dal nostro sistema giudiziario che muoiono in queste ore nel carcere di Torino. Azzurra e Susan non hanno nulla in comune se non il fatto che, dopo avervi fatto ingresso, hanno entrambe deciso di morire. Azzurra ha 28 anni, problemi di droga ed una vita difficile costellata di piccoli reati contro il patrimonio. Quando parla in videochiamata con la madre, si trova in isolamento e le dice disperata: “Mamma! Non ce la faccio più!”. La madre si preoccupa perché Azzurra ha già un curriculum alle spalle di atti di autolesionismo. Quella mamma ha ragione a preoccuparsi perché sua figlia, proprio ieri, si è impiccata nella sua cella senza che nessuno facesse nulla. Non ha potuto aiutare sua figlia. Azzurra è morta punto e basta. Un suicidio è una tragedia terribile perché, oltre ad infliggere ai famigliari della persona scomparsa il dolore incolmabile di quella perdita, li colpevolizza senza tregua per ciò che avrebbero potuto fare o non fare affinché quella tragedia non si verificasse. Quel senso di colpa non ha senso. È solo dettato da irrazionale e profonda sofferenza per quella ineluttabile perdita che si vorrebbe tanto rifiutare. Questi sono sentimenti umani, difficili da vivere, ma sani. Sono gli esatti sentimenti che vorrei che affliggessero le coscienze di coloro che, rappresentando le Istituzioni di questo Stato, hanno osato concepire le nostre carceri come vere e proprie discariche umane al grido di “ in Galera!! E buttate via le chiavi!!”. Come se tutto si potesse risolvere rinchiudendo persone che sbagliano o si presume abbiano sbagliato, in una angusta e sovraffollata cella, senza diritti. Vorrei tanto che costoro provassero vergogna per la loro pseudo cultura così violentemente propagandata per rassicurare la pancia della gente che, purtroppo, troppo spesso rimane ignara di quanto più grande e complesso possa essere il problema. Azzurra ha raggiunto, poche ore più tardi, Susan. Susan era una madre di origine nigeriana che era stata condannata dal Tribunale di Catania a 10 anni e 4 mesi per tratta di esseri umani. Dicono che non ha mai smesso di protestare la propria innocenza in inglese. Sì, perché Susan non conosceva l’italiano. Il 22 luglio scorso È arrivata a Torino, dove abitano il marito ed i suoi due figli. Il giorno dopo inizia a rifiutare pervicacemente cibo acqua e cure. Mi chiedo se sapesse dove si trovava. Fatto sta che cosi Susan corre incontro al suo destino: la morte che arriva proprio poche ore prima quella di Azzurra. Nessuno pare sia andato a trovarla in quei giorni. Fatto sta che lascia un biglietto apparentemente scritto di sua mano dove dice: “Se mi succede qualcosa avvisate il mio avvocato”. Susan ha modificato per poco tempo il numero delle morti in carcere per auto determinazione. Azzurra l’ha seguita subito dopo aggiornandolo. Tutto questo è intollerabilmente drammatico e fa capire a qualsiasi uomo dotato di una normale coscienza che gli istituti di pena non debbono servire a far dimenticare alla gente “comune” dell’esistenza di coloro che vi sono imprigionati privati di identità dignità e diritti. Tutto questo è profondamente incivile e trovo quantomeno grottesco che il comunicato della morte di Susan debba esser dato dal Sappe, un’organizzazione sindacale degli agenti di polizia penitenziaria. Mi chiedo perché ed a quale titolo. Spero che Susan ed Azzurra non vengano presto dimenticate ma temo, purtroppo, che così sarà facendo di loro soltanto un numero. Un numero terribile di una passata memoria che oggi si sta sbiadendo sempre più. *Senatrice di Sinistra Italiana L’inaccettabile doppia sofferenza delle detenute di Susanna Ronconi Il Manifesto, 13 agosto 2023 Susan e le altre. Non è la durata della pena a fare paura, è il vuoto, è l’incertezza del domani, è un carcere che inchioda all’impotenza mentre spreca retorica sul reinserimento. Il carcere delle Vallette, a Torino ha un tragico primato di morte delle donne: nel 1989 nove detenute e due agenti morirono nell’incendio del braccio femminile. Una morte evitabile, causata dall’incuria e dai ritardi nei soccorsi. Oggi, di nuovo, le donne pagano il prezzo di una detenzione che porta alla disperazione e all’impotenza. In quel carcere tre donne sono morte dalla fine di giugno: Graziana e Azzurra si sono suicidate, una sarebbe uscita dopo pochi giorni, l’altra tra meno di un anno. Non è la durata della pena a fare paura, è il vuoto, è l’incertezza del domani, è un carcere che inchioda all’impotenza mentre spreca retorica sul reinserimento. Susan è stata lasciata morire per uno sciopero della fame e della sete, nell’attesa di poter rivedere suo figlio, senza che nessuno si interrogasse - ben prima di psichiatrizzarla - sulla ragione del suo gesto e su come quella ragione si potesse rispettare, soccorrendola non attraverso l’alimentazione forzata ma riconoscendo la legittimità del suo bisogno. Trattandola da donna, persona, madre. Sarebbe stato davvero così difficile darle una qualche certezza sul rivedere suo figlio, sul mantenere un rapporto materno con lui? Non sappiamo se questo sarebbe bastato a salvarla, certo avrebbe almeno colmato quel vuoto oscuro di etica, diritti e di rispetto della vita che questa morte ci mostra, impietosamente e oscenamente. Il carcere delle donne è segnato da dolore al pari di quello degli uomini, ma non nello stesso modo. Non è solo il peso del doppio stigma, per aver commesso un reato e per aver infranto i copioni di genere patriarcali, che le segna con un giudizio che la lotta delle donne non ha ancora sconfitto; e non è solo nemmeno il di più di abbandono che opprime il carcere femminile, costruito dentro un universo maschile, carcere dei piccoli numeri, su cui non si investe. È che le donne portano su di sé, per storia, ruolo sociale e cultura, la bellezza, la responsabilità, il peso della cura delle relazioni affettive, famigliari, amicali, e la deprivazione di questa dimensione in particolare le mortifica, le umilia, le fa soffrire, attacca e invalida una parte importante del loro essere donne adulte. Questa sofferenza è anche più grande quando la relazione negata è quella materna. Ma va detto, va urlato, che è una sofferenza non necessaria, che un carcere dei diritti, un carcere costituzionale, avrebbe il compito di limitare, compiendo ogni sforzo per salvaguardare il legame materno, rendendo accessibili pene alternative al carcere per le donne madri, sostenendole nella continuità genitoriale quando sono povere di risorse e di rete sociale. Non è così, anche se le leggi ci sono. Anzi, il carcere del populismo penale si prepara non solo a stravolgere l’articolo 27 della costituzione, ma per le donne ha in serbo anche la perdita della potestà genitoriale come pena aggiuntiva, sempre e comunque in caso di pena superiore a cinque anni. È la recente proposta di Fratelli d’Italia, contro cui nei mesi scorsi la campagna Madri fuori dal carcere e dallo stigma ha lanciato opposizione e resistenza. È il fantasma patriarcale della “cattiva madre” che torna a colpire le donne detenute e a imporre alle madri e ai loro bambini e bambine un’inaccettabile sofferenza. Carcere, basta morire “da dimenticati” di Alessio Nisi vita.it, 13 agosto 2023 Tagli al personale e sovraffollamento hanno reso gli istituti di pena italiani luoghi in cui si può morire nell’indifferenza. Ne abbiamo parlato con Rita Bernardini, ex deputata e presidente di Nessuno Tocchi Caino, da anni impegnata per i diritti dei detenuti e che a Ferragosto visiterà, come da tradizione, un penitenziario: quest’anno quello di Rebibbia a Roma. Le morti in carcere, i decessi nei luoghi di detenzione in particolare, riguardano tutti. Varcare il cancello di una struttura penitenziaria non vuol dire essere dimenticati: non dovrebbe significare questo. Eppure è successo. Susan John, 42 anni, originaria del Niger, è morta nella sezione femminile della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Se n’è andata da “invisibile”. Né la direzione né la garante dei detenuti di Torino erano a conoscenza delle difficoltà e dello sciopero della fame, in corso da ben un mese, di Susan: che si è lasciata morire di fame e sete in carcere. Nessuno sapeva. A poche ore dalla morte di Susan John, un’altra detenuta si è tolta la vita nella sezione femminile del carcere di Torino, Azzurra Campari si è impiccata. Due morti che seguono il dramma, sempre a Torino, di Graziana Orlarey, 52 anni, che il 29 giugno si è suicidata a pochi giorni dalla sua scarcerazione per il timore di cosa le sarebbe accaduto una volta libera. Torino: il responsabile sindacale della polizia penitenziaria ha parlato di un carcere che ha assunto le caratteristiche dei gironi danteschi sia per i detenuti sia per il personale, chiamando in causa il crescente sovraffollamento detentivo e la fatiscenza delle infrastrutture. La responsabilità dello Stato - “Se lo Stato può permettersi di fare quello che fa quotidianamente e che noi che entriamo nelle carceri tocchiamo con mano vuol dire che c’è una sorta di avallo di questi fatti”, dice senza troppi di giri di parole Rita Bernardini, già parlamentare, presidente di Nessuno tocchi Caino, da anni in prima linea (con proteste e ripetuti scioperi della fame) per la difesa dei diritti dei detenuti, con un orizzonte chiaro: lo Stato di Diritto, la dignità della persona e la forza delle idee. Partita la carambola della ricerca delle responsabilità, due casi in pochi giorni non sono coincidenze, ci si dimentica che il principale imputato di questa situazione è uno. “Lo Stato ha una responsabilità imposta dai principi costituzionali, come quelli vergati dall’articolo 27”, spiega Bernardini, che a Ferragosto, come ogni anno, sarà nelle carceri insieme ai detenuti, “sarò a Rebibbia”. Solo punizione - In barba ai principi costituzionali, “il carcere sta diventando un luogo di sola punizione. Le persone che entrano non sono aiutate in un percorso che dovrebbe far si che non ricadano nel reato”. Non solo queste persone non sono aiutate ma finiscono in un limbo di invisibilità. “Anche nel silenzio assordante dei grandi media, che non ne parlano. Per loro non è rilevante”. Eppure, sottolinea Bernardini, “sono casi che hanno un loro peso: queste persone sono nelle mani dello Stato”. E nella sua cura. “La pena non deve essere contraria al senso di umanità”, cita la ex deputata. Sovraffollamento e tagli lineari - Ma la realtà ci consegna una situazione assolutamente diversa: fatta di sovraffollamento delle carceri e tagli lineari al personale. “I dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al 31 luglio dicono che in Italia ci sono 57800 detenuti, con un aumento rispetto al 2022 di 2700 persone, per 47 mila posti, con istituti che in alcuni casi arrivano ad un sovraffollamento con picchi del 200%, mediamente fra il 150 e il 200%”. Tutto questo con “pochissimo personale. Per personale parlo di agenti di polizia, ma anche di educatori e psicologi: così l’istituzione non può funzionare”. Senza dimenticare poi l’aspetto sanitario della questione. “Al carcere di Bergamo, che abbiamo visitato recentemente”, cita ad esempio sempre Bernardini, “su 550 reclusi (ne potrebbe ospitare 310), ben 300 sono tossicodipendenti: il 60% hanno questioni serie di natura psichiatrica e che dovrebbero essere seguite”. Che fare - La prima misura, secondo Bernardini, è ridurre la popolazione detenuta. “Come Nessuno Tocchi Caino abbiamo collaborato alla elaborazione di due proposte di legge di riforma della liberazione anticipata già prevista dal nostro ordinamento”. La prima proposta fa sì che si elevino da 45 a 75 i giorni di liberazione anticipata concedibili ogni semestre. Con la seconda si aumentano da 45 a 60 i giorni di liberazione anticipata e, soprattutto, si prevede che la misura sia concessa puntualmente ogni semestre ai detenuti che abbiano un buon comportamento e che ad emanare il provvedimento sia direttamente l’istituto (che conosce il detenuto) e non il magistrato di sorveglianza. “Non dimentichiamo che i magistrati di sorveglianza in Italia sono solo 240 e che devono fare un lavoro immane con piante organiche neppure coperte al 100%: sgravarli di questo compito, sarebbe un bel passo in avanti”. Carcere, il dramma delle donne di Fulvio Fulvi Avvenire, 13 agosto 2023 Due detenute morte per propria scelta in poche ore nel carcere delle Vallette a Torino. Due situazioni disperate. Susan John, 43 anni, di origini nigeriane, rinchiusa nella sezione riservata alle recluse con problemi psichiatrici e comportamentali si è lasciata morire di fame e di sete per protesta. Diceva di essere stata condannata ingiustamente (doveva scontare dieci anni, sarebbe uscita nel 2030) e chiedeva di vedere la figlia piccola che dopo il suo arresto ha dovuto lasciare a casa con il marito. La donna rifiutava cibo e acqua dal 22 luglio e l’altra notte ha cessato di vivere. Nel pomeriggio un’altra reclusa, una 28enne italiana, si è tolta la vita impiccandosi in una cella dello stesso carcere. E in mattinata, un detenuto italiano della Casa circondariale di Cuneo ha cercato di uccidersi con un rudimentale cappio al collo ma per fortuna un agente di polizia penitenziaria è riuscito a liberarlo salvandogli la vita “in extremis” e praticandogli un massaggio cardiaco. Ma nelle carceri non cessano neppure le aggressioni: ieri nella Casa di reclusione Valle Armea di Sanremo, in provincia di Imperia, un ristretto nel reparto violenti ha assalito brutalmente con pugni e testate un addetto alla sorveglianza ferendolo in modo grave. Dentro le mura delle prigioni italiane, dunque, continua l’inferno. In base agli ultimi dati dell’associazione Antigone, il tasso di sovraffollamento nei 189 istituti di pena del nostro Paese è salito intorno al 121% con 10mila persone in più rispetto ai posti disponibili e un numero di presenze in costante crescita, come i suicidi, arrivati dall’inizio dell’anno a 44, considerando anche gli ultimi due casi di Torino. Perché anche la morte di Susan deve considerarsi tale: non voleva essere sottoposta a terapie farmacologiche e aveva respinto anche l’ambulanza chiamata dalla direzione del carcere quando le sue condizioni erano peggiorate. Sul suo caso, intanto, il pm Delia Boschetto ha aperto un’inchiesta disponendo l’autopsia sul cadavere. Ed è intervenuta anche la garante cittadina dei detenuti Monica Gallo. “Dal carcere non ci sono mai giunte segnalazioni - ha dichiarato - eppure i nostri contatti sono regolari ma nessuno ci aveva informato. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla - ha concluso la garante - però, almeno, avremmo potuto attivare le nostre procedure e tentare qualcosa”. A puntare il dito sulla grave situazione sanitaria esistente nelle carceri, invece, è il segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo degli agenti penitenziari Donato Capece il quale definisce il quadro “allarmante, come hanno anche confermato in più occasioni gli esperti della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria”. Il recente rapporto su “Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere” del Comitato Nazionale per la Bioetica, osservando le tipologie di disturbo prevalenti sul totale dei circa 57mila detenuti presenti, ha rilevato al primo posto la dipendenza da sostanze psicoattive (23,6%), poi i disturbi nevrotici e reazioni di adattamento (17,3%) e quindi i disturbi alcol correlati (5,6%). E a proposito del suicidio sventato nel carcere di Cuneo, il segretario regionale del Sappe Piemonte, Vicente Santilli ricorda che “negli ultimi vent’anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, dietro le sbarre, più di 24mila tentati suicidi e impedito che quasi 195mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi - conclude Santilli - sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere”. Ma non va sottovalutata la condizione di disagio degli agenti, sottoposti di continuo a situazioni di stress e superlavoro con turni massacranti, minacce e vessazioni da parte dei detenuti più facinorosi: negli ultimi 20 anni sono stati ben 147 i suicidi di appartenenti al Corpo, dieci dei quali negli ultimi due anni. Il dolore dell’arcivescovo Roberto Repole - ?Di seguito la dichiarazione rilasciata dal arccivescovo di Torino e vescovo di Susa:? “Ho appreso con sgomento che due donne ristrette nella Casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno” ieri (10 agosto, ndr), a poche ore una dall’altra, hanno perso la vita dietro le sbarre. Susan, 42 anni, si è lasciata morire di fame; Azzurra 28 anni, si è impiccata. Sono tre, con Graziana 52 anni, suicida il 29 giugno scorso, le detenute che nell’ultimo mese e mezzo si sono tolte la vita nel carcere delle Vallette, dove sono recluse 129 donne su oltre 1400 ristretti, in uno dei penitenziari italiani più sovraffollati e con il più alto tasso di suicidi. È un grido di dolore che ferisce tutti: non possiamo stare a guardare. Ancora una volta due nostre sorelle non hanno trovato nessuna speranza di libertà a cui aggrapparsi se non la morte. Mentre ci raccogliamo in preghiera per loro, diamo voce allo scandalo per due decessi che interpellano tutti. Non possiamo “abituarci” a queste notizie: in un Paese civile, nessuno dietro le sbarre deve sentirsi condannato a morte, ma deve trovare nel tempo della pena motivi speranza per il futuro come recita l’art. 27 della nostra Costituzione. Come accennavo durante la festa patronale di san Giovanni Battista, mi preoccupa che l’età media dei detenuti si abbassi e che sempre più giovani finiscano in cella. I motivi sono diversi, dalla crisi di senso, alla solitudine, alla paura per il futuro. Quel che è certo, numerosi detenuti che tentano il suicidio temono la vita oltre le sbarre per la quale, probabilmente, il carcere non riesce a preparare né psicologicamente né con prospettive di lavoro ed autonomia. Per questo invito la comunità cristiana torinese - che da sempre sulle orme dei nostri santi sociali si adopera tramite Caritas, volontari di alcune parrocchie, religiosi e cappellani - a