Se il carcere non sa salvare chi si lascia morire di fame di Mauro Palma* La Stampa, 12 agosto 2023 L’hanno classificato “decesso per cause naturali”, ma la definizione appare incongrua nel caso di una persona, quale la signora Susan John, nigeriana di quarantatré anni, che ha condotto fino all’estremo la sua protesta rifiutandosi, dallo scorso 22 luglio, di mangiare, bere, prendere qualsiasi terapia e anche di essere ricoverata in ospedale. È deceduta la scorsa notte dopo aver nuovamente perso i sensi come era già accaduto nell’ultima settimana: anche in quelle occasioni - riportano i necessariamente freddi bollettini del carcere torinese dove era ristretta - aveva sempre rifiutato ogni intervento nonostante “i tentativi a tutti i livelli finalizzati a convincerla ad alimentarsi nonché della necessità di essere ricoverata presso un ospedale esterno”. A Torino, nell’Istituto “Lorusso e Cutugno”, più comunemente noto come “le Vallette”, era giunta proprio il 22 luglio, con una condanna a dieci anni che sarebbe durata fino al 2030. Da subito aveva iniziato il rifiuto di ogni tipo di alimentazione, pur non esplicitando una motivazione, se non quella, forse, di una vita che vedeva nella detenzione un terribile e soggettivamente ingiusto punto di arrivo. Il carcere non aveva ritenuto di chiedere un aiuto ai Garanti territoriali che pure frequentemente sono presenti. Eppure qualche problema deve esser sorto all’attenzione medica poiché era stata posta nella “Articolazione per la tutela della salute mentale” e si sa bene quanto impegnative e difficili siano le parole “tutela” e “salute” incise in questa denominazione: la prima perché implica quell’attenzione e quella protezione che numeri elevati, routine e spesso difficoltà comunicative, in particolare con persone straniere, rendono di evanescente effettività; la seconda perché l’implicito tentativo di costruire quel minimo di ben-essere nel luogo del mal-essere che tale parola comporterebbe, contrasta con la difficile relazione tra amministrazioni, con il bisogno crescente di supporto psichiatrico in carcere e con la scarsa disponibilità di operatori. Non si deve però indugiare sulla ricerca di responsabilità individuali, accerterà la magistratura lo svolgersi degli eventi. Piuttosto occorre interrogarci sulla responsabilità collettiva relativamente sia alla fisionomia del carcere, che rischia di divenire un luogo di mera restrizione, percepito di assoluto non ritorno da parte di chi vi giunge, sia alla drammaticità della forma estrema di comunicazione di chi non ha altra voce per urlare, se non quella del proprio corpo. Un corpo anche da distruggere per poter dire. Sono due aspetti che si richiamano l’un l’altro e che si sono accentuati nell’ultimo periodo perché è sempre più diffusa un’idea di meritevolezza del castigo per chi ha sbagliato che porta a isolare il carcere da una progettualità positiva, a svincolarlo sempre più dal ritmo della vita esterna e che incide anche in modo grave sulle condizioni di chi vi lavora. Sembra chiudersi quello spiraglio che indirettamente si era aperto nel difficilissimo periodo del rischio pandemico e che aveva portato a maggiore relazione telefonica e comunicativa con i propri affetti, all’introduzione positiva di talune tecnologie e a una timida prevalenza del diritto alla tutela della salute rispetto alla fissità dell’esecuzione penale: tutti i temi su cui si rischia di tornare indietro in questo periodo, anche sulla scia della maggiore difficoltà interpersonale interna che si esplicita in aggressioni, vere, gravi, ma anche enfatizzate. Le esperienze positive - pur esistenti e significative - sfumano come variabili di sfondo. È proprio in questo contesto che può affermarsi la percezione della propria condizione soggettiva dell’essere detenuto come mera corporeità ristretta. Il corpo, soprattutto per chi ha minori strumenti interpretativi e comunicativi o per chi sa di non essere ascoltato diviene l’assoluta espressione linguistica: non solo nel tagliarsi, nel mutilarlo, anche nel renderlo strumento della propria richiesta e a volte del proprio desiderio di urlare. Occorre con urgenza e da parte della collettività saper dare una diversa direzione a questa deriva: Susan John è la terza persona che muore in carcere in sciopero della fame; altre due persone sono decedute ad Augusta nei mesi scorsi e i loro “decessi per cause naturali” erano passati quasi inosservati; mentre un’altra persona detenuta porta avanti la sua protesta ormai da mesi nel carcere di Sassari, in regime speciale. Intanto il triste contatore comunica il quarantaduesimo suicidio nell’anno. L’ultimo, poche ore dopo, Susa, sempre a Torino, un’altra donna. *Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Dietro le sbarre tutto è fermo, ma le celle sono sempre più piene di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 12 agosto 2023 Una donna nigeriana si è lasciata morire di fame e di sete in carcere a Torino. Non mangiava da tre settimane. Non beveva da qualche giorno. Pare avesse rifiutato il ricovero. Era mamma di un bimbo di quattro anni con problemi di autismo. Si è lasciata morire. Era reclusa in un reparto interno psichiatrico che, viste le condizioni, andrebbe chiuso. Non proprio il luogo giusto per tenere sotto controllo medico una persona che ha bisogno di sostegno morale e sanitario e non di sola sorveglianza. Nessuno aveva avvertito la Garante comunale. A Torino operano etnopsichiatri che non sono stati attivati. Poche ore dopo una donna italiana si è suicidata nello stesso carcere. Pare fosse alla prima esperienza detentiva. Una terza detenuta si era tolta la vita qualche settimana fa sempre nello stesso istituto. Un quarto detenuto era stato trovato morto suicida a metà luglio, anche lui nel carcere del capoluogo piemontese. Siamo ad agosto ed è in corso una mattanza carceraria. Non provare a porvi rimedio significa essere corresponsabili di ognuna di queste morti. Dall’inizio del 2023, più o meno un giorno sì e un giorno no, un detenuto muore nelle carceri italiane. Purtroppo ci si abitua a tutto, vinti da cinismo e stanchezza. Si susseguono le morti nell’Italia carceraria. Si può morire nelle mani dello Stato a Torino, così come a Milano o a Cagliari. Dappertutto. Una sequenza tale che dovrebbe indurre il paese e le istituzioni a riflettere, ripensarsi e ovviamente intervenire. Da tanto, troppo tempo il carcere è fermo. Non c’è una visione condivisa su quello che dovrebbe essere la pena. Di fronte agli oltre novanta morti dall’inizio dell’anno, di cui poco meno della metà per suicidio, ci vorrebbe una reazione indignata di massa che travolga, come una valanga, stanchezza e cinismo, che non di rado si sommano a cattiveria, ingiustizie e egoismo. I numeri elevati riducono il singolo detenuto a un numero di matricola, a un fastidio da neutralizzare. La sua disperazione resterà anonima. *** Alla fine di luglio i detenuti hanno quasi raggiunto le 58mila unità, circa 10mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare. Il tasso di affollamento effettivo, alla luce dei posti realmente disponibili e dei reparti provvisoriamente chiusi, supera il 120%, con punte altissime in singoli istituti, come a Brescia (181,1%), Como (178,3%), Varese (177,4%) o Foggia (177,2%). Nel solo ultimo anno vi è stata una crescita del 5% della popolazione reclusa, nonostante non si assista a una escalation degli indici di delittuosità. Il sistema della giustizia penale si è inutilmente e pericolosamente irrigidito: le pene sono più lunghe, i benefici si riducono. Si pensi che una persona condannata su due (ben 21mila detenuti) ha un residuo pena inferiore ai tre anni. Una parte di loro potrebbe accedere a forme di esecuzione penale esterna. *** Cosa significa in termini di vita quotidiana vivere in un carcere affollato? Significa in sequenza: non avere spazi vitali per sé e per la propria vita; non essere riconoscibile o riconosciuto da medici, educatori, poliziotti, direttori, psicologi o dal cappellano (per chi è cattolico); assistere a una riduzione delle occasioni di vita lavorativa, sociale, culturale, educativa che non si moltiplicano al moltiplicarsi dei detenuti. Il sistema carcerario ha bisogno di una profonda innovazione che lo sottragga alla pre-modernità (in carcere internet è considerato il male assoluto), alle sue prassi consolidate, a loro volta fondate su stanchezza e cinismo. In non pochi casi le storie delle persone detenute che si suicidano ci raccontano che il gesto coglie di sorpresa tutti e avviene all’inizio o alla fine della pena. E allora sarebbe importante investire risorse ed energie su questi momenti della reclusione, ad esempio prevedendo celle per l’accoglienza che non siano le peggio messe del carcere nonché momenti autentici di informazione e presa in carico da parte degli operatori, senza limitarsi a riempire questionari burocratizzati sul rischio suicidario definendolo basso, medio o alto. Così come alla fine della detenzione andrebbero organizzati corsi e momenti qualificati di preparazione al rilascio. Di fronte a tutto questo il silenzio delle istituzioni è complice. *Presidente dell’Associazione Antigone Un altro decesso dietro le sbarre: il carcere ormai è un grande contenitore di disperazione di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2023 Arriva nelle scorse ore la notizia del decesso di una donna di 43 anni che, dal giorno del suo ingresso nel carcere di Torino lo scorso 22 luglio, aveva rifiutato di mangiare, di bere e qualsiasi altra terapia sostitutiva fino a lasciarsi morire. Pochi giorni fa Antigone aveva raccontato le due morti avvenute a pochi giorni una dall’altra nel carcere milanese di San Vittore: quella di un ragazzo di 38 anni che si è tolto la vita a pochi giorni dal suo ingresso in carcere e quella di un trentenne morto dopo aver inalato gas dal fornelletto della cella nel reparto per tossicodipendenti. Morti alle quali il sistema si è abituato, assuefatto, che non sorprendono e non generano reazioni, non spingono a maturare impegni per evitarne di ulteriori. Morti che ci parlano di disperazione individuale, di vite ai margini alle quali si è tacitamente deciso di poter rinunciare. Chi conosce il carcere sa che esso sempre più si è trasformato in un grande contenitore di disperazione. La grande massa delle persone detenute è data dagli esclusi dal welfare, da chi non ha alcuna rete sociale di sostegno, da immigrati, tossicodipendenti, portatori di disagio psichiatrico. Corpi che si ammassano nelle mura del carcere avendo quasi rinunciato anche alla pia bugia che ci siamo detti per tanto tempo della rieducazione. Come sempre nel mese di agosto, Antigone ha pubblicato i risultati del suo monitoraggio delle carceri a metà anno. Una fotografia delle visite effettuate dal suo Osservatorio nei primi mesi del 2023. Se il sovraffollamento ufficiale dato dai quasi 58.000 detenuti è del 112.6%, quello reale al netto delle tante sezioni inagibili e mai ristrutturate è di circa 9 punti superiore (il carcere di Arezzo, per fare un esempio, è chiuso ormai da ben 15 anni, ma i suoi posti continuano a comparire nei conteggi ufficiali del Ministero della Giustizia). E non è omogeneo sul territorio nazionale. Ci sono istituti - a Brescia, a Como, a Foggia - dove il tasso di affollamento si aggira attorno al 180%. Dove dovrebbero dormire, mangiare, respirare, venire curati, lavorare, andare a scuola cento persone se ne trovano invece centottanta a dividersi gli spazi e le risorse disponibili. Le persone detenute di oltre 60 anni sono quasi 6.000, il 10,1% del totale dei presenti. L’età media in carcere sta rapidamente crescendo, con le complicazioni di salute che questo comporta. Soprattutto nei mesi più caldi. D’estate in carcere si vive ancor peggio che in inverno. L’aria in cella è immobile, i blindi continuano spesso a venire chiusi, le schermature alle finestre che si aggiungono alle sbarre non permettono alcun riscontro d’aria. I più fortunati possono permettersi di acquistare un piccolo ventilatore, che nei giorni più caldi è comunque inutile. Alcuni istituti hanno inoltre problemi di approvvigionamento di acqua. Ogni anno Antigone riceve segnalazioni di carceri dove per lavarsi si deve usare l’acqua confezionata. Ma, soprattutto, in estate la vita si ferma. Si fermano le poche attività, la scuola, l’ingresso dei volontari. Ci si ritrova soli di fonte alla disperazione portata fin da fuori. A giugno, luglio e i primi giorni di agosto si contano già 15 suicidi. Eppure al 30 giugno, come ancora si legge nel rapporto di metà anno di Antigone, ben il 17,9% delle persone detenute con una condanna definitiva aveva un residuo pena inferiore a un anno. Quelle poi con un residuo pena inferiore ai tre anni erano addirittura il 51,2% dei detenuti definitivi, pari a 21.753 persone. Se si favorisse l’accesso anche solo di una parte di loro a misure alternative alla detenzione, il soraffollamento diminuirebbe e con lui la recidiva, con benefici per la sicurezza di noi tutti. E ancor più ciò accadrebbe se si smettesse di usare il carcere come ultima frontiera di un welfare ammalato. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone La doppia pena dietro le sbarre: caldo, suicidi e sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 agosto 2023 Antigone getta una luce inquietante sulle carceri in estate: condizioni che mettono a dura prova la dignità umana. Un sovraffollamento che viaggia attorno al 121%, con 10.000 persone detenute in più rispetto ai posti effettivamente disponibili. Suicidi che continuano ad essere una piaga a cui il carcere è abituato. Dopo gli 85 dello scorso anno, quest’anno sono già 42. Come riferisce Ristretti Orizzonti 1.352 quelli avvenuti dal 2000 ad oggi. L’estate, da questo punto di vista, non aiuta. Il caldo è uno dei fattori che impattano maggiormente sulla qualità della vita negli istituti penitenziari, qualità della vita già non elevata neanche negli altri periodi dell’anno. Sono aspetti messi in evidenza dall’associazione Antigone tramite un rapporto che fotografa l’estate in carcere. Un vero inferno. In una realtà spesso invisibile ai più, l’Associazione Antigone si fa portavoce di un’analisi dettagliata e spietata del sistema carcerario italiano, attraverso il rapporto “L’estate in carcere”. Innanzitutto mette in evidenza una crescente preoccupazione: l’ampia crescita della popolazione detenuta nelle carceri italiane. A fine luglio 2023, il numero delle persone detenute ha raggiunto 57.749, con un sovraffollamento del 12,6% rispetto alla capienza regolamentare. Questo incremento del 5% rispetto all’anno precedente mette in luce una tendenza all’aggravamento del sovraffollamento, con la capienza regolamentare superata di ben 6.464 detenuti. Le detenute, che costituiscono il 4,3% della popolazione, e gli stranieri, rappresentanti il 31,2%, sono particolarmente colpiti da questo aumento. Inoltre, la popolazione carceraria italiana vede un aumento maggiore rispetto a quella straniera, con una crescita dell’8,8% delle donne rispetto al 5,2% degli uomini. Un sistema penalizzato dalla recidiva - Un’analisi dei dati mostra come la recidiva sia ancora un problema urgente. Il 62% dei detenuti presenti nelle carceri italiane al 31 dicembre 2021 aveva già scontato almeno una pena precedente, con l’18% che aveva scontato cinque o più pene in passato. Questo alto tasso di recidiva contribuisce al sovraffollamento, e Antigone sottolinea che misure efficaci per prevenire la recidiva e promuovere il reinserimento sociale avrebbero un impatto significativo sulla questione del sovraffollamento. L’Associazione Antigone evidenzia anche la scarsità di risorse nelle carceri, in particolare per quanto riguarda il personale. In media, un agente di polizia penitenziaria deve gestire 1,7 detenuti, un numero che è aumentato a 1,8 detenuti a causa della crescita delle presenze carcerarie. Tuttavia, ci sono miglioramenti nel numero di educatori, che sono stati incrementati negli ultimi anni. Questo ha portato a una diminuzione del numero di detenuti per ogni educatore, passando da una media di 88,6 a 70,8 persone detenute per educatore. Lotta contro caldo e condizioni di vita - Le condizioni estive all’interno delle carceri sono particolarmente gravi. Le strutture carcerarie spesso non sono in grado di far fronte alle temperature estive elevate, causando disagio e stress tra i detenuti. Uno degli aspetti preoccupanti emersi da questo rapporto di Antigone riguarda lo stato delle strutture penitenziarie. L’aria che circola attraverso le finestre è spesso limitata a causa delle schermature presenti nel 50% dei casi, ostacolando la circolazione dell’aria fresca. Durante la notte, alcuni istituti chiudono anche il ‘blindo’, una pesante porta di ferro all’ingresso delle celle, che agisce come un muro per l’aria, rendendo l’ambiente ancora più soffocante. Un’altra criticità riguarda la mancanza di docce nelle celle, nonostante il regolamento penitenziario del 2000 stabilisca che dovrebbero essere presenti obbligatoriamente a partire dal 2005. Questo significa che molti detenuti non possono cercare refrigerio tramite una doccia fresca. Inoltre, i frigoriferi nelle celle sono presenti solo in pochissimi casi, lasciando molte persone senza accesso all’acqua fresca. Il problema dell’approvvigionamento idrico è particolarmente critico in alcune carceri. Il rapporto di Antigone riceve segnalazioni annuali di carceri in cui i detenuti sono costretti a utilizzare acqua confezionata per lavarsi. Alcuni istituti, come Aversa, non sono allacciati alla rete idrica comunale e devono fare affidamento su cisterne. Questo può portare a una carenza di acqua corrente, rendendo difficile affrontare il caldo. La situazione si aggrava ulteriormente durante le ondate di calore estivo. Il rapporto cita esempi di proteste avvenute nei mesi estivi, come quella nel carcere di Ravenna e nella Casa di Reclusione di San Cataldo a Caltanissetta. Le proteste sono state innescate dall’eccessivo caldo, che ha causato disagi e sofferenze tra i detenuti. Alcuni istituti, come il carcere di Avellino, hanno sperimentato problemi di approvvigionamento idrico, causando disagi non solo ai detenuti, ma anche al personale penitenziario. Il problema dei ventilatori - La situazione è drammatica. Nonostante le elevate temperature e l’oppressione del caldo, i ventilatori sono presenti solo in alcuni istituti penitenziari. Un esempio emblematico di questa situazione è l’istituto penitenziario di Vercelli, situato in una zona pianeggiante prevalentemente coltivata a risaia. Qui, il caldo estivo diventa insopportabile, eppure i detenuti si trovano privati del semplice comfort di un ventilatore per cercare un po’ di sollievo. L’Associazione Antigone ha recentemente riferito che le persone detenute nell’istituto di Vercelli hanno presentato una petizione, una richiesta disperata e legittima, per poter acquistare ventilatori funzionanti con l’energia elettrica con i propri mezzi. Al momento, l’alternativa è rappresentata da ventilatori portatili di dimensioni minime, che devono essere tenuti in mano e che sono venduti a un prezzo di € 5.89, oltre al costo delle pile necessarie (3 euro). Questi ventilatori, sebbene modesti, rappresentano un piccolo respiro di sollievo in mezzo al caldo soffocante. La mancanza di ventilatori è un problema che si estende a livello nazionale. In molti istituti penitenziari, i ventilatori sono una rarità e spesso la rete elettrica è inadeguata per far fronte a queste necessità. Luoghi come Regina Coeli a Roma o Pesaro sono solo alcuni esempi di istituti in cui i ventilatori sono una merce rara anche per l’inadeguatezza della rete elettrica. Antigone fa alcuni esempi concreti. Ad Aversa a causa del caldo torrido, molte persone detenute lamentavano la scarsa efficacia dei ventilatori forniti dall’amministrazione, troppo piccoli per cameroni troppo grandi, insufficienti per garantire un minimo di refrigerio. A Cagliari le celle sono dotate di ventilatori comprati, come in altri istituti, direttamente dalle persone detenute quando se lo possono permettere (al costo di 40 euro). Anche negli istituti di Tempio Pausania e Altamura il costo dei ventilatori è a carico delle persone detenute. A Catania invece i ventilatori sono stati acquistati dall’amministrazione penitenziaria e pertanto disponibili in ogni cella dell’istituto. A Lucera nessuna cella è dotata di ventilatori, presenti solo negli spazi comuni. Un dramma nel dramma. Una doppia pena. Il tutto in sfregio dell’articolo 27 della nostra costituzione dove recita che la pena non deve essere contraria al senso di umanità. Questo principio garantisce che non si ritorni a quanto accadeva in passato, con il condannato che in carcere era sottoposto a trattamenti disumani. Ma è un principio che rimane sulla carta. Pena di morte all’italiana: ogni due giorni muore un detenuto o una detenuta di Domenico Cirillo Il Manifesto, 12 agosto 2023 Ieri due donne, in un solo giorno. In un solo carcere, quello di Torino. Una nigeriana, che rifiutava il cibo, è stata lasciata morire di stenti. E una giovane italiana si è impiccata in cella. Un inferno, che l’estate peggiora Due donne morte. Nello stesso giorno. Nello stesso carcere, quello di Torino. La prima, 43 anni, era di origine nigeriana ed è morta di stenti. Rifiutava di alimentarsi dal 22 luglio. Ed è stata lasciata morire. La seconda, 28 anni, era italiana, dalle prime notizie sembra che fosse alla sua prima detenzione, trasferita da Genova, e si è impiccata nella sua cella. Da metà luglio sono così quattro le morti per suicidio solo nel carcere torinese, in precedenza già un’altra donna e un uomo avevano deciso di togliersi la vita. Nell’inferno che sono le carceri italiane, sovraffollate e fatiscenti, quello di Torino evidentemente è uno dei gironi più terribili. L’estate fa il resto. La donna di origine nigeriana si chiamava Susan John. Era entrata in carcere il 21 luglio, il giorno dopo aveva cominciato a respingere oltre al cibo anche gli integratori e l’assistenza medica. Da pochi giorni anche l’acqua. Sposata, aveva un figlio di 4 anni che avrebbe chiesto inutilmente di vedere. Secondo il sindacato di polizia penitenziaria Sappe che per primo ne ha dato notizia, sarebbe morta così alle tre di ieri mattina nell’articolazione di salute mentale della casa circondariale di Torino dove da qualche giorno era ricoverata. “Il pur tempestivo intervento dei nostri agenti in servizio - spiega il segretario del Sappe Piemonte, Vicente Santilli - non ha purtroppo impedito la morte della detenuta che stava scontando una pena per cui era previsto il termine nell’ottobre 2030”. La pena era stata inflitta da una corte di Catania per tratta e immigrazione clandestina. Ma la Garante comunale dei detenuti Monica Cristina Gallo ha denunciato di non essere mai stata avvisata del caso. “Sono rammaricata, ma dal carcere non ci sono mai giunte segnalazioni relative al caso di questa persona. Così come nulla sapevano di questa detenuta che rifiutava alimentazione e cure mediche - aggiunge Gallo, raggiunta al telefono - le “Ragazze di Torino” (collettivo di detenute ed ex detenute delle Vallette che si battono per i loro diritti, ndr) che ho sentito, e che sono di solito le mie sentinelle all’interno del “Lorusso e Cutugno”. I nostri contatti sono regolari - conclude la garante cittadina - eppure nessuno ci aveva informato. