Sovraffollamento, suicidi, caldo: la difficile situazione delle carceri in estate di Andrea Oleandri antigone.it, 11 agosto 2023 Il sovraffollamento continua ad essere una delle principali problematiche del sistema penitenziario italiano, con un tasso che viaggia attorno al 121%, con 10.000 persone detenute in più rispetto ai posti effettivamente disponibili (e un numero di presenze in costante crescita). Il sovraffollamento non toglie solo spazi vitali, ma anche possibilità di lavoro e di svolgere attività che spezzino la monotonia della vita penitenziaria. Quella monotonia che porta all’emergere di situazioni di forte depressione, alla base di un aumento di suicidi e atti di autolesionismo nel periodo estivo. Proprio i suicidi, pur nel silenzio della politica e di parte del sistema dell’informazione, continuano ad essere una piaga a cui il carcere ha abituato. Dopo gli 85 dello scorso anno, quest’anno sono già 42. Come riferisce Ristretti Orizzonti 1.352 quelli avvenuti dal 2000 ad oggi. L’estate, da questo punto di vista, non aiuta. Il caldo è uno dei fattori che impattano maggiormente sulla qualità della vita negli istituti penitenziari, qualità della vita già non elevata neanche negli altri periodi dell’anno. A questo si aggiunge poi la chiusura di molte attività e quindi una situazione di ulteriore e sostanziale isolamento. Non è un caso che, durante i mesi estivi, proprio il numero dei suicidi cresca. Quest’anno, dei 42 già avvenuti, i soli mesi di giugno, luglio e i primi giorni di agosto ne hanno fatti contare 15. Come detto in estate in galera si sta male. In tantissimi istituti mancano i ventilatori, le finestre sono schermate, non ci sono frigoriferi in cella e a volte neanche nelle sezioni e in molti casi in cella non c’è neanche la doccia. Per questo le carceri vanno riempite di iniziative e attività, favorendo il volontariato; ai detenuti va assicurata la possibilità di contattare quotidianamente per telefono o con video-chiamata i propri affetti; vanno comprati ventilatori e frigoriferi. Poche cose, minime, con un impatto fondamentale per la vita delle persone recluse, e anche degli operatori che con il caldo e lo sconforto dei reclusi devono lavorare e confrontarsi ogni giorno. La cartella stampa con dati, numeri e situazioni rilevate nelle visite del nostro Osservatorio: https://www.antigone.it/upload2/uploads/docs/Cartella%20stampa%20Estate%202023.pdf Stop alla nuova terna del Garante dei detenuti. E la destra sindacale attacca il capo del Dap di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 agosto 2023 La procedura per la nomina dei tre nuovi membri del collegio del Garante nazionale delle persone private di libertà voluti dal governo Meloni al posto di Mauro Palma, Daniela De Robert e Emilia Rossi, con l’obiettivo di depotenziare l’Autorità, si è fermata ancor prima di iniziare. Il terzetto proposto a luglio dal ministro Nordio - i docenti universitari Felice M. D’Ettore (presidente) e Mario Serio, e Carmine A. Esposito - non è infatti mai approdato in Cdm. Evidentemente le critiche che anche da questo giornale si sono levate riguardo le scarse competenze dei tre prescelti in tutte le materie su cui opera il Garante (di tipo giuridico, psichiatrico e sociale), la mancanza di un equilibrio tra generi e la violazione della norma che vieta la nomina di dipendenti delle pubbliche amministrazioni devono aver trovato un ascolto anche nel governo. Prima dell’alt che il terzetto avrebbe in ogni caso ricevuto nelle commissioni giustizia di Camera e Senato, presso la Corte dei conti o al Quirinale, cui spetta il compito di firmare il decreto istitutivo. Ma per Nordio non è tutto: sotto attacco anche il suo capo del Dap, Giovanni Russo, da parte dei sindacati di polizia penitenziaria più a destra. A supportarli c’è anche un Garante dei detenuti, quello della Regione Umbria: Giuseppe Caforio. Messina Denaro malato. Fdi non cede sul carcere duro al boss di Claudia Osmetti Libero, 11 agosto 2023 Per il sottosegretario Delmastro “le cure non sono compromesse”. Colosimo (Antimafia): nessuna revoca. Premesso che la differenza tra lo Stato e la mafia è proprio che lo Stato fa giustizia e non vendetta (per cui tutela il diritto alla salute di tutti, compresi i criminali ex latitanti, ex padrini, assassini e stragisti), torna il dibattito sul 41 bis. Cioè il “carcere duro”, quel regime penitenziario più ristretto nel senso che chi ci rientra subisce limitazioni molto più stringenti dei detenuti comuni perché si è macchiato di reati molto più gravi, di matrice terroristica o mafiosa (appunto). Il caso è quello di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss di Cosa nostra, acciuffato dopo trent’anni lo scorso gennaio, malato di tumore al colon e pure gravemente, sottoposto (in prigione e fuori) alla chemioterapia e recentemente trasferito all’ospedale dell’Aquila per un intervento chirurgico di occlusione intestinale. Le sue condizioni sarebbero “incompatibili col regime” di detenzione, spiegano i suoi avvocati (i legali Alessandro Cerella e Lorenza Guttaduauro) da due giorni a questa parte. Il che significa, senza troppi giri di parole, che, secondo loro, e la richiesta è di quelle formali, Messina Denaro dovrebbe uscire definitivamente dal 41 bis per “ragioni di salute”. Solo che non è così semplice. Non lo è anzitutto perché queste decisioni vengono prese dai tribunali, dai magistrati di sorveglianza, dalle autorità e la trafila è tutto fuorché una passeggiata. Ma non lo è anche perché l’argomento è diventato di ribalta e i commenti a proposito si moltiplicano. Dice, per esempio, Andrea Delmastro, che è il sottosegretario alla Giustizia ed è anche un deputato di Fratelli d’Italia, che “pur senza invadere il campo della magistratura, il mafioso Matteo Messina Denaro riceve le migliori cure mediche e la revoca del 41 bis non comporterebbe in alcun modo prestazioni sanitarie migliori o anche solo diverse”. Dice, cioè, Delmastro, e su questo ha ragione proprio per quello con cui abbiamo iniziato, ossia che lo Stato le terapie e l’assistenza sanitaria non la nega a nessuno, che il boss di Castelvetrano in prigione ha a disposizione tutto ciò che gli serve (è stata allestita anche una piccola saletta privata per concedergli di fare la chemio) e che, quindi, spostarlo di cella e “alleggerirgli” la pena non è necessario: “E costantemente seguito da uno specialista, effettua analisi ed esami prescritti e nessuna ulteriore terapia potrebbe svolgere da libero”, continua Delmastro, “le sue condizioni cliniche non costituiscono presupposto per la revoca del regime di detenzione speciale del carcere duro”. E dice anche, ma questa volta a farlo è Chiara Colosimo, la presidente della commissione bicamerale Antimafia, pure lei meloniana, che “Messina Denaro è sottoposto a tutte le cure necessarie e vengono garantiti al paziente i diritti stabiliti dalla Costituzione e dall’ordinamento giuridico. Le sue condizioni, però, non devono far dimenticare o possono cancellare la portata criminale del soggetto, che non ha dimostrato nessuna forma di pentimento o collaborazione, ma anzi l’ostentato dileggio. Seguirò con attenzione la vicenda”, specifica Colosimo, “senza che venga meno il senso di giustizia e la, seppur difficile, compassione che si deve a un uomo malato”. Più tecnico è, invece, Marco Cappato, il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni che si è recentemente candidato alle elezioni politiche suppletive per il Senato nel collegio di Monza che si sono aperte con la morte di Silvio Berlusconi: “L’idoneità al 41 bis”, fa notare Cappato, “deve essere frutto di una valutazione tecnica basata sulle condizioni sanitarie; se la valutazione fosse che c’è incompatibilità, la legge imporrebbe l’interruzione del 41 bis, che ovviamente non significa scarcerazione”. E questo deve essere chiaro a tutti. Il Garante dei detenuti. “La salute diritto di tutti” (Il Centro) A confermare che le condizioni di salute di Matteo Messina Denaro sono in miglioramento dopo l’intervento chirurgico, è stato anche il garante dei detenuti in Abruzzo, Gianmarco Cifaldi, arrivato ieri al San Salvatore: “Matteo Messina Denaro si è risvegliato dall’operazione che è andata molto bene, è vigile e attivo. È in terapia intensiva solo per prassi dopo interventi del genere”. “La degenza in ospedale”, ha aggiunto Cifaldi, “dipende dalla combinazione tra il consulto sanitario e gli approfondimenti del Dap che deve valutare le azioni per garantire la sicurezza interna ed esterna. Tutte le azioni”, conclude il garante dei detenuti, “vanno a garantire i diritti costituzionali sia per il boss sia per tutte le persone libere”. Riguardo la richiesta di scarcerazione annunciata dai difensori di Messina Denaro in quanto il regime del 41 bis sarebbe incompatibile con le condizioni di salute di Messina Denaro, Cifaldi ha sottolineato: “Garantiamo il diritto alla salute con personale medico qualificato e tutte le Agenzie dello Stato stanno operando nel rispetto del dettato costituzionale, me compreso”. Si tratta del secondo intervento chirurgico subito dal super boss in poche settimane: a giugno è stato sottoposto a una piccola operazione prima di fare ritorno nel carcere di massima sicurezza di Preturo, dove è rinchiuso dallo scorso 16 gennaio in regime di 41 bis. Al 41 bis a Bancali, da mesi in sciopero della fame. La Garante: “Chiede il suicidio assistito” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 agosto 2023 Nel cuore del super carcere sardo di Bancali, risuona una voce di sfida che spezza il silenzio dell’isolamento: quella di Domenico Porcelli, detenuto al 41 bis, che combatte con un’arma estrema, lo sciopero della fame, per far risuonare la sua disperata richiesta di ascolto. Irene Testa, Garante regionale delle persone private della libertà personale della Sardegna e tesoriera nazionale del Partito Radicale, lo ha nuovamente visitato, gettando luce su una situazione che altrimenti rimarrebbe relegata nei sotterranei del regime speciale. Già nel mese di giugno, Irene Testa si è recata nel carcere di Bancali con l’obiettivo di incontrare i detenuti e ascoltare le loro storie. Tra di essi, Domenico Porcelli emerge come un simbolo struggente di una realtà spesso