stare accanto materialmente e spiritualmente ai ristretti, a coinvolgersi ancora di più: “Ero carcerato e mi siete venuti a trovare” (Mt. 25.36) non è un’opera di misericordia “per addetti ai lavori”. Ciascuno con la propria disponibilità può donare una speranza per “rialzarsi”, come ci ha ricordato papa Francesco alla recente Gmg di Lisbona Infine mi appello alla comunità civile ed alle istituzioni locali e nazionali che hanno in carico la gestione del sistema penitenziario e del reinserimento dei reclusi nella società: sappiamo trattarsi di un compito impegnativo ma è una sfida necessaria per la sostenibilità della nostra convivenza ed una responsabilità nei confronti delle generazioni future”. Il Garante dei detenuti: “È tempo di misure alternative. In 9mila potrebbero rientrarci” di Alessandro Farruggia Il Giorno, 13 agosto 2023 Mauro Palma: “I penitenziari ormai sono al collasso, bisogna trovare una soluzione. Sistema detentivo pensato per gli uomini, le donne soffrono: tra loro il tasso di suicidi è doppio”. Professor Mauro Palma, una donna suicida e una addirittura morta di inedia. Nella sua pluriennale esperienza di garante nazionale dei detenuti già in proroga dopo il secondo mandato, che impressione si è fatto di questa ennesima tragedia estiva del carcere? “Premetto che non conosco le carte. Questa nigeriana che si è lasciata morire, con un figlio di 4 anni fuori, aveva una condanna a 10 anni per tratta dei clandestini”. Una maitresse? “Forse. Anche se quelle che ho potuto incontrare ostentavano altra spavalderia. Quello che noi chiamiamo ‘tratta’, in Nigeria a volte è sfruttamento di persone povere che poi rimpatriate si portano anche lo stigma sociale. Questa donna era arrivata a Torino il 21 luglio. Comincia a non mangiare né bere, rifiutando ogni sostituzione. Il 4 agosto stramazza. La portano in ospedale e rifiuta il ricovero. Di segnali insomma ce n’erano. Un poco di attenzione in più ci poteva essere. Ma non essendoci esplicita protesta, non è stato attivato alcun protocollo”. Come nel caso Cospito? “La sua era manifestazione di protesta ed era attenzionato. La morte di questa donna è stata classificata come decesso per cause naturali, non suicidio o protesta. Mi pare che la dica tutto sulla scarsa sensibilità, la sottovalutazione, l’abbandono. Qui di naturale non c’è niente, a parte che tutti si muore perché si ferma il cuore. I garanti comunali e regionali non sono mai stati avvisati. Potevano dare un contributo, parlare con lei”. Nelle stesse ore anche un suicidio... “Anche qui: reati di strada, qualche furtarello, danneggiamento... Entrata con condanna a un anno, usciva anche prima: ma si è ammazzata dopo pochi giorni. Un mese e mezzo fa un’altra suicida. Significa che esiste una questione femminile. Essere donna in carcere, in un luogo pensato per i maschi con una logica maschile anche dove il personale è femminile, accentua la difficoltà”. E anche il tasso di suicidi? “A oggi sono 5 donne su 42. Ma le donne carcerate sono 2.496 su 57.832 persone”. Quindi un tasso di suicidio più che doppio... “Questo punto va evidenziato: le donne soffrono di più in carcere. Anche al 41 bis. Non perché il carcere è più punitivo, ma perché è un sistema non pensato per loro”. Il tasso di suicidi balza alle cronache solo nella canicola estiva... “Rispetto allo scorso anno, quando erano 48 invece che 42, siamo per fortuna leggermente più bassi. Ma siamo sempre su numeri alti. Mi sento obiettare che in Francia i suicidi sono molti di più, salvo che anche fuori ci si suicida di più. In Francia in carcere i suicidi sono 7 volte più che fuori, in Italia sono 16 volte più che fuori”. Ovvero il carcere in Italia sarebbe oltre il doppio più alienante che in Francia. Perché? “Perché da noi ultimamente non si investe più nulla sulla progettualità, ma sul non avere problemi: va tutto bene se non succede nulla. Fatte le giuste e dovute eccezioni, raramente un direttore dirà di avere problemi perché stanno facendo progetti. Questo credo sia la cosa più da cambiare: il carcere non può essere un luogo di attesa”. In effetti un quarto dei detenuti è in attesa di giudizio... “Ho qui i numeri. Sono definitivi 42.968 condannati. In attesa di primo giudizio sono 8.040. Altri 3.530 in attesa appello, ma con prima condanna. In 2.223 aspettano la Cassazione. E 688 sono in posizione mista senza nulla di definitivo. A oggi hanno avuto pene da 0 a un anno in 1.582. Persone senza domicilio, uno straccio avvocato né altro, che avrebbe loro consentito misure alternative”. Un problema di tutela legale? “Un problema di classe. Altri 2.855 hanno condanne tra uno e due anni. Fanno circa 4.400 persone cui si potrebbe dare una struttura diversa dal carcere. Dove i nostri 50mila posti sono teorici, visto che nei 189 istituti c’è sempre qualche guasto che in media taglia 3mila posti”. Quindi che fare? “Portar fuori dal carcere chi si può. Se si considera che da 2 a 3 anni ci sono altri 4.511 condannati, si arriva a circa 9mila persone per cui già l’ordinamento prevede pene alternative. Ma queste non esistono perché non si realizzano strumenti sociali di supporto. Sostengo da sempre di ragionare su strumenti alternativi al carcere: dei luoghi che siano di controllo, ma insieme di responsabilità territoriale e degli enti locali. Già portando fuori queste persone il carcere respira”. Celle piene, violenze e fragilità lasciate esplodere. “Le donne soffrono di più” di Corrado Zunino La Repubblica, 13 agosto 2023 Dalla difficoltà a gestire i bambini alla mancanza di psicologi. Chi decide di uccidersi spesso deve scontare pene brevi: ma non ce la fa. La giovane ultrà della Sanremese persa nella droga. La donna nigeriana che voleva vedere il figlio di 4 anni, autistico. Gli ultimi due suicidi, entrambi nel carcere delle Vallette di Torino, illuminano una realtà sconosciuta: le donne in detenzione. Sono 2.510 su 57.749 reclusi, il 4,3 per cento di una popolazione carcerata che quest’anno è cresciuta ancora. Le Vallette sono il centro di una crisi di civiltà che attraversa il nostro Paese: nella Casa circondariale Lorusso e Cutugno due mesi fa si è tolta la vita una terza donna, lei aveva 52 anni, era finita in cella dopo aver tentato di strangolare il compagno ed era a due mesi dal fine pena. Su 1.400 ristretti, nel carcere di Torino le donne sono 78. Tre, ecco, si sono tolte la vita. Nessun altro istituto (sono 192 nel Paese) ha registrato suicidi di detenute quest’anno, dice il rapporto presentato a inizio agosto dall’Associazione Antigone. Le donne carcerate nell’ultima stagione sono cresciute dell’8,8 per cento, più degli uomini, più degli stranieri. Nel 2022, l’anno peggiore per i suicidi nelle carceri italiane, si sono tolte la vita 85 persone: 80 maschi e 5 femmine. Dal 2000, i suicidi sono stati 1.308. Donatella, 27 anni, origini albanesi, alcuni furti da ragazza, l’anno scorso aveva scritto a Maria De Filippi: “Aiutami, voglio smetterla di farmi del male”. La sua lettera, inviata dal carcere di Montorio, Verona, è arrivata tardi. Il giudice di sorveglianza si è sentito in dovere di chiedere scusa al padre: “Abbiamo fallito tutti”. E, per dire della condivisione forzata di un dramma quotidiano, negli ultimi vent’anni si sono tolti la vita 147 agenti di polizia penitenziaria. Metà strutture senza direttore - “Le donne soffrono di più”, dice Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. “In carcere, a proposito della detenzione femminile, troppo comunemente tutto diventa situazione psichiatrica. Il disagio della mente indubbiamente si avverte, ma basterebbe introdurre un numero massiccio di psicologi e operatori sociali, mediatori ed educatori”. Palma dice anche: “I soldi che arrivano per le carceri bisogna saperli spendere”. Metà delle strutture non ha un direttore proprio. Il Garante nazionale si costituirà, nei possibili processi, come persona offesa per gli ultimi due suicidi. Nel caso della donna nigeriana, “l’amministrazione penitenziaria ha classificato il decesso di una donna che si è lasciata morire di fame come morte per cause naturali”. Degli 85 suicidi del 2022, 33 sono stati di persone con fragilità sociali o personali, 49 reclusi si sono uccisi nei primi sei mesi di detenzione, 21 nei primi tre mesi, nove nelle prime ventiquattr’ore. Cinque sarebbero stati liberi entro un anno, 39 avevano una pena residua inferiore a tre. Dieci persone si sono uccise ad agosto. Quest’anno i suicidi sono già 47, l’ultimo ieri, l’ha fatta finita all’interno della casa di reclusione di Rossano, in provincia di Cosenza. La chiesa: “Rieducare, missione fallita” - “Il carcere ha fallito la missione affidata dalla Costituzione: rieducazione e reinserimento. È diventato una discarica sociale, il ricettacolo di tutto quello che la società produce”. Lo dice Don Franco Esposito, direttore della pastorale carceraria della Chiesa di Napoli. Non c’è rieducazione se il 62 per cento di chi oggi trascorre in carcere l’estate, in cella c’è già stato. Se più della metà dei reclusi potrebbe usufruire di pene alternative. Le donne finiscono in galera per reati di sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione, truffa informatica, furto. E anche qui dentro conoscono la discriminazione. Solo quattro istituti italiani - Venezia, Roma, Pozzuoli, Trani - sono destinati esclusivamente alle donne, gli altri sono pensati per i maschi e adattati con sezioni femminili. “Le detenute non possono fare teatro, corsi di musica, hanno pochi educatori”, racconta una ristretta di Como. Sono quattromila i bambini separati dalle madri: per legge possono crescere in aree all’interno delle strutture, accade poche volte. Si impazzisce di caldo - In carcere si impazzisce di caldo, per esempio. L’aria che filtra dalle finestre è poca per via delle lamiere saldate alle finestre. Sono presenti, dice il rapporto di Antigone, nella metà dei casi. La notte in molti istituti viene chiuso il blindo, la porta di ferro all’ingresso della cella, un muro che ferma l’aria. Nel 50 per cento delle celle italiane non c’è doccia, dal 2005 sarebbero obbligatorie. I frigoriferi vicini alla branda sono cosa rara, molti istituti non hanno nemmeno il frigo di sezione: non c’è acqua fresca a disposizione. Ad Aversa e Augusta non esiste acqua corrente, arriva con le cisterne. Nelle scorse ore ci sono state proteste, al riguardo, nel carcere di Ravenna e in quello di San Cataldo, a Caltanissetta. Avellino è rimasto senz’acqua per diversi giorni. L’istituto penitenziario di Vercelli, costruito tra le risaie, vive dentro un caldo opprimente da fine maggio a settembre. Non ci sono ventilatori e le persone detenute hanno presentato una petizione per poterli acquistare con i propri mezzi. A Tempio Pausania i condannati contribuiscono a pagare la corrente utilizzata per frigoriferi e i ventilatori. Emergenza carceri, il piano di Nordio: “Caserme contro il sovraffollamento” di Riccardo Bruno Corriere della Sera, 13 agosto 2023 Il ministro Nordio a Torino dopo le due donne morte: “Più pene alternative per i reati minori”. Sabato un altro detenuto si è tolto la vita in Calabria. Il Guardasigilli Carlo Nordio, in visita ieri mattina al carcere di Torino, ci tiene a precisare che “non si tratta di un’ispezione né di un intervento cruento, ma di assoluta vicinanza”. Il ministro ha scelto di recarsi personalmente nel penitenziario il giorno dopo che due donne sono morte, una (Azzurra Campari) perché si è impiccata, l’altra (Susan John) perché si è lasciata morire rifiutando di bere, mangiare e curarsi. A chi gli chiede soprattutto conto di questo ultimo caso, e soprattutto del fatto che le condizioni precarie della donna erano note da giorni ma nessuno le ha segnalate al garante dei detenuti, Nordio sembra allontanare i sospetti dalla struttura carceraria: “Sono dettagli tecnici che non abbiamo affrontato oggi, ma ho saputo che non si è trattato di sciopero della fame o di opposizione al governo o alla politica. Erano tutte sotto strettissima sorveglianza”. Sarà l’inchiesta già avviata dalla procura (domani saranno incaricati i periti) a chiarire anche questo aspetto. Nordio in ogni caso ribadisce che “lo Stato non abbandona nessuno. Purtroppo il suicidio in carcere è un fardello di dolore che affligge tutti i detenuti in molte parti del mondo ed è spesso imprevedibile. Non è vero che tocca a chi ha una prerogativa di ergastolo. Accade per ragioni imperscrutabili. Da pm ne ho trattati ahimè tanti e non esiste mistero più insondabile della mente umana quando uno cerca soluzioni così estreme”. Dopo tre ore all’interno del penitenziario Lorusso e Cutugno, accompagnato anche dalla protesta dei detenuti - che per mezz’ora hanno urlato, fischiato, battuto le sbarre con le stoviglie al grido di “Liberta, libertà” - Nordio ha poi chiarito in conferenza stampa il suo progetto per ridurre l’affollamento delle carceri, che sintetizza con il concetto di “detenzione differenziata”. Spiega il Guardasigilli: “Un 41 bis non può essere equiparato a chi ha commesso un reato minore, è tossicodipendente e deve essere curato. C’è una situazione intermedia che può essere risolta con l’utilizzo di molte caserme dismesse e che hanno spazi meno afflittivi”. E ancora: “Dobbiamo trovare forme alternative. Alcune esistono già come i domiciliari e altre, ma queste non sono sufficienti a colmare i gap tra necessità di garantire sicurezza allo Stato e garantire trattamento rieducativo. Si può fare solo aumentando la disponibilità di edilizia carceraria e l’unica soluzione è il riadattamento delle caserme”. Un discorso criticato dalle opposizioni (il Pd parla di “governo immobile”) e dai sindacati degli agenti penitenziari. E anche un esponente della maggioranza come Maurizio Gasparri di Forza Italia osserva che “non basta parlarne soltanto a ridosso di Ferragosto, quando questi temi per le visite di rito tornano di attualità. Basta applicare le leggi che già ci sono. Non serve nessuna innovazione”. La cronaca di ieri registra anche e purtroppo un altro suicidio in carcere. Un detenuto di 44 anni è stato trovato senza vita nella sua cella nel penitenziario di Rossano, in Calabria. La Procura di Castrovillari ha aperto un’inchiesta. Carceri, il piano Nordio: “Spostare nelle caserme i detenuti meno pericolosi” di Michela Allegri Il Messaggero, 13 agosto 2023 Il Guardasigilli a Torino dopo il suicidio di due carcerate in 24 ore: “Risorse limitate”. Tre decessi nel giro di due giorni. Prima due donne che si sono tolte la vita - una suicidandosi e l’altra lasciandosi morire di fame e di sete - nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, poi, ieri, un uomo che si è impiccato nella sua cella nella casa di reclusione di Rossano. “Ogni suicidio in carcere è un fardello che ci angoscia”, ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, iniziando una conferenza stampa proprio dalla casa circondariale di Torino. La convinzione è che il problema sia grave e debba essere risolto nel più breve tempo possibile. Sul tavolo, una proposta c’è già: il Guardasigilli punta sulla detenzione differenziata. “Tra i detenuti molto pericolosi - ha spiegato Nordio - e quelli di modestissima pericolosità sociale c’è una situazione intermedia che può essere risolta con l’utilizzo di molte caserme dismesse e che hanno spazi meno afflittivi”. Costruire nuove case circondariali “è costosissimo, è impossibile sotto il profilo temporale - ha aggiunto il ministro - ci sono vincoli idrogeologici, architettonici, burocratici. Con cifre molto inferiori possiamo riadattare beni demaniali in mano al ministero delle Difesa compatibili con l’utilizzazione carceraria”. Significa che chi è stato condannato con pene brevi e per reati bagatellari, che non destano allarme sociale, potrebbero avere in futuro un trattamento detentivo differenziato, appunto, meno pesante, in strutture da riadattare e rendere idonee, ma che hanno una conformazione compatibile con le carceri, con muri, garitte, locali chiusi e anche spazi aperti che potrebbero essere utilizzati per il lavoro e per lo sport. Saranno i singoli provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria a contattare le articolazioni del demanio e del ministero della Difesa, a livello territoriale, per effettuare una ricognizione delle caserme disponibili. Nordio ci ha tenuto a precisare che la visita al carcere Lorusso e Cutugno non è stata “un’ispezione, né un intervento cruento, ma di assoluta vicinanza: chi meglio di un ministro che ha svolto per quarant’anni la funzione di pubblico ministero conosce i disagi delle situazioni penitenziarie?”, ha detto, rispondendo alla protesta dei detenuti al suo arrivo nel carcere Le Vallette. “Bisogna garantire l’umanità del detenuto e il trattamento rieducativo”, ha aggiunto Nordio. E ancora: “Questa visita è una manifestazione di vicinanza del ministro e del suo staff in questo momento di dolore anche alla direzione e alla polizia penitenziaria, che soffre di gravi carenze di organico e di difficoltà operative che sono da subito, dall’inizio di questo governo, all’attenzione massima del ministero”. Vicinanza che è stata espressa anche ai familiari delle vittime. La prima è Susan John, nigeriana, detenuta con fine pena nel 2030, mamma di un bambino: si è lasciata morire di fame e di sete. La seconda è una giovane di 28 anni, con problemi di tossicodipendenza alle spalle, che si è impiccata venerdì 10 agosto. Mentre il ministro era in riunione con la direttrice del carcere, Elena Lombardi Vallauri, dalle celle i detenuti hanno iniziato a urlare: “Libertà, libertà”, battendo contro le sbarre delle celle con oggetti metallici. “Lo Stato non abbandona nessuno”, ha detto Nordio, mentre i sindacati, l’Osapp e il Sappe, hanno sollevato la questione della carenza di personale e hanno chiesto un tavolo permanente. “È urgente intervenire, ma il carcere non sembra una priorità per questo governo”, ha detto Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd. Mentre Augusta Montaruli, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, ha