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Però almeno avremmo potuto attivare le nostre procedure e tentare qualcosa. Il Garante ha una funzione anche preventiva, e spesso interveniamo in situazioni del genere. È questione molto importante perché si tratta di salvare vite. Aspettiamo ora - conclude Gallo - che l’autorità giudiziaria faccia chiarezza su come è morta questa detenuta, perché non credo che si possa morire di fame in poche settimane”. Anche il garante regionale del Piemonte, Bruno Mellano, avverte di non aver saputo nulla. “Il 4 agosto - dice - ero in carcera ho parlato con la direzione, gli operatori dell’istituto e parecchie donne detenute che sono le nostre sentinelle e tra loro hanno un atteggiamento accudente. Nessuno ci ha segnalato il caso”. Se i suicidi si ripetono a Torino, e le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria Sappe e Osapp chiamano in causa oltre al ministro Nordio soprattutto il capo del Dap Giovanni Russo, chiedendo il commissariamento, quello di ieri non è però, purtroppo, neppure il primo caso quest’anno di morte per rifiuto di alimentarsi. Solo tre mesi fa, nel silenzio generale, nel carcere di Augusta sono morti due detenuti dopo uno sciopero della fame durato 40 e 60 giorni. “Inutile cercare singoli responsabili in quel che sta accadendo da tempo nelle carceri italiane. È l’intero sistema che è corrotto, nel senso di guasto per putrefazione, decomposto - denunciano i Radicali italiani -, un sistema che porta dietro le sbarre soprattutto persone con problemi psichiatrici, poveri allo stremo, immigrati senza fissa dimora, tossicodipendenti di varie sostanze, per un terzo del totale detenuti in attesa di giudizio definitivo”. Il deputato di +Europa Riccardo Magi annuncia l’intenzione di presentare un’interrogazione. “Questa - commenta la senatrice di Avs Ilaria Cucchi - è una tragedia che non può essere tollerata in un Paese che si professa civile e democratico. Una morte di cui comunque è responsabile lo Stato che aveva in custodia la vita della vittima. Non capisco cosa c’entrano in questo i sindacati degli agenti. Chiedo venga fatta chiarezza anche per questo”. Vogliamo far morire Matteo Messina Denaro come morì Bernardo Provenzano? di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 12 agosto 2023 L’ex “primula rossa” ha un tumore al quarto stadio e rischia di morire detenuto al 41 bis come il boss arrestato nel 2006 e spirato dieci anni dopo, dopo un lungo periodo in stato vegetativo. Quando si sente dire dal suo legale, l’avvocato Alessandro Cerella, che il detenuto Matteo Messina Denaro non riesce più ad alimentarsi e viene nutrito con un sondino, e che anche mandar giù un sorso d’acqua è per lui grande fatica, il pensiero va lontano, a un altro prigioniero che era stato un altro capo di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano. Ero andata, quel 24 aprile del 2016, all’ospedale S. Paolo di Milano, quartiere Barona, dove un vecchio amico, il professor Rodolfo Casati, internista e cardiologo, oggi in pensione, svolgeva un lavoro particolarmente delicato. Era il primario della quinta Divisione di medicina protetta, cioè carceraria. Un pezzetto di prigione all’interno di un grande ospedale, con 22 letti più due stanze separate e protette per detenuti al regime 41 bis, in una delle quali, da due anni stazionava il corpo di Bernando Provenzano. Il corpo, non la persona, come ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo che per la prigionia di quel corpo ormai ridotto a vegetale, ha condannato lo Stato italiano. Il professor Casati in quell’incontro dell’aprile 2016 era particolarmente amareggiato per il comportamento della magistratura e dello stesso governo, mentre mi diceva: “Provenzano non è in grado di mettere insieme soggetto predicato e complemento”. Che cosa dice nei vostri incontri? “Articola spesso le sillabe mmm e mam, forse intende dire mamma”, mi aveva risposto sconsolato il medico, aggiungendo che lui ogni giorno lo visitava, lo controllava, poi scriveva relazioni su relazioni. Ai giudici di mezza Italia, da Palermo a Caltanissetta, da Milano a Firenze. E al ministro. Ma la situazione non si sbloccava. I familiari chiedevano che il congiunto, ormai al puro stato vegetativo, potesse essere trasferito in un reparto per lungodegenti, quegli hospice dove si va a morire, ma almeno senza manette. Le manette di Bernardo Provenzano in quell’aprile 2016 consistevano, ormai da due anni, in due auto di polizia che stazionavano in modo stabile ai lati nord e sud dell’ospedale, e 28 agenti che si alternavano alla sua sorveglianza, in un reparto dove si occupavano dei detenuti 9 medici, 14 infermieri e 8 operatori sociosanitari. Quale è la patologia di questo detenuto, avevo chiesto. “Ha avuto ripetute lesioni cerebrali - era stata la risposta del professor Casati - è stato operato per due episodi di emorragia, inoltre è affetto dal morbo di Parkinson, è in uno stato degenerativo gravissimo”. Un vegetale. Pure la Corte di Cassazione aveva stabilito che quel vegetale potesse restare là dove era, con le restrizioni dell’articolo 41 bis del regolamento penitenziario, che nel suo caso consistevano solo nella riduzione dei colloqui con i parenti. Altri contatti non poteva avere, e neppure sarebbe stato in grado. Ma per la suprema corte, finché il paziente rispondeva in qualche modo alle cure era vivo, quindi anche pericoloso. Super-manette, dunque. Tra l’altro a un certo punto proprio coloro che, a parte i familiari e gli amici, avevano maggior interesse a tenere Provenzano in vita, cioè i pubblici ministeri del processo “trattativa” in cui lui era tra i principali imputati, avevano rinunciato e accettato la decisione dei giudici di stralciare la posizione del boss dal processo. Ma chi non volle sentir ragioni fu il ministro di giustizia Andrea Orlando, forse consigliato da colui che poi diventerà suo compagno di partito ed eurodeputato, il Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Il guardasigilli, nel prorogare il 24 marzo per l’ultima volta il 41 bis ebbe il coraggio di scrivere: “Seppure ristretto dal 2006 Provenzano è tuttora destinatario di varie missive dal contenuto ermetico, cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa”. C’è da domandarsi se Andrea Orlando, o chi ha scritto per lui questo capolavoro di intuizione psicologica, sappia che cosa vuol dire quando una persona è in “stato clinico deteriorato dal punto di vista cognitivo”. O forse qualcuno ha pensato che quel sillabare continuamente mmm o mam equivalesse a ordinare omicidi e stragi. Pure quel corpo ridotto allo stato vegetale doveva rimanere prigioniero. Bernardo Provenzano è morto il 13 luglio di quel 2016, quattro mesi dopo l’ultima proroga del 41 bis, quella per cui l’Italia è stata condannata per la violazione dell’articolo 3 Cedu. Una sanzione con motivazioni gravissime, per violazione del divieto di tortura e di trattamenti degradanti e disumani, e anche per non aver tenuto conto del fatto che le condizioni di salute del prigioniero erano incompatibili con lo stato di detenzione. Detenzione, altro che 41 bis e carcere speciale! Sono stati violati i diritti umani, hanno scritto i giudici europei. Ma intanto il detenuto era morto. Il corpo si era sottratto. Anche a quel circo mediatico e giudiziario che aveva messo in scena la patacca colossale della trattativa Stato-mafia, di cui Provenzano sarebbe stato protagonista in combutta con il generale Mario Mori. Non ha fatto in tempo, il boss di Cosa Nostra, a veder andare in fumo la sceneggiata del secolo. Quel che possiamo domandarci oggi è: farà la stessa fine Matteo Messina Denaro, malato di cancro al quarto stadio, il quale già oggi, come dice il suo avvocato, dopo l’ennesima operazione, non mangia, è nutrito con un sondino e fatica a bere un sorso d’acqua? Vogliamo aspettare che sia ridotto allo stato vegetativo prima di decidere che anche il peggior assassino è pur sempre una persona e, soprattutto quando è, come pare sia lui, ormai alla fine dei suoi giorni, ha diritto come tutti a un trattamento umano? Non crediamo che il ministro Nordio terrà lo stesso comportamento del suo predecessore Orlando, insistendo con l’applicazione dell’articolo 41 bis fino alla condanna della Cedu. Non sarebbe degno di lui. Redde rationem penitenziaria di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 12 agosto 2023 Mille e più sono le criticità che il Governo della Meloni, con il suo ministro Nordio, dovrà affrontare in ambito penitenziario, sapendo però che, a differenza di altri esecutivi che lo hanno preceduto, non godrà di uguali indulgenze e simpatie di cui, soprattutto, i governi di sinistra hanno beneficiato fino a ieri. Anzi, a motivo del fatto che non ci sono più governi amici da tutelare, quella costellazione formata spesso da un associazionismo ideologico, anche sindacalizzato, che con disinvoltura si veste di bianco e di rosso o di tutti e due colori insieme, potrà tornare a giocare duro, colpendo ai garretti l’avversario politico di sempre, e cioè quella destra che occorre di diritto demonizzare, per cui “mala tempora currunt sed peiora parantur”. Al riguardo, il mondo drammatico delle carceri italiane rappresenterà la location perfetta per demonizzare una destra che deve ricostruire un sistema abbandonato da anni, ma imbellettato dalle parole. Si aggiunga che il tempo a disposizione per l’attuale esecutivo, per trovare tempestive risposte e soluzioni credibili, è davvero scarso, cionondimeno dovranno essere rinvenute e imposte al più presto, pena la capitolazione definitiva del sistema penitenziario e di tutto ciò che potrebbe conseguirne in termini di fiducia e, perfino, di pace sociale. Una esigenza si imporrà, però, tra tutte ed è quella di dover assicurare il rapido “ritorno” dell’organizzazione e del funzionamento della medicina penitenziaria al mondo della Giustizia e all’Amministrazione Penitenziaria, dopo la disastrosa esperienza delle regioni, onde garantire una effettiva ed eguale assistenza sanitaria alle persone detenute su tutto il territorio nazionale, nei fatti oggi negata, così come le cronache giornalistiche puntualmente ci ricordano. Non sarà, all’inizio, cosa facile perché le Regioni che hanno operato in questi anni, per il tramite delle aziende locali, non hanno assolutamente risolto, in tante realtà territoriali, le criticità che in modo progressivo, torrenziale, calzante, si sono riversate sulle nostre carceri e sul personale penitenziario. Il paradosso è che vittime di questo sfacelo non sono state, perciò, soltanto le persone detenute, ma anche gli stessi operatori penitenziari, insieme a quelli sanitari, mandati quest’ultimi non poche volte allo sbaraglio, senza neanche che fossero spiegati agli stessi i rischi ed i contesti dove avrebbero dovuto operare e senza specifiche preparazioni dedicate al mondo penitenziario. Per tanti, infatti, si è trattato di una realtà di lavoro spesso sconosciuta, con medici non poche volte privi di esperienze “sul fronte” e con infermieri che si trovavano catapultati in un contesto ben diverso rispetto a quello degli ambulatori e degli ospedali pubblici, ancorché pure in questi non fossero, talvolta, assenti problematicità di ordine pubblico e sicurezza per gli stessi operatori sanitari. La sanità penitenziaria, infatti, si intuisce che è cosa “altra” rispetto a quella che assicurata (quantomeno sul piano teorico) alle persone “libere”: le cronache sulle criticità che riguardino le corsie degli ospedali e dei pronto soccorsi sono note, ma indubbiamente altre, e ben più complesse e temibili, sono quelle che possono invece incrociarsi all’interno delle carceri sovraffollate e con un forte sotto organico del personale di polizia penitenziaria e degli altri ruoli. Insomma, il carcere già di suo costituisce un ambiente tra i più difficili e “pericolosi”, quantomeno perché, fino a prova contraria, nelle prigioni i detenuti non ci si recano spontaneamente, con la speranza di curare le loro personalità e, solitamente, vi accedono portando con sé rabbia, disperazione, grandi disagi sociali e, non poche volte, anche forti aggressività che rivolgono sia verso sé stessi che verso gli altri ristretti o nei riguardi dello stesso personale. Comunque, con le diverse controriforme, puntualmente attuate dai precedenti governi, certamente si è riusciti, però, nell’epocale risultato di assicurare, senza bisogno di dover distinguere il Nord Italia dal Sud, le isole dal Continente, le città metropolitane da quelle che non lo fossero, una uguaglianza di mal trattamento per quanto attenga il diritto alla salute. Questa evidenza andrebbe ricordata nei manuali giuridici e di sociologia, in quanto è la dimostrazione plastica di come le incompetenze e la scarsa conoscenza del mondo delle carceri siano impietosamente prevalse nel dibattito politico a senso unico negli scorsi anni, condizionando ogni cosa. A tanto si aggiunga il maltrattamento, solidale, subito non soltanto dalle persone detenute, ma anche dalle loro famiglie e da quanti sono in apprensione per le prime, oltre che dallo stesso personale penitenziario, sia di polizia che quello delle funzioni centrali, al quale occorrerà aggiungere quello sanitario, per quanto alle dirette dipendenze delle Asl o, comunque, ad esse interconnesse per il tramite del dedalo di cooperative affidatarie di attività mediche ed infermieristiche all’interno delle carceri. Maestranze, quest’ultime, costrette non poche volte ad operare senza effettive forme di incentivazione retributiva, di carriera, nonché di garanzie contrattuali in relazione al contesto speciale e dove si assiste in talune realtà a continui avvicendamenti, preferendosi lasciare il lavoro alle dipendenze seppure indirette di un datore pubblico, preferendo il mondo della sanità privata. Basterà interrogare qualunque medico o infermiere che operi nelle carceri, per avere o meno conferma di quanto sostenga, oppure, alla meno peggio, sfogliare qualche quotidiano che parli della salute in carcere, semmai guardando alle prigioni toscane, oppure a quelle piemontesi e lombarde, tanto per non concentrarci, come sempre ed esclusivamente, sulle tradizionali realtà in sofferenza del meridione o delle isole. Per modificare il trend, sommessamente, do alcuni suggerimenti: anzitutto occorrerà intervenire, con somma urgenza, in tema di arruolamento straordinario del personale sanitario, proponendone l’incardinamento nell’amministrazione penitenziaria. D’altronde è verosimile che torni a formarsi, presso il Dap, un’area amministrativa che sarà rivolta alla medicina penitenziaria, a mente dell’assunzione già prevista di medici del Corpo della polizia penitenziaria. Ciò consentirebbe di immaginare, in progress, una riforma organica che vedrà già la presenza di personale sanitario appartenente all’amministrazione. Nell’affrontare tale prima urgenza, si consiglia di delegare le necessarie attività assunzionali alle direzioni degli istituti, talché i relativi procedimenti andranno curati dallo stesso Dirigente penitenziario a capo della struttura carceraria; quest’ultimo, giocoforza, dovrà orientarsi verso la realtà territoriale locale e interloquendo utilmente con gli ordini e albi professionali, perché è di tutta evidenza che sia preferibile ingaggiare risorse umane già presenti sul territorio, piuttosto che preferire quello pendolare. La non prossimità, ove si cercasse fuori regione, potrebbe infatti influenzare non poco l’organizzazione dei servizi, soprattutto quelli a turno h. 24, riflettendosi sulla loro regolarità, così come nelle rotazioni, per la fruizione di riposi settimanali e ferie, per la copertura non programmata di dipendenti che si ammalino, etc. Onere degli uffici centrali, costituendosi, opportunamente, una direzione generale dedicata proprio alla sanità penitenziaria nel suo complesso, e perciò inclusiva del personale penitenziario, sarà, semmai, quello di disporre di uno schema tipo ministeriale che il direttore del carcere dovrà adottare, demandandone la vigilanza ai Provveditorati regionali, i quali riferiranno di eventuali anomalie e potranno avocare a se stessi tali incombenze ove si rilevassero violazioni o abusi di qualunque natura nella scelta dei medici e del personale infermieristico. Dovrà essere, inoltre, considerata l’utilità di reintrodurre la figura del medico quale componente del Consiglio di Disciplina relativamente alle procedure sanzionatorie previste per le persone detenute che violino le regole penitenziarie, o quantomeno stabilire l’obbligo della sua presenza nel corso del procedimento, al fine di offrire la necessaria consulenza all’organo disciplinare; questo perché la figura del medico può davvero essere dirimente nello stabilire il grado di consapevolezza delle azioni apparentemente di rilevanza disciplinare del ristretto, soprattutto ove si appurasse che esse risultino il riflesso delle condizioni di salute psico-fisica del predetto, soprattutto ove si trattasse di persone instabili perché affette da patologie di natura psichiatrica, talché non certamente sanzioni, bensì cure mediche appropriate andrebbero imposte. L’esperienza che ho accumulato al riguardo mi fa, infatti, benedire mille volte la circostanza che ai tempi in cui ero direttore penitenziario il Consiglio di Disciplina si avvalesse di tale importante figura professionale come componente del collegio, la quale contribuiva a meglio decriptare la condotta del detenuto, ove fosse portatore di problematiche sanitarie, consentendo all’organo disciplinare di decidere con ragionevolezza ed equità, nonché addirittura di intercedere presso altri uffici o autorità pubbliche ove ciò servisse a migliorare lo stato delle cose e le problematiche che si riconoscevano essere in capo al ristretto. Il tutto non solo consentiva, in modo trasparente, di ripercorrere le ragioni che