dimenticata. In sciopero della fame da ormai oltre cinque mesi, Porcelli denuncia la sua situazione disperata attraverso un gesto che mette a dura prova il suo corpo e la sua volontà. Le sue parole raccontano una storia di isolamento e lotta costante. Come riferisce la Garante Testa, egli è costantemente monitorato dagli operatori carcerari e, in particolare, dal presidio sanitario. L’educatore ha avuto oltre 10 colloqui con lui, mentre diversi elettrocardiogrammi e visite cardiologiche sono state effettuate a partire dal mese di febbraio. Martedì scorso, Domenico Porcelli ha ribadito alla Garante la sua intenzione di proseguire la sua lotta, consumando solamente 1 kg di zucchero a settimana, accompagnato da camomilla, thè e latte. Ma c’è di più. Da pochi giorni, come già segnalato da Il Dubbio, ha manifestato la volontà di porre fine alla sua vita, cercando informazioni sulla fattibilità di ottenere l’eutanasia attraverso il suo avvocato. Questa richiesta disperata solleva domande profonde sulla sua sofferenza e sulla sua visione del futuro. Irene Testa ha informato le autorità competenti di questa situazione, ma la sua dichiarazione va anche oltre il caso individuale di Porcelli. L’allarmante numero di detenuti al 41 bis e in regime di alta sicurezza in Sardegna, insieme all’intenzione di aumentare ulteriormente questo numero, solleva una questione di più ampia portata. La Sardegna, come sottolinea la Garante regionale, rischia di diventare una sorta di “Caienna d’Italia”, evocando il tristemente noto carcere francese durante il periodo coloniale. Questa realtà suscita domande scomode sulla funzione del sistema carcerario nel nostro paese. È essenziale bilanciare il rigore della legge con il rispetto dei diritti umani fondamentali. La storia di Domenico Porcelli mette in luce l’urgenza di riflettere su come trattare i detenuti, garantendo loro la dignità e la possibilità di riscatto. L’uso estremo dello sciopero della fame, come forma di protesta e richiesta di attenzione, ci spinge a considerare come la giustizia debba rispondere alle richieste di coloro che sono dietro le sbarre. In questo contesto, la sua richiesta di eutanasia solleva domande etiche e legali complesse. Rappresenta un grido disperato di ascolto da parte delle istituzioni. Ma nessun parlamentare vi ha fatto visita. Come precedentemente riportato su queste pagine, Porcelli è in attesa di un giudizio definitivo. Le sue avvocate, Maria Teresa Pintus e Livia Lauria, hanno presentato un reclamo per l’annullamento del decreto 41 bis, sottolineando la mancanza di elementi concreti che giustifichino il suo isolamento estremo. La giurisprudenza ha stabilito che ogni proroga del regime deve essere basata su una valutazione attenta delle circostanze individuali e delle reali minacce per l’ordine e la sicurezza. L’udienza, tuttavia, è stata fissata per il mese di novembre. È stato torturato all’Asinara, ora lo Stato presenta il conto per il “soggiorno” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 agosto 2023 È l’ex ergastolano ostativo e scrittore Carmelo Musumeci, noto per le sue battaglie per i diritti dei detenuti e per essere l’esempio vivente di come una persona può cambiare. Oltre al danno, la beffa. Per lunghi periodi di detenzione gli è stato riconosciuto il trattamento disumano e degradante, compresi quelli riguardanti la reclusione presso il famigerato carcere dell’Asinara. Finito di scontare la pena, gli è arrivata la cartella esattoriale dove si ritrova costretto a pagare il mantenimento anche per quei periodi di tortura ricevuta. Parliamo dell’ex ergastolano ostativo e scrittore Carmelo Musumeci, noto per le sue battaglie per i diritti dei detenuti e per essere l’esempio vivente di come una persona può cambiare, tanto da essere un esempio per tutti coloro che sono aggrappati alla speranza. E pensare, che per ottenere la liberazione anticipata dovette rimuovere un ostacolo: ha dovuto rinunciare al risarcimento di 28mila euro che aveva ottenuto per le condizioni disumane e degradanti che ha subito negli anni 90 nel famigerato carcere dell’Asinara. Da una parte il ministero della Giustizia ti risarcisce, ma dall’altra si riprende i soldi. Però l’ha fatto ben volentieri pur di ottenere la libertà e dimostrare, con un comportamento concreto, il ravvedimento anche lasciando allo Stato i soldi che gli spettavano. Questo fino a poco tempo fa. Ora che è arrivato il conto da pagare per il mantenimento (più di 14 mila euro), oltre ad aver rinunciato ai soldi che gli spettavano, gli toccherà pure tirarli fuori di tasca sua. Lo Stato ci guadagna due volte: si riprende i soldi del risarcimento e ne vuole quasi altrettanto per il periodo di mantenimento, compreso quello dove subì la tortura. A Carmelo Musumeci toccherà pagare il mantenimento carcere per il periodo che ha subito atti inumani e degradanti dallo Stato. Per comprenderne l’assurdità può venire in aiuto questo passaggio della Cassazione del 2008: “I periodi di detenzione caratterizzati dalla accertata illegalità convenzionale del trattamento non possono fondare il diritto di credito dell’amministrazione, atteso che è proprio l’offerta trattamentale che è causa di danno”. I giudici della corte suprema sottolineano che “ostano a tale riconoscimento ragioni di carattere logico, in quanto le modalità trattamentali inumani o degradanti determinano una detenzione illegittima nel quomodo, tale che il primo rimedio apprestato dal legislatore alla detenzione in condizioni inumane è quello della riduzione di pena, e sistematico, non potendo la condotta contra legem comportare l’esistenza di un contestuale onere a carico del soggetto che quel danno ha subìto”. Ricordiamo che Musumeci non è un ex boss, non ha mai fatto parte di Cosa nostra, ma era a capo di una banda, un clan che era dedito alla bisca clandestina. Non ha mai negato di essere stato un criminale. Anzi, ha sempre ammesso di aver commesso crimini di sangue per guerra tra “clan”. “O sparavo io, oppure loro sparavano me”, ha sempre raccontato. Il suo spirito ribelle, però, lo ha sempre portato fuori dall’appartenenza alla criminalità organizzata: non ha mai accettato una struttura verticistica dal quale prendere ordini o professare obbedienza. Ha commesso dei reati, anche gravi, ma paradossalmente è stato condannato all’ergastolo ostativo per un omicidio che lui dice di non aver mai commesso. Per questo ora si sta attivando per chiedere la revisione del processo. Parliamo dell’omicidio dell’imprenditore carrarese Alessio Gozzani avvenuto nel 1991. Fu il periodo nel quale, il mafioso colletto bianco Antonino Buscemi (personaggio che fu considerato uno dei massimi consiglieri di Totò Riina), aveva il controllo delle cave di Massa Carrara entrando in società con il gruppo Ferruzzi Gardini. Prendendo il controllo, Buscemi mandò a gestire le cave suo cognato Girolamo Cimino. Fu proprio quest’ultimo che ebbe un battibecco con Gozzani perché si oppose alla loro presenza. Dopo qualche giorno, quest’ultimo fu assassinato in autogrill. Su questo omicidio stava indagando l’allora procuratore Augusto Lama, colui che aveva condotto l’inchiesta sull’infiltrazione mafiosa nelle cave, ma fu travolto da provvedimenti disciplinari del Csm. Abbandonò l’indagine e da allora fa il giudice del lavoro. Nel frattempo, però, per la giustizia il mandante dell’assassinio era senza se e senza ma Musumeci. E questo nonostante che in seguito cominciarono a collaborare taluni pentiti, Angelo Siino in primis, che hanno affermato il contrario, indirizzando i responsabili proprio verso i Buscemi. Quindi Musumeci avrebbe scontato l’ergastolo ostativo, alternato da lunghi periodi al 41 bis e trattamenti disumani accertati, per un reato che non avrebbe mai commesso. Ora si ritrova a dover pagare perfino il mantenimento per la tortura subita. Colonie penali sarde, open to meraviglia di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti Il Manifesto, 11 agosto 2023 Meriterebbero di entrare in un tour di turismo sociale, le isolate fattorie di Is Arenas, Isili e Mamone dove lavorano più di 300 detenuti. Tra benefici e solitudine: un modello penitenziario che ha bisogno di futuro. “Purtroppo, nella condizione in cui devo vivere, i capricci nascono da soli: è incredibile come gli uomini costretti da forze esterne a vivere in modi eccezionali e artificiali sviluppino con particolare alacrità tutti i lati negativi del loro carattere” (Antonio Gramsci in Lettere dal carcere). Gramsci era nato ad Ales, un piccolo paese che si attraversa arrivando da ovest alla colonia penale di Isili, aperta nel 1878, qualche anno prima della nascita del fondatore del Partito Comunista d’Italia. Nello sguardo e nel linguaggio profondi, autentici e mai banali, di chi deve garantire la sicurezza della colonia, si percepisce la stratificazione della storia difficile di quei luoghi. Si ha anche la fortuna di poter intravedere una copia (rigorosamente in pdf, in quanto il giornale non si trova purtroppo nell’isola) de il manifesto. Quella delle colonie penali è una storia ottocentesca. Non sono molti gli studi che ripercorrono le tappe della loro nascita, evoluzione, progressiva dismissione. Di certo - spiegava Guido Neppi Modona, a cui si deve la più ricca ricostruzione della storia carceraria italiana - le finalità rieducative, seppur proclamate, stentavano a essere raggiunte: “Basti pensare - scriveva - alle condizioni di vita cui erano costretti i condannati e, con loro, le guardie carcerarie: nelle colonie, collocate appunto in terreni incolti e malarici, la malaria e le disastrose condizioni igieniche mietevano vittime in altissima percentuale, con picchi di mortalità dall’8 al 10% e di infermità dal 30 al 40%, secondo quanto dichiarato dallo stesso direttore generale delle carceri Beltrani Scalia in una relazione del 1891”. Sono quattro le colonie penali ancora attive in Italia, di cui una nell’isola di Gorgona e tre in Sardegna, a Is Arenas, a Mamone e appunto a Isili. Spazi enormi, terra coltivata, bestiame da allevare, attività di trasformazione come caseifici o macelli per confezionare prosciutti e salami. Le tre colonie sarde, che abbiamo visitato nei giorni scorsi, meriterebbero di non essere censite solamente da Antigone ma