sottolineato che “la visita di Nordio alle Vallette è un segnale importante”. Il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, ha ringraziato il ministro “per la vicinanza”. Mentre i garanti comunale e regionale dei detenuti, Monica Gallo e Bruno Mellano, hanno lanciato alcune proposte, soprattutto per “evitare il rischio di emulazione di suicidio”. “Nessuno dietro le sbarre deve sentirsi condannato a morte” ha detto invece l’arcivescovo di Torino, monsignor Roberto Repole. Carceri, ora Nordio torna a promettere interventi di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2023 Ma in 10 mesi da ministro si è occupato solo dei reati dei colletti bianchi. “Le carceri sono la mia priorità”. Era una frase inequivocabile quella scelta da Carlo Nordio dopo aver giurato da ministro della Giustizia. Dieci mesi dopo si può dire che il guardasigilli non ha tenuto fede agli impegni. A guardare le cose fatte dall’inquilino di via Arenula, infatti, sembra che la sua priorità sia più che altro rappresentata dai colletti bianchi. Nel senso che le prime azioni di Nordio sono state tutte orientate a intervenire sulle misure di contrasto per quei reati tipici dei politici, degli imprenditori, degli alti funzionari: dall’abolizione dell’abuso d’ufficio, alla riforma delle misure cautelari fino all’indebolimento del traffico d’influenze. E il carcere? Parole, molte parole. Fatti praticamente nessuno. Parole, parole, parole - È vero che Nordio interviene spesso sul tema del sovraffollamento e non si nega quasi mai quando bisogna andare in Parlamento per rispondere alle interrogazioni sul tema. Ed è anche vero che il ministro si è subito precipitato a visitare il carcere di Torino, dove due detenute si sono tolte la vita a distanza di poche ore. Anche questa volta l’ex magistrato ha spiegato quale sarebbe la sua ricetta per l’emergenza penitenziaria: puntare tutto sulla detenzione differenziata tra detenuti molto pericolosi e quelli di modesta pericolosità, utilizzando le caserme dismesse. Una proposta che ha diverse controindicazioni ma che comunque Nordio aveva già fatto molti mesi fa, quando si era appena insediato in via Arenula. Era il dicembre del 2022 e l’ex magistrato già parlava di usare le caserme dismesse, sostenendo che la costruizione di nuovi penitenziari è troppo costosa. Sono passati otto mesi, l’emergenza carceraria si è ulteriormente aggravata e ora che il doppio suicidio di Torino riporta la questione agli onori della cronaca il ministro non trova di meglio che rilanciare la sua proposta: cosa ha fatto negli ultimi mesi? La passione per i colletti bianchi - Nordio non fa più solo il magistrato e non è neanche soltanto un editorialista: oltre a proporre idee su questioni giudiziarie deve anche attivarsi per trasformare quelle proposte in riforme. Anche perché quando si è trattato d’intervenire su campi diversi dal carcere il ministro ha dimostrato di sapersi muovere con celerità. Per esempio quando si è trattato di eliminare l’abuso d’ufficio l’ex pm di Venezia non si è fatto pregare: ha ricevuto i sindaci e poi ha inserito l’abolizione nella riforma dedicata a Silvio Berlusconi. Lo stesso provvedimento limita fortemente l’ambito di applicazione del traffico d’influenze, reato introdotto nel 2012 dalla legge Severino e contestato in genere a politici e faccendieri. È stata indebolita anche la disciplina delle misure cautelari per altri reati tipici dei colletti bianchi: per arrestare un presunto corrotto o tangentista, infatti, bisognerà avvertirlo cinque giorni prima. Sempre Nordio è riuscito a far passare una stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni. Gli ascolti telefonici sono un vecchio pallino del ministro, che avrebbe avrebbe voluto ridurne l’utilizzo ma alla fine il governo l’ha costretto a potenziare quelle per i reati di tipo mafioso. Meno soldi e 6mila agenti in meno - Insomma: in dieci mesi si può dire che Nordio ha concentrato le sue attenzioni sulle questioni giudiziarie che interessano politici e imprenditori, cioè i cosiddetti colletti bianchi. Cosa ha fatto nel frattempo per il mondo carcerario? Se si esclude il cambio dei vertici del Dipartimento amministrazione penitenziaria e del Garante dei detenuti, praticamente nulla. Anzi con la legge di bilancio il governo ha addirittura diminuito gli stanziamenti per l’amministrazione penitenziaria, con un taglio di almeno 35 milioni di euro nei prossimi tre anni. Una decisione che sconfessa in pieno le dichiarazioni di Nordio, ma alla quale il ministro si è subito allineato definendola una “scelta politica che io ovviamente condivido”. Se però si tagliano i fondi all’amministrazione penitenziaria non si capisce poi con quali soldi si dovrebbero riaprire le caserme dismesse. “Chissà per quale sorta di intervento divino potrebbero funzionare senza personale e senza adeguata formazione degli eventuali addetti”, fa notare Leo Beneduci, segretario del sindacato di Polizia penitenziaria Osapp, che definisce la visione del ministro sulle vicende carcerarie “lontana dalla realtà”. Alla polizia penitenziaria, infatti, manca circa il 20 percento dell’organico, cioè circa 6mila agenti, ma Nordio, probabilmente, non conosce questi numeri: da quando è in carica non ha mai incontrato le varie sigle sindacali dell’amministrazione penitenziaria. Un altro elemento che dimostra come le priorità del ministro siano altre. E infatti i sindacati lo attaccano, definendo il suo apporto alle vicende carcerarie come “vago e ininfluente” e la proposta del riutilizzo delle caserme come una “minestra riscaldata”. Un’idea che Nordio ha rilanciato dopo aver escluso categoricamente la costruzione di nuovi penitenziari: “Costruire un carcere nuovo è costosissimo, è impossibile sotto il profilo temporale”, ha sostenuto il guardasigilli. Eppure nel programma di Fdi, cioè il partito che lo ha eletto in Parlamento, si parla chiaramente di “nuovo piano carceri e aumento dell’organico e delle dotazioni della Polizia penitenziaria”. Altro che depenalizzazione - D’altra parte non è la prima volta che Nordio smentisce il programma del partito di Giorgia Meloni. Dopo aver giurato da guardasigilli nelle mani di Sergio Mattarella, per esempio, spiegava che “la velocizzazione della giustizia passa attraverso una forte depenalizzazione e quindi una riduzione dei reati”. Un tema scottante che potrebbe anche influire sulle carceri: eliminare tutta una serie di reati minori e intervenire magari su quelli legati alle tossicodipendenze potrebbe contribuire ad abbassare la pressione nei penitenziari. Ma la questione della depenalizzazione non era stata battuta in campagna elettorale né da Fratelli d’Italia e neanche dagli altri partiti del centrodestra. E infatti, dopo dieci mesi di governo, non si è registrata alcuna depenalizzazione. Anzi l’esecutivo Meloni si è fatto segnalare per una tendenza completamente opposta agli annunci del suo guardasigilli: quella di moltiplicare i reati, inventandone di nuovi. Siamo già a due nuove fattispecie inserite nel codice, col decreto Rave e il dl Cutro, ma la lista delle proposte che potrebbero presto diventare legge è lunga. Al contrario solo uno è il reato che è stato eliminato dal codice: l’abuso d’ufficio. Non esattamente la fattispecie più comune tra i detenuti. Nordio: “Servono più carceri”, ma Antigone replica: “Puntare su misure alternative” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 agosto 2023 Serracchiani (Pd): “Il carcere non sembra una priorità per questo governo” e Gasparri (Fi): “Non servono nuove norme, basta applicare quelle esistenti”. E a Rossano un altro morto. Il giorno dopo la morte in carcere di Susan, 43 anni, che si è lasciata morire di fame e di sete e di Azzurra, 28 anni, che si è impiccata nella sua cella, non è solo il carcere di Torino “Lorusso e Cutugno” l’emergenza carcere ritorna di attualità, proprio mentre arriva la notizia dell’ennesima tragedia nel carcere di Rossano, dove un detenuto originario di Lamezia è stato trovato senza vita nella sua cella. È il numero 47 dall’inizio dell’anno. Le circostanze esatte del grave atto sono ancora poco chiare, ma secondo quanto trapelato, il detenuto si sarebbe tolto la vita. La procura di Castrovillari ha avviato un’indagine e ha sequestrato la salma. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, ha effettuato una visita al penitenziario torinese in mattinata per “dimostrare la sua vicinanza”. Ma al suo arrivo, all’interno del carcere delle Vallette, si sono levati fischi e urla. “Non si tratta di una ispezione - ha subito spiegato - ma di una manifestazione di vicinanza del ministro e del suo staff in questo momento di dolore, ma anche di vicinanza alla direzione e alla polizia penitenziaria che soffre di gravi carenze di organico e di difficoltà operative che sono dall’inizio di questo governo, all’attenzione massima del ministero”. Per Nordio “Ogni suicidio in carcere è un fardello che angoscia ogni volta e affligge tutti i detenuti in molte parti del mondo ed è spesso imprevedibile”. “Ho saputo - ha poi sottolineato - che non si è trattato di sciopero della fame o di opposizione al governo o alla politica. Erano tutte sotto strettissima sorveglianza. Non siamo entrati nello specifico e non sarebbe una nostra competenza, la nostra competenza è prendere atto della sofferenza in cui si trova questo carcere come molte altre carceri italiane”. Secondo il ministro “dobbiamo trovare forme alternative, alcune esistono già come i domiciliari e altre, ma queste non sono sufficienti a colmare i gap tra necessità di garantire sicurezza e garantire trattamento rieducativo. Si può fare solo aumentando la disponibilità di edilizia carceraria è unica soluzione è riadattamento delle caserme”. Il guardasigilli ha indicato una strada: “Cercheremo quella che vorrei chiamare una detenzione differenziata nel senso che tra i detenuti molto pericolosi e quelli di modestissima pericolosità sociale c’è una situazione intermedia che può essere corretta e addirittura risolta con l’utilizzo di molte caserme dismesse e che hanno degli spazi che consentono i due grandi correttivi all’aspetto afflittivo della pena il lavoro all’aperto e l’attività sportiva”. Ma Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, replica alle parole del ministro: “Ha parlato ancora una volta di edilizia penitenziaria e, ancora una volta, va ribadito che non servono più carceri, ma servono carceri piene di attività e attenzione per le persone detenute. Oggi in tutte le strutture si registrano assenze di personale: dai direttori, agli agenti penitenziari, agli educatori, fino a medici, psicologi, psichiatri, mediatori culturali. In questo modo chi è in servizio fa fatica e le persone detenute non possono ricevere le attenzioni che richiederebbero e nei tempi certi che meriterebbero”. Per Gonella aprire nuove carceri “non servirebbe a rendere più dignitosa la pena, non passando questa solamente da un aumento degli spazi che, peraltro, si potrebbero liberare attraverso un maggiore ricorso a misure alternative alla detenzione. Oggi ci sono circa 8mila persone detenute con un residuo pena che potrebbe garantire loro di scontare la pena fuori dal carcere”. Di misure alternative parla anche in una nota il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato, e giudica lodevole l’intento del ministro della Giustizia Nordio che vuole combattere il sovraffollamento carcerario. “Ma non basta parlarne soltanto a ridosso di Ferragosto, quando questi temi per le visite di rito tornano di attualità. Basta applicare le leggi che già ci sono. Da decenni, ad esempio, è in vigore una norma che consente di far scontare pene alternative presso le comunità terapeutiche ai detenuti tossicodipendenti che abbiano riportato anche condanne fino a sei anni. Questa norma viene usata pochissimo. Per inerzia della Magistratura, per un mancato funzionamento della burocrazia, per la complessità delle procedure”, sottolinea Gasparri, che aggiunge: “Non c’è bisogno di fare una nuova legge, come qualcuno, ignorando la norma in vigore, proponeva tempo fa. Basta applicare le leggi che ci sono. Rilanciando il ruolo delle comunità terapeutiche e la cultura del recupero dalle dipendenze, dell’alternativa al carcere per affrontare percorsi molto più utili a chi è caduto nel gorgo della droga. Nordio, ci vuole un minuto per avviare questo percorso. Non bisogna nemmeno fare norme nuove. Basta avere la volontà politica. Su questo ho presentato una mozione in Parlamento perchè credo che, prima delle grandi riforme, indispensabili, il funzionamento delle leggi che già ci sono sarebbe un ottimo biglietto da visita per questo governo. Servono fatti, altrimenti si rimane agli annunci”. Molto la critica la posizione del Pd espressa da Debora Serracchiani, reposnsabile Giustizia del partito: “La visita non basta, è urgente intervenire ma il carcere non sembra una priorità per questo governo. Il ministro Nordio ha infatti bocciato tutti i nostri emendamenti sul carcere, primo fra tutti quello che rimedia ai tagli al Dap fatti in legge di Bilancio e quello sul personale amministrativo Uepe”. Serracchiani, evidenzia che “il ministro torna a parlare di caserme ma intanto è stata abbandonata l’edilizia penitenziaria con la bocciatura del Fondo per l’edilizia e architettura penitenziaria che abbiamo proposto più volte. Non sono stati finalizzati fondi stanziati in legge di Bilancio per il carcere con il nostro emendamento. Anche sulla salute mentale in carcere e sui suicidi Nordio ha bocciato la proposta del Pd di erogazione di un incentivo per psichiatri, psicologi e per il personale sanitario che lavora in carcere. Giace in commissione Giustizia alla Camera la nostra proposta di indagine conoscitiva sulla salute mentale in carcere”. Sulla tragedia nel carcere torinese monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino e Vescovo di Susa, ricordando che nel carcere delle Vallette sono recluse 129 donne su oltre 1400 ristretti, in uno dei penitenziari italiani più sovraffollati e con il più alto tasso di suicidi, parla di “grido di dolore che ferisce tutti: non possiamo stare a guardare. Ancora una volta due nostre sorelle non hanno trovato nessuna speranza di libertà a cui aggrapparsi se non la morte. Mentre ci raccogliamo in preghiera per loro, diamo voce allo scandalo per due decessi che interpellano tutti. Non possiamo “abituarci” a queste notizie: in un Paese civile, nessuno dietro le sbarre deve sentirsi condannato a morte, ma deve trovare nel tempo della pena motivi speranza per il futuro come recita l’art. 27 della nostra Costituzione”. Anche per il sindaco di Torino, Stefano Lorusso, occorre “migliorare al più presto la situazione nelle carceri e soprattutto in quello di Torino. Le condizioni sanitarie e psicologiche delle persone che si trovano a scontare una pena, così come le condizioni di lavoro del personale di custodia, sono una priorità”. Non è più il tempo delle parole in libertà camerepenali.it, 13 agosto 2023 La nota dell’Osservatorio carcere UCPI dopo gli ennesimi suicidi negli istituti penitenziari. Piacenza, Roma, Terni, San Gimignano, Agrigento, Lecce, Pescara, Firenze, Modena, Taranto, Teramo, Venezia, Messina, Cagliari, Palermo, Santa Maria Capua Vetere, Taranto, Trani, Augusta, Como, Ravenna, Treviso, Napoli, Siracusa, Chiavari, Parma, Ragusa, Bergamo, Rossano, Torino. Sono solo alcune tappe di un agghiacciante “giro d’Italia” dei suicidi, avvenuti negli istituti penitenziari italiani dall’inizio del 2023. Una lunga e inarrestabile scia di morte che inchioda i nostri decisori politici alle loro responsabilità, per una duratura emergenza colpevolmente ignorata. Colpisce il fatto che negli ultimi mesi, tre donne, tutte ristrette presso il carcere di Torino, abbiano deciso di togliersi la vita. Proprio in quella sezione femminile che ha visto “Le ragazze di Torino” - così, negli ultimi tempi, si firmano le detenute nei loro documenti - animare numerose iniziative, appelli e lettere ai massimi rappresentanti delle istituzioni per chiedere, con forza, segnali di un cambiamento radicale del sistema carcere. Addirittura, una di esse - una ragazza nigeriana di 43 anni, classificata burocraticamente “morta per causa naturali” quasi a voler allontanare ogni sospetto di responsabilità umane - si è lasciata morire, sin dal 22 luglio, di fame e di sete, nell’inerzia e nel silenzio generale. Il Ministro Nordio non ha lasciato passare un solo giorno, recandosi di persona a Torino, manifestando, in conferenza stampa, la vicinanza e la solidarietà ai soli operatori penitenziari nonché l’impegno politico per interventi di ristrutturazione delle caserme in disuso da adibire a luoghi di detenzione differenziata. La solita ricetta, oramai stantia, propinata da ogni governo succedutosi negli ultimi decenni. Una “non-soluzione” di lungo termine forse utile per allentare la pressione dell’opinione pubblica, ma non certo per alleviare le tensioni che si percepiscono negli istituti penitenziari. Ristrutturare caserme in disuso, se mai realizzato, potrà produrre, alla meglio e molto alla lunga, frutti positivi se accompagnato da investimenti in risorse economiche e soprattutto umane. In mancanza, rimarrà la solita minestra peraltro mai cucinata. Una forma di disinteresse nonostante le drammatiche condizioni davvero intollerabili in cui si trova la popolazione detentiva destinata, tra misure cautelari ed espiazioni di pene intramurarie, a sforare il tetto dei 60.000 detenuti. Per giunta condita da una singolare citazione storica, sicuramente fuori luogo e nemmeno utile ad acquietare la coscienza collettiva, che, alla fine, “anche al processo di Norimberga due persone si sono suicidate” benché controllate a vista. Il Ministro ci ha tenuto, però, a ribadire che non si è trattato di una visita ispettiva. Peccato - verrebbe da dire - anche perché una ispezione e soprattutto una indagine per verificare quanto avvenuto al carcere di Torino appaiono quanto mai