avevano indotto l’organo a decidere il caso, ma anche per soddisfare l’esigenza di chiarezza e la stessa sensibilità della polizia penitenziaria e degli altri operatori sui quali, non poche volte, si era rivolta l’azione irregolare se non anche offensiva e violenta del detenuto sottoposto al procedimento disciplinare. Tra l’altro, con la presenza del medico quale componente dell’organo disciplinare, si rafforzava anche l’effettiva tutela dello stesso ristretto, non essendo contemplata la presenza del difensore. Il detenuto, perciò, non veniva, per così dire, “spaccottato” o scomposto in più entità virtuali, ma era considerato come una sola essenza, ove si analizzavano i diversi aspetti della sua identità di persona, onde riassumere tutti i suoi profili personologici, talché andavano esaminati i tratti penali e comportamentali, idem per quelli sanitari, di orientamento di genere, di religione e provenienza geografica, di cultura, etc. Il tutto consentiva di interpretare il sensus rerum di una condotta che, altrimenti, di primo acchito o in modo frettoloso, avrebbe potuto leggersi esclusivamente come rilevante sul piano disciplinare, quando in realtà era cosa più articolata e complessa. Ma anche le tempistiche dei procedimenti erano più veloci, non prevedendosi un fermo amministrativo così esagerato come l’attuale il quale, di fatto, può ben superare i dieci giorni dal momento della segnalazione disciplinare (che potrebbe non corrispondere, per quanto tempestiva, alla data della presunta commissione del fatto e del relativo rapporto di servizio stilato dagli operatori penitenziari), potendo arrivare, in punto di diritto, fino a venti, così inducendo gli stessi detenuti e il personale a ritenere che le condotte irregolari siano state, in realtà, banalizzate, tollerate se non pure incentivate pro-futuro, comunque non considerate nella loro gravità, favorendosi, in mancanza di provvedimenti tempestivi e certi, il prosperare di ulteriori reciproci risentimenti, con tutto ciò che può derivarne in un contesto già gravido semmai di tensioni. Si comprenderà, al contrario, come una decisione rapida ed equilibrata favorisca, sul piano anche pedagogico, la migliore gestione del ristretto, nonché acquieti gli animi di quanti, altri detenuti e/o gli stessi dipendenti penitenziari, si siano sentiti vittime di condotte offensive se non anche violente da parte di chi parrebbe abbia violato le norme. Guai, infatti, a far cadere nel silenzio una qualche segnalazione disciplinare, perché la denegata decisione può favorire la realizzazione di effetti a catena di diversa pericolosità e natura. Oggi, a sentire i sindacati della polizia penitenziaria, pare che le cose vadano proprio nel verso opposto e, se davvero fosse vero che molti procedimenti disciplinari siano destinati, ogni giorno, verso la perenzione e/o comunque non si assumano, al riguardo, decisioni, non dobbiamo poi meravigliarci se tutto il contesto apparirà disorientato, favorendo, così, la realizzazione di ulteriori peggiori repliche, reazioni, asperità. Anche da questo punto di vista, la Riforma Orlando, frutto di Stati Generali con troppi Comandanti degli stati maggiori ma pochi fanti che avessero vissuto la trincea, ha avuto, a mio avviso, effetti disastrosi e, ove fossi in torto, basterebbe chiederlo direttamente a quanti operino nelle carceri: in primo luogo ai direttori ed ai comandanti dei reparti di polizia penitenziaria, ma anche ai funzionari giuridico-pedagogici ed ai tanti poliziotti che ogni giorno devono fare il segno della croce all’ingresso e all’uscita da quei luoghi di lavoro fatti di cemento spesso ammalorato e di acciaio ossidato delle sbarre: il loro sarebbe un giudizio pro-veritate. Ancora, l’insensato obbligo sulla riservatezza anche verso gli stessi operatori penitenziari (cioè, di quanti operino, per mission istituzionale, accanto ai ristretti) sulle condizioni sanitarie del detenuto che hanno, però, l’obbligo giuridico di governare, tutelare, controllare, rappresenta un vero e proprio obbrobrio. Ad essi viene inibita la conoscenza dei dati sanitari, che potrebbe, invece, essere indispensabile per la gestione, in sicurezza, della persona detenuta; tra l’altro questi servitori dello Stato rimarrebbero comunque vincolati dal segreto d’ufficio, la cui violazione o abuso, se accertati, determinerebbero l’irrogazione di sanzioni di natura penale e amministrativa. Eppure, questa esigenza di conoscenza, così ovvia, è fino ad oggi negata, adducendo alla riservatezza dei “dati sanitari”, così come prescritto da norme che sono decontestualizzate rispetto al mondo delle carceri, in quanto aventi una logica in ambiti diversi, lì dove le persone sono libere e autonome, quantomeno virtualmente. Gli operatori penitenziari, dovranno, pertanto, svolgere i loro compiti, senza conoscere lo stato di salute delle persone detenute sulle quali, però, dovranno esercitare il loro potere di sorveglianza e le funzioni trattamentali, con tutte le responsabilità che ne derivano in tema di custodia; fingendo la presenza di un servizio sanitario sempre presente ed efficace: eppure quanti problemi, interferenze e fraintesi, se non anche falsi allarmi, sarebbero superati ove, invece, avessero contezza di tanto. È evidente, infatti, che ove si avesse la consapevolezza che un agito, anche apparentemente violento, di un ristretto fosse invece conseguente ad uno stato di malattia (perché tossicodipendente in astinenza, oppure perché avente problemi di carattere psichiatrico, o perché epilettico, etc.), la lettura della sua presunta condotta irregolare sarebbe interpretata diversamente dall’operatore penitenziario, che potrebbe meglio calibrare ogni sua iniziativa, anche allo scopo di soccorrerlo. Sapere, ad esempio, che un atteggiamento reattivo, o una scarsa collaborazione del ristretto ad eseguire un ordine legittimo, consegua dal fatto che il soggetto non abbia assunto la terapia farmacologica prescritta, per propria volontà o perché erroneamente non somministratagli o indebitamente sottrattagli da altri compagni, potrebbe fare eccome la differenza; così come altro tipo di misure di contenimento si assumerebbero ove, ad esempio, nel caso di una lite tra i ristretti, si sapesse che uno dei contendenti è emofiliaco oppure soffra di cuore, sia sottoposto a speciali cure mediche, etc. Insomma, non bisogna essere scienziati per capirlo e gli esempi che potrei fare sarebbero, ahimè, numerosi, ma non è il caso; è sufficiente rappresentare che quanti hanno modificato, negli anni recenti, il precedente regolamento di esecuzione della legge penitenziaria e la stessa legge penitenziaria, per quanto potessero essere anche dei Soloni del diritto, probabilmente non avevano una conoscenza reale e vissuta del mondo delle carceri e della sua comunità, ma al massimo una visione teorica, se non talvolta ideologica e settaria, frutto anche, verosimilmente, di un sentimento di sfiducia, se non di risentimento, verso le forze di polizia in genere e gli operatori penitenziari in particolare. Al contrario, invece, tutte le notizie afferenti allo stato di salute, l’orientamento sessuale, la professione di fede e perfino la sensibilità politica, andrebbero conosciute da quei servitori dello Stato che, in ragione del proprio mandato istituzionale di rilevanza costituzionale, debbano occuparsi del ristretto, nel rispetto, già contemplato, del segreto d’ufficio. Ma tornando alle questioni sanitarie, sarà necessario che il personale medico ed infermieristico non solo sia in numero sufficiente, ma anche meglio trattato sul piano economico e contrattuale, altrimenti nessuno si farà avanti. Se si rischia già tanto nei pronto-soccorsi degli ospedali o presso le guardie mediche, perché il personale sanitario dovrebbe ricercare ulteriori rogne addirittura all’interno delle carceri? Per rendere la medicina penitenziaria attrattiva, perciò, occorreranno delle risorse finanziarie ad hoc ed una fonte costante di finanziamento potrebbe essere ricercata proprio “in house”, e cioè nella Cassa delle Ammende, oppure nel Fug, Fondo unico della Giustizia. Si tratterrebbe, nel primo caso, di un prelievo che sarebbe perfettamente comprensibile e che troverebbe consenso sia da parte degli operatori penitenziari che delle stesse persone detenute, le quali vedrebbero così finalmente migliorato il servizio sanitario così male erogato. Le somme in questione andrebbero impegnate al miglioramento delle retribuzioni degli operatori sanitari dei ruoli soprattutto infermieristici, prevedendo semmai una indennità aggiuntiva, “di contesto”, in quanto le carceri sono luoghi dove il rischio è significativo e le continue criticità che devono affrontarsi li rendono ambiti di lavoro particolarmente stressogeni, prevedendo anche dei miglioramenti nello sviluppo di carriera per quel personale che operi in termini di esclusività per l’amministrazione. Non solo, ma particolare favore andrebbe rivolto anche ai medici ed infermieri che intendano aggiungere al lavoro nella medicina penitenziaria altre attività professionali sia in ambito pubblico che nel privato. Tra l’altro ne guadagnerebbe pure la fiscalità in generale ed è incomprensibile che chi voglia impegnarsi con passione ed in più ambiti sia invece penalizzato, quasi come se avessimo un surplus di risorse umane. Ciò favorirebbe l’attrazione della medicina penitenziaria e la fidelizzazione dei dipendenti, rallentando, o addirittura stoppando, l’esodo dalle carceri degli operatori sanitari, allorquando quest’ultimi trovino, soprattutto nella concorrenza con la sanità privata, condizioni di lavoro e trattamenti economici più allettanti. Se non si procederà rapidamente in tal senso, non si andrà da nessuna parte e rimarranno solo le chiacchiere, le proteste, le malattie e la rabbia di detenuti, oltre che quella degli operatori penitenziari, lasciati tutti allo sbando. Inoltre, senza giri di parole, dovrà riconsiderarsi l’urgenza di ricostituire gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, affinché si ponga fine alla scandalosa situazione attuale che vede tanti, troppi, detenuti sofferenti di malattie mentali, e che sono pericolosi sia verso sé stessi che verso le altre persone incarcerate, oltre che nei riguardi dello stesso personale e di chiunque avesse la ventura di incrociarli (magistrati, forze dell’ordine, avvocati, volontari, ministri di culto, etc.), scaraventati all’interno dei circuiti penitenziari, nella vana attesa che si liberino dei posti nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), ove invece andrebbero già assegnati come internati per essere curati. Rems che oggi, verosimilmente, non sono neanche in grado di gestirli sul piano dell’aggressività, anche ai fini della tutela degli stessi operatori e degli altri ospiti della struttura; paradossalmente, devono ingaggiare dei vigilanti privati (ancora non si comprende con quali precisi compiti), i quali non possono certamente svolgere le funzioni di polizia giudiziaria e di polizia amministrativa che lo status di poliziotti penitenziari contempla. Insomma, il tempo delle finzioni è finito e c’è da sperare che non finisca prima proprio lo stesso sistema penitenziario, trascinando ancora di più verso il basso quel minimo di cultura giuridica e di rispetto verso una persona che soffra dal punto di vista psichiatrico, ancorché accusata o condannata per avere commesso dei gravi reati. Ricostruire un sistema sanitario penitenziario davvero di standard europeo dovrebbe essere l’obiettivo da perseguire e se si darà ascolto agli operatori penitenziari, nonché a quelli delle professioni sanitarie che per davvero operano nelle carceri, sicuramente lo si potrà conseguire, seppure a step. È evidente che il tema sanitario è soltanto uno dei tanti snodi che un sistema penitenziario che voglia essere serio dovrà affrontare, posto che altre concorrenti problematiche stanno letteralmente uccidendo il mondo delle carceri, che pur dispone di una squisita cultura dell’esecuzione penitenziaria, la quale ci consentirebbe perfino di primeggiare in ambito Ue e verso le altre realtà di stampo democratico e occidentale. Le aree di crisi sono tante, per cui sarà opportuno declinarle una per volta, ma sistematicamente in altri articoli, talché mi limiterò ai soli annunci: esigenza di una nuova architettura penitenziaria, impiegando soluzioni ingegneristiche innovative, ma indispensabili (ad esempio: realizzazione di sistemi di climatizzazione generalizzata negli istituti penitenziari in funzione e l’obbligo progettuale di prevederli in quelli già in fase di realizzazione, così come nelle nuove strutture che si intenderanno realizzare; diversa predisposizione degli impianti antincendio per un impiego in sicurezza da parte del personale istruito, e non lasciati alla mercè semmai dei detenuti in rivolta; la sorveglianza telematica ed il telecontrollo avanzato; la vigilanza delle aree penitenziarie, nonché la gestione delle emergenze, anche attraverso l’impiego di droni da parte della polizia penitenziaria; la realizzazione di ambienti sanitari di degenza e per la medicina d’urgenza che corrispondano a quelli accreditati dal sistema sanitario, in quanto rispondenti agli stessi parametri predefiniti, etc.); la rivisitazione ragionata degli organici di ogni ordine, ruolo e grado, basati su criteri oggettivi e uguali per tutti gli istituti di pena; il rafforzamento e la costituzione dei poli scolastici e universitari all’interno delle carceri, pure prevedendo, ove possibile, l’ingaggio di personale scolastico penitenziario dedicato per le scuole dell’obbligo; una migliore programmazione della formazione professionale per le persone detenute sulla scorta di tavoli permanenti di consultazione in ogni regione e con le categorie imprenditoriali, dell’artigianato, nonché con le Oo.Ss. più rappresentative; la rivisitazione urgente delle norme attuali in materia di lavoro, assolutamente inefficaci e macchinose, per quanto attenga l’assunzione di persone detenute alle dipendenze dell’amministrazione; la rivisitazione del servizio complessivo di preparazione dei pasti da erogare alle persone detenute, rivendendo tutti gli appalti in materia di mantenimento delle persone ristrette, al fine di assicurare vitti dignitosi che tengano davvero conto delle esigenze alimentari della popolazione detenuta ed eliminare ogni opacità; corrispondente e maggiore attenzione anche nei riguardi dei servizi di somministrazione di pasti al personale penitenziario; miglioramento degli alloggi collettivi e di quelli destinati al direttore ed al comandante (spesso le Caserme non sono dissimili, soprattutto in alcuni vecchi istituti, da quelli destinati alle persone detenute ed i funzionari sono costretti a vivere, con le loro famiglie, all’interno di aree penitenziarie); rivisitazione dei modelli di preparazione professionale del personale, incentivando e premiando una formazione permanente ed obbligatoria da parte di tutti gli operatori, in grado di esaltarne gli aspetti professionali peculiari, perché rivolti sia alla sicurezza che al trattamento delle persone detenute, etc. Insomma, c’è da rivedere e ricostruire tutto, ma proprio tutto, sapendo che il personale penitenziario, di fronte ad un serio interessamento politico e della collettività verso la propria mission, saprà certamente offrire il meglio di sé stesso, perché operare bene fa bene a tutti e operare, nel rispetto del diritto, è interesse di tutti, tranne di quelli che, finora, brandeggiano solo ideologie politiche e pseudo-sociologiche, sganciate dal senso comune, hanno favorito il peggioramento del sistema, aggiungendo dolore a patimento, senza offrire sicurezza alla collettività. *Presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste Ferragosto in carcere: cultura, musica e solidarietà di Antonella Barone gnewsonline.it, 12 agosto 2023 Scuole e corsi sospesi, volontari, personale e familiari in ferie. Le vacanze dei cittadini liberi significano normalmente più solitudine per i detenuti. Per contrastare l’ulteriore isolamento che in estate vivono le persone oltre le sbarre in molti istituti si programmano iniziative nel mese di agosto, alcune delle quali divenute eventi ricorrenti. Accade nella casa di reclusione di Volterra, dove dal 2006 si tengono - in ogni stagione, estate compresa - le “Cene galeotte”. Aperte al pubblico, coinvolgono circa 30 detenuti che si occupano dell’accoglienza e della cucina sotto la guida di chef stellati. Due gli eventi gastronomici programmati in agosto. Il primo, il giorno 11, nel Giardino del Maschio della casa di reclusione: Cena Galeotta organizzata da Unicoop Firenze, FISAR di Volterra, Fondazione “Il Cuore si scioglie” e consorzio turistico di Volterra, realtà con le quali la direzione dell’istituto collabora da molti anni. Il 19 agosto saranno invece alcuni detenuti lavoranti esterni a preparare una cena di beneficenza presso l’Area floristica della località California, a Bibbona (LI). Il ricavato sarà devoluto alla Fondazione Meyer a supporto del reparto di Diabetologia dell’Ospedale Pediatrico. Le cene si inseriscono nei percorsi rieducativi professionali rivolti ai detenuti. Circa 50 di loro hanno trovato un impiego in ristoranti e strutture ricettive, a pena terminata o ancora da scontare, grazie ai corsi svolti in collaborazione con l’Istituto Alberghiero di Volterra. Non mancano i comuni che includono le carceri nei luoghi in cui si celebrano feste ferragostane. A Sassari, la danza del Candeliere di San Sebastiano, realizzato dai detenuti dell’istituto “Giovanni Bacchiddu”, è ormai da anni considerata un evento collaterale della Faradda di li candareri (discesa dei candelieri), evento antico e suggestivo, entrato nel 2013 nella lista UNESCO dei beni immateriali patrimonio dell’Umanità. Alla vigilia di Ferragosto una processione danzante di dieci grandi ceri simbolici portati da rappresentanti delle antiche corporazioni di arti e mestieri percorre le vie del centro storico, mentre all’interno del carcere 8 detenuti muovono, secondo antichi passi di danza, il Candeliere di San Sebastiano, simbolo di appartenenza alla comunità cittadina. Da molti anni il cortile e il portone del carcere di Paliano, struttura che occupa parte della Fortezza Colonna del XVI secolo, sono ambienti che fanno da sfondo a uno dei momenti più rappresentativi e attesi del Corteo storico che rievoca il trionfo di Marcantonio Colonna nella battaglia di Lepanto. Il 12 agosto i figuranti, dopo essersi radunati nel cortile dell’istituto penitenziario, escono dal portone per poi sfilare nelle vie cittadine. Nell’ambito della stessa iniziativa, organizzata dall’Associazione Culturale Palio dell’Assunta e Corte Storico della città di Paliano, rientrano anche le visite guidate a Ferragosto agli affreschi della Sala del Capitano, oggi sede di un laboratorio di sartoria frequentato da detenuti. Puntuali come sempre le iniziative della Comunità di Sant’Egidio ad animare i periodi festivi. Nel carcere romano di Rebibbia NC, rituale cocomerata ferragostana con taglio in cucina di centinaia di fette di anguria che saranno distribuite alla popolazione detenuta, assieme a saponi, shampoo e altri prodotti per l’igiene. È nato sotto il segno del dono il concerto svoltosi la sera di San Lorenzo nella casa circondariale di Rimini e organizzato grazie all’amicizia tra la Polizia Penitenziaria cittadina e l’AVIS provinciale di Rimini. Molto partecipata da detenuti e operatori l’esibizione dei “Banditi senza luna”, tribute band a Fabrizio De Andrè, un’artista che il carcere ha narrato in ogni aspetto concreto e simbolico. Sono molti i donatori di sangue tra i poliziotti penitenziari di Rimini e alla comandante di Reparto Aurelia Panzeca si deve l’iniziativa: “Divise e Avis” che vede tutte le forze dell’ordine della provincia di Rimini impegnate nel promuovere la cultura della donazione. La direttrice della casa Circondariale di Rimini, Palma Mercurio, alla fine della serata ha ringraziato tutti gli ospiti, esterni ed interni “per le scintille di speranza portate in questa occasione” e si è resa interprete del messaggio che i detenuti vogliono mandare oltre il muro di cinta: “Ci stiamo impegnando a migliorare ma vorremmo essere accolti quando usciremo”. Il fatidico 6 settembre della separazione delle carriere su cui puntano Meloni e Nordio di Liana Milella La Repubblica, 12 agosto 2023 La sfida ai magistrati con la riforma costituzionale su cui fallì Berlusconi. Il decreto sulle intercettazioni varato per ottenere consensi. Il bello, sulla giustizia, deve ancora arrivare. E ha già un nome, la separazione delle carriere. Una slavina che sta per