anche da Slow Food o dal Gambero Rosso. Così come da Lonely Planet, trattandosi di posti straordinari dal punto di vista paesaggistico che meriterebbero di divenire percorsi di turismo sociale. La colonia penale di Mamone si estende per 2.700 ettari tra le montagne. Ha al suo interno un vero e proprio paese, ormai abbandonato. Fino agli anni Ottanta ci vivevano famiglie del personale, c’era la scuola, l’ufficio postale, il parco giochi. Adesso tutto cade a pezzi. Sembra di entrare sul set cinematografico di un film apocalittico. Il pensiero del Ministero della Giustizia non arriva fino a qua. Si percepisce che questa piccola comunità di poliziotti, operatori, detenuti va avanti da sola, con le proprie strategie di vita che si snodano lungo la progressiva decadenza delle strutture. Fino a qualche anno fa venivano organizzate escursioni dalla costa, con degustazioni del vino - che non si produce più - e degli altri prodotti della colonia. Oggi le bellissime botti di legno nella grande cantina a volte dove ciò avveniva sono coperte da polvere e ragnatele. Tutto è fermo, immobile, nonostante la voglia e l’impegno del personale che vorrebbe rompere l’isolamento montano del luogo. A Is Arenas la colonia arriva invece fino al mare, ma la solitudine è la stessa. Un mare meraviglioso che è però sottratto alla possibilità di balneazione per i detenuti. Sono poco più di 300 i detenuti che vivono nelle tre colonie penali sarde. La loro esperienza detentiva non è minimamente assimilabile a quella di una carcerazione tradizionale. Lavorano i campi, allevano gli animali, si muovono per gli spazi enormi della colonia senza essere marcati a uomo da un agente di polizia penitenziaria. Tornano in cella quando si fa sera. Riescono a guadagnare intorno a 600 euro al mese che consentono loro di aiutare le famiglie lontane. I tre quarti dei detenuti sono stranieri, selezionati sulla base di una loro “affidabilità” penitenziaria. Sono escluse persone con problemi di dipendenze da droghe o affette da malattia psichica o fisica. Il detenuto nelle colonie penali deve essere prima di tutto un buon detenuto e poi anche un buon lavoratore. Al primo sgarro verrà mandato via. Deve sapere inoltre che perderà i contatti con il mondo esterno. I colloqui con i familiari si estinguono quasi del tutto, così come i rapporti con i volontari. Troppo difficile arrivare a Mamone, 45 minuti di tornanti dal piccolo comune di Siniscola. È una sorta di patto: si guadagna libertà di movimento e aria aperta e si perde in termini di relazioni. Un patto che tuttavia si potrebbe cercare di riscrivere, aumentando la presenza della società esterna nelle tre colonie penali sarde. Per fare solo il primo esempio che viene in mente: favorendo contatti con chi potrebbe valorizzare il pecorino prodotto a Isili o gli insaccati di Is Arenas o inserendo i luoghi all’interno di percorsi di turismo responsabile. Quando si esce dalla visita a una delle tre colonie è impossibile non farsi questa domanda: se mi arrestassero, preferirei vivere in una cella affollata di un carcere metropolitano, tra urla di persone che chiedono la terapia ma con la possibilità di avere colloqui con i miei cari, oppure avere la libertà di girare per campi, mungere mucche, allevare maiali, guadagnare qualche centinaia di euro, ma vedendo sempre e solo le stesse persone, siano detenuti, operatori, poliziotti? Il modello penitenziario italiano è oggi in grande sofferenza. Nel solo 2023 si sono contati nelle carceri 88 morti, di cui 41 per propria mano suicida. È un modello che produce sofferenza, e a volte morte, per i detenuti e che non promuove il benessere del personale penitenziario, in particolare quello di polizia. Anche a loro bisognerebbe chiedere cosa pensano del sistema di vita nelle colonie, se sia per loro più o meno stressante, più o meno gratificante, se sia più o meno conforme alle norme costituzionali. Ciascuna delle tre colonie penali sarde è oggi senza un direttore stabile. Il mese della svolta sarà probabilmente il prossimo novembre, quando ad ognuna ne verrà assegnato uno di ruolo. Si usi quest’occasione per pianificare il futuro delle colonie, ridare loro slancio produttivo, connetterle al territorio, rompere l’isolamento, far conoscere i prodotti della terra carceraria sarda, aprire al mondo di fuori. Non si deve più costringere alla scelta tra i corpi ammassati nelle sezioni o la vita sospesa e irreale in un bosco incantato lontano da ogni sguardo. Quali riforme per il processo di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 11 agosto 2023 Gli elettori hanno condiviso l’idea che l’esercizio dell’azione penale oggi crea problemi. La soluzione tecnica di questi problemi, tuttavia, comporta scelte, che restano affidate alla responsabilità degli eletti, i quali non si possono fare scudo di una presunta ed inesistente volontà degli elettori. In tema di giustizia ciò è tanto più vero, in quanto le scelte non devono essere imposte, ma condivise, perché la giustizia è “un bene comune”. Sono costretto, per brevità, a banalizzare. Nei Paesi anglosassoni il principio della separazione tra i poteri dello Stato è inteso in maniera non rigida. L’empirismo che permea quella cultura li porta a pensare a una circolarità del potere, che si esprime in forme da tenere insieme in maniera coordinata: tra legge, provvedimento e sentenza corre una sorta di filo continuo, che consente di miscelare una sufficiente diversità, per cui essi sono atti che più che costituire esercizio di tre poteri autonomi e distinti, finiscono con l’essere forme autonome e distinte di esercizio del potere. È in questo contesto che vanno inseriti la figura del “prosecutor”, organo del potere esecutivo, e il processo accusatorio, nel quale il giudice è semplice arbitro cui si riconosce un limitato controllo sul “prosecutor”, in quanto organo esecutivo. La stessa idea dell’autonomia o dell’indipendenza del giudice (e del “prosecutor”) è diversa da quella coltivata da noi, essendo soprattutto legata alla singola persona e alla sua responsabilità (di un Csm non si avverte il bisogno). Quanto di ciò possiamo trapiantare nel nostro sistema? Da noi la tripartizione dei poteri è rigida; legge, provvedimento e sentenza hanno diversa natura; autonomia e indipendenza devono essere strutturali e non affidate al senso di responsabilità del singolo. Se caliamo le soluzioni proprie del mondo anglosassone nel nostro mondo, dobbiamo chiederci quali sarebbero le conseguenze se modificassimo la Costituzione, inserendo il pubblico ministero tra gli organi del potere esecutivo. Gli dovremmo riconoscere la stessa indipendenza e autonomia di cui godono oggi, o sarebbe sufficiente l’indipendenza e l’autonomia che oggi si riconosce, ad esempio, agli organi di polizia? Nel dibattito in sede costituente ci si preoccupò che il pm, nell’esercitare l’azione penale, non fosse condizionabile. E fu naturale inserirlo nell’unico corpo della magistratura e renderlo portatore di un obbligo, quale si disse essere l’esercizio dell’azione penale. Si costruì un ibrido, quasi che abbia il corpo dell’indagatore e la testa del giudice, che bene si inseriva nel processo penale dell’epoca, di tipo inquisitorio, che dava prevalenza alle esigenze di sicurezza della società a scapito dei diritti dell’imputato. Abbiamo riscritto le norme sul processo penale. Ma le abbiamo riscritte con la nostra sensibilità, di cui la Corte costituzionale più volte si è resa interprete, perché non sappiamo fare a meno di subordinare i diritti del singolo alle esigenze di sicurezza. Lasciamo da parte il processo: senza essere farisaici, se un’intercettazione illegittima ci fornisse la prova di reato, sapremmo considerare che la prova non esiste? È di ieri la notizia che la Corte di cassazione ha posto alcuni limiti alla possibilità di utilizzare le intercettazioni. Subito si sono levate le preoccupazioni che in tal modo si rende più difficile la lotta alla criminalità. Mettiamocelo in testa: il processo genuinamente accusatorio è un processo che si adatta a delitti, la cui fattispecie è elementare e poco circostanziata perché deve essere percepita da una giuria di persone non tecniche (non so se il giurista o il giudice anglosassone ci capirebbe se gli parlassimo di concorso esterno); in cui le parti sono poche e limitate all’accusato e all’accusatore (senza le parti civili); in cui la sentenza normalmente non è impugnabile per ragioni di merito. È un processo che non ha la sicurezza sociale tra i suoi obiettivi principali; che non ha bisogno di giudici eroi da celebrare. Per noi, che vogliamo coniugare i diritti con le esigenze di sicurezza sociale, il processo accusatorio è un ibrido anch’esso, inevitabilmente. Una serena discussione deve, perciò, partire dalla constatazione che il modello inquisitorio e il modello accusatorio di processo non esistono nella “natura delle cose”, sono modelli tendenziali cui è possibile apportare molte varianti (il ministro e gli avvocati penalisti dovrebbero farsene una ragione e i secondi mettere da parte la pretesa di un processo accusatorio quando difendono l’imputato e inquisitorio quando difendono la parte offesa). Prima di modificare la Costituzione, sarebbe perciò necessario chiedere al popolo se condivide l’idea di un processo che dà valore prevalente alla tutela dell’imputato anche a rischio della sicurezza sociale. Se la volontà del popolo fosse nel senso che va dato rilievo alla sicurezza sociale, bisognerebbe abbandonare l’idea che si possa introdurre nel nostro sistema un processo accusatorio puro e bisognerebbe convenire su soluzioni inevitabilmente ibride, quali, forse inavvertitamente, i Costituenti prescelsero. Ho il sospetto che essi paventavano che il pm, inserito nel potere esecutivo, avrebbe potuto essere in qualche modo condizionato dal governo qualora non gli fosse assicurata l’assoluta autonomia, oltremodo pericolosa quando si esercita un potere necessariamente discrezionale (quale è il potere d’indagine), ma al tempo stesso permanente e non soggetto a controlli. È questa la ragione per la quale da tempo sostengo che la soluzione delle attuali criticità non va ricercata nella separazione delle carriere, ma in una legge ordinaria che definisca lo “status” del pm in funzione della sua attività, che è ben diversa da quella del giudice. Pecorella: “Fi è l’unico partito garantista del governo, ma non ha un leader” di Simona Musco Il Dubbio, 11 agosto 2023 Per il penalista, il decreto intercettazioni è “un massacro delle garanzie” ed un provvedimento “incostituzionale”. “Nordio decida: o dimostra chi è o vada via”. Nordio? “Un ministro di copertura”. Il decreto sulle intercettazioni? “Un massacro delle garanzie, incostituzionale”. Per Gaetano Pecorella, penalista e già presidente della Commissione Giustizia alla Camera, non ci sono dubbi: non esiste alcuna possibilità che questo governo realizzi quello che, almeno a parola, era il programma garantista del Guardasigilli sulla giustizia. E all’interno dell’esecutivo, l’unico partito liberale, ovvero Forza Italia, non ha più alcun potere, perché sprovvista di un “vero leader”: “Chi avrebbe il coraggio di dire a Meloni che questo decreto non si può votare?”