doverose. Troppi sono gli interrogativi che necessitano di trovare adeguate risposte. Sarebbe quanto mai necessario accertare se e chi sia stato informato della decisione tragica di rifiutare il cibo, l’acqua e le medicine. Se siano stati informati l’area sanitaria, il direttore, il magistrato di sorveglianza, il Dap, il suo avvocato e i familiari della detenuta. In caso positivo, quali siano le misure che ognuno di essi, per le rispettive competenze, abbiano ritenuto di adottare con tempestività per evitare il peggio o, per contro, di non adottarle. Capire chi e perché abbia deciso, eventualmente, di non informarli. Capire come mai e chi abbia deciso di non informare su quanto accadeva il garante nazionale, regionale e comunale, affrettatisi a dichiarare la loro incolpevole ignoranza. Quale supporto sanitario, psicologico e psichiatrico sia stato disposto ed osservato per una ragazza che da giorni ripeteva, in maniera ossessiva, solo di voler vedere il proprio figlioletto di 4 anni affetto da autismo. Se ci si è fatti carico delle visite e dei rapporti affettivi tra la madre ed il bambino o se invece ci si è limitati a isolarla nella sezione psichiatrica, senza che vi potesse essere contatto alcuno tra gli stessi. Questi ed altri interrogativi meritano pronte ed adeguate risposte. Si faccia carico, signor Ministro, della necessità di fare chiarezza! E non solo per il caso torinese. Ancora, signor Ministro, appare oramai ineludibile un pronto ed immediato segnale rivolto a tutta la comunità penitenziaria. Si ripristini l’aumento delle telefonate e video-chiamate, nonché le visite con i familiari, come è avvenuto nel periodo della pandemia. Si proceda all’assunzione di personale specializzato che possa intervenire nei numerosi casi, costantemente in aumento, di problematiche psichiatriche. Si agisca immediatamente con provvedimenti che possano diminuire il sovraffollamento, primi fra tutti la liberazione anticipata speciale così come è avvenuto con il D.L. 146/2013 all’indomani della sentenza-pilota “Torreggiani ed altri c/ Italia”. Non è più il tempo delle parole in libertà. L’Osservatorio carcere UCPI Suicidi in carcere. Il comunicato stampa di Sinistra Italiana Marche Ristretti Orizzonti, 13 agosto 2023 Sinistra Italiana Marche esprime il suo dolore di fronte alla morte di Susan John, 43 anni, di origine nigeriana, madre di un bambino di quattro anni con problemi di autismo, avvenuta al carcere Le Vallette di Torino. Un'altra donna di 28 anni si è uccisa la stessa notte sempre a Torino. SI esprime allo stesso tempo la sua condanna per il perdurare nelle carceri italiane delle condizioni di sovraffollamento, carenza di assistenza sanitaria e psichiatrica, di svolgimento di attività che permettano almeno in parte a detenute e detenuti di vivere e non solo di sopravvivere durante la loro permanenza. La meraviglia di chi si stupisce di fronte a avvenimenti di questo genere(la donna si è rifiutata di ricevere cibo dal giorno in cui è stata trasferita a Torino, e la sua è stata una protesta non dichiarata ma manifesta, l'altra si è uccisa) è da mettere sullo stesso piano di chi titola, sottolineando stupore, “Incredibile serie di femminicidi in Italia”, come avvenuto anche di recente, di fronte all'aumento di morti violente di donne molto spesso per mano dei loro uomini, con un preoccupante abbassamento di età. Sono fenomeni diversi ma che ci mettono di fronte a una realtà: non sono le persone più fragili a soffrire e morire, ma quelle messe in condizioni di non potersi difendere. La responsabilità è delle istituzioni, dei sistemi educativi, per intraprendere campagne educative nei confronti delle nuove generazioni, per sconfiggere definitivamente il patriarcato, la leggerezza colpevole con cui si danno per perdute le persone che una volta hanno sbagliato nella vita. Non ci deve essere alcuna ritrosia da parte dei maschi che riconoscono il problema essere di tutti. Sinistra Italiana prosegue il suo sostegno agli elementi che aveva individuato nelle riforme Cartabia, presenti ancora nel lavoro del ministro Nordio, come sostenitori della giustizia riparativa e delle pene alternative, e auspica che la CGIL porti avanti, come accennato mesi fa, i protocolli firmati fra DAP e sindacato in Puglia e Veneto per l'ingresso degli uffici INCA per facilitazione dell'ottenimento di documenti e per seguire con tutti i diritti il lavoro dei detenuti nelle Marche. Sinistra Italiana Marche Separazione delle carriere, adesso c’è anche una data: sarà un settembre di fuoco di Valentina Stella Il Dubbio, 13 agosto 2023 Nazario Pagano, il presidente della Commissione Affari costituzionali di Forza Italia, assicura: “ho voluto coinvolgere, sin da subito, l’Anm, con il presidente Giuseppe Santalucia, l’Organismo Congressuale Forense, con il coordinatore Mario Scialla e il Consiglio Nazionale Forense, con il presidente Francesco Greco”. L’ultimo atto in tema di giustizia prima della pausa estiva è stata la firma due giorni fa da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella del decreto legge contenente “disposizioni urgenti in materia di processo penale, di processo civile, di contrasto agli incendi boschivi, di recupero dalle tossicodipendenze, di salute e di cultura, nonché in materia di personale della magistratura e della Pubblica amministrazione”. Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 10 agosto, ora toccherà al Parlamento convertirlo in legge entro sessanta giorni. Non si annuncia facile il passaggio visto che già l’onorevole di Azione, Enrico Costa, ha annunciato: “Il decreto intercettazioni è l’occasione per trasformare in emendamenti molte dichiarazioni passate del Ministro. Partiremo quindi da emendamento soppressivo”. Chi non ricorda quando il Guardasigilli disse: “Noi interverremo sulle intercettazioni molto più radicalmente. Che questa sia una barbarie che costa 200 milioni di euro l’anno per raggiungere risultati minimi è sotto gli occhi di tutti”. Detto, fatto il contrario. Ma ora fissiamo sul calendario la data del 6 settembre perché alla Camera ci saranno due appuntamenti che dovrebbero dare slancio alle riforme. Innanzitutto in Commissione Affari Costituzionali si riprenderà, grazie anche alle sollecitazioni dello stesso Costa e di Roberto Giachetti (Italia Viva), a trattare il tema della separazione delle carriere come conferma al Dubbio lo stesso Presidente della Prima, il forzista Nazario Pagano: “Come avevo assicurato prima della sospensione dei lavori parlamentari mi sono adoperato affinché il percorso delle audizioni su un tema di grande rilevanza e attualità come la separazione delle carriere riprendesse al primo momento utile dopo la pausa estiva. E a dimostrazione dell’intento propulsivo che intendo dare alla materia ho voluto coinvolgere, sin da subito, l’Anm, con il presidente Giuseppe Santalucia, l’Organismo Congressuale Forense, con il coordinatore Mario Scialla e il Consiglio Nazionale Forense, con il presidente Francesco Greco. Intendo infatti assicurare un’ampia discussione a tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento aprendo le porte della I Commissione a tutti gli interlocutori che possono essere coinvolti, a vario titolo, nella riforma. L’obiettivo è arrivare a una sintesi di alto livello, quanto più condivisa possibile, per garantire alla magistratura giudicante e requirente forza, credibilità, autorevolezza e indipendenza”. Se tutto andasse come dovrebbe andare, in teoria dovremmo dire che la riforma sarà approvata, a maggior ragione che la maggioranza può contare anche sull’appoggio dei renziani e dei calendiani. Tuttavia sappiamo che questa è la battaglia delle battaglie che vede schierati su due fronti completamente opposti magistratura e avvocatura. Chi l’avrà vinta? In questi decenni l’ha spuntata la prima, ma se non ora quando? Tema sbandierato in campagna elettorale, sponsorizzato nella forma blanda della separazione delle funzioni come apripista alla vera separazione nei referendum proposti da Lega e Partito Radicale, più volte assicurata da Meloni e Nordio, maggioranza compatta intorno ad esso: insomma i presupposti ci sarebbero tutti ma sappiamo che in politica tutto può ribaltarsi da un momento all’altro. E sappiamo anche che sul piano delle riforme costituzionali c’è anche quella del presidenzialismo, di cui non si parla però da tanto. A chi darà la precedenza l’Esecutivo? Che peso avrà l’anatema dell’Anm? Nordio in una intervista a La Stampa ha già detto che i tempi saranno lunghi per la separazione perché è di matrice costituzionale la modifica. Certo, se questo Ministro non riuscisse a portare a casa questa riforma, dopo che sta cedendo su tanto altro, prendendosi molte critiche da più parti per la sua incoerenza (vedasi anche ultime dichiarazioni del Presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza), sarebbe per lui davvero una sconfitta. Tornando al 6 settembre c’è un altro appuntamento importante, questa volta in Commissione Giustizia, dedicato alla prescrizione. Sappiamo che ci sono tre proposte di legge in esame: quelle di Costa e Maschio (Fdi) che chiedono il ritorno alla Orlando, prevedendo di lasciar correre i due orologi, quello della prescrizione e quello dell’improcedibilità, e la proposta Pittalis (Fi) che invece propone di tornare al regime anteriore a quello “Orlando” con l’abrogazione dell’improcedibilità. Ebbene, come riferito dal Fatto e confermato da nostre fonti parlamentari si andrebbe verso un testo unificato a partire da quello di Pittalis, intorno al quale convergerebbero Fdi, Fi, ex Terzo Polo. Per ora la Lega non parla ma dovrebbe unirsi al gruppo. Due soli gli articoli: uno che eliminerebbe la Spazzacorrotti di Bonafede, l’altro che cancellerebbe l’improcedibilità della Cartabia. La prescrizione continuerebbe a correre durante il processo, con la possibilità di una sospensione di 18 mesi in caso di condanna in primo o secondo grado. Nessuna sospensione in caso di assoluzione. Ovviamente il testo sarebbe emendabile ma la volontà è quella di sbrigarsi e di non aspettare Nordio che pur a febbraio, in un video messaggio inviato all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione Camere Penali, aveva detto: “Modificheremo la legge sulla prescrizione che ha introdotto l’improcedibilità”. Ma si sa, di questi tempi la sua parola non è che valga molto dicono nelle chat diversi deputati e senatori - pur costretti a fare la sua difesa di ufficio sulla stampa - quindi meglio dare impulso alla strada parlamentare. Caso Open, azione disciplinare per i pm “Gravi violazioni” di Simona Musco Il Dubbio, 13 agosto 2023 “Grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile”. È quanto contesta il ministro della Giustizia Carlo Nordio ai pm del caso Open, Luca Turco e Antonino Nastasi, nei confronti dei quali ha esercitato l’azione disciplinare, chiedendo al pg di Cassazione di svolgere le dovute indagini. I due magistrati erano stati già sconfessati dalla Corte costituzionale, secondo cui, sequestrando i messaggi Whatsapp e le mail scambiati da Marco Carrai e Vincenzo Manes con il senatore Matteo Renzi, la procura di Firenze avrebbe “menomato” le guarentigie parlamentari del leader di Italia Viva, aggirando la Costituzione. E secondo il Guardasigilli, i pm avrebbero anche commesso un illecito disciplinare, disattendendo quanto stabilito dalla Cassazione il 18 febbraio 2022, quando, annullando senza rinvio il decreto di perquisizione e sequestro a carico di Carrai, dirigente della Fondazione Open, aveva inibito la procura di Firenze dal trattenere non solo i supporti materiali sequestrati, ma anche i dati estrapolati dagli stessi, ordinando la restituzione di tutto il materiale. Nonostante la nomina formale, il 23 febbraio, di un consulente incaricato di cancellare le copie forensi e la copia lavoro della polizia giudiziaria - lavoro conclusosi il 15 aprile -, i due pm hanno trattenuto più copie dei dati, per poi trasmetterle l’ 8 marzo 2022 al Copasir con atto firmato da Turco. Che ha poi depositato un’altra copia di quella documentazione - della quale veniva anche chiesto il segreto probatorio - all’udienza preliminare il 4 aprile 2022. Inoltre, in un ulteriore fascicolo stralciato il 7 marzo 2022 da quello principale e iscritto a modello 45, venivano conservate informative della polizia giudiziaria non depurate dai dati oggetto di dissequestro e contenenti anche l’esito delle analisi sui reperti informatici sequestrati a Carrai. Ma non solo: Nordio, nell’atto inviato al procuratore generale della Cassazione, contesta al solo Turco due ulteriori illeciti. Il Copasir, infatti, aveva richiesto informazioni sul procedimento a novembre 2021, per valutare eventuali elementi “riferiti alla tutela della sicurezza nazionale”, richiesta alla quale il pm non ha fornito risposta - senza nemmeno giustificare con ragioni di natura istruttoria la necessità di ritardare la trasmissione - se non dopo la pronuncia di Cassazione, quando ormai non avrebbe più potuto farlo. Inoltre, ha depositato nel corso dell’udienza preliminare del 4 aprile 2022 un’informativa della Guardia di Finanza del primo dicembre 2021, contenente dati e notizie sensibili provenienti dai dispositivi sequestrati a Carrai, della quale richiedeva il sequestro probatorio per aggirare la sentenza di Cassazione, con lo scopo “di recuperare ai fini processuali quei dati che per i giudici di legittimità erano stati illegittimamente acquisite”, come ritenuto dal gup con ordinanza del 12 maggio 2023. Turco, secondo il ministro, avrebbe tenuto un comportamento “gravemente scorretto” nei confronti di Carrai, “divulgando dati e notizie sensibili e riservati provenienti dai supporti informatici a suo tempo illegittimamente sequestrati”. Violazioni tutte da ritenersi “gravi in quanto elusive della pronuncia della Corte di Cassazione, illegittimamente determinando la sopravvivenza e la successiva divulgazione di dati sensibili e riservati contenuti in supporti informatici dei quali era stata ordinata la restituzione con divieto di trattenimento di copia”. La procura ha chiesto nei mesi scorsi il rinvio a giudizio per 15 indagati, di cui quattro sono società, contestando, a vario titolo, i reati di finanziamento illecito ai partiti, corruzione, riciclaggio, traffico di influenze. Tra gli imputati, oltre al leader di Italia Viva, la deputata Maria Elena Boschi, capogruppo Iv alla Camera, il deputato del Pd Luca Lotti e Carrai. Le pronunce della Cassazione rappresentano l’asso nella manica della difesa: secondo gli Ermellini, infatti, qualificare la fondazione Open come un’articolazione di partito sarebbe stato un errore. E a fianco a questa pronuncia c’è la decisione della Consulta di dichiarare illegittimi i sequestri a carico di Carrai, tanto da spingere l’ex premier ad attaccare i pm, rei di aver violato “la Costituzione” e “la legge”. Ora arriva anche l’azione disciplinare, ultimo capitolo della guerra tra Renzi e i magistrati di Firenze. Rossano Calabro (Cs). Detenuto trovato morto nel carcere, si ipotizza il suicidio Corriere della Calabria, 13 agosto 2023 L’uomo, 44 anni, si trovava in prigione in seguito a una inchiesta antidroga. La Procura di Castrovillari ha disposto il sequestro della salma. Un detenuto di 44 anni, originario di Lamezia Terme (Catanzaro), è stato trovato morto nella sua cella del carcere di Rossano, in Calabria. Secondo quanto si è potuto apprendere l’uomo si sarebbe tolto la vita. Sulla vicenda ha aperto un fascicolo la Procura di Castrovillari che avrebbe anche disposto il sequestro della salma. Il quarantaquattrenne si trovava nel carcere di Rossano dallo scorso febbraio perché coinvolto nell’operazione Svevia, operazione antidroga condotta dalla Guardia di finanza con il coordinamento della Dda di Catanzaro. Nell’ambito di quella operazione vennero indagati 55 soggeti ritenuti componenti di una presunta rete di spacciatori. In particolare, 40 persone finirono in carcere, 6 ai domiciliari e per tre di loro fu disposta la misura di obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Nell’ordinanza si faceva riferimento ad un’organizzazione armata dedita al traffico di droga, legata alle principali cosche di Lamezia Terme, in particolare alla ‘ndrina Giampà, e che aveva rapporti in provincia di Reggio Calabria, a Rosarno e San Luca, e anche Roma. Ulpa: “Con questo sono 47 i suicidi di detenuti in carcere” - “Aveva 44 anni, originario di Lamezia Terme, era detenuto per reati connessi al traffico di stupefacenti e questa mattina si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella della Casa di reclusione di Rossano. A nulla sono valsi i soccorsi della Polizia penitenziaria e dei sanitari prontamente intervenuti. Mentre il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, esterna improbabili e confuse teorie a Torino, in carcere la carneficina non si ferma”. È quanto afferma, in una nota, Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria. “Con questo sono 47 i suicidi di detenuti in carcere - aggiunge De Fazio - nel corso del 2023, cui bisogna aggiungere altre morti le cui cause sono incerte, e un omicidio, nonché un appartenente al Corpo di polizia penitenziaria che parimenti si è tolto la vita. A fronte di tutto ciò, è inaccettabile che il Guardasigilli continui a teorizzare confusamente senza produrre nulla di concreto. Per questo invochiamo nuovamente l’interessamento diretto del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, affinché si prenda atto dell’emergenza e si vari un decreto carceri per affrontarla attraverso immediate assunzioni straordinarie, alla Polizia penitenziaria mancano 18mila unità, dotazione di equipaggiamenti e revisione del modello custodiale anche con riferimento ai reclusi malati di mente”. “Parallelamente, inoltre - sostiene ancora il segretario generale dell’Uilpa - il Parlamento dovrebbe approvare una legge delega per la reingegnerizzazione dell’apparato carcerario e la riorganizzazione del Corpo di polizia penitenziaria. Il resto