precipitare sulla magistratura. Con un appuntamento già fissato, il 6 settembre nella commissione Affari costituzionali della Camera, dove la maggioranza è pronta a sferrare l’attacco più duro. Una modifica costituzionale paventata da anni, tentata da Berlusconi che ha fallito, promessa adesso come ultimo step delle sue riforme dal Guardasigilli Carlo Nordio. Riforma strategica perché “allarga” la maggioranza ad Azione e Italia viva, uniti o separati che siano, ma decisi a dare al ministro della Giustizia il pieno appoggio a qualsiasi riforma, a patto che faccia innanzitutto questa. Tant’è che un pasdaran della separazione tra giudici e pm come Enrico Costa di Azione twitta l’appuntamento di settembre annunciandolo già come una resa dei conti. Sarà proprio quell’appuntamento, e non certo le diatribe super tecniche sulle intercettazioni a mettere a dura prova la magistratura. Il problema non sarà quello di misurare il tasso di garantismo del Guardasigilli - che da ex magistrato si adegua alle necessità del day by day del suo nuovo mestiere di politico - ma verificare nei fatti quanto le toghe siano ancora in grado di fare effettivamente fronte comune contro una riforma costituzionale destinata, se davvero dovesse passare, a cambiare la loro storia. Sarà un settembre caldo politicamente per la giustizia più di quanto non lo siano stati i mesi già trascorsi. E proprio l’operazione compiuta da Meloni sulle intercettazioni rivela un’abile regia, sicuramente dovuta al suo sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano che da palazzo Chigi, assai più di Nordio, si muove strategicamente con gli ex colleghi e lavora per dividere l’Anm dando spazio alle toghe di destra di Magistratura indipendente. Le quali, di certo non per caso, non mancano di far sentire la loro voce contraria rispetto ai colleghi di sinistra. Una prova della regia di Mantovano la si vede nell’aver accolto la sollecitazione dei procuratori antimafia, a partire da quelli della Dna di Gianni Melillo, di chiudere, addirittura per decreto, la partita delle intercettazioni possibili per reati commessi col “metodo mafioso”. Quel decreto, che di certo contiene sbavature costituzionali e può anche scatenare guerre con gli avvocati, ha un valore politico, è l’apertura di palazzo Chigi - di Mantovano e Meloni, non di Nordio che ha “eseguito” - a una richiesta dei pm che peserà sul piatto delle future trattative, a partire da quella sull’abuso d’ufficio per giungere, alla fine, alla separazione delle carriere, passando dalle modifiche alla prescrizione. Anche questa una partita in calendario il 6 settembre. Sulla giustizia ci aspetta un autunno più caldo di questa calda estate. “I pm devono imparare a ragionare da giudici. E separarsi dalla stampa” di Simona Musco Il Dubbio, 12 agosto 2023 “La separazione delle carriere? A quale scopo? Quello che serve di più è garantire che il grande potere del pm sia usato in maniera imparziale”. A parlare è Angelo Piraino, segretario di Magistratura indipendente, secondo cui il male maggiore non è la “familiarità” tra giudici e pm, ma quella tra magistrati e stampa. E aggiunge: “Il diritto penale non è la soluzione a tutti i mali”. Segretario, anche lei è tra quelli che fanno riunioni al Csm col proprio gruppo per discutere delle pratiche? È una cosa che non ho mai fatto da quando sono segretario. Anzi, una delle prime cose che ho chiarito con i consiglieri è la separazione tra attività associativa e attività istituzionale. Non ho mai nemmeno chiesto di essere informato su pratiche che riguardano singoli, ma solo su eventuali iniziative che riguardano pratiche di carattere generale, che possono avere un impatto sulle questioni di politica giudiziaria che riteniamo fondamentali. Ed io personalmente evito anche di entrare a Palazzo dei Marescialli, se non ci sono questioni istituzionali che lo richiedano. Ma come giudica questa prassi? Non è di per sé scandaloso che il segretario di un gruppo associativo incontri i consiglieri del proprio gruppo. Il problema, semmai, è di cosa discutono. Il suo gruppo è considerato molto vicino al governo, anche per le molte poltrone occupate da toghe di Mi a via Arenula. Possiamo dare per scontato il vostro appoggio all’esecutivo? Siamo una corrente che si può definire conservatrice, le assonanze con questo governo sono tutte qui. Però la linea di condotta che ci distingue, con governi di qualsiasi colore, è quella di leggere e valutare i provvedimenti normativi in modo oggettivo, tenendo sempre presente che la scelta dei fini di un intervento normativo compete al legislatore. La magistratura può e deve evidenziare le criticità tecniche, senza invadere il campo delle scelte dei valori, che non le compete. Facciamo una prova: cosa ne pensa dell’ultimo decreto del governo sulle intercettazioni? Il testo è stato appena varato e un mio commento, nel merito, rischia di essere affrettato. È una norma che interviene su una questione interpretativa aperta, sulla quale già nella giurisprudenza di Cassazione c’erano dei dubbi. Il governo ha scelto una linea che, tra l’altro, è proprio la stessa affermata in precedenza dalla Cassazione. Ma l’intervento si basa su una sentenza che aveva un orientamento diverso e che aveva fatto preoccupare i suoi colleghi, che hanno chiesto e ottenuto dal governo una norma ad hoc. Non è il contrario di lasciare al governo la scelta degli obiettivi? Il legislatore ascolta i tecnici e poi fa le sue scelte, ma il boccino resta nelle sue mani. Non è certamente la prima volta che accade: nel contenzioso bancario, i vari governi, negli ultimi 20 anni, sono intervenuti più volte con norme di interpretazione autentica, orientando il mercato, ma la cosa è rimasta confinata ai dibattiti tecnici. Capita spesso che il potere legislativo intervenga per vincolare l’interprete ad una certa lettura di una certa norma. Ovviamente bisogna capire se la linea scelta sia coerente con la Costituzione. Questa volta mi pare il margine ci fosse, perché le due letture si erano affermate nella stessa giurisprudenza. E l’utilizzo del decreto? L’urgenza non c’era. Sembra sia un caso di ansia da prestazione del governo di fronte alle richieste della magistratura… Anche questa è una scelta politica. Il ministro Nordio ha detto che le norme penali si fanno anche per mandare dei messaggi. E su questo faccio non uno, ma due passi indietro. A me interessano le ripercussioni sul sistema e questo intervento mette fine a un’incertezza interpretativa. Ma usare la legge come un veicolo per messaggi politici non è sbagliato? Credo che l’affermazione del ministro non vada letta in quel senso. Non si tratta di messaggi diretti a questa o a quella maggioranza, ma alla collettività. La norma è una tensione tra l’essere e il dover essere e con essa il legislatore indica qual è il disegno di società che ha in mente. E questo messaggio si dà innalzando le pene? Anche: se questo governo ritiene che ci siano dei beni che vanno tutelati maggiormente l’innalzamento della pena è funzionale a dimostrarlo. Questo è il cuore della politica. Però dubito che gli scafisti, ad esempio, si facciano intimorire dal reato universale. Oltretutto i fatti dimostrano che gli sbarchi sono triplicati… Lì entriamo nel problema dell’approccio panpenalistico, ovvero il diritto penale come panacea di tutti i mali. Spesso si pensa che la norma penale sia il rimedio più efficace, ma è invece l’estrema risorsa, da usare quando tutti gli altri strumenti non funzionano. Sicuramente è una leva che va utilizzata con grandissima prudenza. Il governo dice di voler fare la separazione delle carriere, alcuni suoi colleghi sembrano anche essere d’accordo. Lei da che parte sta? Il problema sono le garanzie di indipendenza. Perché di fatto con la legge Cartabia la separazione è già molto avanzata. Il punto è cosa si vuole e perché. Mettere una paratia concettuale tra giudice e pm? È impossibile, perché tutti e due sono servitori dello Stato, è una cosa ineliminabile. E come si può realizzare la parità tra le parti? La disparità è strutturale. Da una parte c’è lo Stato, con un pm che dispone della polizia giudiziaria, e dall’altra il privato cittadino. Il problema è semmai dare al privato cittadino gli strumenti per evitare che ci sia un abuso del maggiore potere che nei fatti ha la pubblica accusa. Una riforma del genere non può cambiare la mente del giudice. Ma l’equidistanza come si può raggiungere? È prevista dalla Costituzione... Mi si deve dimostrare, innanzitutto, che il problema esiste. Numeri alla mano non mi risulta che il giudice propenda di più per l’accusa: le assoluzioni sono elevate e talvolta le chiede lo stesso pm. Non abbiamo bisogno di un pm che ragioni come una parte, ma di un pm che ragioni come un giudice. Troverei molto più preoccupante se questo grande potere venisse esercitato da un soggetto che non è imparziale. Come si può realizzare l’imparzialità? Il pm è decisamente più protagonista del giudice nell’arena pubblica... Questo è il virus inoculato dalla separazione delle funzioni. Tempo fa c’era una norma che impediva di fare il pm senza prima svolgere per almeno tre anni le funzioni giudicanti. Proprio perché prima di indagare bisogna imparare a giudicare. Quello, secondo me, era un buon percorso, piantava un buon seme culturale. Un altro nodo è quello di interrompere il cordone ombelicale che a volte c’è tra stampa e pm. E da questo punto di vista l’aver accentrato la comunicazione sul procuratore capo e aver messo dei paletti su come comunicare l’attività giudiziaria alla stampa è un primo modo per affrontare il problema. Una cosa che mi dispiace moltissimo è che le indagini fanno notizia, le sentenze molto meno. Capisco che il sistema è lento, ma bisognerebbe parlare più dei processi e meno delle indagini. Prescrizione di ritorno: un’amnistia mascherata di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2023 Con il testo unificato di tre disegni di legge (C. 745; C. 893; C. 1036) la Camera dei deputati si accinge a modificare per l’ennesima volta la prescrizione. Essa estingue il reato per il passaggio di un certo tempo dalla sua commissione. Con tale testo si ritorna a far decorrere la prescrizione nel corso del processo (con la riforma Bonafede era stata esclusa tale decorrenza dopo la sentenza di primo grado) e si ripristina una trovata a dir poco stravagante, quella di far decorrere la prescrizione nel reato continuato per ogni singolo reato ricompreso nella continuazione. Secondo l’articolo 81 del codice penale, quando più reati sono commessi in esecuzione di un unico disegno criminoso, la pena per il reato più grave è aumentata fino al triplo, fermo restando il divieto di superare la somma aritmetica delle pene per i singoli reati. Nella prassi la continuazione è applicata in modo molto benevolo, con aumenti minimi per i reati unificati nella continuazione. La stravaganza consiste nel fatto che, ove il disegno di legge fosse approvato, la prescrizione decorrerebbe per i reati già commessi mentre è ancora in programma la commissione degli ulteriori reati progettati. Peraltro, la prescrizione è uno dei principali ostacoli alla ragionevole durata del processo. In questo Paese senza memoria è sempre necessario ricordare le puntate precedenti per capire per quale ragione l’idea di far nuovamente decorrere la prescrizione durante il processo è sbagliata. Nel 1988 fu approvato il codice di procedura penale entrato in vigore nel 1989. La caratteristica principale di tale codice era la regola che imponeva, in linea di principio, che le prove si dovevano formare in dibattimento, salvo eccezioni. In precedenza, le prove venivano raccolte nella istruzione del processo e se ne dava lettura in dibattimento. Il nuovo codice si fondava anche sul principio di oralità, tipico del sistema di common law, in quanto le giurie in passato erano largamente composte da analfabeti e quindi non potevano leggere atti scritti. L’oralità segna il ritorno al neolitico, dal momento che la scrittura fu inventata per fissare il ricordo degli uomini. Con l’attuale codice di procedura penale il giudice non ha la minima idea di che cosa c’è negli atti e quindi è anche difficile prevedere la durata dei processi con difficoltà di predisporre i calendari delle udienze. Ovviamente era facile prevedere un forte allungamento della durata dei processi, ma i fautori di quel codice sostenevano che, mentre nel precedente rito processuale c’era pressoché un unico rito, nel nuovo erano previsti procedimenti volti a ridurre la percentuale del più lungo rito ordinario. Tali procedimenti erano il giudizio abbreviato e l’applicazione di pena su richiesta delle parti (il cosiddetto patteggiamento) per i quali era prevista la riduzione della pena di un terzo (per il giudizio abbreviato) o fino a un terzo (per il patteggiamento). Si citava l’esempio degli Stati Uniti dove erano pochissimi i procedimenti con il rito ordinario (giuria e formazione della prova in dibattimento) e la maggior parte dei giudizi erano sostituiti dal patteggiamento e da processi senza giuria. Peraltro, negli Stati Uniti il 90% degli imputati si dichiara colpevole; in Italia non è neppure richiesta una dichiarazione di colpevolezza o non colpevolezza. I sostenitori del nuovo codice ipotizzavano che non più del 30% dei giudizi sarebbero stati trattati con il rito ordinario. L’obiezione era che, in Italia, nei cinquant’anni precedenti vi erano stati 35 provvedimenti di amnistia (che estingue il reato) e di indulto (che estingue la pena), eccezionali invece negli Stati Uniti. In questa situazione chi avrebbe patteggiato? Se bastava aspettare un anno e mezzo di media per avere un’amnistia o un indulto era evidente che nessuna pena era meglio di una pena ridotta. Per ovviare a ciò fu cambiata la Costituzione prevedendo una maggioranza elevata per approvare provvedimenti di amnistia e indulto che in effetti si ridussero. Tuttavia, anche grazie alla riduzione dei tempi per la prescrizione operata con la legge ex Cirielli (l’originario proponente che poi la disconobbe), la prescrizione ha preso il posto dell’amnistia e dell’indulto come disincentivo ai riti alternativi. Perché patteggiare se si può ottenere la prescrizione? Per inciso negli Stati Uniti la prescrizione di norma non decorre nel corso del processo. Infatti, la percentuale dei riti alternativi è rimasta sempre ridicolmente bassa e si è allungata moltissimo la durata dei procedimenti penali, con conseguenti condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei Diritti dell’uomo per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo. Condizione essenziale del funzionamento di un processo come quello vigente è che vi siano un numero ridotto di dibattimenti ordinari o comunque in cui le parti consentano all’acquisizione di atti delle indagini preliminari e ciò richiede di ridurre al minimo le scappatoie, conseguenti al decorrere del tempo. In compenso il disegno di legge abolisce l’improcedibilità nei giudizi di impugnazione quando si superino i termini indicati dalla legge (ulteriore stravaganza dal momento che ciò è un ulteriore incentivo a impugnare e far durare di più i processi di appello nella speranza dell’improcedibilità). Ovviamente la improcedibilità sarà sostituita dalla prescrizione. Chi ha simili idee o non sa quello che fa oppure intende sostituire la giustizia con la impunità. Bisognerà pur ricordare al mondo politico che esistono anche le vittime, le quali sono più numerosi dei delinquenti e che, fra l’altro, votano anche loro. Gian Luigi Gatta: “La giustizia sarà più lenta, vittime di nuovo ignorate” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2023 La prescrizione non è un bene, ma una patologia dal processo: all’estero non ci capiscono. Professor Gian Luigi Gatta, docente di Diritto penale all’Università di Milano, a proposito della prescrizione, in commissione Giustizia della Camera lei ha detto che abolire la legge Bonafede, che blocca la prescrizione in primo grado, sarebbe un “favore per le difese degli imputati, ma per nulla per le vittime e per le parti civili”. In pochi pensano alle vittime. Va controcorrente? Reintrodurre la prescrizione in appello e in Cassazione - perché è di questo che si parla - sarebbe una soluzione favorevole per le difese degli imputati - che avrebbero una possibile via d’uscita dal processo penale e, se colpevoli, una via di fuga dalla sanzione - ma non lo sarebbe per nulla per le vittime e per le parti civili, che pure hanno dei difensori, per quanto non altrettanto presenti nel dibattito pubblico. Le vittime continuano a essere ignorate, a me pare, nel dibattito sulla prescrizione del reato. Diciamolo chiaramente: la prescrizione non è un bene, non è normale, è una patologia del processo, la cui funzione naturale è l’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità. La prescrizione, come l’improcedibilità introdotta dalla riforma Cartabia, devono essere eventi eccezionali: la fisiologia del processo è la sua ragionevole durata, che impedisce sia la prescrizione sia l’improcedibilità. A beneficio di tutti: imputati e vittime. La vera sfida di cui la politica dovrebbe farsi carico, anche in vista degli obiettivi del Pnrr, è quella di un processo di ragionevole durata. Il progetto del centro-destra più Azione e Italia Viva è quello di tornare alla legge Orlando: se in primo grado si è condannati, la prescrizione si blocca per 18 mesi in appello e altri 18 in Cassazione. Poi la prescrizione riprende a scorrere. Se si è assolti la prescrizione non si sospende mai. Potrebbe essere un compromesso tra chi vorrebbe stoppare la prescrizione e chi invece la vuole? Non sarebbe affatto un buon compromesso. Un meccanismo che sospende la prescrizione automaticamente in appello e in Cassazione - dando complessivamente ai giudici tre anni in più per decidere - induce ad allungare i tempi del processo proprio quando l’obiettivo concordato con l’Europa è di ridurli del 25% entro il 2026. Sarebbe paradossale! Come lo spiegherebbe il Ministro Nordio alla Commissione Europea? La legge Bonafede bloccava la prescrizione dopo il primo grado, ma con il governo Draghi, la ministra Marta Cartabia, di cui lei è stato consigliere, ha lasciato quella norma per il primo grado e ha introdotto l’improcedibilità in appello e in Cassazione (rispettivamente, in linea generale, dopo 2 anni e dopo 1 anno). Lei ha avuto un pensiero per le vittime, esprimendosi contro la soppressione della Bonafede, ma anche con l’improcedibilità le vittime sono destinate quasi tutte a non avere giustizia… Il nostro processo è malato di lentezza patologica e l’improcedibilità è una terapia d’urto per costringere il sistema a reagire. La prescrizione decorre dal momento in cui il reato è stato commesso ed è come un cerino che passa di mano in mano, da un giudice all’altro. È colpa di tutti e di nessuno. L’improcedibilità decorre invece da quando inizia il giudizio di appello o di cassazione e responsabilizza i giudici di quei gradi di giudizio perché è un cerino che brucia tutto nelle loro mani. Il sistema oggi è orientato a evitare l’improcedibilità, a beneficio di tutti, anche delle vittime. La prescrizione in quasi tutti i Paesi è bloccata, perché in Italia non è possibile? Non le sembra una battaglia per l’impunità di colletti bianchi e politici? I miei colleghi stranieri letteralmente non capiscono perché in Italia si parli tanto di prescrizione: all’estero la prescrizione a processo in corso per lo più non esiste e comunque non è un problema ma una assoluta rarità. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia, in alcune occasioni, semplicemente perché ha detto che “il re è nudo”: quando il reato si prescrive non si accertano i fatti, le violazioni dei diritti, le offese e le responsabilità. Se il processo ha una durata ragionevole, come deve avere, la prescrizione e l’improcedibilità cessano di essere un problema e diventano rarità. È chiaro che un sistema inefficiente, a prescrizione diffusa, e che garantisce l’impunità, è interesse di chi viola le regole, non di chi subisce la violazione. Intercettazioni, privacy rafforzata con meno server di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2023 Dl giustizia. Stanziati 150 milioni in tre anni per favorire il passaggio dalle 140 strutture attuali in ogni singola procura a quattro, garantendo riservatezza e segreto investigativo. Da 140 a quattro. Il decreto legge in vigore da ieri, il n. 105 del 2023, interviene in maniera assai significativa sulle intercettazioni. E lo fa sia estendendo l’area delle intercettazioni per mafia a quei reati che di mafioso hanno il metodo più che la contestazione del vincolo associativo e per rivedere drasticamente l’infrastruttura tecnologica che sorregge le operazioni di ascolto. Un intervento necessario assicurare maggiore incisività e uniforme applicazione degli standard di sicurezza e protezione che devono assistere l’archiviazione dei risultati delle intercettazioni. A sollecitare le misure è da tempo la stessa Direzione nazionale antimafia, ha sottolineato il ministro della Giustizia Carlo Nordio. E il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, durante una recente audizione in Parlamento, aveva espresso note di preoccupazione perché “è del tutto evidente, infatti, che 1.4o sale server, per di più gestite secondo modelli differenziati, offrivano e tuttora offrono garanzie solo apparenti ai temi della sicurezza, essendo costituite da macchine e algoritmi gestiti da privati, la conoscenza e l’uso dei quali avviene soltanto attraverso la mediazione dell’impresa privata”. Un intervento magari di scarso appeal e tuttavia cruciale per il rispetto delle esigenze di privacy che, nel caso, vanno a braccetto con quelle della segretezza delle investigazioni: “il consolidamento delle infrastrutture - ricordava il Procuratore antimafia - è un passaggio essenziale e una scelta non più eludibile o rinviabile, sulla quale da tempo convergono le sensibilità maturate fra le procure distrettuali. Da questo passaggio, apparentemente pratico, dipende invece l’equilibrio complessivo del sistema e nessuna scelta normativa, anche oggi, potrebbe vantare credibilità prescindendo dalla sua realizzazione”. Lo stesso archivio delle intercettazioni inutilizzabili o irrilevanti, tra i punti principali della riforma Orlando in vigore dal settembre 2020, pur efficace, presenta “criticità: di capienza, per insufficienza delle architetture di storage, di sicurezza, per la perdurante assenza di sistemi di monitoraggio degli accessi, delle operazioni e degli interventi sui server delle imprese fornitrici dei servizi”. Ora il decreto legge declina una marcia di avvicinamento alla istituzione di infrastrutture digitali (Nordio ha affermato che saranno quattro) trasversali ai vari distretti giudiziari al posto dei singoli archivi digitali collocati presso ogni singola Procura. Un decreto del ministero della Giustizia da emanare entro il i° marzo 2024 dovrà individuare le sedi, mentre un altro provvedimento, da adottare entro i primi giorni di ottobre dovrà identificare i requisiti tecnico informatici delle nuove strutture e entro l’inizio di novembre le caratteristiche tecniche per la gestione dei dati e la disciplina sul collegamento telematico in modo tale da assicurare autenticità, integrità e riservatezza dei dati. Da un punto di vista gestionale si procederà alla migrazione dei dati conservati dalle singole procure sotto il coordinamento del ministero della Giustizia. Restano comunque in carico al Ministero stesso le attività di allestimento e manutenzione delle infrastrutture digitali di cui sopra, segnalando comunque l’impossibilità di accesso ai dati coperti da segreto istruttorio. Ma la data chiave è quella del 28 febbraio 2025, perché tutte le intercettazioni effettuate nei procedimenti iscritti da quel momento dovranno essere effettuate attraverso le neocostituite infrastrutture digitali. Un cambiamento importante che, ha più volte tenuto a rassicurare Nordio, non cambia la considerazione delle singole Procure come luoghi di ascolto e i compiti di direzione, organizzazione e sorveglianza sulle attività di intercettazione da parte dei procuratori. Torino. Si lascia morire di fame e di sete in carcere: era dietro le sbarre da 20 giorni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 agosto 2023 Susan John, nigeriana di 42 anni, condannata a 10 anni per tratta di persone, era stata trasferita da Catania alle Vallette di Torino per essere più vicina al marito e ai loro due figli piccoli. Ennesima morte a causa del rifiuto di cibo e acqua nelle carceri italiane. Questa volta, una donna nigeriana è la protagonista di questa tragica vicenda all’interno del carcere delle Vallette a Torino. Il suo nome era Susan John, aveva 42 anni ed era stata condannata a una pena detentiva di 10 anni per il reato di tratta di persone. Era entrata in carcere appena 20 giorni fa, trasferita da Catania a Torino per poter essere più vicina al marito, un operaio nigeriano, e ai loro due figli piccoli. Al momento, le ragioni che l’hanno spinta a prendere la drastica decisione di smettere completamente di nutrirsi e idratarsi rimangono oscure. Quello che è certo è che la detenuta ha rifiutato ogni forma di nutrizione e idratazione, mantenendo una ferma determinazione nonostante il rapido deterioramento delle sue condizioni di salute. Sorge spontanea la domanda se sia stata fornita un’adeguata assistenza medica durante questo periodo. La notizia della sua improvvisa morte ha colpito come un fulmine a ciel sereno sia il marito che gli avvocati che la difendevano. Ci si interroga sul fatto che, nonostante il peggioramento delle sue condizioni, sia stato chiamato il servizio di emergenza medica. Inoltre, emerge la questione se sia stata considerata l’opzione di un Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO). È evidente che la donna detenuta ha mantenuto la sua determinazione fino alla tragica conclusione. Ciò che ha ulteriormente complicato la situazione è il suo categorico rifiuto anche di idratarsi. In risposta a questo tragico episodio, il procuratore Delia Boschetto ha aperto un fascicolo e ha già disposto l’autopsia, che è prevista per lunedì. Solo attraverso gli esami medici si potrà sperare di ottenere chiarezza su cosa sia accaduto e come sia stato possibile il decesso improvviso della donna di 42 anni. È necessario valutare anche se il personale medico abbia rispettato i protocolli stabiliti per situazioni di questo genere. La vicenda di questa donna nigeriana richiama inevitabilmente alla mente altri casi simili avvenuti in passato. Lo scorso maggio, due detenuti sono deceduti nel giro di un mese a seguito di uno sciopero della fame. Queste azioni di protesta erano rimaste sconosciute all’esterno, avvenendo in totale silenzio all’interno delle mura del carcere di Augusta, nel siracusano. A differenza di Alfredo Cospito, che grazie all’attivismo degli avvocati è riuscito a far conoscere la sua lotta contro il regime del 41 bis, la notizia della morte dei due detenuti è giunta solo dopo la loro ultima esalazione. Così è stato anche nel caso di Susan John nel carcere delle Vallette di Torino: venti giorni di indifferenza e mancanza di comunicazione con l’esterno, fino alla macabra scoperta della sua morte. Torino. Detenuta si lascia morire di fame. La Garante: “Nessuno ci ha informato” di Massimo Massenzio Corriere della Sera, 12 agosto 2023 Aveva 43 anni. Da tre settimane rifiutava cibo e acqua. Era monitorata dai medici del carcere, ma avrebbe respinto qualsiasi tipo di terapia. Ilaria Cucchi: “Tragedia che non può essere tollerata in un Paese che si professa civile”. Una detenuta si è lasciata morire, la scorsa notte, nella sezione femminile del carcere di Torino: rifiutava cibo e acqua fin dallo scorso 22 luglio, giorno del suo arrivo in carcere dalla Sicilia, dove era avvenuto il suo processo. Garante: nessuno ci ha informato - “Sono rammaricata, ma dal carcere non ci sono mai giunte segnalazioni relative al caso di questa persona”. È quanto afferma Monica Cristina Gallo, garante comunale per i diritti dei detenuti a Torino. “I nostri contatti sono regolari - afferma - eppure nessuno ci aveva informato. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Però, almeno, avremmo potuto attivare le nostre procedure e tentare qualcosa”. “Provo rammarico - conclude Gallo - perché le informazioni, in chiave preventiva, andrebbero scambiate. Credo che sia il minimo. Si tratta di salvare delle vite”. Detenuta suicida, seconda morte in poche ore - E una seconda donna si è tolta la vita a distanza di poche ore, si è impiccata nella sua cella con un cappio artigianale. Cucchi: “Si faccia chiarezza” - Sulla vicenda è intervenuta anche la senatrice Ilaria Cucchi: “Questa è una tragedia che non può essere tollerata in un Paese che si professa civile e democratico. Una morte di cui comunque è responsabile lo Stato che aveva in custodia la vita della vittima. Non capisco cosa c’entrano in questo i sindacati degli agenti. Chiedo venga fatta chiarezza anche per questo”. Chi era - La donna, di origini nigeriane, Susan John, 43enne, era madre di due bambini e residente a Torino. Stava scontando una pena per cui era previsto il termine nell’ottobre 2030. A comunicare la notizia è il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe, secondo il quale a nulla sono servite le sollecitazioni ad alimentarsi da parte dei medici e del personale. Il sindacato - Il decesso intorno alle 3, nell’articolazione di salute mentale in cui era ristretta la detenuta, la morte è stata accertata dal personale medico e paramedico del 118, immediatamente chiamato dagli agenti. La donna si era sempre dichiarata innocente e si era da subito rifiutata di assumere alimenti pur non dichiarandosi ufficialmente, come avviene in questi casi, in “sciopero della fame”. “Rifiutava ogni cura e sollecitazione a mangiare e persino i ricoveri in ospedale”, ha spiegato il Segretario del Sappe Piemonte Vicente Santilli. Era monitorata dai medici del carcere, ma avrebbe respinto qualsiasi tipo di terapia e, nei giorni scorsi, si sarebbe opposta anche al ricovero d’urgenza quando le sue condizioni sono peggiorate. “Il pur tempestivo intervento dei nostri Agenti di Polizia Penitenziaria di servizio non ha purtroppo impedito la morte della detenuta”. “Quello del malfunzionamento del carcere in Italia si appresta a diventare l’esempio più eclatante delle molteplici contraddizioni, a discapito dei più deboli, che contraddistinguono la pubblica amministrazione. Mentre una detenuta nigeriana sarebbe morta di fame e di sete nel Carcere di Torino, risultano in piena ripresa le inchieste a vari livelli sulla qualità delle mense e gli appalti per i generi alimentari somministrati negli istituti penitenziari ai ristretti e al personale”. Lo dichiara Leo Beneduci, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp. “In tale marasma - dice ancora Beneduci - l’assenza più inaccettabile è quella dell’amministrazione penitenziaria. In ragione dell’evidente disastro chiediamo a gran voce alla maggioranza di governo il commissariamento delle carceri e l’avvicendamento degli attuali vertici”. La lettera delle detenute - Il 30 giugno scorso le detenute torinesi avevano scritto una lettera per denunciare l’ennesimo suicidio e denunciare le condizioni di vita negli istituti penitenziari della città. La lunga emergenza carceri a Torino - “In Piemonte - osserva ancora Santilli - vi sono 13 istituti penitenziari sui 189 nazionali. La capienza regolamentare regionale stabilita per decreto dal ministero della Giustizia sarebbe di 3.999 reclusi, ma l’ultimo censimento ufficiale, al 31 luglio 2023, ne ha contati 4.036. È una delle regioni d’Italia con il maggior numero di detenuti. Le donne sono 160, gli stranieri circa 1.600” Per Donato Capece, segretario generale del Sappe, “la situazione sanitaria nelle carceri resta allarmante. “Anche la consistente presenza di detenuti con problemi psichiatrici è causa da tempo di gravi criticità per quanto attiene l’ordine e la sicurezza. Da decenni chiediamo l’espulsione dei detenuti stranieri, un terzo degli attuali presenti in Italia, per farli scontare le pene nelle carceri dei loro Paesi; chiediamo inoltre di prevedere la riapertura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Ma servono anche più tecnologia e più investimenti”. Torino. Susan e Azzurra lasciate morire in carcere: “Pagano sempre i più deboli” di Irene Famà La Stampa, 12 agosto 2023 Le storie di una donna che non mangiava perché voleva vedere il figlio e di un’altra giovane che ha deciso di impiccarsi nella propria cella. La protesta disperata di chi è invisibile anche in carcere si conclude con la morte. Una sconfitta, la più tragica. Susan John, 43 anni, origine nigeriana, ha rifiutato cibo e acqua per tre settimane. È morta l’altra notte nella sua cella del carcere di Torino. Azzurra Campari, 28 anni, si è impiccata poche ore dopo. Sempre al Lorusso e Cutugno. Azzurra era stata trasferita a Torino da Ponte Decimo di Genova il 29 luglio. Alle spalle qualche furtarello, una pena sino al 2024. Ragazza fragile, complessa, il suicidio l’aveva già tentato altre volte. Richiedeva assistenza e tanta cura. “Una giovane con un grande disagio e una vita complicata, ma con un grande cuore”, come la descrive la sua avvocata Marzia Ballestra del foro di Imperia. Susan era stata arrestata il 21 luglio, dopo un lungo periodo trascorso ai domiciliari. Doveva scontare una condanna di dieci anni e sei mesi inflitta da una corte di Catania per reati di tratta e immigrazione clandestina. Per i giudici costringeva giovani donne nigeriane alla prostituzione. Ha rifiutato per 18 giorni cibo, acqua, medicine, supporto psicologico. Tutto. Compreso il ricovero d’urgenza chiesto dai sanitari nei giorni scorsi, quando le sue condizioni si sono aggravate. Non stava sostenendo uno sciopero della fame. La sua non era una protesta contro il regime carcerario, come quella portata avanti dall’anarchico Alfredo Cospito. Susan si è lasciata andare giorno dopo giorno. Per disperazione. “Voleva tornare in Nigeria”, come raccontava ieri il compagno agli amici. Voleva vedere il suo bimbo di quattro anni. “Sembra che si sia verificato un crollo psicofisico cui non è stata prestata sufficiente attenzione. Per questo sono perplesso. E arrabbiato. Vedremo gli sviluppi”, dice l’avvocato Manuel Perga che insieme al legale Wilmer Perga ha seguito la vicenda processuale di Susan. No, il suo non è stato uno “sciopero della fame” annunciato con comunicati roboanti, di quelli che fanno scattare il protocollo di monitoraggio costante. Giorno dopo giorno ha rifiutato il carrello con il cibo. E l’acqua. Nel silenzio della sua disperazione. Alla garante dei diritti dei detenuti a Torino, Monica Chiara Gallo, il caso non è mai stato segnalato. “Una grave dimenticanza - sottolinea -. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Però, almeno, avremmo potuto attivare le nostre procedure e tentare qualcosa”. A stabilire le cause della morte sarà l’autopsia, che la procura di Torino, dove è stato aperto un fascicolo al momento senza indagati né ipotesi di reato, intende disporre lunedì. Il caso indigna la politica. “Serve chiarezza sulle condizioni che hanno portato a queste tragedie e serve subito. È inaccettabile morire quando la propria vita è nelle mani dello Stato”, interviene la deputata Chiara Appendino, ex sindaca di Torino. I radicali, con Igor Boni, parlano di “punta dell’iceberg di un sistema putrefatto”, mentre Riccardo Magi, segretario di Più Europa, parla di “vicenda allucinante” e annuncia un’interrogazione al ministro Nordio. “Questa - dice la senatrice Ilaria Cucchi - è una tragedia che non può essere tollerata in un Paese che si professa civile e democratico”. Centodieci le detenute recluse al Lorusso e Cutugno su ottanta posti. A Torino, come altrove, gli istituti di pena continuano ad essere sovraffollati. Quello di Susan è il 42esimo suicidio del 2023 nelle carceri italiane, quello di Azzurra il 43esimo. Il 16esimo solo tra giugno e agosto. Sovraffollamento e, in estate il caldo, spiega l’associazione Antigone, rendono ancora più drammatica la situazione e ricordano come nelle carceri italiane siano detenute 10mila persone in più dei posti disponibili. E i sindacati della polizia penitenziaria non nascondono preoccupazione. Leo Beneduci dell’Osapp parla di “contraddizioni a discapito dei più deboli” e Vincente Santilli del Sappe afferma che queste due tragedie “impongono al ministro della Giustizia un netto cambio di passo sulle politiche penitenziarie del Paese”. Torino. La Garante: “Donne penalizzate nel carcere” di Irene Famà La Stampa, 12 agosto 2023 La denuncia di Monica Gallo: “Per le detenute donne meno servizi che per gli uomini. Non c’è un vero presidio medico, tutto ciò che riguarda l’assistenza è residuale”. Centodieci detenute su ottanta posti. Quattro dell’articolazione tutela salute mentale, ovvero le donne più fragili psicologicamente e con problemi comportamentali. Da monitorare in maniera costante. Ecco la sezione femminile del carcere di Torino. Ieri, due donne si sono tolte la vita. Susan John, 43 anni, di origine nigeriana, si è lasciata morire di fame e di sete. Azzurra Campari, 28 anni, trasferita da Genova, dal penitenziario di Ponte Decimo, si è impiccata. “Queste due tragedie sono il segnale evidente che occorrono interventi mirati e urgenti perché la situazione è disperata”, interviene Gianna Pentenero, l’assessora ai rapporti con il sistema carcerario della Città. Le storie di queste due donne, diverse tra loro, certo, “ma accomunate dalla disperazione, impongono che le carenze di operatori e di adeguati supporti sanitari a sostegno delle fragilità vengano risolti il prima possibile”. Quello di Torino è un carcere per uomini. Lo sottolinea bene Monica Gallo, garante comunale per i diritti dei detenuti. “Tutto ciò che riguarda l’attenzione e l’assistenza alle donne è residuale”. È questione di numeri: gli uomini sono di più, oltre 1.400, e tutto è proporzionale. Le proposte, l’assistenza. Compresa l’area di tutela della salute mentale. “Sono semplicemente quattro celle ad osservazione gestite con telecamere di videosorveglianza dalla polizia penitenziaria - spiega Monica Gallo - Non è un presidio medico. Ci sono soltanto passaggi sporadici dello psichiatra”. Mancano i medici, i mediatori per i colloqui. Lo denunciano le associazioni, i sindacati di polizia, la politica. Solo l’altro giorno il sindacato Osapp aveva scritto una lettera alle istituzioni. “Arrivano continue disposizioni di sorveglianza a vista dei detenuti e delle detenute per motivi sanitari - era scritto - Gli agenti della polizia penitenziaria non possono fare da bodyguard h24. La sorveglianza sanitaria è e dev’essere affidata alle figure professionali dell’Asl competente”. Due suicidi che interrogano tutti. “Chi doveva occuparsi di Susan John e non l’ha fatto?”, si chiede l’onorevole Daniela Ruffino. “Era stata trasferita nel settore riservato ai detenuti con problemi psichiatrici. A maggior ragione ricorrevano le circostanze per una tempestiva richiesta di ricovero da parte di chi ne ha il potere”. Aspetti, questi, al vaglio degli inquirenti. Lunedì verrà disposta l’autopsia e la procura ha aperto un fascicolo. Al momento senza indagati né ipotesi di reato. Susan John era in cella dal 21 luglio dopo un lungo periodo agli arresti domiciliari: difesa dagli avvocati Manuel e Wilmer Perga, doveva scontare una condanna, con fine pena nel 2030, per reati di tratta e immigrazione clandestina. Ha rifiutato per diciotto giorni il cibo, l’acqua, le medicine, tutto. “Sapeva che l’avrebbero arrestata - diceva ieri il compagno di Susan agli amici che l’hanno accompagnato allo studio legale - In cella non voleva finirci. Quando l’hanno portata via diceva che voleva tornare a casa sua, in Nigeria”. Torino. Detenuta si è lasciata morire per disperazione. Ilaria Cucchi: “Si faccia chiarezza” di Carlotta Rocci La Repubblica, 12 agosto 2023 Una detenuta si è lasciata morire di fame in carcere a Torino. La donna è morta nella notte nella sezione del penitenziario dove era detenuta e dove era tenuta sotto osservazione dai medici. Il suo caso aveva sollevato grande preoccupazione in carcere ma la donna dal 22 luglio - da quando era entrata in carcere - aveva rifiutato acqua e cibo, non acconsentendo a nessuna terapia. Di recente era stato chiamato il 118 per un ricovero d’urgenza ma la donna aveva rifiutato anche quello. Sono in corso gli accertamenti anche sulle ragioni della scelta da cui nessuno era riuscita a distoglierla. Susan John, questo il suo nome, aveva da poco ricevuto una condanna a oltre dieci anni di carcere per tratta e aveva un figlio piccolo che aveva dovuto lasciare a casa con il marito. Come era già accaduto per Alfredo Cospito nei giorni della sua protesta, non è stato possibile sottoporla forzatamente a qualche terapia dal momento che la sua scelta è sempre stata espressa con estrema lucidità. Il fatto che la donna rifiutasse anche l’acqua ha accelerato il processo che l’ha portata alla morte. Il pubblico ministero titolare del fascicolo Delia Boschetto ha disposto che sia fatta l’autopsia e forse sarà eseguita già oggi. La donna si professava innocente, avrebbe finto di scontare la sua pena nell’ottobre 2030 anche se non aveva mai annunciato uno sciopero della fame rivendicando qualche richiesta, da quando era entrata in carcere si era rifiutata di mangiare, bere e sottoporsi a valutazioni mediche. Era rinchiusa nella sezione dedicata ai malati psichiatrici. La sera prima della morte aveva rifiutato il trasferimento. Gli agenti di polizia penitenziaria l’hanno trovata intorno alle 3 di notte in cella, accanto a lei aveva lasciato un biglietto: “Se mi succede qualcosa chiamate il mio avvocato”. Sul caso è intervenuta anche la garante cittadina dei detenuti Monica Gallo. “Sono rammaricata, ma dal carcere non ci sono mai giunte segnalazioni relative al caso di questa persona. I nostri contatti sono regolari - afferma - eppure nessuno ci aveva informato. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Però, almeno, avremmo potuto attivare le nostre procedure e tentare qualcosa”. Provo rammarico - conclude Gallo - perché le informazioni, in chiave preventiva, andrebbero scambiate. Credo che sia il minimo. Si tratta di salvare delle vite”. Anche la sorella di Stefano Cucchi, la senatrice Ilaria Cucchi ha commentato: “ Questa è una tragedia che non può essere tollerata in un Paese che si professa civile e democratico. Una morte di cui comunque è responsabile lo Stato che aveva in custodia la vita della vittima. Non capisco cosa c’entrano in questo i sindacati degli agenti. Chiedo venga fatta chiarezza anche per questo”. “Inutile cercare singoli responsabili in quel che sta accadendo da tempo nelle carceri italiane. È l’intero sistema che è corrotto, nel senso di guasto per putrefazione, decomposto. Un sistema che porta dietro le sbarre soprattutto persone con problemi psichiatrici, poveri allo stremo, immigrati senza fissa dimora, tossicodipendenti di varie sostanze, per un terzo del totale detenuti in attesa di giudizio definitivo”: afferma Igor Boni, presidente dei Radicali italiani, in merito al caso della detenuta morta a Torino nel carcere delle Vallette dopo avere rifiutato cibo e assistenza medica. Sull’accaduto si son espressi anche i sindacati di polizia. “Quello del malfunzionamento del carcere in Italia si appresta a diventare l’esempio più eclatante delle contraddizioni, a discapito dei più deboli, che contraddistinguono la pubblica amministrazione”, commenta Leo Beneduci, segretario generale Osapp. “Il pur tempestivo intervento dei nostri agenti non ha impedito la morte della detenuta”, aggiunge il Sappe. Torino. Il martirio di Susan: tre settimane per lasciarsi morire. “Poteva essere salvata” di Carlotta Rocci La Repubblica, 12 agosto 2023 Susan e Azzurra potevano essere salvate? È la domanda che si fanno in queste ore i magistrati che indagano sulla morte delle due detenute, ma anche la garante, le associazioni che lavorano con il carcere e i sindacati di polizia penitenziaria che da tempo denunciano una situazione complicata con una sezione femminile sovraffollata con percentuali anche peggiori della sezione maschile. Oggi si contano circa 110 detenute, la capienza è di ottanta. Susan John si è lasciata morire di fame digiunando per 20 giorni nella sua cella del repartino psichiatrico della sezione femminile del Lorusso e Cutugno. Si poteva costringerla a mangiare o almeno ad assumere liquidi e integratori per salvarle la vita? È lo stesso quesito che aveva creato dibattito all’interno del Comitato nazionale di Bioetica, interpellato il 6 febbraio scorso dal ministero della Giustizia, chiamato a decidere sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame per oltre 100 giorni. Due delle delle tre posizioni emerse tra gli esperti difendeva “il diritto inviolabile di vivere tutte le fasi della propria esistenza senza subire trattamenti sanitari contro la propria volontà e questo vale anche se la persona ha intrapreso lo sciopero della fame”, si leggeva nel documento. È uno di punti su cui ora dovranno fare chiarezza i magistrati che indagano sulla morte della donna nigeriana: la battaglia politica di Cospito contro il 41bis era chiaro a tutti, ma se Susan stava protestando per qualcosa non lo aveva confidato a nessuno, né al marito, né ai legali. Susan appariva lucida ma ha rifiutato ogni colloquio psichiatrico e psicologico. Le indagini partiranno dalle relazioni del carcere per stabilire se la sua sia stata davvero una scelta consapevole anche se contraria a ogni parere medico. Sulla morte di Susan è intervenuta la senatrice Ilaria Cucchi, sorella di Stefano: “Una morte di cui comunque è responsabile lo stato che aveva in custodia la vita della vittima”, dice. Susan e Azzurra morte lo stesso giorno, Graziana Orlarey suicida nello stesso carcere il 28 giugno. Tre donne in meno di due mesi. “È chiaro che siamo di fronte a un’emergenza - commenta Monica Gallo, garante cittadina dei detenuti - È chiaro che ci sono aspetti sanitari che vanno rivisti. Le detenute in osservazione psichiatrica sono guardate solo dagli agenti perché manca un presidio sanitario 24 ore su 24 dedicato alle donne”. Un tema questo che l’Osapp aveva sollevato giorni fa quando aveva denunciato il fatto che agli agenti veniva affidata la sorveglianza dei detenuti psichiatrici. “Il carcere di Torno ha assunto le sembianze di un girone dantesco”, dice il segretario generale Leo Beneduci. “Negli ultimi 20 anni la polizia penitenziaria ha sventato oltre 24mila tentati suicidi, gli istituti devono preservare la salute e la sicurezza dei detenuti”, spiega Donato Capece del Sappe. “Occorrono interventi mirati e urgenti perché la situazione è disperata”, commenta l’assessora comunale Gianna Pentenero. La garante solleva anche un altro tema: “Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha sollecitato che nel caso dei fragili venga attivata tutta la rete, garanti compresi eppure nessuno ci aveva informato del caso di Susan John. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Però, almeno, avremmo potuto attivare le nostre procedure e tentare qualcosa”. Napoli. Detenuto morto nel carcere di Poggioreale, si sarebbe ucciso con il gas di Marialuisa Pignatiello ilmeridianonews.it, 12 agosto 2023 Massimo Altieri, 41 anni, è stato trovato morto in cella il 4 agosto nel padiglione Roma. Secondo la Polizia penitenziaria, il detenuto si sarebbe tolto la vita con la bomboletta del gas. Nelle ultime ore, si legge sul web di una vera e propria rivolta all’interno della Casa circondariale di Poggioreale, al fine di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni. Massimo Altieri attendeva la seconda fase del giudizio, quindi non aveva ancora sentenze definitive. Intanto sul decesso dell’uomo non si conoscono ulteriori dettagli, infatti sono in corso accertamenti da parte delle forze dell’ordine e della Procura per fare luce sui fatti. “Ho appena parlato con il direttore del carcere e con i medici del padiglione Roma. A Poggioreale in questo momento non è in atto alcuna rivolta”, ha detto il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. Secondo indiscrezioni, dunque, attualmente non ci sarebbe nessuna protesta per la morte di Alfieri. La smentita di Ciambriello: “Massimo Altieri, di 41 anni è morto il 4 agosto: stava nel padiglione Roma. Di mattina si è sentito male, è stato portato al pronto soccorso ma è morto. Ci sono accertamenti in corso per capire se si sia trattato di cause naturali o di un suicidio. È stata effettuata l’autopsia e ci sono indagini della Procura della Repubblica di Napoli. Peraltro, si stava valutando la sua condizione o per un trasferimento in una comunità di recupero o in carcere a custodia attenuata a Eboli. Questa la vicenda umana di una persona con problemi di tossicodipendenza”. Bergamo. Federico suicida in carcere: “Servivano più cautele. Troppi detenuti psichiatrici” di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 12 agosto 2023 Nessuno tocchi Caino: “Andava controllato a vista, ma gli organici sono troppo ridotti”. Poteva essere salvato Federico Gaibotti? Nell’asettica ricostruzione dell’ospedale Papa Giovanni XXIII, dove il ragazzo di 30 anni era stato ricoverato negli ultimi quattro giorni, in Psichiatria, si precisa che “purtroppo il rischio suicidario è solo riducibile e non è eliminabile in nessun contesto né ospedaliero né extra-ospedaliero”. Come a dire che se lo scopo di Federico era quello di farla finita, nel buio più fitto del tunnel in cui si era infilato con i suoi gravi problemi di tossicodipendenza, prima o poi ci sarebbe riuscito. Ovunque. Così il pm Emanuele Marchisio aprirà un fascicolo in cui andranno i rilievi della Scientifica e gli esiti dell’autopsia fissata per mercoledì, ma allo stato non sembrano emergere profili di responsabilità. Di sicuro, però, colpisce l’impotenza generale di fronte al più annunciato dei suicidi, all’origine perfino del reato per il quale il ragazzo era stato portato in carcere dai carabinieri: l’omicidio del padre Umberto, ucciso venerdì della scorsa settimana si ipotizza con il coltello che Federico avrebbe voluto rivolgere contro se stesso. Ritrasferito in via Gleno dopo il ricovero, l’altro ieri era stato sistemato in cella con un altro detenuto e, sulla base di protocolli specifici, privato di tutti gli oggetti con i quali avrebbe in qualche modo potuto farsi del male. Si è tolto la vita stringendosi al collo la felpa, in pochi minuti, in bagno. In assenza della voce ufficiale della casa circondariale (nemmeno ieri è stato possibile raggiungere telefonicamente la direttrice Teresa Mazzotta), chi conosce bene la realtà carceraria finisce per riflettere sulle pesanti criticità denunciate non più tardi di due settimane fa dalla Camera penale Roberto Bruni e da Nessuno tocchi Caino. L’ong che si batte per l’abolizione della pena di morte ha visitato il carcere Don Resmini il 29 luglio, tra una tappa e l’altra nel Nord Italia. “In casi come questo - osserva la presidente Rita Bernardini - essendo altissimo il rischio suicidario, il ragazzo avrebbe dovuto essere controllato a vista. Io credo che ci sia stata una mancanza di cautela da parte del carcere”. Sovraffollamento, organici ridotti all’osso, un elevatissimo numero di detenuti con problemi di tossicodipendenza e psichiatrici. Al telefono Bernardini sfoglia gli appunti presi a Bergamo: “Se pensiamo che i detenuti tossicodipendenti sono 300 e il 60% ha anche problemi psichiatrici, è chiaro che siamo di fronte a una polveriera. Il sistema è marcio all’origine, perché certi casi andrebbero curati prima e in luoghi diversi”. Altri dati: con una capienza di 317 persone, la casa circondariale ne ospita più di 500 (erano 523 il 29 luglio) a fronte di 132 agenti di polizia penitenziaria quando l’organico dovrebbe contarne 234. “Chi ci lavora - precisa Bernardini - fa miracoli perché sono in pochi, anzi ad agosto, con le ferie, pochissimi. E sono abbandonati a loro stessi a gestire numeri dai quali non si scappa: i detenuti sono quasi il doppio”. Un allarme nazionale, esteso a quasi tutte le strutture italiane. Finito il giro delle carceri del Nord Italia, l’associazione ha incontrato il capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) Giovanni Russo: “Da parte sua c’è la consapevolezza che la situazione è grave sia dal punto di vista strutturale sia per quanto riguarda il problema degli psichiatrici”, dice Bernardini. Per il presidente della Camera penale, l’avvocato Enrico Pelillo, “quando una persona viene affidata allo Stato cose del genere non dovrebbero mai accadere. È una sconfitta per tutti”. Senza puntare il dito contro nessuno, anzi evidenziando “l’umanità e la dedizione che ho potuto osservare nella direttrice Mazzotta”, Pelillo ribadisce le criticità emerse: “Le statistiche sui suicidi sono un dato di fatto e sono in constante aumento”, aggiunge. Il segretario generale del Sindacato polizia penitenziaria Aldo Di Giacomo le ha ricordate proprio ieri, citando il caso di Gaibotti e quello di una donna nigeriana che si è lasciata morire a Torino: nelle carceri italiane, da inizio anno, si sono verificati 44 suicidi (a Bergamo è il secondo), nel 2022 sono stati 84 “numero record dal 2000. Purtroppo - dice Di Giacomo - abbiamo ascoltato solo dichiarazioni di vecchi e nuovi parlamentari ed esponenti di governo senza passare dalle parole ai fatti. Sino al punto di produrre una sorta di assuefazione”. “A noi non spetta esprimere giudizi ma porre domande e io mi chiedo - afferma Gino Gelmi di Carcere e territorio - se un carcere siffatto sia il luogo adatto per gestire casi così estremi. È stata la decisione giusta quella di dimettere il ragazzo e rimandarlo in carcere?”. Gelmi aggiunge all’elenco dei problemi la mancanza di personale sanitario: “La psichiatria è sguarnita sul territorio, figuriamoci in carcere, e così il Sert”. Noto (Sr). Sì all’autopsia per il 26enne morto in carcere, accolta la richiesta della famiglia siracusanews.it, 12 agosto 2023 Sono state svolte ieri mattina le operazioni di estumulazione del cadavere del detenuto 26enne originario di Noto morto in carcere a Ragusa nella notte tra il 15 e il 16 luglio, per permettere lo svolgimento dell’autopsia, dopo che il sostituto procuratore di Ragusa dott.ssa Marina Dall’Amico ha accolto favorevolmente la richiesta avanzata dall’avvocato Giuseppe Cultrera, avvocato difensore della famiglia, nominando contestualmente Ctu i dott. Franco Coco e Pietro Zuccarello. Adesso si attendono i risultati, successivamente la famiglia presenterà le proprie deduzioni ma nel frattempo resta ferma sull’idea che “restano diverse cose da chiarire”, tra cui le ultime ore di vita del detenuto, gli strumenti utilizzati per suicidarsi - a quanto pare il 26enne si trovava in isolamento - e anche alcuni presunti ritardi nella comunicazione della morte alla famiglia. Da stabilire, inoltre, eventuali responsabilità su possibili interventi che avrebbe potuto evitare la tragedia. Trento. “Dal metadone al subutex in quantità spaventose”, il carcere raccontato da un ex detenuto di Giuseppe Fin ildolomiti.it, 12 agosto 2023 “Così non riabilita ma distrugge. Chi ha problemi di salute mentale è lasciato da solo”. Un ex detenuto ha parlato della sua vita in carcere a Trento dopo esserci arrivato nel 2020. La storia di Vittorio, l’impegno per liberarsi dalla droga e la voglia di ricostruirsi una vita. “Avevo bisogno di 300-400 euro al giorno per comprarmi la cocaina. Ora ne sono uscito, voglio ritornare a vivere. Tanti stanno male, dovrebbero essere curati in strutture adeguate”. “Riabilitazione? Macché, lì dentro puoi contare solo sulla tua forza di volontà. Alcune volte ho visto detenuti che non venivano quasi considerati come esseri umani”. È difficile da raccontare, le cose sono tante e per chi ha vissuto dietro le sbarre ricordarle non è semplice. Vittorio (è stato chiesto l’anonimato e usiamo questo nome di fantasia) da qualche settimana è uscito dal carcere di Spini di Gardolo. Ci era entrato nel 2020 per reati riguardanti la droga. Una decina di volte dal 1995, sempre a causa della cocaina e dell’eroina ma questa volta, ci dice, è diverso. “Mia madre è morta mentre ero in carcere, avevo il Covid, non l’ho nemmeno potuta vedere. Ho pensato a lei per avere la forza di rialzarmi, di ripulirmi da quelle schifezze. Ho chiesto di diminuire la dose di metadone che mi davano, ci sono riuscito anche grazie le mie forze ed ora sto bene e sto ricostruendo la mia vita”. Quelli vissuti all’interno del carcere di Trento per Vittorio sono stati anni pesanti durante i quali ha visto di tutto. Dalle celle allegate a quelle incendiate. Tanti e tanti detenuti con problematiche legate alla salute mentale ai quali, purtroppo, non si riesce a dare un’assistenza adeguata. Vittorio quando è entrato nella struttura di via Pilati è stato portato in una stanzina dove le guardie carcerarie lo hanno perquisito. Gli sono state date delle lenzuola, degli asciugamani, un piatto di ferro, delle posate ed è stato poi portato in cella. “Dovevo scontare tre anni e cinque mesi l’ultima volta” ci racconta. “A drogarmi ho iniziato nel lontano 1987 - continua - frequentando degli amici che ne facevano uso nel fine settimana. Io avevo sempre rifiutato perché ero spaventato da questa polvere bianca che dovevo tirare su con il naso. Poi ho provato, non so nemmeno dire se mi fosse piaciuto la prima volta, ma poi non smetti più”. Da quel momento Vittorio è stato letteralmente inghiottito dal mondo della droga. “Ho iniziato con l’eroina e poi sono passato alla cocaina. Spacciavo per avere i soldi necessari per comprarmi le dosi. Dei 1500 euro circa che facevo al giorno 300 - 400 euro erano quelli che mi venivano lasciati e che io usavo per comprarmi la cocaina. Ogni giorno era così” fino a quando nel luglio del 2020 è stato fermato a Trento dalle forze dell’ordine e poi portato in carcere. Vittorio, lei è uscito da qualche settimana dal carcere. Come è la situazione all’interno? I numeri dei detenuti sono alti. Io sono stato in una cella di tre persone e sono stato fortunato. Con quattro diventa insostenibile. Si cerca di sopravvivere, l’importante e non inimicarsi le guardie. Ma poi si vive quasi di subutex e di metadone. Io quest’ultimo lo usavo ma poi ho deciso di smettere un po’ la volta. L’uso degli psicofarmaci è elevato? Enorme. Sono in tantissimi che li usano all’interno, i detenuti se li scambiano, c’è una sorta di baratto. Siamo pieni di psicofarmaci dalla mattina alla sera, l’infermeria trabocca. Poi all’interno c’è lo psichiatra, il personale sanitario che è bravo. Spesso per calmare alcuni detenuti vengono aumentate le dosi e gli effetti sono devastanti. Ce ne sono tanti detenuti che mostrano segni di problematiche legate alla salute mentale? Parecchi, è un macello perché ci sono situazioni davvero difficili e non dovrebbero stare in carcere. Avrebbero bisogno, pur scontando la pena, di essere seguiti meglio. Invece queste persone capita anche che vengono lasciate lì dalla mattina alla sera. Ma a questi detenuti cosa succede? Per loro è un continuo tira e molla. Quando hanno scontato la pena magari escono e vengono messi in qualche clinica per po’. Ma presto ritornano in carcere. Altri vengono messi ai domiciliari e finiscono per creare danni. Lei nell’ultimo anno ci ha spiegato di aver fatto un percorso che lo ha portato a “ripulirsi” dalla dipendenza da cocaina. Non è stato semplice, quali tappe ha fatto? Già a partire dal 2021, dopo la morte di mia madre, ho deciso che dovevo cambiare. Ho chiesto al personale del Serd di diminuire la dose di metadone che prendevo. Per stare bene bisogna stare male. Io lo sono stato ma sono stato anche capace di resistere e di rialzarmi. Alla fine volevano che continuassi a prendere almeno una dose minima di metadone per evitare di ricadere nella droga. Non ho voluto e ho smesso definitivamente. Ora da qualche settimana è uscito dal carcere. Secondo lei riabilita? No, certe volte ci si domanda se siamo ancora umani. Lei ora cosa fa? Ora sto cercando di ricostruire la mia vita. Aiuto l’ente che mi sta accogliendo. Ma l’obiettivo è quello di trovare un lavoro e una casa. So che non è semplice ma l’impegno è massimo. Napoli. Domani in scena “Parole incatenate” al Centro di Pastorale carceraria agensir.it, 12 agosto 2023 Storie, canzoni e poesie nate in carcere e interpretate da detenuti e terapeuti: la sera del 13 agosto alle ore 20, al Centro pastorale diocesano carcerario di Napoli, alla via Buonomo 38, va in scena “Parole incatenate”, con la Compagnia stabile Assai. Uno spettacolo di rimembranze e suggestioni, scritta e diretta da Antonio Turco, responsabile delle attività culturali presso la casa di reclusione di Rebibbia. Un evento organizzato dalla Pastorale carceraria diocesana di Napoli e dall’associazione Liberi di Volare onlus, con ingresso libero. La rappresentazione si compone di canzoni per amori lacerati, poesie dedicate alle proprie donne, canti della grande tradizione napoletana intonati nelle celle e da omaggi di grandi autori del passato, come Pierpaolo Pasolini, Raffaele Viviani, Ignazio Buttitta, Rosa Balestreri, Salvatore Di Giacomo, cantori della emarginazione popolare. Le poesie, quelle dedicate alle proprie donne che ancora aspettano o che, invece, hanno scelto di vivere una esistenza senza più legami. Tra quelle più significative, “Carmela”, “Voce e notte”, “Tammurriata nera” e “Passione” sono i brani che hanno ispirato i grandi della canzone napoletana e che sono stati cantati nelle celle, nelle docce, nei corridoi, spesso in spazi in cui la voce ha voluto mandare messaggi di nostalgia o disperazione. A questi e altri maestri sarà fatto omaggio con monologhi