. Il governo ha allargato per decreto il perimetro delle intercettazioni: cosa ne pensa? Dal punto di vista delle garanzie è un massacro. A partire dal metodo usato e anche in relazione alla possibilità dell’applicazione retroattiva di una norma che incide sui diritti fondamentali della riservatezza e della persona. A mio avviso, si tratta di una legge incostituzionale, perché interviene su una questione giudiziaria che risale a quasi un anno fa, per cui non urgente, e perché la norma transitoria ritiene che questa legge sia applicabile ai procedimenti in corso. Vede contraddizioni tra gli annunci del ministro Nordio e le sue azioni concrete? Nordio ormai si rivela un ministro di copertura. Prima esce con delle improvvisazioni che non sono sicuramente la linea del governo, come quella relativa al concorso esterno, poi si accredita come ministro e dietro l’immagine del garantista fa passare leggi che garantiste non lo sono affatto. Essendo uno dei pochi magistrati aperti ai diritti individuali, fa da copertura ad una politica assolutamente contraria ai principi costituzionali. Una cosa che avrebbe dovuto capire subito: non può esistere un governo di estrema destra che abbia una politica giudiziaria orientata ad aumentare le garanzie. Credo che nel momento in cui è entrato nel governo o si illudeva - ma mi pare difficile, perché è un uomo intelligente - o pensava di poter forzare la politica giudiziaria di un intero esecutivo, nonostante sia composto da ministri che vengono da Alleanza nazionale. Come pensava di poter fare da solo una politica giudiziaria veramente liberale? C’è una contraddizione insanabile. Nordio aveva dichiarato che si sarebbe dimesso nel caso in cui non avesse avuto la libertà di essere ciò che ha sempre dichiarato di essere, ma oggi rivendica coerenza. È una conseguenza della volontà di Meloni di non scontentare le toghe? Io credo che l’esperienza passata dei governi che hanno preso una posizione non gradita alla magistratura, anche per ragioni legate alle proprie vicende giudiziarie, dimostri che la magistratura sa essere più forte della politica. Vorrei tornare ad un dato di cui non ci si ricorda mai: l’eliminazione dell’immunità. Nel momento in cui la politica si è privata di qualunque scudo contro l’intervento della magistratura - magari destinato a finire nel nulla ma capace di creare grossi effetti politici - ha rinunciato a difendersi. Credo che a Meloni non interessi nulla di proteggere i diritti individuali, anzi, essendo di impronta autoritaria considera lo Stato come punto di riferimento e non certo l’individuo, com’è invece scritto nella nostra Costituzione. Le interessa proteggere il suo governo, andare avanti e creare le condizioni per restare a Palazzo Chigi sicuramente tutta la legislatura e probabilmente anche la prossima. Perché fare la guerra alla magistratura quando ciò che interessa è stare al governo? Che scelta ha Nordio? Può scegliere se abbandonare il grande potere che ha un ministro come quello della giustizia o restare lì continuando a dire io sono garantista e ve lo dimostro con i miei interventi. Nell’immaginario è ancora un garantista, grazie alle sue dichiarazioni, ma poi il governo fa altro. Pensa di poter proteggere la sua immagine, il suo essere diverso, ma credo che prima o poi dovrà fare i conti con la realtà. Qualcuno gli dovrà pur chiedere conto di tutto quello che ha promesso e di tutto quello che non ha fatto. Potrebbe essere Forza Italia il soggetto a presentare il conto? L’agenda dei forzisti coincide con quella ipotetica del ministro... Credo che FI oggi sia, purtroppo, un partito molto debole. Ha più o meno la stessa posizione di Nordio: si chiede dove sia finito il garantismo del ministro ma al tempo stesso vota queste leggi. O FI ritiene di spaccare il governo, uscirne e allearsi eventualmente con l’opposizione facendo una sua politica autonoma - unica possibilità, forse, che ha per sopravvivere alla scomparsa di Berlusconi portando avanti veramente le sue idee garantiste -, o rimane lì e pur non dicendosi d’accordo vota come pretende il governo, finendo per fare la stessa figura che sta facendo Nordio. Dovrebbe avere la forza e il coraggio di fare delle scelte e dire che c’è una violazione costituzionale, su questo decreto, perché non ci sono ragioni di necessità e di urgenza, invitando il governo a presentare una legge e a discuterne in Parlamento. Potrebbe essere un atto di forza e di intelligenza, ma ci vogliono dei veri leader per fare queste cose. In questo momento non ci sono? Direi proprio di no. Chi ha il coraggio di fare un discorso di questo genere? Invece di mugugnare avrebbe dovuto assumere una posizione rigida, chiedendo l’eliminazione della norma transitoria, del metodo del decreto e passando alla proposta di legge, ma questo nessuno l’ha detto. Alla fine si nascondono tutti dietro la necessità di salvare il governo, di andare avanti. Non si può pretendere che un governo autoritario possa essere anche liberale. E tutte le leggi fatte finora sono illiberali, a partire dal primo atto, il decreto rave. Si va avanti esattamente sulla stessa linea. E questo senza nemmeno fare una legge per coprirsi le spalle, lì dove si potrebbe avere il consenso della magistratura, come nel caso dell’avvocato in Costituzione. Quindi o Forza Italia, essendo una componente indispensabile del governo, punta i piedi su alcune cose, oppure avremo cinque anni di leggi illiberali. Ma se non ci riuscì Berlusconi a fare una riforma per portare a compimento il modello accusatorio figuriamoci se può riuscirci oggi FI con un leader che non ha la sua forza. Non ci sono possibilità di portare a casa la separazione delle carriere, dunque? È già partita con il piede sbagliato: non ci saranno mai i voti sufficienti con il meccanismo della riforma costituzionale. Non credo che questo governo la farà mai, anche perché questo è davvero un punto nevralgico per i magistrati. Primo perché tocca la compattezza della magistratura come forza politica, dividendola in due, e togliendo al pm la credibilità che ha oggi, come se fosse un giudice, secondo perché incide sulla carriera dei magistrati. È davvero una riforma che tocca il potere della magistratura: sarà impossibile realizzarla. Intercettazioni, riforma già operativa di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 11 agosto 2023 Si applica subito l’estensione dello scivolo delle intercettazioni penali: per eco-reati, sequestri di persona estorsivi, reati di terrorismo e di mafia possono essere usate, anche nei procedimenti pendenti, se gli indizi sono sufficienti (non per forza gravi) e se semplicemente necessarie (senza essere doverosamente indispensabili). Coerentemente con la natura urgente del provvedimento, l’immediata operatività di un più facile ricorso allo strumento investigativo delle intercettazioni è prevista dal decreto-legge in materia (prevalente) di giustizia, approvato dal consiglio dei ministri dell’8 agosto 2023 (decreto legge n. 105 pubblicato sulla Gazzetta ufficiale di ieri). Sarà possibile per alcuni gravi reati, da subito, anche per i procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d-l in commento, effettuare intercettazioni in presenza di condizioni più leggere rispetto a quelle ordinariamente richieste dal codice di procedura penale: al posto della gravità degli indizi basterà la sufficienza degli stessi e al posto della indispensabilità delle intercettazioni basterà la necessità. Tutto ciò per reati che il Governo ritiene di offensività omogenea rispetto a quelle di criminalità organizzata e, in particolare, alle attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (articolo 452-quaterdecies codice penale), sequestro di persona a scopo di estorsione (articolo 630 del codice penale), o commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale (forza di intimidazione del vincolo associativo e condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano) o al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo (associazioni di tipo mafioso). Per le intercettazioni è previsto un pesante intervento riorganizzativo: viene progettata la realizzazione di apposite infrastrutture digitali interdistrettuali, da utilizzare a regime nei procedimenti penali iscritti successivamente al 28 febbraio 2025. Nelle stesse confluiranno anche gli archivi digitali attuali. I decreti attuativi delle infrastrutture dovranno essere adottai sentito il garante della privacy. In ogni caso, il ministero della giustizia, non può avere accesso ai dati in chiaro, che restano coperti dal segreto investigativo. Intercettazioni. Dai trojan al metodo mafioso: così cambieranno anche i procedimenti già in corso di Paolo Pandolfini Il Riformista, 11 agosto 2023 Con il nuovo Decreto Legge basteranno i “sufficienti indizi” per autorizzare gli ascolti, destinati a crescere in maniera esponenziale anche per ambito di applicazione. La tanto attesa stretta sulle intercettazioni telefoniche, “una barbarie che ci costa 200milioni di euro l’anno per raggiungere risultati minimi” è durata giusto il tempo di un paio di interviste: quando si è trattato di passare dalle parole ai fatti, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha dato invece il via libera ad un provvedimento che è l’esatto contrario. Da ora