è solo un placebo”. Torino. Carcere, 40 giorni per una soluzione di Massimo Massenzio e Stefano Lorenzetti Corriere della Sera, 13 agosto 2023 Nordio vuole un tavolo il 21 settembre: dirigenti, garanti e politici dovranno arrivarci con un piano. Due suicidi nel Lorusso Cotugno venerdì, ieri la reazione del governo: l’arrivo del ministro Nordio nel carcere di Torino. Lo sbarco del guardasigilli ha provocato reazioni diverse del mondo politico e la contestazione dai padiglioni. La visita, poi la riunione con la direttrice Elena Lombardi Vallauri, i garanti dei detenuti, Bruno Mellano e Monica Gallo, il referente dell’Asl per la sanità penitenziaria Roberto Testi e la vicesindaca Michela Favaro. Il ministro ha annunciato la convocazione, per il 21 settembre, di un tavolo tecnico con rappresentanti di Comune, Regione, garanti, amministrazione penitenziaria ed enti locali per tentare di risolvere i problemi della casa circondariale torinese. Per quel giorno si aspetta proposte realizzabili, soluzioni Per qualcuno è stata solo una “inutile passerella”, per altri la dimostrazione di “volontà di risolvere i problemi del carcere più complesso d’italia”. La visita del ministro della Giustizia Carlo Nordio, arrivato ieri mattina al Lorusso e Cutugno dopo la morte di due detenute nella giornata di venerdì ha diviso le opinioni dei presenti e, soprattutto, degli assenti. Il Ministro si è presentato alle Vallette alle 11.30, ricevuto, fra gli altri, dalla direttrice Elena Lombardi Vallauri, dai garanti dei detenuti, Bruno Mellano e Monica Gallo, assieme alla vicesindaca di Torino Michela Favaro. La riunione si è svolta negli uffici della direzione e subito, dai padiglioni, è partita una rumorosa contestazione da parte dei detenuti. Con fischi, battitura delle stoviglie sulle sbarre e il grido: “Libertà, Libertà”. Nel corso della discussione il ministro ha annunciato la convocazione, per il 21 settembre, di un tavolo tecnico con rappresentanti di Comune, Regione, garanti, amministrazione penitenziaria ed enti locali per tentare di risolvere gli annosi problemi della casa circondariale torinese. Una data da annotare con il “circoletto rosso” sul calendario in modo da arrivare con proposte concrete e magari progetti già avviati. Dal canto suo Nordio ha precisato che quella di ieri non è stata affatto un’ispezione, ma un gesto di vicinanza in un momento di dolore: “Vicinanza a chi è stato colpito, ma anche a chi opera nella struttura, dalla direzione alla polizia penitenziaria, che soffre di gravi carenze di organico - ha precisato -. Abbiamo ascoltato molte proposte e, compatibilmente alle risorse che abbiamo, pensiamo alla detenzione differenziata tra i detenuti molti pericolosi, ad esempio i reclusi al 41bis, e quelli di modesta pericolosità sociale: ci può essere una situazione intermedia con l’utilizzo di caserme che sono state dismesse e hanno spazi che consentono il lavoro all’aperto e l’attività sportiva”. Sulle tragiche morti di Susan John e Azzurra Campari non è entrato nello specifico: “Ci sarà un’inchiesta della magistratura, che è autonoma e sovrana, purtroppo i suicidi sono imprevedibili. Lo Stato non lascia solo nessuno”. La vicesindaca Favaro ha presentato un progetto del Comune per migliorare le condizioni dei giovani adulti e delle donne detenute in carcere: “Serve una maggiore attenzione alla popolazione femminile del carcere, penso sarebbe utile fare un focus specifico sulle donne, così come è stato fatto per i giovani, per capire come vivono il carcere e dare risposte adeguate”. Il garante regionale Mellano ha invece proposto la semplificazione dei circuiti carcerari: “Spostare, magari a Saluzzo e Asti, 50 detenuti di alta sicurezza e 20 collaboratori di giustizia permetterebbe una migliore gestione degli spazi”. Monica Gallo, garante della Città di Torino, si invece concentrata sul rischio emulazione dei suicidi: “In carcere è altissimo: bisogna garantire un presidio sanitario 24 ore su 24 nella sezione femminile e attivare i punti di ascolto”. Decisamente critica, invece, la posizione del sindacato di polizia penitenziaria Osapp: “La visione del ministro della giustizia Nordio e lontana dalla realtà penitenziaria attuale e difetta del tutto da qualsiasi concreto punto di vista - ha affermato il segretario generale Leo Beneduci -. L’accenno alla polizia penitenziaria che, abbandonata a se stessa, continua a mandare avanti il baraccone penitenziario con il 20% di organico in meno e il 30% dei detenuti in più è stato assolutamente vago”. Il pensiero di monsignor Roberto Repole, infine, è andato a Susan e Azzurra: “Ancora una volta due nostre sorelle non hanno trovato nessuna speranza di libertà a cui aggrapparsi. Non possiamo abituarci al dolore, in un Paese civile, nessuno dietro le sbarre deve sentirsi condannato a morte”. Torino. Nordio, fischi in carcere. Il dramma dei suicidi rimane senza risposte di Vanessa Ricciardi Il Domani, 13 agosto 2023 Susan John, nigeriana di 43 anni ha deciso di smettere di alimentarsi, Azzurra Campari, di 28, si è impiccata nella sua cella. In serata la notizia di un terzo detenuto trovato morto in Calabria. L’associazione Antigone ha raccontato il sovraffollamento degli istituti e il senso di solitudine. Susan John e Azzurra Campari sono morte suicide venerdì una dopo l’altra, mentre erano sotto la custodia dello stato, carcerate nell’istituto Lorusso e Cutugno. Ieri sera è arrivata la notizia di un altro detenuto trovato morto impiccato in Calabria, le ultime tre morti volontarie che hanno portato a 44 il numero di vittime di quest’anno nei penitenziari del paese. Alle Vallette, come viene chiamato l’istituto di Torino, ieri mattina, prima che si aggiungesse la notizia di Rossano, è arrivato il ministro della giustizia Carlo Nordio, accolto con i fischi. Ha detto che “la mente umana è insondabile” e che le “ragioni sono imperscrutabili”. Ha ammesso però che i problemi ci sono, e li conosce benissimo, ma le proposte che ha lanciato rischiano di ritardare la reazione a quella che si configura come un’emergenza, tra sovraffollamento e caldo, senso di solitudine, sofferenza psichica. Mentre Nordio attraversava i corridoi, dietro le sbarre è partita la protesta dei detenuti. I fischi si sono sentiti fino al cancello principale. Urlavano “libertà, libertà” e si sono messi a fare rumore con gli oggetti. Le proposte - La visita, ha specificato il Guardasigilli, non è stata “un’ispezione”, ma “un atto di vicinanza”. ll ministro ha chiesto un incontro con gli psichiatri della casa circondariale, per acquisire elementi sulle due morti. Nordio vuole mettere in campo “la detenzione differenziata” a seconda della pericolosità, destinando all’uso “le caserme dismesse e che hanno spazi meno afflittivi”. Per la prossima legge di bilancio si augura di aumentare i fondi per il personale. Soluzioni tutte da concretizzare. Se sul fronte carceri prende tempo, venerdì aveva deciso di intervenire sul caso della fondazione Open, che vede imputato Matteo Renzi: secondo quanto riportano i giornali vicini alla destra, ha avviato un’azione disciplinare contro i pm Luca Turco e Antonio Nastasi per illecito. Il presidente della commissione Giustizia della Camera, Ciro Maschio (FdI), ha confermato a Domani che il parlamento (chiuso per ferie) non ha in programma leggi specifiche sugli istituti penitenziari: “Aspettiamo le proposte del governo. Alcune, come quella dell’utilizzo delle caserme, non necessitano di passaggio parlamentare. Sicuramente porteremo le nostre in occasione della Legge di Bilancio”. E cita anche “gli accordi bilaterali per i rimpatri dei detenuti”. Per Alessio Scandurra, dell’Osservatorio sulle condizioni dei detenuti dell’associazione Antigone, “aumentare gli istituti ha senso ma è un processo lungo, serve personale a tutti i livelli, investire risorse”. Per reagire immediatamente Nordio dovrebbe dare indicazione alle carceri di chiedere aiuto alle associazioni del territorio, e aprire le loro porte: “Altrimenti sono parole che non sanno di nulla”. Allo stesso modo, “il sistema salute si deve fare carico delle sue responsabilità, così come gli enti locali”. Le indagini - Sui suicidi delle due donne sono partite le indagini della procura di Torino . Susan John, nigeriana di 43 anni, è morta di fame. Dallo scorso 22 luglio, si è rifiutata di mangiare, bere, sottoporsi a qualsiasi terapia, anche di essere ricoverata in ospedale. “È deceduta dopo aver nuovamente perso i sensi come era già accaduto nell’ultima settimana”, ha raccontato il garante dei detenuti Mauro Palma sulla Stampa. Scontava una condanna a dieci anni per tratta e immigrazione clandestina, sarebbe uscita nel 2030, prima era ai domiciliari. Da subito aveva iniziato il rifiuto di ogni tipo di alimentazione, ma non per protesta. Si sarebbe lasciata andare. Azzurra Campari, 28 anni, sarebbe tornata libera nel 2024, era in carcere per piccoli furti. Era considerata “a rischio”, ma nonostante il monitoraggio, è riuscita a impiccarsi in cella. Il terzo detenuto aveva 44 anni ed era originario di Lamezia Terme (Catanzaro). Si sta muovendo la procura di Castrovillari. “Occorre interrogarci sulla responsabilità collettiva”, ha scritto Palma. Alle storie di violenza straordinaria, a partire da quella che si è consumata nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ormai tre anni fa, si aggiungono così quelle di ordinaria invivibilità. Antigone ha contato 16 suicidi tra giugno e agosto, ma se ne sono aggiunti due. Il 2022 è stato “l’anno dei suicidi” con il drammatico record di 84 persone che si sono tolte la vita in carcere. Per Antigone “non è un caso”. Nelle carceri si trovano 10mila persone in più dei posti disponibili, con un tasso di sovraffollamento del 121 per cento. Le sigle della polizia penitenziaria, Sappe e Osapp, hanno chiesto a Nordio un cambio di passo. “In estate le persone restano più sole, si bloccano le attività, cominciano le ferie”, dice Scandurra, “basterebbe agevolare le telefonate e le videochiamate. Può fare la differenza”. Negli scorsi mesi invece, “si è discusso soprattutto del reato di tortura. C’è un forte scollamento tra messaggio pubblico e chi lavora in questi posti. Ci preoccupiamo degli agenti che picchiano i detenuti e non di tutti gli altri che non hanno strumenti”. Torino. E poi arriva Nordio, accolto dalle proteste. Idea: ancora carcere di Mauro Ravarino Il Manifesto, 13 agosto 2023 Il giorno dopo le due morti autoinflitte, il ministro in visita a Torino. Ma il suo problema è come fare spazio a più detenuti, non diminuirli. In quella propaggine a nord ovest della città si sta male, si soffre e ci si toglie la vita. È il carcere Lorusso Cutugno di Torino, meglio conosciuto come le Vallette dal nome del quartiere che lo circonda. Ieri, dopo il suicidio di due detenute venerdì, si è precipitato qui il ministro della Giustizia Carlo Nordio, anticipando in realtà una visita già programmata. “Non si tratta di una ispezione, né di un intervento cruento, ma di assoluta vicinanza”, ha esordito il guardasigilli. Una visita, però, accolta da una rumorosa protesta dei detenuti: battiture sulle sbarre con gavette e altre stoviglie al grido di “libertà, libertà”, urla da tutto il carcere in modo indistinto e anche qualche fischio. “Lo Stato non abbandona nessuno” e i suicidi in cella sono fardelli di dolore”, ha detto Nordio che è entrato nella casa circondariale direttamente in auto. Ad accoglierlo, la direttrice della struttura penitenziaria, Elena Lombardi Vallauri, i garanti comunale, Monica Gallo, e regionale Bruno Mellano, insieme al responsabile dell’Asl per il carcere Roberto Testi; presente anche la vicesindaca Michela Favaro. Al tavolo, il ministro - che interpellato sulle proteste ha detto “molto spesso i detenuti in situazioni di sofferenza danno manifestazioni di disagio” - ha parlato delle ricette che intende mettere in campo, come l’utilizzo di caserme dismesse per ospitare detenuti non pericolosi: “Costruire un carcere nuovo è costosissimo, impossibile sotto il profilo temporale, ci sono vincoli idrogeologici, architettonici, burocratici. Cercheremo quella che vorrei chiamare una detenzione differenziata tra i detenuti molto pericolosi e quelli di modestissima pericolosità sociale. C’è una situazione intermedia che può essere risolta con l’utilizzo di molte caserme dismesse, che hanno spazi meno afflittivi”. Antigone sostiene che il problema sia un altro: “Il ministro ha parlato ancora una volta di edilizia penitenziaria e, ancora una volta, va ribadito che non servono più carceri, ma servono carceri piene di attività e attenzione per le persone detenute”. Sulla morte delle due detenute c’è un’inchiesta della procura di Torino e Nordio avrebbe chiesto un incontro con gli psichiatri della casa circondariale. Erano due giovani donne, storie e provenienze diverse ma vicine di cella. Susan John, nigeriana di 43 anni, si è lasciata morire lentamente rifiutando acqua, cibo, cure e chiedendo insistentemente del figlio (il ministro Nordio sostiene che non si sia trattato di sciopero della fame, non fornendo altri elementi). Azzurra Campari, 28 anni, originaria della provincia di Imperia, si è impiccata qualche ora dopo; alle spalle piccoli furti, una pena da scontare fino al 2024. La madre, attraverso il proprio avvocato, Marzia Ballestra, ha raccontato: “L’ultima volta che ci siamo parlate in video chiamata mi aveva detto: “Mamma non ce la faccio più”. Ma non basta. Proprio ieri dal carcere di Rossano Calabro arriva la notizia di un’altra morte in carcere. Ancora un suicidio, questa volta si tratta di un uomo di 44 anni detenuto per traffico di stupefacenti. Monica Gallo, garante dei diritti dei detenuti di Torino, rivela che le gravi situazioni di malessere delle due detenute morte venerdì non erano state rese note. Alle Vallette, dice, “ci sono carenze strutturali e di personale, oltre al sovraffollamento, che in certi padiglioni è del 160%. Serve cambiare la visione. A Torino entrano in carcere ogni mese 200 persone magari temporaneamente, mettendo in moto una macchina che impegna il personale penitenziario sottratto dalla routine di assistenza. Le operazioni di convalida dovrebbero essere fatte all’esterno e non all’interno della casa circondariale. Questo è un carcere che sta soffrendo, inoltre, i continui cambi di direzione, che creano preoccupazione tra i detenuti. Spero che dopo questo dramma possano cominciare a cambiare delle cose”. Il Comune di Torino ha recentemente proposto al ministro della giustizia un “Manifesto dei giovani adulti detenuti”, un progetto pilota a livello nazionale per migliorare le condizioni di vita della popolazione detenuta fra i 18 e i 25 anni, che suggerisce la costituzione di un’equipe multiprofessionale, con personale anche di enti esterni, che, fin dal momento del primo ingresso si occupi della realizzazione di progettualità che coinvolgano in prima persona i detenuti giovani. In tema di formazione e lavoro ma anche di salute, fisica e mentale. Torino. Contestazione alle Vallette durante la visita di Nordio di Elisa Sola La Repubblica, 13 agosto 2023 Ispezione al penitenziario del responsabile della Giustizia: “Da pm ne ho trattati tanti: non esiste mistero più insondabile della mente umana quando cerca soluzioni estreme”. Un quarto d’ora e oltre di fischi e cori “libertà, libertà” all’interno del carcere delle Vallette dove una contestazione dei detenuti ha accolto il ministro della Giustizia Nordio in visita per verificare cosa è accaduto alle due donne che, in poche ore, si sono suicidate ieri. Mentre il responsabile della Giustizia era negli uffici della direzione è iniziata una contestazione che avrebbe coinvolto in modo indiscriminato tutte le sezioni del penitenziario. FIn dall’esterno, dal piazzale dove sono rimasti in attesa giornalisti e fotografi si è sentito per oltre mezz’ora rumore di battiture, il modo di protestare dei detenuti battendo sulle sbarre della cella con oggetti metallici. Carlo Nordio è arrivato prima delle 12. La visita del ministro decisa in risposta alle numerose sollecitazioni da parte politica e della società civile che hanno chiesto di accertare le cause di due suicidi nel carcere Lorusso e Cutugno nell’arco di poche ore. Due donne si sono tolte la vita, una impiccandosi e l’altra, caso che ha destato moltissimo scalpore, lasciandosi morire senza acqua né cibo dal momento dell’ingresso in cella, il 22 luglio. “L’hanno classificato ‘decesso per cause naturali’, ma la definizione appare incongrua nel caso di una persona, quale la signora Susan John, nigeriana di quarantatré anni, che ha condotto fino all’estremo la sua protesta rifiutandosi di mangiare, bere, prendere qualsiasi terapia e anche di essere ricoverata in ospedale. È deceduta dopo aver nuovamente perso i sensi la notte tra giovedì e venerdì come era già accaduto nell’ultima settimana”. Sono le parole di Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Le sue dichiarazioni sono le ultime di una serie di commenti sgomenti alla notizia che Susan John non fosse stata salvata. Anche Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano aveva chiesto che fosse fatta chiarezza. E la garante dei detenuti torinese, Monica Gallo, aveva detto di non essere stata mai informata di questo caso drammatico, nonostante il digiuno andasse avanti da giorni. Il ministro: “Non è stato sciopero della fame. Ne ho visti tanti da pm: la mente umana in situazione estreme è un mistero” “Ho saputo che non si è trattato di sciopero della fame o di opposizione al governo”. A chi gli domandava se si sarebbe potuto fare qualcosa di più per evitare la sua mancata alimentazione per venti giorni il ministro Nordio dopo la visita alle Vallette nega che la donna si sia lasciata morire di fame e sete. E parla così della morte della detenuta: “Lo Stato non abbandona nessuno. Purtroppo il suicidio in carcere è un fardello di dolore che affligge tutti i detenuti. Da pm ne ho trattati, ahimè, tanti e non esiste mistero più insondabile