che narreranno di “vite violente”, di una Napoli notturna, e di una capitale in cui l’indifferenza produce morte. La Compagnia Teatro stabile Assai della casa di reclusione Rebibbia di Roma è un gruppo teatrale operante all’interno del contesto penitenziario italiano, fondata nel 1982 da Antonio Turco, si serve dell’attività teatrale come strumento di socializzazione e riadattamento. Formano la compagnia detenuti e detenuti semi-liberi, che fruiscono di misure premiali, oltre che operatori carcerari e musicisti professionisti. I testi degli spettacoli sono inediti, scritti con la collaborazione di tutti i detenuti. Saranno presenti in scena alcuni minori della comunità “Il Profeta”. “I ragazzi della comunità ‘Il Profeta’ saranno per alcuni giorni ospiti presso il nostro Centro diocesano, un momento di condivisione di esperienze e di riflessione critica sulla realtà carceraria fatto di canzoni, di poesie, di una umanità che vive aldilà delle mura ma che ha bisogno di ponti per mantenersi legata alla comunità esterna, per conservare la speranza in un futuro di riparazione e reinserimento”, ha detto don Franco Esposito, direttore della Pastorale carceraria diocesana di Napoli. Rimini. Novità in carcere, un concerto per i detenuti corriereromagna.it, 12 agosto 2023 È stata un’iniziativa nuova per il carcere di Rimini quella che è andata in scena giovedì prima del tramonto al campo sportivo della casa circondariale Casetti di Rimini. Dalle 19 alle 20.30 i detenuti hanno infatti potuto assistere al concerto dedicato a Fabrizio De André. L’iniziativa è stata realizzato grazie all’amicizia e la condivisione tra la Polizia penitenziaria dei Casetti e l’Avis provinciale nell’ambito dell’ormai collaudato impegno volto a promuovere la cultura del dono, gratuito e disinteressato. Le persone detenute, incredule dapprima, si sono pian piano lasciate cullare dalla musica, per poi applaudire con vigore. Alcuni, col ritmo nell’anima, hanno mosso passi di danza, coinvolgendo anche la direttrice, che si è schermita un poco ma sprizzava gioia per l’ottima riuscita dell’iniziativa. Durante la serata si è potuto riascoltare Bocca di Rosa, Marinella, Franzisca, Sally, il Pescatore e altri successi del grande Fabrizio De Andrè interpretati con professionalità e talento dal gruppo “Banditi senza luna”. Le donazioni - Moltissimi tra gli agenti della penitenziaria di Rimini sono donatori volontari Avis, e “proprio tra una donazione e l’altra - ha ricordato il presidente dell’associazione Pietro Pazzaglini - è nata l’idea di questo concerto di San Lorenzo”. Aurelia Panzeca, dirigente aggiunto di Polizia penitenziaria e comandante del reparto che opera al carcere di Rimini, donatrice Avis, è anche l’ideatrice di un altro filone di attività di altissimo valore solidaristico dell’associazione Divise e Avis che vede tutte le forze dell’ordine della provincia di Rimini impegnate nel promuovere la donazione di sangue. La direttrice della casa circondariale, Palma Mercurio, alla fine della serata ha ringraziato tutti gli ospiti, esterni ed interni per il tempo trascorso insieme, per le scintille di speranza portate e ha comunicato il messaggio che i detenuti vogliono mandare oltre il muro di cinta: “Ci stiamo impegnando a migliorare ma vorremmo essere accolti quando usciremo”. Prezioso e professionale l’impegno del personale per una esperienza che verrà ripetuta. “L’Avis - ha detto - ha assicurato che seguiranno altri momenti come questo”. Cosa direbbe Charles Péguy dell’oscenità delle carceri italiane? Intervista possibile di Ubaldo Casotto Il Foglio, 12 agosto 2023 I numeri delle ingiuste detenzioni nel nostro paese sono intollerabili. Tornare alle parole dello scrittore che si batté per Dreyfus, la giustizia e la libertà. “La grande inquietudine. Péguy e la città armoniosa” è il titolo della mostra promossa dalla Fondazione Costruiamo il futuro e dalla Fondazione Censis che sarà esposta al Meeting di Rimini di quest’anno (dal 20 al 25 agosto) in occasione del 150° anniversario della nascita dello scrittore francese. Dedicata al tema della società, la mostra (il cui catalogo è pubblicato dalla LEV) è realizzata in sei giganteschi “Cahiers” sporgenti da due lunghe librerie (i “Cahiers de la Quinzaine” di cui Péguy fu editore) curati da Ubaldo Casotto in collaborazione con l’architetto Martina Valcamonica e la disegnatrice Nausicaa Dalla Torre. Trentamila duecento trentuno è un numero che mi ha fatto inorridire. Corrisponde ad altrettante persone incarcerate ingiustamente in Italia negli ultimi trent’anni. Proiezioni? Sondaggi? No, dati ufficiali. La Corte dei conti, nel triennio 2017-2019, certifica che si è verificato un aumento della spesa a carico dello stato per il pagamento degli indennizzi per errori giudiziari e ingiusta detenzione, passando da 38,3 a 48,7 milioni di euro. Tale spesa è poi diminuita nel 2020 (43,9 milioni di euro). I casi di indennizzo, cioè le persone incarcerate ingiustamente, sono stati 1.023 nel 2017, 913 nel 2018, 1.020 nel 2019. Il dato complessivo calcolato dalle associazioni che si occupano di carceri è di 30.231 ingiuste detenzioni dal 1991 al 2021, circa mille l’anno. Roba da assaltare la Bastiglia italiana, che però non sarebbe trovata vuota come quella francese il 14 luglio 1789 (c’erano solo sette detenuti), ma piena all’inverosimile: 56.605 detenuti a fronte di 51.261 posti disponibili. Ci sono 110,4 persone in carcere ogni 100 posti disponibili. Il 45 per cento delle carceri italiane (85 su 189) ha addirittura oltre 140 detenuti ogni 100 posti disponibili (e la legge prevedrebbe un minimo di 9 mq a detenuto). Il 26,2 per cento delle persone presenti negli istituti penitenziari (14.833 detenuti) è in carcere senza una condanna definitiva. Il 13,9 per cento (7.896 detenuti) è in attesa del primo grado di giudizio. Mi sono chiesto che cosa penserebbe di questa situazione Charles Péguy, il grande scrittore francese vissuto tra Ottocento e Novecento che inorridì per molto meno, per una sola condanna, quella di Alfred Dreyfus, ebreo, ufficiale dell’esercito francese ingiustamente condannato per tradimento. Nella battaglia per la revisione del processo e la liberazione di Dreyfus, Péguy si lanciò anima e corpo, per anni, litigando con tutti: i suoi amici socialisti indifferenti e i cattolici monarchici colpevolisti. Divenuto cattolico non ritrattò una parola, anzi. Dato che c’ero, invece di tenermi il dubbio ho chiesto direttamente a lui cosa ne pensasse, in un’intervista postuma immaginaria, ma non tanto, dato che le risposte sono tutte rigorosamente tratte dai suoi scritti. Possiamo definire Péguy un garantista ante-litteram. Per lui il primo dovere della giustizia era innanzitutto quello di non incarcerare gli innocenti. Ecco quello che mi ha detto. Monsieur Péguy, Alfred Dreyfus, capitano dello Stato maggiore dell’esercito francese, ebreo, il 22 dicembre 1894 fu condannato da un tribunale militare con l’accusa, poi rivelatasi falsa, di alto tradimento... Il caso Dreyfus divise la Francia. Lei si schierò subito in difesa dell’ufficiale, impegnandosi in una battaglia giornalistica, giudiziaria e politica che culminò nell’annullamento della sentenza. Si fece molti nemici, si scontrò sia con i cattolici monarchici che erano schierati sul fronte della colpevolezza, sia con i suoi compagni socialisti. Accusò entrambi di aver cavalcato l’affaire Dreyfus per interesse politico e per calcolo di potere e non per il fatto in sé: un caso di intollerabile ingiustizia. Il caso Dreyfus è un caso di giustizia, di libertà, di patriottismo. Dreyfus è il classico escluso, dalla società. Una società che esclude coscientemente qualcuno non ha titoli per definirsi tale. Lei accusava in particolar modo i socialisti che all’inizio considerarono il caso Dreyfus una questione interna alla borghesia, uno scontro che non li riguardava... I socialisti devono marciare per tutte le giustizie che si devono realizzare, non devono considerare a cosa servono le giustizie, perché essi o sono disinteressati o non sono. Voi dreyfusardi vi siete battuti a morte per lui. La causa lo meritava? Era l’inevitabile conseguenza dell’impossibilità organica ad acconsentire all’ingiustizia, a rassegnarsi a ogni cosa che non vada. Oggi l’idea di giustizia che va per la maggiore la fa quasi sempre coincidere con la ricerca del colpevole a tutti i costi. Per voi è innanzitutto il riconoscimento dell’innocenza di un uomo condannato ingiustamente.... La questione non consisteva affatto nel sapere se Dreyfus fosse innocente o colpevole. Ma nel sapere se si avrebbe avuto o no il coraggio di dichiararlo, riconoscerlo, innocente. Perché dice che era una questione di patriottismo? Lei pensa che la giustizia negata sia la rovina di un paese? Quello che noi volevamo era che la Francia non venisse a trovarsi in stato di peccato mortale. La Francia disonorata davanti al mondo, davanti alla storia. Il tema della giustizia sarà per lei centrale anche dopo il ritorno alla fede. Non rinnegherà mai la sua militanza dreyfusarda... Dreyfus non era l’illusione della nostra giovinezza. Di tutto quello che abbiamo fatto dobbiamo essere fieri. Non c’è una parola che cambierei, non abbiamo niente da sconfessare. Era una battaglia politica, per sua natura una cosa relativa, è lecito cambiare idea... Il nostro dreyfusismo era uno slancio religioso, era di essenza cristiana, di origine cristiana, veniva da un ceppo cristiano. Lei dice insomma che la giustizia è, dovrebbe essere, il fine della politica. E che la politica non ha in sé la sua origine, c’è un ideale che la precede e la fonda. Lei parla di “mistica”. Giaime Rodano, un comunista che ha tradotto in italiano molte sue opere, la spiega così: “Mistica, cioè la politica innervata da una costante e coerente mobilitazione ideale”... Il caso Dreyfus ci fa capire che tutto nasce come mistica e tutto finisce come politica. Ogni partito vive della sua mistica e muore della sua politica. Che cosa intendere per mistica e che cosa per politica, quid est mystycum, et quid politicum? Mistica repubblicana era quando si moriva per la repubblica, politica repubblicana è ora che ci si vive sopra. Che tanti uomini abbiano vissuto e sofferto per la repubblica, che abbiano tanto creduto in essa, che tanti siano morti per essa, che abbiano spesso accettato per essa prove supreme, ecco quello che conta, ecco quello che interessa, ecco quello che vale, ecco ciò che fonda, ecco ciò che crea la legittimità di un regime. Questo consacra, sanziona una mistica. Molti hanno sacrificato per lui (Dreyfus) la carriera, il pane, la vita. È per questo che lei trova insopportabile quello che oggi definiremmo l’uso politico della giustizia? Lei non risparmia né destra né sinistra, ma ce l’ha soprattutto con i socialisti... Essi volevano nello stesso tempo tradire la mistica e sfruttarla. Il doppio gioco. Servirsi insieme della loro politica e della nostra mistica. Fare della politica e chiamarla politica sta bene. Fare della politica e chiamarla mistica, prendere la mistica per farne politica è un inganno imperdonabile. Rubare ai poveri è rubare due volte. Ha qualcosa da aggiungere? L’inamovibilità dei magistrati non è la sola forma né la sola garanzia della libertà, dell’indipendenza. I tormenti di chi vuole la pace di Dacia Maraini Corriere della Sera, 12 agosto 2023 La storia ci insegna che le cose si risolvono quando sono colte in anticipo, subito, con decisione comune. Dobbiamo costruire il tabù della guerra e farlo diventare una disposizione istintuale, ma naturalmente si tratta di un processo solo a lungo termine. Notizie allarmanti di colpi di Stato, di guerre, di armi che si commerciano alla grande. Notizie che si sommano alle catastrofi naturali: alluvioni, allagamenti, frane, incendi, estinzioni di animali, scioglimento dei ghiacci, slavine, dissesti, crolli, rovine. Cosa fare? Per quanto riguarda i colpi di Stato, è legittimo che le forze internazionali intervengano? O per “amore di pace” si decide che le cose vadano per conto loro senza intervenire? Magari lasciando che, resi sicuri dall’impunità, i prepotenti si sentano in diritto di invadere Paesi vicini, di imprigionare, torturare e uccidere chi si batte per la propria autonomia? L’Ucraina va aiutata con le armi o no? La prepotenza, le ingiustizie, le menzogne, il terrorismo di Stato vanno condannati e combattuti oppure, sempre nel nome giustissimo della pace, si devono lasciare al loro destino? Che vinca il più forte e pazienza? Sono domande cruciali ma anche molto complesse e delicate. C’è chi considera che, per mantenere la pace nel mondo, non si debba in nessun caso rispondere alle violenze di un Paese in vena di onnipotenza: che si lavori sulla diplomazia. Su questo siamo tutti d’accordo. Ma se la diplomazia non trova esiti cosa si fa, si aspetta che funzioni e intanto vince l’aggressore? C’è chi invece ritiene che si debba condannare e controbattere la nazione che invade un Paese sovrano umiliando e distruggendo un popolo che si considera autonomo e indipendente. Ma per fare questo bisognerà usare le armi e procurare morti su morti? Questa la domanda cruciale. È lecito pensare in termini di contrapposizione guerreggiata? Certo conta negativamente il silenzio dell’Onu che fa poco per questa benedetta pace che tutti vogliono ma non sanno come ottenere. Il fatto che non si decida a maggioranza ma che anche un solo Paese possa mettere il veto, crea immobilismo e frustrazione. Se il grande e importante organismo che rappresenta tutti i Paesi del mondo, basato sulla convivenza pacifica e la giustizia uguale per tutti, disponesse di una Costituzione internazionale che stabilisca alcune regole semplici e civili sul rispetto dell’altro e la libertà, non sarebbe più facile intervenire in nome di una giustizia regolata e riconosciuta dalla maggioranza? Il problema si direbbe, sta nel fatto che mentre tutti vogliono e reclamano la pace, c’è un Paese, in questo caso la Russia, anzi direi un autocrate russo di tipo assoluto che domina, assoggetta prima di tutto il suo popolo, il quale non intende smettere di guerreggiare e distruggere finché non avrà raggiunto il suo scopo. Lo zar, come viene chiamato, ha dichiarato più volte che certo, anche lui vuole la pace, ma solo se il Paese che considera suo si arrende e si lascia depredare e ricostruire da lui. Insomma siamo di fronte a un vero problema etico. Un problema che si era posto al tempo del nazismo. Un altro autocrate, di nazionalità tedesca, invadeva uno dietro l’altro Stati sovrani, bombardava, fucilava, minacciava, distruggeva e nessuno interveniva, proprio per non suscitare una guerra mondiale. Ma quando ha preteso di invadere e sottomettere l’Inghilterra e la Russia, che hanno decisamente resistito con grandi sacrifici e grandi perdite, l’indignazione e la rabbia hanno avuto il sopravvento. Ed è scoppiata la guerra mondiale. Era meglio lasciarlo fare? E diventare sudditi del nazismo? Sono ragionamenti semplici che chiunque capisce. Non sto facendo delle riflessioni da esperta, ma da cittadina comune. Se si diffondesse la domanda di pace, dicono in molti, non si riuscirebbe a calmare il dittatore che agisce da scriteriato ma forse ha qualche interesse a mantenere una buona reputazione? Se però la smania di potere avesse sconvolto la testa del despota, il quale dichiara che non si fermerà se non quando avrà dominato e sottomesso non solo il suo ma altri popoli liberi? E se minaccia di scagliare la bomba atomica, come reagire? Col silenzio e l’acquiescenza o con la denuncia e le ritorsioni? La giustizia va perseguita o messa a tacere per la difesa di interessi immediati? La giustizia e la pace sono in contraddizione? Abbiamo sempre dato ragione ad Antigone. Ci piace la sua fedeltà al principio della pietà e della giustizia, che comportano disobbedienza al potente, costi quel che costa, ma poi preferiamo lasciarla nella sua grotta e metterci dalla parte di Creonte, il re potente che tutto può e decide. La libertà di un popolo che si vuole indipendente deve suscitare la solidarietà internazionale o deve essere lasciato al suo destino per evitare una guerra mondiale? La storia ci insegna che le cose si risolvono quando sono colte in anticipo, subito, con decisione comune. Se si lascia che deflagri, il pericolo si espande e si ingrandisce. Ma questi sono ragionamenti a posteriori. Così come stanno le cose oggi, cosa si può fare? La prima risposta è chiarissima: costruire la pace. Ma se la voglia di vincere da una parte e la voglia di non soccombere dall’altra sono arrivate a un punto di non ritorno come agire? Si può fare a meno delle armi? Ricordo il bellissimo ragionamento, anzi la proposta di Alberto Moravia che diceva: dobbiamo costruire il tabù della guerra e farlo diventare una disposizione istintuale. Così come il tabù dell’incesto è stato alla base della creazione della civiltà, il tabù della guerra sarebbe un secondo importantissimo passo sulla strada di una convivenza pacifica e consapevole. Ma naturalmente si tratta di un processo solo a lungo termine. Non si impara a reprimere e guidare facilmente sentimenti animaleschi come l’aggressività, la prepotenza, la mania di grandezza, il senso del possesso e così via. Si tratta di un sogno impossibile? Giustamente Alberto diceva, confortato dalle osservazioni antropologiche di Malinowski: perché no? Come siamo riusciti a reprimere e controllare l’incesto che in natura è ammesso e praticato, perché non dovremmo riuscirci con la guerra? Migranti. Esodo infinito: quasi 90 mila persone sbarcate in Italia da inizio anno di Eleonora Camilli La Stampa, 12 agosto 2023 Oltre il doppio del 2022, con 2 mila morti nel Mediterraneo. Frontex: “I trafficanti offrono prezzi sempre più bassi”. Un flusso continuo di arrivi, un record nei numeri come non si vedeva da anni, almeno dal 2017. Nei primi sette mesi del 2023 la rotta del Mediterraneo centrale, quella che collega i paesi del Nord Africa all’Italia, è la principale porta di ingresso verso l’Europa. Sono oltre 89mila i migranti sbarcati, più del doppio rispetto al 2022. Una situazione che ha subito un’impennata negli ultimi mesi e che rappresenta la metà di tutti gli ingressi verso gli Stati membri dell’Ue. Se il flusso verso l’Italia sale, quello verso tutte le altre frontiere europee registra un calo negli ingressi. Lo dicono i dati contenuti in un report dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere, Frontex, che oltre a fotografare la situazione attuale prevede “una pressione migratoria su questa rotta che potrebbe persistere anche nei prossimi mesi”. Le partenze con ogni probabilità non si fermeranno, specialmente da Libia e Tunisia. “I trafficanti di esseri umani stanno offrendo prezzi sempre più bassi ai migranti in partenza in un contesto di agguerrita concorrenza tra gruppi criminali”, scrive l’Agenzia per le frontiere, ipotizzando che sia questo uno dei motivi principali a incentivare le persone a tentare la via del mare. Ma si tratta di un gioco al ribasso sulla pelle delle persone: dai porti di Sfax e Kerkennah si parte a basso prezzo e senza le condizioni minime di sicurezza, su barchini fatiscenti, vere e proprie carrette di metallo che si rovesciano o si spezzano una volta in alto mare. Queste traversate marittime sempre più pericolose potrebbero così allungare il tragico bollettino delle morti in mare, che registra numeri altissimi già nei primi mesi dell’anno. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), da inizio 2023 sono morte nel Mediterraneo più di 2.060 persone, quasi tutte (oltre 1.800) proprio lungo la rotta che porta verso il nostro Paese. A mettersi in viaggio sono soprattutto i migranti subsahariani, originari di Guinea e Costa d’Avorio, in fuga dalla difficile situazione politica e sociale in Tunisia, dalla discriminazione e dalle violenze. Ma partono sempre di più anche egiziani e tunisini. Stando ai dati di Frontex, dunque, nel 2023 l’Italia è il primo Paese di approdo in Europa. Solo nella giornata di ieri, l’isola di Lampedusa ha registrato quasi 800 arrivi, in 20 differenti sbarchi iniziati già alle prime luci dell’alba. Diversa è, invece, la situazione degli altri Paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo. Dall’inizio dell’anno gli arrivi verso la Spagna dai Paesi dell’Africa occidentale sono stati abbastanza limitati, circa seimila, più o meno in linea con i dati del 2022. Diversa è la situazione in Grecia, dove si registra una maggiore diminuzione dei flussi, pari quasi al 30 per cento, per un totale di 17mila migranti arrivati fino al mese di luglio. In tutta Europa gli ingressi irregolari registrati dall’Agenzia delle frontiere sono stati 176mila, con un aumento del 13 per cento. Si tratta del numero più alto di ingressi nei primi sei mesi dell’anno registrato dal 2016 e determinato dal flusso sulle due sponde del Mediterraneo. Quella del mare, però, non è l’unica via per chi tenta di attraversare i confini europei. La seconda rotta migratoria più attiva è quella terrestre dei Balcani occidentali, con oltre 52.200 persone che hanno tentato di attraversare le frontiere dell’Est Europa negli ultimi sette mesi. Si tratta per la maggior parte di afghani in fuga dal regime dei Talebani, di siriani e turchi. Quasi un terzo in meno rispetto all’anno precedente. Secondo Frontex, la diminuzione è in gran parte dovuta all’attivazione di politiche sui visti più rigorose. Sulla frontiera opposta verso il Nord Europa non mancano i migranti che dalla Francia tentano di attraversare il Canale della Manica, per raggiungere il Regno Unito. Nonostante le regole sempre più restrittive del governo di Rishi Sunak, che sta tentando in ogni modo di ostacolare gli ingressi di migranti irregolari nel Paese, solo a luglio sono state circa 5.500 le persone che hanno provato ad attraversare questa invalicabile frontiera, 27.300 dall’inizio dell’anno. Anche in questo caso si tratta in prevalenza di persone in fuga da regimi e conflitti, in particolare afghani e siriani. Migranti. “Chi vuole la Fortezza Europa aiuta gli scafisti”, intervista a Marco Bertotto di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 12 agosto 2023 Marco Bertotto è responsabile Advocacy di Medici Senza Frontiere Italia. Da oltre 20 anni si occupa di azione umanitaria e cooperazione internazionale, collaborando in Italia e all’estero con diverse organizzazioni non governative. Ha lavorato e coordinato missioni sul campo in Albania, Bangladesh, Haiti, Iraq, Israele, Giordania, Libano, Cisgiordania e Uganda. Dal 2001 al 2005 è stato Presidente di Amnesty International Italia. Le sue affermazioni, le sue denunce, derivano da una ultraventennale esperienza sul campo. “Bloccare le frontiere - rimarca Bertotto - è irresponsabile e sbagliato. La politica della fortezza-Europa, delle frontiere inespugnabili è la vera ragione del business di scafisti senza scrupoli”. Quanto all’accordo con la Tunisia, il direttore dei programmi di Msf Italia va giù durissimo: “La retorica securitaria, che muove l’intesa con Tunisi - ha portato a un ripugnante accordo fotocopia di quelli già siglati con Turchia e Libia, che hanno solo moltiplicato violazioni e sofferenze. Si aggiungono altri chilometri ad un muro già in costruzione lungo tutto il Mediterraneo, su cui si infrangono migliaia di vite”. “Europa assassina. Lasciati morire vicina alla Sicilia, mentre Francia e Italia litigano e sorridono a Saied”. È il titolo di apertura de l’Unità sull’ultima strage di migranti - 41 morti, tra cui 3 bambini - al largo di Lampedusa. Il Mediterraneo è sempre più un enorme cimitero marittimo. Che estate è questa sul fronte migranti? Un’estate estremamente calda. Nel senso che per una serie di ragioni connesse a contesti di emergenza, conflitti, situazioni croniche che continuano nel tempo, i numeri sono tornati ad essere numeri importanti. Sono numeri che credo ci consegneranno alla fine dell’anno una situazione non diversa da quella che abbiamo vissuto nel 2016, ad esempio, quando arrivarono 181mila persone. L’anno scorso ne sono arrivate 105mila, oggi siamo già attorno ai 90mila. Possiamo attenderci qualcosa di simile ai volumi che negli ultimi anni non avevamo più visto. In una situazione, però, diversa da quella che avevamo nel 2016. In che senso diversa? Nel frattempo sono successe varie cose. Intanto è cambiato un atteggiamento generale dei governi. O meglio, si è ulteriormente sviluppata quella logica di deterrenza, di espulsione, di fortezza-Europa che è arrivata anche a costruire la logica del non soccorso, la logica, aberrante, del boicottaggio del sistema di soccorso in mare. Nel 2016, quei numeri così importanti, erano numeri di persone che prevalentemente venivano soccorse in mare e arrivavano in Italia a valle di un sistema di soccorso coordinato. Mentre oggi? Oggi quel sistema di soccorso coordinato è stato smontato ed in parte è stato smontato anche il sistema di accoglienza, con il nuovo capitolato del 2018. Nei fatti oggi c’è un sistema di accoglienza che è totalmente incapace di gestire in modo dignitoso l’accoglienza di queste persone. Ci troviamo di fronte a delle situazioni, penso all’ordinanza di qualche giorno fa a Bologna, penso ad una serie di cose che stanno succedendo in Toscana ma un po’ in tutta Italia, una situazione poco rappresentata e poco raccontata, perché è calato anche un tremendo silenzio su quello che sta avvenendo. Oggi abbiamo a che fare con un sistema assolutamente destrutturato e incapace di gestire la complessità di una situazione come quella che si sta verificando. Medici senza Frontiere continua, a prestare soccorso in mare, con la nave Geo Barents, nonostante la guerra alle Ong dichiarata dal governo che porta con sé anche quella che è stata efficacemente definita la “logistica della crudeltà”, quella dell’assegnazione di porti lontani dalle zone di salvataggio. Che sfida è quella che continuate a lanciare? È una sfida in solitudine, nel senso che il soccorso in mare, come dicevo prima, è stato smontato. Per essere più precisi, va detto che negli ultimi mesi c’è di nuovo da parte della Guardia costiera una maggiore proattività nelle attività di soccorso, anche oltre quelle che erano le zone ristrette in cui negli ultimi anni si concentrava l’attività di soccorso. Non c’è più, anche se nelle ultime settimane qualcosa per causa di forza maggiore è tornato ad esistere, un’attività di coordinamento di un sistema, perché è negato il sistema di collaborazione tra il pubblico e il privato, le Ong e le autorità pubbliche. Nei fatti le organizzazioni non governative si trovano a continuare a svolgere un’attività di soccorso in mare che è un’attività fondamentale, centrale, soprattutto in una situazione in cui siamo tornati ad avere dei tassi di mortalità altissimi, in un anno in cui ci sono stati tanti incidenti in mare, quello di Cutro è sicuramente per l’Italia quello più drammatico. Un anno in cui credo non ci sia stata settimana senza morti in mare, e nonostante le Ong svolgano una parte minima ormai di queste attività di soccorso, continua una incredibile attività di boicottaggio e di provocazioni nei confronti delle Ong le cui navi di salvataggio vengono costrette a interminabili traversate per portare le persone in porti che spesso sono indicati nel nord del paese, con una serie di scuse e motivazioni che nascondono null’altro che un tentativo chiaro di boicottare le attività di soccorso delle Ong fine a renderle impossibili. Poi c’è il capitolo dei memorandum... Un capitolo infausto. È una linea di continuità della vergogna dell’Europa e degli Stati europei. È iniziata molto tempo. Basti pensare all’accordo Ue-Turchia, nel 2016, all’accordo con la Libia del 2017 e poi adesso a quello con la Tunisia. La raccontano, l’ha cercato di fare la recente Conferenza di Roma dal titolo migrazione e sviluppo, come una logica di costruire dei partenariati con un approccio sistemico alle migrazioni per renderle non più necessarie. Ma nei fatti si tratta di accordi disumani, di esternalizzazione delle frontiere. Finalizzate ad un unico obiettivo… Quale? Far fare agli altri quello che noi non vogliamo o non possiamo fare. A tutti i costi. Senza alcuna forma di condizionalità, senza alcuna attenzione alla problematica dei diritti umani. Non è una storia nuova. Quello che è inaccettabile è che non si comprenda l’inutilità oltre che la disumanità di questa strategia. Disumana, perché il risultato si deve misurare nel numero di persone che sono abbandonate nel deserto tra la Tunisia e la Libia o la Tunisia e l’Algeria, o nel numero di persone che vengono riportate a forza nei centri di detenzione in Libia, attraverso l’attività di supporto alla cosiddetta Guardia costiera libica e ora anche a quella tunisina. Attività finalizzate all’intercettazioni in mare poi dipinte come interventi di soccorso mentre in realtà si tratta di respingimenti collettivi fatti operare da paesi terzi per riportare le persone in condizioni drammatiche. Oltre che disumana, questa è una strategia inutile. Perché inutile? Perché non ha contribuito e non contribuirà in alcun modo a costruire delle logiche di migrazione basate su una gestione ordinata dei flussi. Sono tutte balle. In realtà dietro c’è un cinico tentativo di completare il muro nel Mediterraneo che separa l’Europa dall’Africa. Questa è la logica razzista e disumana che sta dietro a questa strategia. C’è anche una semantica della crudeltà. Il riferirsi a queste persone come a carichi residuali e altre nefandezze del genere... Quello semantico è un elemento che racconta bene quello che c’è dietro a determinate politiche. È una narrazione comunicazionale che supporta politiche discriminatori ed etnocentriche. C’è da dire anche che non c’entra quasi più il colore del governo di turno. Ormai è una chiara strategia, che è diventata la strategia dei paesi del nord del mondo. Noi la denunciamo per l’Europa ma l’abbiamo vista applicata in Australia, la vediamo applicata ancora negli Stati Uniti. Quella della costruzione di muri, è una logica che ormai è diventata pervasiva. Con conseguenza che noi come organizzazioni umanitarie vediamo in tantissimi contesti. Come Msf operiamo in mare, operiamo in Italia ma gli effetti devastanti di questa logica securitaria la vediamo anche in Grecia, sulla rotta balcanica, nei paesi di destinazione in nord Europa. Abbiamo anche dei progetti tra la Libia e altri paesi di provenienza che ci dà un osservatorio unico, utile per capire cosa c’è dietro, quanta sofferenza e quanti drammi si consumano dietro politiche che hanno tratti di razzismo celati dal buon governo. Occorrerebbe tornare a “Mare Nostrum”, e farlo se possibile in chiave europea. L’Europa unita nel salvataggio dei disperati e non nella costruzione di muri che li respingano. Msf è presente, e testimone scomodo, sui fronti di quelle che sono le guerre “dimenticate”. Nel mondo oggi ce ne sono 55... Sono emergenze croniche, colpevolmente ignorate dai mezzi di comunicazione. C’è giustamente attenzione sull’Ucraina, dove si consuma un conflitto con conseguenze devastanti e importanti ricadute geopolitiche, ma poi ci sono conflitti che hanno una storia di tanti anni e che non hanno neanche più un minimo di attenzione a livello di dibattito pubblico o di preoccupazione delle diplomazie. In un mondo segnato da così tanti conflitti prolungati, non possiamo non attenderci un aumento come quello segnalato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Una crescita enorme degli spostamenti di persone, una moltitudine crescente costretta alla fuga. L’Europa riceve oggi un numero un po’ superiore di migranti forzati rispetto agli ultimi anni, anche se tutte le statistiche dicono che l’80% circa delle persone in fuga si ferma comunque nel proprio paese o in quelli confinanti. Ma quando un conflitto si prolunga nel tempo e diventa una crisi cronica, allora le persone cominciano a fare dei ragionamenti di prospettiva e perdono interesse a restare nella zona. Viene meno la speranza di poter tornare nel proprio paese e inizia una logica di percorso migratorio più ampio. Se l’Europa invece di mettere il 100% delle preoccupazioni alla cosiddetta difesa dei propri confini, iniziasse a lavorare in maniera più seria e fattiva su un intervento strutturato che cerchi di ridurre le ragioni che spingono le persone alla fuga, puntando sulla cooperazione internazionale, l’aiuto umanitario, adotterebbe una strategia meno cinica e molto più efficace e lungimirante per una gestione più ordinata e dignitosa della mobilità umana. Gran Bretagna. Legionella nel sistema idrico della mega-chiatta per migranti di Matteo Persivale Corriere della Sera, 12 agosto 2023 Ieri pomeriggio, cinque giorni dopo il trasferimento di un gruppo di migranti (trentanove) dagli alberghi nei quali erano ospitati - i contribuenti britannici pagano sei milioni di sterline al giorno, sette milioni di euro, per ospitare in albergo migliaia di migranti - i migranti sono stati fatti sbarcare dalla Bibby Stockholm e riportati in albergo. Il motivo? La legionella. C’era il rischio che contraessero il batterio potenzialmente letale dall’acqua dell’imbarcazione ancorata nel porto di Portland. Così mentre le liste d’attesa dei richiedenti asilo si allungano spaventosamente e l’opinione pubblica digerisce la notizia del numero allarmante - 100mila - di migranti sbarcati nel Paese dal 2018, ecco un’altra umiliazione per il governo Sunak (il primo ministro intanto è in vacanza negli Stati Uniti con la famiglia) che aveva lanciato una campagna dallo slogan sfortunato, “Stop the Boats”, fermate le barche. La Bibby Stockholm doveva ospitare fino a 500 uomini di età compresa tra 18 e 65 anni, alleggerendo il conto degli alberghi per lo Stato, ma la legionella blocca il piano. I migranti hanno usato in questi giorni l’approvvigionamento idrico della nave, ma nessuno finora ha mostrato sintomi. Sono stati rimossi dalla chiatta per precauzione. Come se non bastasse, mentre lo speaker della Bbc riferiva lo scoop sulla legionella impassibile, con ammirevole self-control, arrivava la conferma da parte dell’Express, organo principale dei sostenitori della Brexit, che la guardia costiera francese scorta le barche dei migranti fino alle acque territoriali britanniche invece di fermarle, come da accordi. Cosa fare di tutti questi migranti? Sunak riuscirà davvero a mandare migliaia di persone - in attesa di verdetto sulla richiesta d’asilo - su un’isola sperduta tra costa africana (1600 chilometri) e costa sudamericana (2300 chilometri), l’isola dell’Ascensione, nell’amministrazione di Sant’Elena di napoleonica memoria? Intanto la notizia che i migranti sono stati portati a bordo prima che arrivassero i risultati dei test effettuati sulla sicurezza della nave alimenterà le critiche degli attivisti e delle ong per i rifugiati che si sono opposte all’uso del Bibby Stockholm. Alex Bailey del gruppo “Say No To The Barge” ha accusato “la scarsa pianificazione e preparazione. Questo è solo un altro esempio dell’incompetenza con la quale il nostro governo ha affrontato questo problema fin dall’inizio”. Bahrein. I prigionieri di coscienza in sciopero della fame di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 agosto 2023 A Jaw, il complesso penitenziario del Bahrein in cui sono reclusi attivisti per i diritti umani e oppositori del repressivo regime della famiglia al-Khalifa, è in corso uno sciopero della fame per protestare contro il divieto di pregare, l’isolamento in cella 23 ore su 24, il diniego di cure mediche e le interferenze nei colloqui con i familiari. Lo sciopero, che pare riguardare centinaia di prigionieri, è iniziato lunedì in due sezioni del carcere e martedì in altre tre. Mercoledì si è unito alla protesta Abdul Hadi al-Khawaja, 62 anni, il più noto prigioniero di coscienza del Bahrein, che già nel 2012 aveva intrapreso uno sciopero della fame durato oltre 100 giorni. Al-Khawaja sta scontando un ergastolo per aver guidato le proteste del 2011 e aver denunciato la brutale repressione che le stroncò. La sua detenzione è considerata arbitraria dalle Nazioni Unite e più volte le organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto la sua scarcerazione. Afghanistan. Contro le donne è ormai apartheid di genere di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 12 agosto 2023 A due anni dalla riconquista del potere i Talebani le escludono dall’istruzione e dal lavoro. Finora gli appelli delle istituzioni internazionali sono caduti nel vuoto. Quando, appena due anni fa, i Talebani riconquistarono il potere in Afghanistan, le prime dichiarazioni dei capi degli studenti coranici erano state improntate all’insegna di un’insolita moderazione. Era stato, in verità vagamente, promesso un atteggiamento non ferocemente repressivo dei diritti delle donne. Il tempo però si è incaricato velocemente di smentire ciò e la negazione della possibilità d’istruzione e di lavoro è esattamente tornato come nella prima esperienza di governo negli anni novanta. Purtroppo quello che le ragazze afgane stanno vivendo non pare una parentesi o una situazione temporanea, il rappresentante delle organizzazioni della societa civile, membro permanente dell’Afghanistan presso le Nazioni Unite, ha parlato non a caso di apartheid di genere. Una violazione di diritti umani che potrebbe essere portata davanti i procuratori della Corte penale internazionale (CPI) i quali dovrebbero aprire un’indagine sulla repressione ordinata dal regime talebano. La resistenza delle donne e delle giovani continua nonostante i pericoli a cui vanno incontro, ma per paura di arresti, detenzioni e torture, non rimane che la via costituita da scuole clandestine. Molte famiglie si sono rese conto che l’unica possibilità di istruzione per le loro figlie è attraverso l’emigrazione. Si stima che 2,5 milioni di ragazze e giovani donne non abbiano mai frequentato una scuola, e presto saranno raggiunte da altri 3 milioni che stanno per completare la loro istruzione primaria. Dopodiché saranno impossibilitate a passare al ciclo secondario di studi, in questa maniera a un’altra generazione di ragazze afghane sarà negata la possibilità di realizzare sogni e mostrare il proprio talento A livello mondiale diversi paesi a maggioranza musulmana, dal Pakistan e dalla Turchia all’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti, dal Qatar all’Iran, si sono incontrati all’Onu per condannare questo regime di repressione. Alle Nazioni Unite è stato messo in evidenza come nel Corano non vi sia nessuna prescrizione religiosa per escludere ragazze e donne dalle scuole secondarie e dalle università. Il sostegno internazionale però non è ancora sufficiente e si mostra inefficace per imporre un cambio politico ai talebani. In questo momento poi la situazione sta diventando ancora più difficile, lo testimonia il fatto che i religiosi di Kandahar stanno chiedendo proprio all’Onu di escludere tutte le donne dal loro ruolo di operatrici e impiegate presenti in Afghanistan. Eppure è chiaro che la violazione delle loro prerogative rompe i trattati internazionali sui diritti umani di cui l’Afghanistan è parte. In particolare il regime degli studenti coranici lede la convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW). Inoltre si violano gli obblighi dell’Afghanistan ai sensi del patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e della convenzione sui diritti del fanciullo. Fino a ora però gli appelli delle istituzioni internazionali sono caduti nel vuoto, i Talebani continuano a violare il diritto internazionale e a poco ha portato il monito lanciato quest’anno dal relatore speciale sui diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, quando ha chiesto con forza di ripristinare immediatamente la parità di accesso a un’istruzione di qualità a tutti i livelli e in tutti i corsi per donne e ragazze. Il problema principale a livello di diritto è che l’Afghanistan non ha ratificato gli strumenti pertinenti che consentirebbero alle vittime delle violazioni di presentare petizioni agli organi dei trattati, nonostante ciò chi viola i diritti può essere ritenuto responsabile attraverso i requisiti e i meccanismi di segnalazione previsti dai trattati stessi. Esisterebbe dunque l’opportunità di continuare a esaminare le azioni dei Talebani ma solo di invitare genericamente a riaprire le scuole secondarie e le università. Strumenti abbastanza spuntati che però potrebbero essere rinvigoriti da un’opportunità che risiede nel diritto penale internazionale che andrebbe sfruttata probabilmente in maniera piu efficace. A marzo infatti l’Onu ha riconosciuto il diritto all’istruzione come un “diritto abilitante, che è cruciale in sé e per sé per realizzare altri diritti umani”, e ha affermato che violare “questo diritto a metà della popolazione nega effettivamente alle donne e alle ragazze la maggior parte degli altri diritti umani”. L’esclusione delle donne e delle ragazze dall’istruzione secondaria e terziaria, insieme a tutte le altre restrizioni imposte loro dai Talebani, può essere configurata come una persecuzione, e come tale perseguita attraverso sanzioni ad personam contro i responsabili Talebani, perché in nessun altro paese le donne e le ragazze sono scomparse così rapidamente da tutte le sfere della vita pubblica.