in avanti intercettare sarà dunque molto più facile, essendo stata prevista una corsia preferenziale per un lungo elenco di reati. In pratica, con il decreto legge approvato questa settimana dal Consiglio dei ministri, l’ultimo prima della pausa estiva, basteranno i “sufficienti indizi” per autorizzare gli ascolti invece dell’originaria formula dei “gravi indizi”. La norma, peraltro, si applicherà ai procedimenti già in corso. Nello specifico, il nuovo regime riguarda le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, il sequestro di persona a scopo di estorsione, i delitti commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni tipiche della mafia previste dall’articolo 416-bis del codice penale o al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose. Ciò significa che si potranno effettuare intercettazione anche per reati “comuni” purché siano stati commessi con il metodo mafioso. È di tutta evidenza che gli ascolti cresceranno in maniera esponenziale dal momento che in questi anni il concetto di “metodo mafioso” si è allargato a dismisura. L’utilizzo del trojan - Le cronache sono tutto un pullulare di “nuove” mafie che, utilizzando le parole della Cassazione “non radicate nel patrimonio storico assicurato dal prestigio criminale della tradizione, come nel caso delle mafie storiche, quali Cosa nostra, o ndrangheta e camorra”. Anzi, la Cassazione ha anche sdoganato la “piccola mafia la quale nel suo ambito ha sviluppato una forza di intimidazione scaturente dal vincolo associativo fino a farne derivare quella tangibile condizione di omertà e assoggettamento di coloro che si siano trovati a rapportarsi con essa”. Ma non solo. C’è il sospetto che questa riforma estenda ancora di più l’utilizzo del trojan, il virus spia che trasforma il telefono in un microfono sempre acceso e che, appunto, è previsto proprio per i reati di mafia e terrorismo. Virus spia oggetto di un approfondimento in queste settimane in Commissione giustizia al Senato per la sua estrema invadenza nella sfera privata delle persone, anche non direttamente coinvolte nelle indagini. Il commento dell’Unione delle camere penali - “Con le nuove norme si è inteso ampliare il novero delle fattispecie che confluiscono nel c.d. doppio binario e per le quali è consentito il massiccio ricorso alle intercettazioni, anche attraverso il captatore informatico, in presenza di indizi (solo) sufficienti di reato” hanno scritto in un comunicato gli avvocati dell’Unione delle camere penali. “Il governo - hanno aggiunto - ha scardinato l’insieme dei limiti alla compressione del diritto alla segretezza e inviolabilità delle comunicazioni prevedendo, secondo il dettato normativo, una qualche rigidità dei presupposti e un freno all’utilizzo delle intercettazioni in procedimento diverso da quello nel quale sono state predisposte” e così “realizzando i desiderata di alcune Procure oramai aduse a fondare quasi esclusivamente sulle intercettazioni l’impianto probatorio a sostegno dell’azione penale”. “Il Dicastero guidato da Nordio fa oramai sistematicamente seguire alle condivisibili dichiarazioni garantiste del Ministro, disegni, atti e proposte che vanno in altra direzione. L’avvocatura penale saprà individuare le forme più adeguate per dar voce alla protesta e richiamare alla coerenza con gli impegni assunti tutti gli attori istituzionali”, concludono quindi i penalisti. “Quando si tratta di mafia, Forza Italia non può che essere del tutto intransigente” ha dichiarato il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin. “Da giurista - ha aggiunto - manifesto piuttosto una perplessità sul metodo, più che sul merito, ossia sulla scelta di intervenire con un decreto legge per sanare un contrasto giurisprudenziale. Sicuramente Nordio, che è un ministro molto pragmatico, ha voluto risolvere in maniera concreta e immediata la questione e sulla norma specifica noi non possiamo che essere d’accordo”. Intercettazioni. L’inchino di Nordio alle Procure nel segno di Conte e della complessità della realtà di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 11 agosto 2023 Il Governo Meloni ha dunque varato, per di più con decretazione di urgenza, la più sostanziosa e micidiale estensione del potere di intercettazione delle conversazioni tra privati della storia repubblicana. Il regime già eccezionale delle intercettazioni quando si è in presenza di associazioni mafiose, viene ora esteso anche a reati comuni che il PM ritenga commessi “con modalità mafiose”. Insomma, mentre per poter fare uso di quei poteri davvero eccezionali di ascolto era almeno necessario che vi fossero indizi del reato di associazione mafiosa, ora sarà sufficiente la agevole contestazione di quella fumosa aggravante per consentirlo per una assai vasta platea di reati comuni. Ciò che la Corte di Cassazione (non un manipolo di penalisti esagitati) aveva fermamente escluso con costante giurisprudenza, a difesa dell’art. 15 della Costituzione, viene ora reso possibile dal Governo con il Ministro di Giustizia più dichiaratamente liberale degli ultimi decenni, in deferente ossequio alle pressanti richieste di alcune Procure (o super Procure) di mettere a tacere quella giurisprudenza così rigorosamente fedele al quadro dei valori costituzionali. Un paio di settimane fa ci chiedevamo, da queste colonne, come avrebbe mai potuto il Ministro Nordio giustificarsi per una simile scelta (allora solo preannunciata dalla Presidente Meloni): oggi lo sappiamo. Alle impietose domande del bravo Francesco Grignetti su La Stampa, il Ministro ha sbrigativamente risposto che la misura serve solo a rendere “più incisivi” gli strumenti di indagine, ed anzi a “tipizzarne” l’uso, in ossequio al principio della certezza del diritto (sic!). Aggiungeva poi, in modo risolutivo, di non avvertire alcuna contraddizione con i propri convincimenti giacché la dicotomia garantisti-giustizialisti è fuffa, esistendo solo “la complessità della realtà”. Pensate che ingenui noi siamo: eravamo convinti che, pur nel rispetto della complessità della realtà, un ministro liberale eletto e scelto dalla propria maggioranza esattamente per tale sua qualità, dovesse realizzare da subito riforme liberali. Invece, dopo aver parlato senza tregua proprio della riforma liberale delle intercettazioni telefoniche quale snodo cruciale ed identitario della propria politica della giustizia penale, il Ministro Nordio vara una riforma di segno plasticamente opposto, in ossequio -ben si intende- alla complessità della realtà. La quale ultima suggerisce anche -ci ricorda il Ministro- tempi lunghi per la separazione delle carriere, perché lì necessita una riforma costituzionale, e le priorità ora sono altre. Ed anche qui ci siamo scoperti ingenui, per aver pensato - che stupidi - che proprio trattandosi di una riforma costituzionale dai tempi lunghi, essa avrebbe dovuto iniziare il suo percorso quanto prima possibile. Quanto alla superflua dicotomia tra garantismo e giustizialismo, potrà essere utile sapere che la risposta di Nordio è quasi testualmente identica a quella che diede il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte il 7 febbraio 2020. Anche la transustanziazione di Nordio in Conte deve probabilmente avere a che fare con la “complessità della realtà”. Diffamazione? Dipende da chi denuncia di Paolo Pandolfini Il Riformista, 11 agosto 2023 Nel caso si tratti di magistrati, la domanda viene accolta in ben sette casi su dieci, succede l’opposto se il denunciante non indossa la toga. Da tempo ormai le decisioni giudiziarie in tema di diffamazione stanno creano grande disorientamento. Se paragonare l’allora presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati ad Adolf Hitler non è ‘antigiuridico’, criticare in maniera ironica, come fece Maurizio Costanzo, il giudice che non aveva disposto una misura restrittiva per l’ex fidanzato di Jessica Notaro, poi sfregiata da costui con l’acido, ha determinato la condanna del conduttore televisivo oltre al pagamento di una maxi provvisionale di 40mila euro. Si è creata, in altre parole, una giurisprudenza quanto mai imprevedibile che rende difficilissimo ricondurre ad un ordine sistematico tali decisioni giudiziarie. E non è certamente un bel segnale. La discrezionalità del giudicante in questo ambito è massima e ciò determina, inevitabilmente, la crisi del sistema giustizia. Solo al giudice, ed alla sua valutazione e sensibilità, compete infatti acclarare se una dichiarazione rientri nell’alveo della libertà di espressione, della critica o della satira, o invece è idonea a ledere i diritti della personalità altrui, come l’onore e la reputazione. I criteri per assicurare, almeno sulla carta, una certa uniformità negli importi risarcitori da liquidare al danneggiato comunque ci sarebbero. Al primo posto, in ordine di importanza, vi è la natura del fatto falsamente attribuito alle parti lese. Segue quindi l’intensità dell’elemento psicologico dell’autore ed il mezzo di comunicazione utilizzato per commettere la diffamazione e la sua diffusività sul territorio. Infine, vi è il rilievo attribuito dai responsabili al pezzo contenente le notizie diffamatorie all’interno della pubblicazione in cui lo stesso è riportato e l’eventuale eco suscitata dalle notizie diffamatorie. Una analisi di circa settecento sentenze depositate negli anni 2015/2020 presso il Tribunale di Roma è stata pubblicata su Diritto dell’informazione e dell’informatica, periodico edito da Giuffrè, da parte dei professori di diritto privato comparato Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich. I due docenti hanno acquisito, dopo essere state previamente anonimizzate nella identità delle persone fisiche attrici e convenute, queste pronunce dalla banca dati del Tribunale della Capitale. In taluni casi però la notorietà delle parti ha reso tale misura superflua. Sono invece rimaste identificate le persone giuridiche. Il dato che balza subito all’occhio riguarda l’accoglimento: solo in tre casi su dieci. Delle oltre quattrocento sentenze di rigetto, poi, tutte decidono nel merito negando l’illecito. Vi sono poche decisioni su questioni preliminari, tipicamente per la competenza territoriale, ovvero di inammissibilità del giudizio oppure sulla sua estinzione. Nel