della mente umana quando uno cerca soluzioni così estreme”. E la soluzione è riadattare le caserme: “Costruire un carcere nuovo è costosissimo: è impossibile sotto il profilo temporale, ci sono vincoli idrogeologici, architettonici, burocratici. Con cifre molto inferiori possiamo riadattare beni demaniali in mano al ministero delle Difesa compatibili con l’utilizzazione carceraria”, ha aggiunto il ministro. Torino. Dall’inferno delle Vallette scappano anche i medici di Mario Di Vito Il Manifesto, 13 agosto 2023 È dall’inizio di agosto che il carcere di Torino è sprovvisto di direttore sanitario. Alessandro Franchello ha rassegnato le dimissioni appena tre mesi dopo la sua nomina, al culmine di una violenta polemica con i sindacati degli agenti penitenziari dopo l’aggressione di un secondino da parte di un detenuto, a metà luglio. Non un caso isolato, peraltro, con lui anche due dentisti hanno dato forfait e altri medici hanno chiesto il trasferimento al Ferrante Aporti, la prigione minorile. Che la sorveglianza dei detenuti fosse complicata, forse addirittura proibitiva, dunque, non era un mistero per nessuno e la questione stava anche interessando la Regione Piemonte, che aveva promesso ai sindacati e alla direzione dell’istituto che avrebbe discusso la cosa dopo l’estate, a settembre. Non abbastanza presto, in tutta evidenza, e ora i suicidi di Susan John e Azzurra Campari tornano ad accendere i riflettori sulla prigione di Torino. La situazione del Lorusso e Cutugno, ai più noto come “Le Vallette”, è infatti drammatica ormai da anni, come testimoniano i report sempre più allarmati delle varie associazioni che si occupano delle condizioni carcerarie, oltre a una lunga serie di avvicendamenti, scandali e polemiche ricorrenti, come se ci fosse una specie di maledizione che fa del carcere di Torino uno dei più problematici d’Italia. La nuova direttrice, Elena Lombardi Vallauri, si è insediata appena lo scorso maggio, dopo essere già stata vicedirettrice a Torino qualche anno fa, e si è subito trovata a dover combattere una battaglia complicatissima: il problema non è solo il sovraffollamento (1.400 ospiti su una capienza di mille), ma anche la fatiscenza della struttura. Poi ci sono alcuni dati eloquenti: nel corso del 2022 alle Vallette ci sono stati 3.761 eventi critici, di cui 4 suicidi, 35 tentativi e 143 atti di autolesionismo. A tutto questo vanno aggiunti 329 richiami ai sensi del diritto carcerario, con tanto di denuncia al Consiglio d’Europa e trasferimento di una discreta quantità di detenuti altrove per alleviare il sovraffollamento. Nel resto della regione (in Piemonte ci sono 13 carceri su 189 totali in Italia) la situazione sembra paradossalmente molto migliore: la capienza totale è di 3.999 detenuti e l’ultimo censimento, arrivato a fine luglio, conta 4.036 reclusi. La sezione più complicata, a Torino, è sicuramente quella del Sestante, dove finiscono i “nuovi giunti”: un padiglione fatiscente dove vivono stipati i detenuti in attesa di essere trasferiti nelle celle della sezione penale. Fu il deputato di Italia Viva Ivan Scalfarotto a sollevare la questione dopo una visita del novembre scorso: “Sembra di stare in una kasbah, si ha l’impressione di un disordine assoluto, c’erano urla da rabbrividire”. Non solo, il 4 luglio, a due anni dal rinvio a giudizio e un anno dalla richiesta delle parti civili di anticipare la data della prima udienza per la possibile prescrizione dei reati, al tribunale di Torino è cominciato un complicatissimo processo a carico di 22 agenti di polizia penitenziaria delle Vallette accusati di aver torturato i detenuti tra il 2017 e il 2019. Adesso l’ultima vicenda riguarda proprio il personale medico. Anche qui, i problemi sono un fatto noto. Ad aprile, nell’illustrare la sua relazione annuale, la garante dei detenuti della città di Torino Monica Gallo, aveva parlato in maniera molto chiara di problemi sul versante sanitario, dalla “grave assenza di dialogo con gli operatori medici” ai tempi di intervento del 118: la media torinese è di 8 minuti per il territorio urbano e 20 per quello extraurbano. In carcere il minutaggio è superiore al doppio. L’aggressione a pugni subita da uno dei dottori ha comunque scatenato le ire del sindacato Osapp, che ha inviato una durissima lettera al prefetto di Torino e alla direzione del carcere denunciando la fuga del personale dai turni nelle sezioni. E così, dopo l’arrivo di una serie di disposizioni che demandano agli agenti penitenziari il controllo dei detenuti psichiatrici, l’Osapp è esploso e ha deciso di dare battaglia: “La polizia non può fare da body guard ai singoli detenuti 24 ore al giorno”. E giù lettere, comunicati, appelli, proteste. L’argomento andrebbe girato prima alla Regione e poi al ministero della Giustizia, soprattutto perché la nuova direzione ha appena tre mesi di vita e il contesto generale in cui si è trovata ad operare è, per usare un eufemismo, non semplicissimo. Ad ogni modo che i direttori nel carcere di Torino durino poco non è un’opinione ma un dato di cronaca: sei mesi, un anno, qualcuno addirittura due, poi arrivano sempre le dimissioni o il trasferimento. Segno che lì dentro tutto è difficile, ai limiti del sopportabile. All’inizio di giugno una delegazione di Magistratura Democratica è andata in visita alle Vallette e il giudizio, all’uscita, è stato lapidario: “Il carcere di Torino non permette la rieducazione”. A volte non permette neppure di vivere. Torino. “Susan poteva essere salvata”, parla Rita Bernardini di Angela Stella L’Unità, 13 agosto 2023 “Se chi monitorava avesse chiamato i garanti, mobilitato gli psicologi, gli educatori, se qualcuno avesse parlato cercando di comprendere...”. Con Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, facciamo il punto sulle nostre carceri. Una donna si è lasciata morire in carcere. Cosa ci consegna questo ennesimo dramma? Quel che siamo diventati. Se in Italia può accadere che una donna non si nutra per così tanti giorni senza che nessuno lo sappia soprattutto all’esterno, senza che nessuno intervenga per aiutarla, vuol dire che siamo ad un punto di non ritorno, ad una situazione oscena di disumanità. Si scrive che i sanitari abbiamo chiesto a Susan John - questo era il suo nome - di ricoverarsi in ospedale, ma che lei non abbia dato il consenso. Se chi la monitorava avesse chiamato i garanti, mobilitato gli psicologi, gli educatori, se qualcuno le avesse parlato cercando di comprendere il suo gesto estremo di non mangiare e di non bere, credo che la tragedia non si sarebbe consumata. Ho parlato con una delle “ragazze di Torino”, ex detenuta alle Vallette ora in affidamento al lavoro: mi ha detto di essere desolata e di non vederci chiaro in questa storia perché trova inspiegabile che nessuna delle sue ex compagne le abbia scritto per raccontarle quel che stava accadendo. Io, con lei, mi chiedo “lo sapevano?”. Con NTC state continuando a visitare le carceri. Qual è la situazione? Dall’inizio dell’anno abbiamo visitato oltre 70 istituti, facendo regolari rapporti al Capo del Dap Russo che, insediatosi da pochi mesi, si trova a gestire un’eredità penitenziaria che nel corso degli anni si è notevolmente aggravata per scelte dissennate dei Governi e dei parlamenti che si sono succeduti. Ora abbiamo più detenuti e meno personale perché con la legge Madia sono stati tagliati migliaia di posti di lavoro nelle carceri: le carenze si registrano non solo nel corpo degli agenti di polizia penitenziaria, ma anche - e sono vertiginose - fra direttori, educatori, psicologi, assistenti sociali, personale sanitario, soprattutto psichiatri. È impossibile in queste condizioni tentare di realizzare il principio costituzionale della risocializzazione. Le misure alternative sono un miraggio, altro che carcere come extrema ratio! La popolazione detenuta è cambiata? Spesso quando varchiamo la soglia di un istituto, ci sembra di entrare in un manicomio, in un lazzaretto. Sto preparando il report della visita che abbiamo fatto a Bergamo: leggo fra i miei appunti che su 550 reclusi 300 sono i consumatori problematici di sostanze stupefacenti e che il 60% di loro ha serie questioni di natura psichiatrica. Fuori non ci sono comunità adeguate a seguirli e, quindi, pur avendone diritto per legge continuano a rimanere in carcere dove non ricevono alcun sostegno se non gli psicofarmaci distribuiti a gogò. Stanno entrando in carcere molti giovani fra i 18 e i 25 anni: è un fenomeno che dovrebbe allarmarci. A San Vittore ce ne sono più di 200 la cui dipendenza da sostanze non è mai stata accertata dai servizi sanitari sul territorio. Stop alle e-mail tra detenuti e avvocati. Che ne pensa? Ancora una volta viene compromesso il diritto di difesa per ragioni che non stanno né in cielo né in terra se pensiamo che siamo nel 2023 e che i mezzi di comunicazione e di trasmissione si sono notevolmente evoluti. A volte ci sembra di impazzire come quando abbiamo accertato che ci sono istituti dove se il detenuto vuole telefonare al suo avvocato deve prima motivare per iscritto il perché. Ma ci rendiamo conto? Vediamo cosa risponderà il ministero della giustizia all’on Giachetti che il 10 luglio ha presentato un’interrogazione parlamentare. Il Governo sembra non essere pervenuto sul tema del carcere... Finora non abbiamo visto molto e quel che abbiamo visto va nella direzione opposta al pensiero del Ministro Nordio: meno carcere, più misure alternative, depenalizzazioni. Ricordiamo che nel 2014 ha presieduto una Commissione ministeriale in materia. Continuo a nutrire la speranza che non abbia cambiato idea. Quali le vostre proposte? La prima misura, per respirare, è ridurre la popolazione detenuta e visto che sembra sia divenuto impossibile anche solo parlare di indulto e amnistia (peraltro previsti dalla nostra Costituzione), come Nessuno Tocchi Caino abbiamo collaborato con l’on. Giachetti ad elaborare due pdl di riforma della liberazione anticipata. La prima è retroattiva e reintroduce per il periodo del Covid quella “speciale” emanata a seguito della condanna della Corte Edu del 2013 e durata fi no al 31 dicembre 2015: elevare da 45 a 75 i giorni di liberazione anticipata concedibili ogni semestre. Con la seconda, non temporanea ma di modif ca stabile dell’Ordinamento penitenziario, si aumentano da 45 a 60 i giorni di liberazione anticipata e, soprattutto, si prevede che la misura sia concessa puntualmente ogni semestre ai detenuti che abbiano un buon comportamento e che ad emanare il provvedimento sia direttamente l’istituto (che conosce il detenuto) e non il magistrato di sorveglianza. Non dimentichiamo infatti che i magistrati di sorveglianza in Italia sono solo 240 e che devono fare un lavoro immane con piante organiche neppure coperte al 100%: sgravarli di questo compito, sarebbe un bel passo in avanti. Nordio non ha portato all’ultimo Cdm la terna del Garante. Le polemiche lo hanno stoppato? Non saprei. Io mi auguro ancora di far parte del collegio del Garante perché, se accadesse, mi consentirebbe di avere un ruolo istituzionale continuando a fare, con più strumenti e responsabilità, quel che ho sempre fatto cercando di mettere in pratica gli insegnamenti di Marco Pannella. Colgo l’occasione per ringraziare, comunque vadano le cose, le tante personalità che mi hanno sostenuta insieme agli oltre ottanta professori di Diritto Penale. Marco ripeteva “fai quello che devi, accada quel che può”. Per non scordarmelo, il 15 agosto sarò a Rebibbia Nuovo Complesso con una delegazione casualmente formata tutta da donne. Torino. “Susan voleva rivedere suo figlio di 3 anni, non mangiava più, ma non ha mai perso lucidità” di Luca Monaco ed Elisa Sola La Repubblica, 13 agosto 2023 La 42enne nigeriana ha iniziato uno sciopero della fame e della sete, è morta nella notte di venerdì per carenza di liquidi. Quando il 22 luglio scorso era stata accompagnata in carcere dai carabinieri della stazione Borgo San Donato, che avevano eseguito l’ordine di detenzione emesso dal tribunale di Catania per tratta di esseri umani, Susan John pesava 80 chili. La 42enne nigeriana ha iniziato uno sciopero della fame e della sete per poter vedere il figlio di tre anni appena, è morta nella notte di venerdì per uno “squilibrio elettrolitico” dovuto alla carenza di liquidi. Adesso sulla scomparsa della donna, che doveva scontare una condanna definitiva a 10 anni e quattro mesi, indaga la procura di Torino. La pm Delia Boschetto ha aperto un fascicolo a carico di ignoti per istigazione al suicidio. L’ipotesi di reato permette di poter disporre un’autopsia, che verrà eseguita nelle prossime ore, presumibilmente già oggi dopo che verrà conferito l’incarico al medico legale. John si è rifiutata di bere e di mangiare per 20 giorni. Ma “non ha mai perso la lucidità mentale”, raccontano diverse fonti interne alla casa circondariale Lorusso e Cutugno. La donna sarebbe stata monitorata quotidianamente, con i medici che ogni 24 ore provavano a convincerla a farsi accudire: avrebbe rifiutato puntualmente le visite di controllo dei parametri vitali, anche solo la misurazione della pressione. Finché il 6 agosto scorso il quadro clinico non si è aggravato. John ha avuto un mancamento, è stata ricoverata in ospedale e di nuovo riaccompagnata in carcere. “È sempre rimasta lucida, cosciente - ripetono gli operatori del penitenziario - era nella pienezza delle sue facoltà mentali”. Così nessuno sarebbe potuto intervenire. Nessuno le ha praticato un trattamento sanitario obbligatorio, anche nel timore di poter incappare nel reato di violenza privata. Una cautela che ha frenato tutti e che ha segnato la morte di Susan. La donna ha sempre rigettato le accuse formulate dai pm, che l’avevano indagata per tratta di essere umani e sfruttamento di prostituzione con il ricorso a minacce, ricatti e il ricorso a riti religiosi. Si è sempre professata innocente. Ha presenziato a quasi tutte le udienze fino alla condanna definitiva. Una volta in carcere ha rifiutato cibo e acqua per 20 giorni pur di poter rivedere il figlio, si è lasciata morire. Le indagini della procura sono concentrare ad accertare i contorni del quinto decesso a Torino dall’inizio dell’anno. Una volta che l’autopsia avrà riscontrato le cause della morte, gli accertamenti si concentreranno anche sulle comunicazioni interne al carcere per capire cosa è stato fatto e se qualcuno sarebbe dovuto intervenire in altro modo. Susan doveva essere sottoposta a un Tso? Perché è stata riportata in cella dopo il ricovero in ospedale? Saranno acquisite le cartelle cliniche, anche per rispondere alla domanda di giustizia di Omos, il compagno, assistito dall’avvocato Manule Perga. Ieri ha trascorso la giornata in casa, sostenuto dall’affetto degli amici. “Era una persona gentile”, la ricordano i vicini di casa. Torino. Azzurra aveva 28 anni era detenuta per reati commessi tra il 2013 e il 2014 di Massimo Massenzio Corriere della Sera, 13 agosto 2023 Lo scorso 29 luglio è stata trasferita nella casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, dove è stata ricoverata nell’Astm, l’Articolazione per la tutela mentale. Mamma Monica ha provato a fissare un incontro, ma senza riuscirci. Azzurra Campari era una ragazza dolce e molto sensibile, ma “ribelle”, con un passato difficile alle spalle e un presente costellato da grandi passioni e piccoli reati. Aveva 28 anni, ma sembrava più piccola della sua età anagrafica. Assieme al fratello è cresciuta a Riva Ligure, in provincia di Imperia, cresciuta solo dalla mamma Monica, di cui ha voluto prendere il cognome. Il padre ha abbandonato la famiglia molto presto e la figlia non ha praticamente mai instaurato un rapporto con lui. Dopo il primo triennio in un istituto alberghiero, con indirizzo turistico, ha abbandonato gli studi e si arrangiava con qualche lavoretto saltuario. È stata in cura al Serd per le sue dipendenze dagli stupefacenti che però sembrava aver superato, ma il passato ha presentato il conto lo scorso 27 aprile con un cumulo di pene per ricettazione, danneggiamento a seguito da incendio e oltraggio a pubblico ufficiale. Vecchi reati commessi tra il 2013 e il 2014 che avrebbe finito di scontare a marzo del 2025. Fuori dal carcere aveva già tentato il suicidio e la detenzione nel penitenziario di Genova ha acuito le sue fragilità. Lo scorso 29 luglio è stata trasferita nella casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, dove è stata ricoverata nell’Astm, l’Articolazione per la tutela mentale. In teoria il reparto più sicuro dell’intera sezione detentiva femminile, con stanze singole, telecamere, monitoraggio costante e controlli medici due volte al giorno. Eppure venerdì pomeriggio, poco dopo le 17, mentre mamma Monica tempestava di telefonate il centralino per fissare un incontro, Azzurra è riuscita a suicidarsi impiccandosi con un cappio artigianale. Torino. La madre di Azzurra: “Dovevo incontrarla la prossima settimana, ora la vedrò in una bara” di Luca Monaco La Repubblica, 13 agosto 2023 Era stata trasferita dalla casa circondariale di Genova-Pontedecimo appena 15 giorni fa. Era in isolamento quando si è tolta la vita. “Aspettavo di incontrarla al colloquio la prossima settimana - ha confidato la madre, distrutta dal dolore, all’ suo avvocato - ero molto preoccupata per le sue condizioni: l’ultima volta che ci siamo parlate in video chiamata mi aveva detto: “Mamma non ce la faccio più”. È distrutta Monica la madre di Azzurra Campari, la donna di 28 anni che venerdì è stata trovata impiccata nella sua cella del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. È la quinta persona che muore in carcere, a Torino, dall’inizio dell’anno. Campari, originaria di Riva Ligure, il comune di 2mila abitanti in provincia di Imperia, era in carcere dal maggio scorso per scontare un cumulo di pene comminate per dei reati contro il patrimonio, piccoli furti legati alla tossicodipendenza. Aveva un grande dolore dentro di sé, aveva già tentato dei gesti autolesivi in passato: non era in salute e prima di entrare in carcere era stata in cura al Serd. La 28enne era stata trasferita nel carcere di Torino dalla casa circondariale di Genova-Pontedecimo appena 15 giorni fa. Era in isolamento quando si è tolta la vita. Lascia la madre, un fratello. Una volta terminata la detenzione sognava di rifarsi una vita nel mondo della ristorazione. La 28enne era stata iscritta all’istituto alberghiero, senza concluderlo. Poi aveva lavorato saltuariamente come aiuto cuoco e aiuto cameriere nei ristoranti della sua città. Le ex compagne di cella la descrivono come una persona “problematica”. Fragile sicuramente. Alcune delle denunce che aveva rimediato nel corso del tempo erano legate all’oltraggio nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria, o ai piccoli furti, magari una bicicletta trovata in strada. La madre, una 50enne che si guadagna da vivere come colf, non l’ha mai abbandonata: l’aveva vista in videochiamata dopo il trasferimento a Torino. “Non sappiamo ancora se verrà disposta l’autopsia né quando la salma verrà restituita alla famiglia - afferma l’avvocato Marzia Ballestra - assisto Azzurra da tempo, era una ragazza che doveva essere seguita con particolare attenzione, perché era in una situazione di difficoltà e la sua situazione era nota a tutti”. Torino. “Sbagliato lasciare in quelle celle chi ha problemi psichiatrici” di Luca Monaco La Repubblica, 13 agosto 2023 “Sbagliato lasciare in quelle celle chi ha problemi psichiatrici”. Parla Marina Iadanza, scarcerata a gennaio dopo 5 anni di detenzione. “Le persone con problemi psichiatrici non dovrebbe certo stare in carcere, dove manca un presidio fisso sanitario 24 ore su 24 e le agenti di polizia penitenziaria non hanno certo studiato medicina. E come se chi va in ospedale per un malore venisse curato da un meccanico”. Marina Iadanza ha 37 anni: con la messa alla prova è uscita di prigione il 22 gennaio scorso dopo cinque anni di detenzione. Lavora alla bottega di economia carceraria a Torino e dopo le morti di Susan e Azzurra torna a lanciare l’allarme sulle condizioni alle quali sono costrette le detenute nel carcere femminile. Nel corso dei cinque anni di detenzione le sarà capitato di conoscere altre ragazze fragili come Azzurra... “Certo, nel 2018 ho accettato di fare da “peer supporter” affiancando una ragazza giovane, di 24 anni appena, che aveva crisi psicotiche legate all’uso di crack. Era una ragazza del mio quartiere, la conoscevo da fuori, quando è entrata era seminuda, non aveva nulla. Le sono stata vicina, in affiancamento, ma queste persone non dovrebbero stare in cella”. Che idea si è fatta sulla morte di Susan John? “È una vicenda terribile, spero davvero che la magistratura faccia luce perché se arrivi alla decisione di toglierti la vita pur sapendo che hai un figlio fuori significa che stai vivendo una sofferenza fortissima. Qualcosa certamente non ha funzionato dal punto di vista della comunicazione interna”. Cioè? “Non è certo raro vedere persone soffrire crisi psichiatriche in carcere, i trattamenti contenitivi sono usati abbondantemente. Non credo che non si potesse fare nulla per salvarle la vita: dovevano essere avvisati tutti quelli che potevano fare qualcosa”. Anche Azzurra era fragile e sofferente... “Era stata portata a Torino da Genova perché aveva problemi mentali, dei quali si dovrebbe occupare un medico, non la polizia penitenziaria né le altre detenute. Le persone che si fanno deliberatamente del male dovrebbero essere tutelate dallo Stato, non abbandonate in una cella, per di più lontano da casa loro”. Lei è l’esempio di una riabilitazione riuscita... “Io mi sono rialzata grazie al lavoro, con la mia volontà e le mie forze - insiste - ma chi è più fragile e con meno strumenti è lasciato solo. A volte mi viene da pensare che sperino nei suicidi per risolvere il problema del sovraffollamento”. È una provocazione forte... “Speravo molto nella visita del ministro Nordio a Torino, poi quando ho sentito la sua proposta di utilizzare le caserme dismesse ho pensato che si voglia solo spostare il problema. Nordio ha detto che nessuno verrà lasciato solo, ma ragionando in questo modo lo Stato ha già abbandonato tutti: non solo i detenuti e le detenute, ma tutta la comunità penitenziaria”. Alghero. Quel caldo impossibile nelle carceri congestionate di Luigi Manconi La Repubblica, 13 agosto 2023 La detenzione, nel corso dell’estate, rappresenta una delle condizioni più drammatiche dell’intera vita carceraria. Nelle scorse settimane, nella cittadina di Alghero, la temperatura ha raggiunto di frequente i 38 gradi. Non conosco quanti se ne siano registrati all’interno di una cella del carcere - bianco e imponente, realizzato nel 1864 - che si trova ai margini del centro storico. Ma so che la detenzione, nel corso dell’estate, rappresenta una delle condizioni più drammatiche dell’intera vita carceraria. E infatti, quale è il microclima di quel microcosmo costituito da una cella? Un termine come sovraffollamento, a ben vedere, non è il più adeguato a descrivere la situazione. Sovraffollata è la spiaggia di Riccione alle 13.00 del 15 agosto, ma gli infelici e i felici che vi si trovano a una certa ora sono in grado di evaderne. Non così da una cella. Per questo, più che di sovraffollamento, parlerei di densità e di congestione. La cella è quel luogo che contiene, addensato e congestionato, un certo numero di maschi adulti: e la loro promiscuità coatta è la pena più afflittiva e brutale. Sempre e ancor più nei mesi caldi. Tutto si intreccia, si sovrappone, si combina, si mescola: corpi, membra, arti, peli e capelli. E, poi, liquidi, umori, sudori, secrezioni, traspirazioni, effluvi. E ancora: l’intera gamma possibile e immaginabile delle sensazioni che raggiungono l’olfatto. Questo è il microclima di una cella di un carcere di una città dove, all’ombra, si raggiungono i 38-40 gradi. Mi viene in mente un lontano episodio raccontatomi proprio da un detenuto del carcere di Alghero, che chiamerò Giuseppe. Un giorno d’estate lui e i suoi compagni di cella avevano messo a bollire una dozzina di uova per farle sode. Mangiatene alcune, successivamente si erano messi a dormire. Nel corso della notte, Giuseppe fu svegliato dall’intensissimo odore delle uova che - complice il caldo torrido - diventò ben presto intollerabile. Fu come un delirio: forse un inizio di febbre o un principio di paranoia e Giuseppe non resistette più. Fedele agli insegnamenti familiari (“la roba da mangiare non si butta mai”), una dopo l’altra, con determinazione e una certa dose di aggressività, ingoiò 9 uova sode nel tentativo di cancellarne l’odore. Ma l’odore non si dileguò. Bolzano. L’altolà al nuovo carcere: “Ci sono ancora ostacoli” di Chiara Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 13 agosto 2023 Il piano di Delmastro: “La nostra linea è ricostruire in periferia” L’elogio agli agenti: “È grazie a loro se la struttura regge ancora”. Per sbloccare il progetto per il nuovo carcere di Bolzano, il governo è in attesa del parere dell’avvocatura di Stato. Qualora lo bocciasse, si attuerà il piano Nordio: una nuova struttura in periferia con capienza e volume doppio. Lo ha annunciato il sottosegretario Delmastro, in visita in via Dante. “Sono anni che si rimanda la costruzione del nuovo carcere di Bolzano, perché, evidentemente, per anni qualcuno ha venduto la pelle dell’orso prima di averlo cacciato. Io non sono abituato a lavorare così: la Ragioneria di Stato ha eccepito una serie di problemi tecnico-giuridico-economici per quel che riguarda il progetto attuale, e abbiamo chiesto un parere all’avvocatura. Solo dopo che si sarà pronunciata sapremo se gettarci a capofitto in quello, o se immaginarne uno nuovo”. È questa la via indicata da Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia, ieri a Bolzano per un sopralluogo all’istituto penitenziario di via Dante. Da anni, il numero dei detenuti nel carcere di via Dante è stabile sopra le 100 unità, a fronte di 88 posti regolamentari. E al problema di sovraffollamento, si aggiungono quello di una struttura ormai fatiscente, di un organico sottodimensionato e di spazi per servizi, attività e corsi di formazione che mancano. “Non è una grande struttura - dice Delmastro -, ma nonostante tutti questi problemi sta ancora reggendo grazie alla grande capacità degli uomini e delle donne della polizia penitenziaria, costretti a fare le nozze con i fichi secchi”. Una situazione che il governo si è già attivato per superare, assicura il sottosegretario, con l’acquisto massiccio di attrezzatura antisommossa e con un’accelerata sul fronte di assunzioni e corsi di formazione. “A Bolzano - spiega - sono arrivati tre nuovi agenti, e nei prossimi dodici mesi ne arriveranno altri, parte dei 4 mila che saranno distribuiti in tutti gli istituti penitenziari d’Italia. Una prima, grande risposta per metterli in sicurezza”. Delmastro assicura una netta virata, rispetto ai governi precedenti. “In tutti questi anni, il refrain mentale della sinistra, contro il sovraffollamento, è stato quello dello svuota-carceri, per poi ritrovarsi daccapo dopo sei mesi. Il refrain della destra è diverso. Abbiamo 84 milioni di euro a disposizione per otto nuovi padiglioni detentivi distribuiti in tutta Italia, per aumentare la capienza”. In parallelo, si lavora anche al “Piano Mattei dell’Africa”: “Stiamo lavorando con tutti i Paesi del continente africano sulla possibilità di prevedere che gli stranieri (che a Bolzano sono il 64,2% dei detenuti, dati Antigone, ndr) scontino, nei Paesi di provenienza, le sentenze di pena comminate in Italia. Così avrebbero il privilegio di saggiare la civilità giuridica delle loro carceri”. Del fatto che siano vent’anni che si rimanda l’avvio dei lavori per la costruzione del nuovo carcere di Bolzano, Delmastro si dice consapevole. Il punto, spiega, è che la Ragioneria di Stato ha “eccepito una serie di problemi tecnico-giuridico-economici”. Alcuni, “all’apparenza, sono anche fondati”: il governo ora attende il parere dell’avvocatura, per capire “quali margini ci siano per procedere. Nel caso in cui non lo si potesse fare, bisognerà, evidentemente, immaginare altre soluzioni, che sono sempre di crescita degli spazi detentivi, mai di decrescita”. Qualora il progetto “immaginato” non andasse bene, rassicura, “la struttura di Bolzano si presterebbe bene anche al grosso piano del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che riguarda gli istituti penitenziari collocati nei capoluoghi. Un grande progetto di dismissione, a favore di carceri da realizzare nelle aree periferiche delle città”. Un piano che, nelle intenzioni del governo, è anche una risposta alla necessità di assicurare spazi “meno inumani” dove i detenuti possano scontare le rispettive pene. Senza arrivare a epiloghi tragici come quello dei giorni scorsi al carcere di Torino, dove si sono tolte la vita due detenute. O come quello faticosamente filtrato alla stampa del 22 maggio 2022, quando il ventitreenne Oskar Kozlowski si tolse la vita nel carcere di Bolzano dopo aver inalato il gas del fornelletto da campeggio in dotazione ai detenuti. “Il piano - continua Delmastro - prevede di sfruttare un mix tra ex caserme abbandonate e cessione, a importanti e primari attori immobiliari italiani, dei nostri attuali istituti penitenziari, in cambio di altri in periferia, di volume e capienza doppia. Interventi di edilizia penitenziaria, su strutture come quella di Bolzano, sono difficili, mentre il lavoro in periferia diventerebbe tutta un’altra partita”. Udine. L’associazione “Nessuno tocchi Caino” in visita alle carceri udinetoday.it, 13 agosto 2023 Lo scopo degli organizzatori, in collaborazione con la Camera Penale friulana di Udine, è quello di verificare le condizioni di vita materiale dei detenuti e raccontarle. Il “Viaggio della speranza - Visitare i carcerati” organizzato da Nessuno tocchi Caino in collaborazione con le Camere Penali sta attraversando la penisola e il 14 e il 16 agosto farà tappa, rispettivamente, a Tolmezzo e a Udine. Nelle intenzioni degli organizzatori, il “visitare i carcerati” non è solo un’opera di misericordia, ha lo scopo anche di ascoltarli, verificare le loro condizioni di vita materiale e raccontarle, ma soprattutto infondere fiducia e speranza in chi rischia di prevalere sfiducia e disperazione, come testimonia il numero dei suicidi che anche in questo anno aumenta giorno dopo giorno. In entrambi gli istituti la visita inizierà alle ore 10 e la delegazione sarà guidata da Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, Segretario e Tesoriera di Nessuno tocchi Caino, e da Raffaele Conte, Presidente della Camera Penale Friulana di Udine. Alle ore 16 del 16 agosto, a Udine, presso la sala del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, Palazzo di Giustizia, si terrà una Conferenza, nel corso della quale verranno presentati i risultati delle due visite al carcere e le proposte di superamento di una realtà, quella carceraria, che sempre più appare fuori controllo, fuori legge, fuori dal tempo e fuori dal mondo. Bolzano. Riportare umanità nel diritto penitenziario: al via gli incontri di Chiara Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 13 agosto 2023 “Rieducazione e umanità sono principi sanciti dalla Costituzione, ma non dal diritto penitenziario nazionale. È necessaria una transizione inclusiva e giusta verso un sistema che, davvero, non lasci indietro nessuno”. È attorno a questa convinzione che è stata suggellata la collaborazione tra Diritto e fiabe, la testata online che spiega i concetti giuridici attraverso le fiabe, fondata dal bolzanino Ivan Allegranti, e il movimento Sbarre di zucchero, nato dopo il suicidio, nel carcere di Montorio (Verona), della ventisettenne Donatela Hodo, il primo agosto 2022. E proprio le parole che Hodo ha affidato a un’ultima, straziante lettera, indirizzata al fidanzato Leo, saranno il punto di partenza per discutere, riflettere e proporre soluzioni alle sfide attuali del sistema penitenziario italiano, in una serie di incontri, sia online che in presenza, in diversi istituti. Con l’obiettivo di dare voce e dignità a chi, nel sistema carcerario, è troppo spesso dimenticato: i detenuti stessi. “La nostra ambizione comune - spiega Allegranti - è fare la differenza attraverso la sensibilizzazione su questi temi. Questa collaborazione rappresenta l’intersezione tra diritto alla giustizia e quello all’umanità nella giustizia”. La collaborazione con Sbarre di zucchero, aggiungono le portavoce, Micaela Tosato e Monica Bizaj, “unisce il potere della narrazione a quello della sensibilizzazione, per creare un impatto duraturo e significativo sulla società. Un modo per fare luce, insieme, su una realtà spesso oscurata, e combattere per un cambiamento reale e tangibile nel sistema carcerario nazionale che molto spesso è stato condannato anche dall’Unione europea”. Il primo incontro è in programma, online, il 10 settembre alle 19: ulteriori informazioni saranno comunicate sui canali social di Diritto e fiabe e Sbarre di zucchero. Messina. La baraccopoli e il diritto alla casa sepolto tra degrado e lentezze burocratiche di Roberta Maddalena L’Espresso, 13 agosto 2023 Alcuni accampamenti risalgono al terremoto del 1908. Ancora oggi ci vivono, in condizioni indecorose e sotto scacco del racket delle occupazioni, oltre 1.800 famiglie. Anche se i soldi per il risanamento non mancano, sono stati assegnati pochissimi alloggi. Quando, il 12 gennaio scorso, i familiari della signora Santina Parisi non hanno potuto salutarla per l’ultima volta nella sua casa, avranno pensato che non è vero, come recita l’articolo 3 della Costituzione, che tutti i cittadini hanno “pari dignità sociale”. Il motivo per cui non è stato possibile far sostare la salma dentro la dimora - si legge in una nota diffusa dalla sua avvocata Annalisa Giacobbe - è che la bara era troppo grande per entrare in questa baracca del quartiere Giostra, a Messina, dove la donna di 66 anni viveva con il figlio. Immunodepressa per via di un trapianto di fegato, aveva contratto qui, contagiata dai topi, la toxoplasmosi. Ed è morta in attesa di una casa vera. La sua vicenda non è isolata: a fare i conti con umidità, muffa, infiltrazioni d’acqua, impianti elettrici fatiscenti, ratti, fogne a cielo aperto e tetti in amianto (nel 2018, su una superficie di circa 240 mila metri quadrati di baraccopoli, l’amianto occupava un’area di 50 mila metri quadrati) sono oggi oltre 1.800 nuclei familiari per un totale di 72 accampamenti, alcuni a due passi dal municipio e dal Palazzo di Giustizia. C’è chi in quelle baracche vive dal 1975. Come un signore ipovedente, la cui moglie è morta dopo innumerevoli ricoveri per problemi polmonari causati dall’umidità; è successo, in passato, che al pronto soccorso non potessero nemmeno trasportarla in barella e si arrangiassero con un lenzuolo. Ma come si è arrivati a tanto? A Messina, alcune baraccopoli risalgono al 1908, anno in cui un terremoto distrusse la città. Altre, invece, sono più recenti. Il fenomeno della costruzione e della vendita delle baracche è durato fino al 2014, quando il Comune consentiva ancora di fissarvi la residenza. “È più facile fare il ponte sullo Stretto che demolire le baraccopoli”, dice Marcello Scurria, subcommissario per il risanamento su nomina del presidente della Regione siciliana Renato Schifani e attualmente commissario straordinario. Il suo mandato scadrà il 31 dicembre 2024. “Se il problema esiste ancora, la colpa è di quello che dalla prima legge speciale, la n. 10 del 1990, non è stato fatto: in 30 anni sono stati assegnati pochissimi alloggi rispetto a un fabbisogno enorme”. Scurria ha ora in cassa 83 milioni di euro, che eredita dal commissario precedente, la prefetta Cosima Di Stani. I soldi per la dismissione e il risanamento non sembrano mancare. La politica regionale ha garantito 235 milioni di euro, a cui si aggiungono 100 milioni stanziati dal governo nel 2021 e i