caso si tratti di magistrati, ed è questo l’aspetto che non può non suscitare sorpresa, la domanda viene accolta in ben sette casi su dieci. Esattamente il contrario, dunque tre accoglimenti su dieci, quando il denunciante appartiene ad una qualsiasi altra categoria professionale (giornalista, politico, professore, imprenditore, ecc.). Per quanto concerne invece gli importi, la media è di circa ventimila euro, esattamente il doppio per le toghe. Difficile non pensare, considerato il differente esito processuale, all’esistenza di una “giustizia domestica” fra i magistrati per questo genere di cause: il giudice che decide sulla denuncia per diffamazione del collega sa che quest’ultimo un domani potrà fare altrettanto. Un magistrato, ex Pm di Mani pulite, nel quinquennio in questione è riuscito ad imbastire oltre venti cause ottenendo un risarcimento complessivo di quasi seicentomila euro. Il convenuto è quasi sempre un mezzo di comunicazione di massa, quotidiano o programma televisivo, che poi corrisponde l’importo liquidato in quanto debitore di ultima istanza, anche rispetto ai propri giornalisti. La ricerca si è soffermata anche sulla presenza di non poche decisioni in cui la contesa ha riguardato persone fisiche, generate da offese diffuse attraverso i social media. Si tratta di un fenomeno in grande aumento nell’ultimo periodo. Tenendo conto delle regole sulla competenza territoriale, e quindi che i procedimenti analizzati hanno riguardato per la maggior parte vicende in cui l’editore aveva sede nella Capitale, i dati forniti da Sammarco e Zeno-Zencovich sono meramente indicativi in quanto non riportano gli importi liquidati da altri Tribunali, sede della persona giuridica convenuta, ovvero dove uno dei convenuti è residente, ovvero ancora del luogo di residenza dell’attore. Sarebbe interessante una analisi di queste decisioni sull’interno territorio nazionale. “In estrema sintesi si può affermare che tutto è rimesso all’apprezzamento discrezionale del giudice: è molto difficile, se non impossibile, stabilire in linea di massima come potrà concludersi una causa risarcitoria per diffamazione”, sottolinea sconsolato il professor Sammarco, ricordano che in molti casi scatta anche la condanna alle spese. Della serie, oltre il danno la beffa. Altro dunque che certezza del diritto: in questo caso siamo veramente nell’ambito della cabala. Negrar e il rischio che dal populismo giudiziario si passi alle vie di fatto di Claudio Cerasa Il Foglio, 11 agosto 2023 L’altra notte la casa di Begalli, l’uomo che ha investito e ucciso Chris Obeng Abon, è stata presa d’assalto da una trentina di ragazzi, incappucciati. Al grido di “assassino, devi morire, ti ammazziamo”, hanno tentato un linciaggio in piena regola. “Les Misérables” è un duro film del regista francese di origini maliane Ladj Ly, che si conclude con il drammatico assalto di una banda di ragazzini franco-africani che vogliono farsi giustizia di alcuni poliziotti violenti e razzisti ma “protetti” da una legge che, nel film, non fa nemmeno lo sforzo di comparire. È la banlieue parigina, sappiamo quanto sia infiammabile. Ma Negrar, provincia di Verona, non è banlieue. Anche Davide Begalli, l’uomo che ha investito e ucciso Chris Obeng Abon, quattordici anni, fuggendo senza prestare soccorsi che lo avrebbero forse salvato, non è un razzista violento come i poliziotti del film. Può darsi, lo stabiliranno i giudici - è agli arresti domiciliari indagato per omicidio stradale - che sia colpevole, anche di una volontaria omissione di soccorso. Ma c’è per l’appunto un procedimento in corso, e una legge che, in questo caso, si è subito fatta presente. Eppure l’altra notte la casa di Begalli è stata presa d’assalto da una trentina di ragazzi, incappucciati, molti immigrati, amici di Chris. Al grido di “assassino, devi morire, ti ammazziamo”, hanno tentato un linciaggio in piena regola. Le banlieue sono lontane, il razzismo qui è solo una tragica aggiunta del caso, ma è vero che in Italia un clima da populismo giudiziario, e da giustizialismo mediatico, sta facendo di tutto per trasformare Negrar nel prossimo set di Ladj Ly. Il reato di omicidio stradale esiste, anche se non tutti gli incidenti sono oggettivamente omicidi. Ma se la magistratura dichiara che “Begalli ha mostrato spregio della vita umana” prima che sia provato, rischia l’effetto di esacerbare chi pretende di farsi giustizia da solo. Le cronache recenti segnalano casi analoghi (l’avvocata d’ufficio di Zakaria Atquaoui, l’assassino di Sofia Castelli a Cologno, è stata minacciata da persone che pretendevano la rinuncia all’incarico). L’informazione è spesso responsabile di soffiare su situazioni già dolorose e incandescenti, e dal canto suo la politica sembra non saper dare altre risposte se non quelle di inasprimenti punitivi. Non una buona strada. Scrivere su Bezmotivny è reato, anarchici sbattuti in galera di Frank Cimini L’Unità, 11 agosto 2023 Per Alfredo Cospito non basta la tortura del 41bis fino al divieto di tenere in cella le foto dei genitori defunti. Cospito continua ad essere processato un po’ ovunque. Per stare agli ultimi giorni tra Perugia, Genova, Firenze e Carrara con misure cautelari destinate a chi lo ha sostenuto perché come scrive il giudice delle indagini preliminari del capoluogo ligure inneggiare a Cospito è un reato. Il circolo culturale anarchico “Gogliardo Fiaschi” di Carrara in un comunicato parla di una decina di misure che la procura di Genova aveva chiesto come custodia in carcere e che il giudice ha trasformato in quattro arresti domiciliari, cinque obblighi di dimora. In cella a La Spezia è finito solo un indagato perché viveva in una casa occupata. Associazione sovversiva con finalità di terrorismo, istigazione a delinquere. Tutto ruota intorno al quindicinale “Bezmotivny” peraltro già chiuso per articoli a partire dal 2020 che avrebbero offeso l’onore e il prestigio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel dicembre scorso il circolo di Carrara aveva manifestato solidarietà a Cospito postando sul proprio profilo Facebook la foto di un intervento dell’anarchico detenuto a Sassari Bancali risalente addirittura al 1990 durante l’occupazione di un teatro cittadino. Il nome del quindicinale, ritenuto dai magistrati stampa clandestina, richiama la vicenda degli anarchici del primo novecento in Russia contro il regime zarista. Il circolo è da tempo attivo con iniziative di tipo culturale e letterario con temi che riguardano lavoro ambientale e ecologia. Gogliardo Fiaschi era un partigiano deceduto nel 2000 che tredicenne aveva preso parte alla Resistenza sulle Alpi Apuane nella formazione anarchica “Gino Lucetti”. Computer cellulari e materiale di area tra cui manifesti contro Marta Cartabia sono stati sequestrati dalla Digos. Sotto accusa addirittura “due casi di proselitismo nei confronti di minorenni”. Il gip nell’ordinanza dice che anche il giudizio sulla personalità degli imputati conferma il fortissimo pericolo di reiterazione dei reati e prosegue addebitando “la reattività contro qualsiasi imposizione proveniente dallo Stato identificato come il nemico principale”. Poi c’è “l’adesione convinta alla pratica anarchica fino a farne una ragione essenziale di vita”. Insomma dalla lettura dell’ordinanza emerge chiaramente che il problema è politico. “E’ l’ennesimo tentativo di dimostrare l’esistenza di una associazione con finalità di eversione, tutti tentativi già falliti in passato, peraltro in questo caso relativa a mere pubblicazioni e nessun atto concreto da parte degli indagati - dicono gli avvocati Fabio Sommovigo, Marta Malagnini e George Botti - Si tratta di scritti che si suppongono istigatori o apologetici e quindi di un ambito strettamente connesso all’espressione della libertà di pensiero”. E aggiungono i legali: “2 anni di indagini con due fascicoli aperti pedinamenti e intercettazioni dimostrano che oltre a scrivere gli indagati null’altro hanno fatto e soprattutto che non vi è stata alcuna condotta loro attribuibile concretamente offensiva per persone o cose”. Bergamo. Federico Gaibotti, il suicidio annunciato in carcere dopo aver ucciso il padre di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 11 agosto 2023 Il giovane parricida di Cavernago si è tolto la vita impiccandosi in bagno con la felpa. Aveva già manifestato i suoi propositi, ieri mattina era stato in Psichiatria. La Garante dei detenuti: “In via Gleno situazione pesante”. Voleva morire, Federico Gaibotti, 30 anni segnati dalla droga. E lo ha fatto, ieri pomeriggio in carcere, senza che nessuno se ne accorgesse in tempo e lo fermasse. Lo aveva detto alla vicina di casa del padre Umberto, in via Verdi a Cavernago, venerdì. Al padre stesso, prima di ucciderlo a coltellate al culmine di una discussione proprio per la fissa del suicidio. Si sarebbe stordito con il crack e la cocaina e poi sarebbe dovuto morire lui a coltellate. Lo aveva ripetuto nell’interrogatorio davanti al gip: “Non valgo niente, volevo suicidarmi”. Ieri pomeriggio ha portato a termine il suo piano, nella cella del carcere di Bergamo in cui era rinchiuso da venerdì e che condivideva con un altro detenuto “protetto”, cioè privato come da protocollo di cinture, lacci, tutto quanto potesse usare per farsi del male. Eppure ce l’ha fatta, impiccandosi in bagno utilizzando la felpa. È stato tutto molto veloce, senza che se accorgesse in tempo l’altro detenuto, senza che se ne accorgesse la polizia penitenziaria. Un gesto pluriannunciato. Anche ieri mattina, quando per questa sua intenzione era stato portato in Psichiatria (per il carcere, all’ospedale Papa Giovanni XXIII) e poi ricondotto in via Gleno. “Una vicenda triste. Sì, l’ho visto anche nei giorni scorsi”, non va oltre l’avvocato d’ufficio Miriam Asperti che lo difendeva per l’omicidio e, in sede di convalida dell’arresto, aveva chiesto la misura cautelare in una comunità. C’era andato, Federico, in una comunità a Brescia, ma era riuscito a resistere solo una settimana. Lo aveva promesso quando, a fine giugno, era stato arrestato e processato per direttissima per tentata violazione di domicilio a casa della madre, a Seriate, lesioni e resistenza ai carabinieri intervenuti. La droga e l’alcol, assunto il pomeriggio dell’omicidio del papà (oggi alle 15 i funerali), il crescendo dei guai, il pericolo di reiterazione: nell’ordinanza di convalida dell’arresto, con il carcere come “unica misura in grado di assicurare il costante controllo della persona sottoposta alle indagini”, il gip tratteggia lo sfondo che “depone in favore di una personalità disturbata e priva di normali freni inibitori e degli istinti più bassi”, indicando la strada della consulenza psichiatrica del pm (titolare del fascicolo è Laura Cocucci) da approfondire. Ora verrà aperto un altro fascicolo, dal pm di turno Emanuele Marchisio. Ci finiranno i rilievi della Scientifica della Questura intervenuta in carcere e gli esiti dell’autopsia, per non lasciare dubbi. Cercati, non è stato possibile parlare con la direttrice del carcere Teresa Mazzotta e con il comandante della polizia penitenziaria. “Certo, voglio capire meglio che cosa è capitato, anche perché non succeda ancora. Domani mattina (stamattina ndr) andrò in carcere”. La Garante dei detenuti Valentina Lanfranchi ieri era rimasta in via Gleno fino alle 14: “Non lo sapevo. Qui la situazione è pesante, pesante, pesante. Non abbiamo celle da un detenuto, ce ne stanno 3,4,5. Troppi i casi psichiatrici e poco personale”. A fine luglio, con la tappa dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” i detenuti erano 523 con una capienza di 317, e 132 agenti su un organico di 234. Le parole misurate di don Dario Acquaroli, cappellano del carcere, riassumono la tragedia di questi giorni: “Continuo la preghiera per tutta la famiglia”. Torino. Detenuta del Lorusso-Cutugno si lascia morire di fame. “C’è emergenza salute tra le sbarre” sappe.it, 11 agosto 2023 Una detenuta di origine nigeriane, 43 anni, si è lasciata di morire di fame nel carcere di Torino dove era detenuta. A nulla sono servite le sollecitazioni ad alimentarsi da parte dei medici e del personale di Polizia Penitenziaria. A dare la notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per voce del Segretario regionale del Piemonte Vicente Santilli. “Il pur tempestivo intervento dei nostri Agenti di Polizia Penitenziaria di servizio non ha purtroppo impedito la morte della detenuta”, commenta. Santilli evidenzia che “la donna stava scontando una pena per cui era prevista il termine nell’ottobre 2030. È deceduta intorno alle 3, nell’articolazione di salute mentale presso cui era ristretta, e la morte è stata accertata dal personale medico e paramedico del 118, immediatamente chiamato dagli Agenti. La donna, entrata in carcere poco dopo la meta del luglio scorso, si era da subito rifiutata di assumere alimenti, rifiutava ogni cura e sollecitazione a mangiare e persino i ricoveri in Ospedale”. Il segretario del SAPPE Piemonte rappresenta che “in Piemonte vi sono 13 istituti penitenziari sui 189 nazionali. La capienza regolamentare regionale stabilita per decreto dal ministero della Giustizia sarebbe di 3.999 detenuti, ma l’ultimo censimento ufficiale (al 31 luglio 2023) ha contato 4.036 reclusi, che ha confermato come il Piemonte sia tra le regioni d’Italia con il maggior numero di detenuti. Le donne detenute sono complessivamente 160 mentre gli stranieri ristretti sono circa 1.600” “La situazione sanitaria nelle carceri resta allarmante, come hanno anche confermato in più occasioni anche gli esperti della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria: altro che emergenza superata”, commenta Donato Capece, segretario generale SAPPE. “Secondo un rapporto su "Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere" del Comitato Nazionale per la Bioetica, osservando le tipologie di disturbo prevalenti sul totale dei detenuti presenti, al primo posto troviamo la dipendenza da sostanze psicoattive (23,6), disturbi nevrotici e reazioni di adattamento (17,3%), disturbi alcol correlati (5,6%). Le carceri, dunque, assomigliano sempre più a “moderni lazzaretti” di manzoniana memoria”, conclude Capece. “Anche la consistente presenza di detenuti con problemi psichiatrici è causa da tempo di gravi criticità per quanto attiene l’ordine e la sicurezza delle carceri del Paese. Servono interventi concreti: sono decenni che chiediamo l’espulsione dei detenuti stranieri, un terzo degli attuali presenti in Italia, per fare scontare loro, nelle loro carceri, le pene come anche prevedere la riapertura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari dove mettere i detenuti con problemi psichiatrici, sempre più numerosi, oggi presenti nel circuito detentivo ordinario. Ma servono anche più tecnologia e più investimenti: la situazione resta allarmante, anche se gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria garantiscono ordine e sicurezza pur a fronte di condizioni di lavoro particolarmente stressanti e gravose”. Catania. Il magistrato Roberto Di Bella: “I boss mi chiedono di salvare i loro figli” di Marina Pupella Avvenire, 11 agosto 2023 L’impegno del presidente del Tribunale dei minori: “Tanti detenuti mi scrivono e sognano un domani diverso per le loro famiglie”. I frutti del progetto “Liberi di scegliere”. Viaggio nella città dopo l’allarme sui baby-criminali. Il racconto del giudice Di Bella, che cerca di allontanare gli adolescenti dalla seduzione delle mafie. La procura etnea e Libera: percorsi per le mogli dei capiclan. “Maledetta quella mattina in cui mi sono svegliato e ho ucciso un uomo. Potessi tornare indietro. Ora salvi mio figlio, faccia che abbia un destino diverso dal mio e soprattutto lo aiuti a cambiare mentalità. Quando viene a trovarmi in carcere, pensa che io sia un mito, mentre invece sono un fallimento”. È la fragilità dell’uomo, l’ammissione delle proprie colpe, in perfetta antitesi con il ruolo di capomafia, ad emergere nelle confidenze fatte da un boss catanese al 41 bis al presidente del Tribunale dei minorenni del capoluogo etneo, Roberto Di Bella. Basterebbe riportare quelle parole sui muri della città - balzata alle cronache per diversi fatti delittuosi, tanto da richiedere l’intervento del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi - e in particolare nei quartieri ghetto di San Cristoforo, San Berillio, Villaggio Sant’Agata, Picanello e Librino, per far comprendere alle giovani e incoscienti leve della criminalità che il suo non è un “modello” da seguire. Un messaggio forte per i carusi, i ragazzi, che intraprendono la strada senza luce del crimine, sfruttati dalle organizzazioni nelle loro miniere di droga. Lo testimonia l’operazione “Quadrilatero” dei carabinieri di Catania del settembre 2021, che ha sgominato un vasto giro di cocaina, crack e marijuana nello storico rione San Cristoforo, dove bambini di 10 anni venivano usati nello spaccio con il compito di incassare i soldi e indicare ai clienti dove ritirare la sostanza stupefacente. “Qui i ragazzi hanno il mito di Nitto Santapaola - spiega il presidente Di Bella - “ma sapete chi è oggi?” gli chiedo. Un vecchietto ultra ottantenne, malato che non può abbracciare i figli e morirà nel chiuso di una cella. C’è un trend preoccupante di reati predatori contro il patrimonio - prosegue - o legati allo spaccio commessi da minorenni, talvolta non imputabili in quanto di età inferiore ai 14 anni e per questo utilizzati dalle storiche famiglie mafiose del territorio come pusher o vedette delle piazze di smercio”. Le confessioni dei padri Di Bella è il padre del protocollo “Liberi di scegliere”, già ben collaudato a Reggio Calabria, dove il magistrato è riuscito a offrire l’opportunità di una vita diversa ai figli dei capibastone calabresi. Dopo il suo arrivo a Catania nel 2020, ha ripetuto l’esperienza reggina, aiutando ragazzi che per discendenza di sangue avrebbero sostituito i padri all’interno dei clan o spacciato per riscattarsi dalla miseria e dalla povertà dei loro quartieri, tenuti ai margini della città mercantile dei saperi e delle professioni. “Mi scrivono tanti detenuti, alcuni di loro per narcotraffico e ai vertici delle organizzazioni - racconta il giudice. Due sono al 41 bis e mi chiedono espressamente di allontanare i loro figli dal territorio. Il dato comune che emerge è una profonda sofferenza. Altro che miti invincibili - esclama - dopo 10 anni di carcere duro, vedo queste persone in tutta la loro umanità dolente. Manifestano il rimpianto di una vita sprecata, ma non possono pentirsi, prigionieri del loro sistema, della posizione che ricoprivano, ma soprattutto non vogliono mettere a rischio i familiari. Si rammaricano di non essere andati a scuola o di essere stati ritirati dai genitori a causa delle faide fra famiglie. Ho sbagliato - mi dicono - ma non voglio che i miei facciano la mia stessa fine”. Così un irriducibile ha deciso di collaborare. Dal 2012 ad oggi tra Calabria e Sicilia 150 ragazzi sono rientrati nel progetto “Liberi di scegliere”, beneficiando anche di misure alternative alla detenzione. Con la Procura etnea retta da Carmelo Zuccaro, si lavora in sinergia e sei mogli di capi clan, coinvolte in inchieste giudiziarie e destinatarie di misure cautelari, seppur lievi, hanno chiesto di essere allontanate dall’Isola. Oggi con il protocollo “Di Bella” e con il sostegno dell’associazione Libera, lavorano e hanno iniziato una nuova vita. Povertà educativa e dispersione scolastica sono all’origine della devianza minorile. Gran parte dei ragazzi, provenienti da quelle aree considerate off limits, che incappano nella giustizia sono analfabeti o hanno un bassissimo livello di scolarizzazione. A 13-14 anni non sanno firmare e non conoscono la lingua italiana. I dati Istat Openpolis 2021 attestano che il 25,2 per cento di ragazzi dai 6 ai 18 anni elude l’obbligo scolastico, una vera bomba sociale. Il riscatto e le due città Di qui su impulso degli uffici giudiziari di via Franchetti, l’istituzione in Prefettura di un Osservatorio di monitoraggio della condizione minorile, con la partecipazione di tutte le istituzioni cittadine, ivi comprese la diocesi catanese, l’Inps e il terzo settore. Fra i primi provvedimenti adottati, l’esclusione dal reddito di cittadinanza dei genitori che non mandano i figli a scuola. Come conseguenza, se nel 2020 le segnalazioni delle scuole erano una quarantina oggi sono salite a 998, con il Tribunale dei minorenni che comunica