soldi messi a disposizione, sempre dal governo, con il progetto Pinqua: 145 milioni da spendere entro il 2026. “Dopo lo sbaraccamento di Rione Catanoso, è toccato a Camaro Sottomontagna”, assicura Scurria. Qui, a fine giugno, è divampato l’ennesimo incendio. Come ha riportato la Gazzetta del Sud, tra aprile e metà luglio 2023, sono state circa 60 le famiglie liberate dai tuguri nei due quartieri. Intanto, Scurria fa sapere che i primi in lista ad avere alloggi saranno i soggetti fragili, le famiglie con bambini e i malati terminali. Il subcommissario ha dalla sua la conoscenza del territorio: prima di questo incarico, è stato presidente di A.Ris.Mé, agenzia per il risanamento e la riqualificazione urbana di Messina che, sotto la vigilanza del Comune, reperisce sul mercato immobiliare gli alloggi e ricostruisce le zone sbaraccate. In questa vicenda intricata, l’agenzia svolge un ruolo cruciale. Dopo anni di immobilismo, nazionale e regionale, è stata istituita nel 2018 dall’ex sindaco Cateno De Luca e da allora ha sbaraccato sette aree, consegnando alloggi a 200 famiglie. Nel 2020 è stata, invece, la deputata messinese Matilde Siracusano, ora sottosegretaria ai rapporti con il Parlamento, a depositare con il sostegno dell’allora capogruppo di Forza Italia alla Camera, Mariastella Gelmini, una proposta di legge sulle baraccopoli, dove si prevedeva la nomina di un commissario straordinario e la concessione di poteri speciali per accelerare le procedure. L’anno successivo, però, è cambiata la regia del risanamento: “Prima A.Ris.Mé operava in sinergia con De Luca e si gestiva tutto con fondi comunali e regionali. Poi, quando è stato assegnato il ruolo di commissario straordinario alla prefetta Di Stani, il processo si è arenato perché lei, nonostante avesse a disposizione i poteri speciali, ha scelto di non usarli”, spiega l’avvocato Vincenzo La Cava, subentrato alla guida di A.Ris.Mé. Poteri che sarebbero stati fondamentali, ad esempio, per garantire delle priorità nell’assegnazione degli alloggi. Ora Scurria assicura che si volterà pagina: “Stiamo lavorando con l’Azienda sanitaria provinciale di Messina per censire le famiglie con minori, disabili o invalidi”. Su questo punto, però, l’avvocata Giacobbe tiene a precisare che già dal 2012 esiste un regolamento comunale che prevede le cosiddette assegnazioni in deroga alla graduatoria di edilizia residenziale pubblica: i soggetti che ne hanno diritto possono presentare al Comune un’istanza per ricevere con priorità un alloggio. Nel 2018, a tal proposito, l’Asp aveva già effettuato uno screening sanitario, segnalando la presenza di 90 persone in assistenza domiciliare integrata e di dieci sottoposte a cure palliative domiciliari. Come spiega anche La Cava, il risanamento è una gatta da pelare e il reperimento degli alloggi sul mercato è difficoltoso: per soddisfare tutti servono minimo 800-1.000 immobili. Inoltre, una volta individuati, molti di questi sono in condizioni disastrose e qui entra in gioco Invitalia, con il compito di ristrutturarli. L’iter funziona così: A.Ris.Mé individua gli immobili liberi, li propone al subcommissario, che finanzia l’acquisto, mentre Invitalia li rinnova. Alle famiglie viene proposto un contratto di locazione e dopo un anno si può riscattare la casa per diventarne proprietari. “Durante l’ex amministrazione De Luca, è stata istituita la partecipata Patrimonio spa con l’obiettivo di mappare il patrimonio immobiliare effettivo del Comune”, spiega il sindaco attuale di Messina, Federico Basile. Messa in liquidazione dal consiglio comunale precedente, la società da qualche mese è tornata in bonis e il sindaco ha aperto un albo alla ricerca di tecnici per la mappatura degli immobili liberi. Ma, oltre che abitativa, l’emergenza è anche sociale: nel contesto degradato prolifera la criminalità, con un autentico racket che per anni ha alimentato l’occupazione a pagamento delle baracche. Un ricatto in cui incappano in molti, considerato che la maggior parte di queste persone vive grazie al reddito di cittadinanza. La gestione Scurria ha posto, quindi, una condizione tassativa: se in attesa del nuovo alloggio si vende abusivamente la propria baracca, si perde il diritto alla casa. Perciò, nel 2017, è nato, con un co-finanziamento governativo di 18 milioni di euro nell’ambito del Programma straordinario di Riqualificazione e Sicurezza delle Periferie urbane, il progetto “Capacity”. Sotto la guida di Gaetano Giunta, segretario generale della Fondazione di Comunità di Messina, in quattro anni ha permesso il risanamento di due baraccopoli, con 151 nuclei familiari sotto la soglia della povertà che hanno ricevuto un’abitazione. “Si procedeva in due modi. Il Comune acquistava le case per poi assegnarle in locazione secondo graduatoria, ma con una modalità partecipativa. Oppure permetteva alle persone di acquistare una casa di proprietà attraverso un grant chiamato capitale personale di capacitazione”. Un contributo a fondo perduto che aveva un valore pari al 75% del prezzo lordo d’acquisto della casa, con un massimale che non poteva superare gli 80 mila euro. Per accedere a questo beneficio le persone non dovevano avere precedenti per mafia e, se nei dieci anni successivi all’acquisto della casa venivano condannati, perdevano la proprietà. Oggi questa formula non è più applicabile. “Ed è un peccato”, commenta Scurria: “Avrebbe accelerato il risanamento. Tuttavia, i 100 milioni messi a disposizione dal governo sono solo per gli investimenti e non possono essere utilizzati, in quanto fondi europei, per una soluzione che costituisce spesa corrente”. E su una cosa tutte le parti coinvolte sono d’accordo: entro il 2024 non si riuscirà a risolvere il problema. “Non ho la bacchetta magica”, ammette Scurria. Non sarà nemmeno facile recuperare la fiducia delle persone, che dopo una vita in baracca si sentono come pedine in balìa delle prossime campagne elettorali: “Abbiamo creduto a tante promesse, ma nulla è cambiato”. Anna Politkovskaja e le altre, quelle donne che scrivono il vero e spaventano il potere di Helena Janeczek L’Espresso, 13 agosto 2023 Colpite da violenza fisica, messe alla gogna, uccise. Sono giornaliste, scrittrici, attiviste. Voci libere che, dalla Russia all’Ucraina, fino al Medio Oriente, svelano orrori della guerra, intrecci criminali e abusi dei dittatori. Che cercano di fermarle nei modi più feroci. Ai piedi dei nuovi grattacieli c’è un po’ di verde ignorato dai passi milanesi sempre di corsa. “Giardini Anna Politkovskaja” si chiama. “Ti avessero ascoltata, da viva” rimugino, pensiero che ha ripreso a far male dopo il 5 luglio scorso. Dopo aver visto le foto di una donna rapata, il volto verde-alieno, le dita spezzate, la schiena massacrata con metodo, come chi è abituato a torturare. Una donna colpita da una violenza anche simbolica, da mettere alla gogna: i capelli si tagliano alle streghe e alle “puttane andate col nemico”, alle internate nei riformatori e manicomi e lager. Ma Elena Milašina, che aveva conosciuto Politkovskaja a Novaja Gazeta, ha scelto di assumerne l’eredità come quella di Natalja Estemirova, rapita e uccisa nel 2009 a Grozny, attivista di Memorial e collaboratrice dello stesso giornale. Il direttore Dmitrij Muratov ha ricevuto il Nobel per la pace nel 2021, il premio è andato a Memorial l’anno dopo: proprio perché sia l’associazione co-fondata da Sacharov che il più importante organo d’opposizione sono stati soppressi in Russia. Minacciata di morte, già assalita in passato, Milašina stessa ha divulgato la prova di quanto le è accaduto. Appena lei e l’avvocato Nemov hanno preso un taxi all’aeroporto di Grozny, un commando li ha rapiti, pistola alla tempia. Per ironia della sorte hanno ricevuto le prime cure a Beslan, teatro del più orribile atto di terrorismo ceceno, un orrore utilissimo perché fino all’invasione dell’Ucraina ci si scordasse della Cecenia “pacificata”. Eppure Politkovskaja e le sue eredi non hanno smesso di denunciare che la guerra del 1999, secondo loro orchestrata da Putin tramite gli attentati a Mosca attribuiti ai ceceni, era stata la base per la sua ascesa al potere e tutto ciò che ne è seguito. Milašina si è avventurata a Grozny per seguire il processo farsa contro Zarema Musaeva, madre dei dissidenti fratelli Yangulbaev, rapita e sbattuta in una prigione dove rischiava di morire anche solo di diabete. In più, mentre una campagna d’odio centrava i Yangulbaev, una quarantina di membri della famiglia sono scomparsi senza traccia. È questa la Cecenia di Ramzan Kadyrov, con la sua faccia da venduto a Mordor, i suoi “Allah akbar” risonanti insieme alle benedizioni della santa guerra russo-ortodossa. Putin lo ha spedito a Rostov, a disarmare le truppe Wagner, ma non c’è stata ombra di scontro. La ferocia riesce meglio contro i deboli e gli inermi. Come in Siria, dove c’erano i Kadyrovcy, i mercenari Wagner e, soprattutto, le bombe russe - sui corridoi umanitari, gli ospedali e altri obiettivi civili - a fare più vittime dell’Isis. E se le forze russe e (filo)iraniane a sostegno di Assad non hanno mai infierito sulle zone dello “Stato islamico”, va detto che nell’Is comandavano spesso i ceceni formati dalla brutalità della guerra in patria. Tutto questo lo sapeva bene Elizabeth Tsurkov. Emigrata con la famiglia da Leningrado in Israele, diventa da giovane adulta - soprattutto dal periodo delle “primavere arabe” - una studiosa stimata per il suo appassionato approfondimento delle questioni dei diritti in Medio Oriente. Per svolgere le ricerche sul campo per la sua dissertazione a Princeton, era stata in Siria, Libano e Iraq, Paesi dove poteva entrare solo grazie al passaporto russo. Il 21 marzo twitta di cinque civili curdi siriani uccisi da una milizia filo-turca mentre celebravano Nowruz, il capodanno persiano. Il suo account conta 80.000 follower ma su Instagram posta foto scattate in Iraq. In quel periodo, una telecamera interna la mostra entrare in un caffè di Bagdad in compagnia di un uomo: in jeans e maglietta, a capo scoperto, rilassata. In altri video appare tutta in nero, alla maniera delle sciite tradizionaliste, mentre si fa intervistare sul movimento che studia: quello di Muqtada al-Sadr, capo della maggiore milizia sciita in lotta contro l’invasione Usa del 2003, ora leader di un movimento con un enorme seguito popolare. Karrada, il quartiere dove si era stabilita - mi dice Marta Bellingreri, che a Bagdad è tornata da poco scrivendone per L’Espresso - è il luogo d’incontro dei ragazzi che, dal 2019, si battono per un Paese più equo e libero, meno settario, meno corrotto. Una sfida per chiunque veda nell’Iraq una terra di conquista da sfruttare. A febbraio viene rapito Jassim al-Asadi, ecologista iracheno. Prima ancora, negli anni caldi delle proteste, sono centinaia gli attivisti uccisi o fatti sparire dalle milizie filo-iraniane. Questo contesto inquadra meglio la notizia - scoppiata sempre il 5 luglio - che Tsurkov sia da mesi ostaggio di Kataib Hezbollah, la formazione più potente legata a Teheran e pure al nuovo governo iracheno che ne è prono. Sono pessimi i rapporti di queste milizie con il movimento di al-Sadr, ostile non solo agli Usa e Israele ma a ogni ingerenza straniera, compresa quella iraniana. Altrettanto pessimi i giudizi che Tsurkov ha espresso verso i governi dei Paesi di cui è cittadina. Per i nazionalisti sionisti una traditrice che sta con i palestinesi e gli arabi, per la controparte una “spia del Mossad”. Sembrerebbero piuttosto le spie vere, attratte dal clima libero di Karrada, ciò da cui Tsurkov non ha tutelato abbastanza né se stessa né i suoi contatti. Princeton rilascia una nota accorata, d’altronde non ha fatto meglio Cambridge per Giulio Regeni che era “solo” italiano. Neanche le università più prestigiose coprono i dottorandi quando devono fare ricerca in certi luoghi. Il rischio è tutto loro, gli allori ricadono sull’ateneo se va liscia. Per Patrick Zaki, Bologna ha dimostrato invece che anche l’Alma Mater più antica può non perdere l’anima. L’unica speranza di rivedere Tsurkov è che, obtorto collo, Israele ottenga uno scambio di prigionieri grazie alla mediazione russa. Netanyahu non ha mai rotto con Putin e Putin è grande acquirente di know how e droni iraniani. I più micidiali, diretti sul Kurdistan iracheno come sull’Ucraina, si chiamano Shaheed, cosa che dovrebbe esaltare Kadyrov. Erano invece russi i due missili mirati alla pizzeria Ria di Kramatorsk il 27 giugno. I morti e i feriti causati da quel crimine di guerra allungano l’elenco mostruoso di vittime dovute ai metodi inaugurati in Cecenia, come ripeteva Politkovskaja. Il 5 luglio si sono celebrati anche i funerali di Victoria Amelina, scrittrice e preziosa intellettuale ucraina, prestatasi a documentare i crimini russi. Una mano che, scrivendo, raccoglie il vero - anche se è la mano di una donna - resta ancora così pericolosa che il potere dispotico riesce a fermarla solo con la violenza. Non è una consolazione. Tunisia, la carenza di pane fa tremare Saied di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 13 agosto 2023 Lo sciopero delle panetterie e le file davanti ai negozi fanno temere il regime nuove rivolte come quelle viste nei primi anni 80. La Tunisia è attraversata da diverse crisi interne. Politiche, economiche, climatiche e sociali. In questi anni, ce n’è stata solo una potenzialmente capace di minare le fondamenta dello Stato e arrivare ai piani alti del palazzo presidenziale di Cartagine accendendo i timori di Kais Saied per possibili sommosse popolari. È la carenza del pane. OGGI quella spia di allarme si è definitivamente illuminata. A segnalare che qualcosa nel paese sia definitivamente cambiato ci sono due momenti. Uno è lo sciopero nazionale convocato da alcune panetterie (poco più di 1400) dall’1 al 7 agosto scorso, culminato con una manifestazione a Tunisi di fronte al ministero del Commercio. Il secondo è rappresentato dalle code infinite createsi in queste settimane per comprare le baguette sovvenzionate dallo Stato al costo di 190 millesimi di dinaro [tredici millesimi di euro, ndr]. Dal centro della capitale alle sue periferie dove anche quel prezzo sta cominciando a diventare proibitivo, passando per gran parte delle città della costa e dell’entroterra, il pane sta diventando un elemento di preoccupazione. “Una volta con quel prezzo riuscivi a comprare una baguette vera, oggi sono sempre più piccole. Questo succede quando le trovi perché sta diventando sempre più difficile. Nelle panetterie moderne ormai il pane costa un dinaro. È troppo per la mia famiglia”, sono le parole di Monia Ben Romdhane, insegnante di 42 anni, un figlio a carico e un marito che ormai da qualche mese sembra avere preso sempre di più la decisione di voler partire in Italia. “Noi viviamo a l’Ariana, poco fuori Tunisi. L’istituto di lingue dove lavoro non mi paga lo stipendio e mio marito non riesce a mantenerci con il suo stipendio di professore di liceo. Ogni giorno ci tolgono acqua ed elettricità. Cos’altro si può fare?”, conclude amareggiata Monia. Una volta la sua famiglia poteva essere considerata facente parte di una nuova classe media. Oggi la crisi colpisce tutti. Dalle sue parole si parte per capire anche come sono strutturate le sovvenzioni che riguardano il pane. Nonostante il prezzo delle baguette sia fissato a 190 millesimi, il suo costo reale è di 600. Dall’epoca dell’ex presidente Habib Bourguiba, lo Stato sovvenziona la farina, il cui grano tenero viene importato per il 95 per cento e dipende anche da Ucraina e Russia. Successivamente viene trasformato in farina PS per il pane e in PS-7 (per la pasticceria). Alcune panetterie, circa 3200, sono adibite alla sola vendita di baguette sovvenzionate. Altre, dette moderne (più di 1400), possono produrre più tipi di pane e sono state accusate dalle autorità di usare la farina sovvenzionata insieme ad altri prodotti facendo aumentare il costo degli alimenti a 190 millesimi. “Questo ha fatto sì che a oggi in Tunisia esista un pane per i ricchi e uno per i poveri. Si tratta di una linea rossa che non può essere superata. C’è solo un tipo di pane e dev’essere a disposizione di tutti i tunisini. Ci sono alcune reti criminali che stanno approfittando della situazione”, sono state le parole pronunciate dal presidente della Repubblica Kais Saied il 27 luglio scorso, qualche giorno prima che licenziasse la prima ministra Najla Bouden Romdhane senza alcun tipo di preavviso. Diverse voci di palazzo hanno riportato che sia stato proprio questo l’elemento scatenante che ha portato a un cambio di governo a favore di Ahmed Hachani, dato molto vicino al responsabile di Cartagine. Da qui è scattato lo sciopero di oltre 1400 panettiere moderne contro una decisione considerata ingiusta, ossia il divieto di accedere alla farina sovvenzionata. Da qui prendono forma anche le preoccupazioni del presidente. Quando si parla di pane, la prima immagine che viene in mente sono gli scontri a cavallo tra il 1983 e 1984, quando a seguito di una richiesta del Fondo monetario internazionale (Fmi) per stabilizzare l’economia nazionale il governo annunciò l’aumento del prezzo del pane e di altri prodotti alimentari. Dalle zone più marginali le proteste arrivarono a Tunisi a inizio gennaio. Qualche giorno dopo il presidente della Repubblica Habib Bourguiba annunciò: “Tutti gli aumenti sono annullati. Dio benedica il popolo tunisino”. Il bilancio finale fu tra i 70 e i 143 morti e migliaia di arresti. Una situazione che ricorda da vicino quello che sta succedendo oggi in Tunisia. Lo stesso Fmi è pronto ad aprire una linea di credito da 1,9 miliardi di dollari per rilanciare un’economia nazionale ormai al collasso. In cambio l’istituzione di Washington chiede importanti interventi tra cui l’eliminazione delle sovvenzioni sul pane. Una linea rossa che per il presidente della Repubblica Kais Saied non può essere superata nonostante la Tunisia rischi di dichiarare il default finanziario entro la fine del 2023.