all’Istituto di previdenza 400 casi inadempienti. In 200 si sono visti ridurre il sussidio mentre altri ne sono stati esclusi. “A Catania insistono due città che non comunicano tra loro - spiega il catanese Claudio Fava, già presidente della commissione regionale Antimafia, che nel 2022 ha svolto un’inchiesta sulla condizione minorile in Sicilia -. Si è alzato un muro invisibile, che ha fatto sì che l’ascensore sociale si fermasse definitivamente agli ultimi piani. Le periferie sono cresciute all’insegna della precarietà. Luoghi in cui le scuole, spesso ospitate in strutture fatiscenti ai limiti dell’inagibilità, rappresentano l’unico presidio istituzionale. Fuori da quelle aule, il deserto. E migliaia di ragazzi sono chiamati a prendere, troppo presto e da soli, decisioni cruciali per il proprio percorso esistenziale. Lungo i bordi di quel percorso, la capacità di seduzione e di reclutamento della criminalità organizzata, spesso l’unica alternativa alle cronache di disagio familiare”. Non tutto sembra perduto. Un sonoro schiaffo alla mafia, che pretende in quei quartieri i giovani crescano nei disvalori della cultura criminale e associativa, lo ha dato il Club “I Briganti rugby di Librino”, una delle realtà sociali e sportive più attive nella zona. “Non abbiamo l’aspirazione di recuperare nessuno, vogliamo solo offrire un’opportunità per allargare i loro orizzonti - riferisce Piero Mancuso, uno dei soci fondatori - e farli uscire sia dal circuito criminale ma anche dall’immagine riflessa del ragazzo di quartiere, senza alcuna possibilità di salire la scala sociale. Giocano con noi 250 giovani e a settembre, la squadra femminile di rugby, le Brigantesse, saranno in serie A. Un risultato impensabile prima e un’importante possibilità di riscatto e di emancipazione. Quella stessa raggiunta da alcuni che, entrati nel club da piccoli, oggi sono allenatori e dirigenti. Il nostro lavoro può infastidire, come dimostrano l’incendio della club house e del pulmino, ma noi andiamo avanti e a breve con i fondi del Pnrr, nascerà sulla collina di San Teodoro a Librino un parco sportivo e una Cittadella del rugby”. Trento. Carenze di personale e strutture: il dramma dei detenuti con problemi di salute mentale di Luca Andreazza ildolomiti.it, 11 agosto 2023 L’esperto: “Rischiano di uscire ed essere peggio di prima”. Fra i detenuti sono molti quelli che si sottopongono a cure ansiolitiche e psichiatriche. Le Rems hanno pochi posti, Angelo Parolari presidente di “Voce Amica” spiega che l’assenza strutture adatte e personale adeguato rischiano di rendere nulla la funzione rieducativa e riabilitativa del carcere: “Alla fine rischiano di uscire dalla struttura incattiviti e vere e proprie bombe ad orologeria”. Preoccupazione anche da parte della Polizia penitenziaria, Mazzarrese: “Difficile gestire certi detenuti”. Il carcere per le persone con problemi psichiatrici autori di reati non è il luogo adatto per scontare la pena. A pensarlo sono in molti, da chi si occupa dei detenuti a livello sanitario a chi se ne occupa, invece, dal punto di vista della sorveglianza come i poliziotti penitenziari. La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, avvenuta ormai diversi anni fa, è stato un importante passo. Da quel momento, però, le risposte alternative che lo Stato attraverso il Sistema Sanitario Nazionale, ha cercato di offrire sono state insufficienti. Le cosiddette Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) ad oggi restano gravemente deficitarie. Più volte gli stessi agenti di polizia che lavorano hanno chiesto aiuto affinché questi posti vengano aumentati. Richieste, però, che sono cadute nel vuoto. La situazione è critica anche al carcere di Trento a Spini di Gardolo. Qui, alla fine dello scorso anno, erano circa una settantina i detenuti che soffrivano di vari disagi psicologici, a cui si aggiungono problemi di tossicodipendenza. Il 90% dei detenuti, sempre secondo gli ultimi dati di fine 2022, si sottoponeva a cure ansiolitiche e psichiatriche. L’assistenza per tutto questo non è mai stata abbastanza. “Anche a Trento la situazione è critica, queste persone non dovrebbero stare in carcere. Dovrebbero certamente scontare la pena ma in una struttura adatta” spiega a il Dolomiti, Angelo Parolari presidente di “Voce Amica”, la comunità terapeutica riabilitativa che si trova a Nomi e che ha come direttore sanitario il professor Carlo Andrea Robotti specialista psichiatra, neurologo e psichiatra Forense, psicoterapeuta e criminologo. Un progetto, questo, che ha radici profonde e che nasce alla fine degli anni ‘70 in una canonica dove don Antonio Busacca, all’epoca parroco della borgata, coadiuvato da un gruppo di volontari, era riuscito a creare una linea telefonica per l’aiuto a persone disagiate, tossicodipendenti in particolare. “In carcere a Trento - spiega Parolari - sono diversi ad oggi i reclusi con disturbi mentali di varia entità. Alcuni si trovano ad affrontare psicopatologie rilevanti. La struttura di Spini di Gardalo e in generale anche molte altre carceri italiane non hanno la capacità di curare queste persone che vengono affidate alla polizia penitenziaria o all’infermeria dopo è evidente che non possono essere seguiti adeguatamente”. Le criticità sono state sollevate più volte dalla Garante dei Detenuti, la professoressa Antonia Menghini, che nell’ultima relazione ha sottolineato anche come non si sia ancora arrivati alla realizzazione di un adeguato centro diurno, immaginato come un luogo in cui le persone affette da disagio psichico potrebbero essere seguite durante la giornata. C’è poi il tema della ormai cronica carenza di personale. Di recente, fra l’altro, è stato registrato anche il trasferimento della persona esperta in psichiatria che lavora in carcere da ormai diverso tempo. Al suo posto, secondo quanto detto dall’Apss, sarebbe arrivato un nuovo professionista. “Tutto questo cosa provoca? Che le persone che hanno problemi di salute mentali e che vengono detenute in carcere senza un adeguato percorso - spiega sempre il presidente di ‘Voce Amica’ - alla fine della pena escono in una situazione peggiore di prima non avendo intrapreso alcun percorso riabilitativo. Escono dalla struttura incattiviti e vere e proprie bombe ad orologeria”. E’ ovvio che in una situazione del genere quell’importante funzione rieducativa e riabilitativa del carcere, stabilita in maniera chiara dalla nostra Costituzione, va a scemare. “Sono stati chiusi gli ospedali psichiatrici e aperte le Rems ma queste sono insufficienti” continua Parolari. “La legge Basaglia è stato un ottimo provvedimento ma prevedeva oltre alla chiusura di questi luoghi indegni anche la creazione di strutture atte a seguire queste persone. Così però non è avvenuto” conclude. “Lo abbiamo detto più volte e ci siamo anche già rivolti alle istituzioni. Qua manca l’equipaggiamento, mancano le strutture e tanti di noi non hanno le conoscenze professionali per seguire questa tipologia di detenuti”. A dirlo è Andrea Mazzarese, il segretario regionale del Sinappe, il sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria che da ormai diverso tempo sta portando avanti le richieste dei poliziotti che lavorano in carcere a Trento e che si trovano in difficoltà. Da un lato la carenza di personale dall’altra situazioni che possono diventare davvero complicate da gestire. “Anche di recente - spiega a il Dolomiti Mazzarese - ho sollevato la questione con le istituzioni locali. Come Sinappe abbiamo chiesto di aumentare di almeno altri 10 posti quelli presenti nella Rems. Alla fine siamo noi che ci troviamo davanti questi detenuti e non è semplice”. Un problema non di poco conto per chi svolge il lavoro di sorveglianza a tutela degli operatori che si trovano all’interno dell’istituto. “Siamo sempre carenti numericamente anche se di recente abbiamo avuto una integrazione che però non è riuscita nemmeno a coprire i poliziotti che sono andati in pensione. Numeri irrisori di nuovi arrivi che non ci permettono nemmeno di fare turni di lavoro ordinari”. Fra le richieste che sono state fatte dai poliziotti quella di essere dotati del teaser da usare “in caso di emergenza”. Bologna. Detenuto si sente male alla Dozza: tre ore per portarlo in ospedale Il Resto del Carlino, 11 agosto 2023 I soccorsi erano arrivati subito, ma la lettiga con l’uomo non riusciva a passare tra i cancelli. Per ‘liberarlo’ sono dovuti intervenire i vigili del fuoco con una barella speciale: lo hanno caricato a spalla. Tre ore, dalla chiamata al 118 all’arrivo in ospedale. Che un carcere abbia barriere è fisiologico. Ma che queste impediscano o ritardino in maniera pesante il soccorso ai detenuti, è un problema che va preso in mano e risolto. L’altra sera, intorno alle 21, un quarantaquattrenne albanese dell’Alta sicurezza, detenuto in attesa di giudizio, si è sentito male. L’ipotesi, una sospetta trombosi a una gamba. Immediatamente i poliziotti della penitenziaria hanno allertato il medico di turno. E quest’ultimo, visto che la situazione era seria, ha chiamato il 118, perché l’uomo andava portato in ospedale. L’ambulanza è arrivata in pochi minuti alla Dozza. È quello che è accaduto dopo, che è stata un’odissea. Il quarantaquattrenne non poteva camminare. Ed essendo alto più di un metro e 90, per un peso di circa 170 chili, il suo trasporto non era certo semplice. Ma il problema reale è stato che la lettiga, su cui il detenuto, molto sofferente, era stato caricato, non riusciva a passare per i cancelli. L’uomo si trovava al terzo piano. Impossibile farlo scendere. Un’altra ambulanza è arrivata per cercare di sbloccare la situazione. Nulla. Alla fine sono stati chiamati i vigili del fuoco: due le squadre speciali intervenute, che hanno caricato di peso il quarantaquattrenne su una barella basket, in cui l’uomo entrava a malapena. In questo modo, portandolo a spalla per tre piani, i pompieri sono riusciti a far arrivare all’ambulanza il malato, che è stato finalmente trasportato al Maggiore, da cui è stato dimesso ieri. Tra i tentativi andati a vuoto e il complesso intervento per portare fino all’ingresso il detenuto, era intanto passata la mezzanotte. Una trentina gli operatori, tra sanitari, agenti di penitenziaria e vigili del fuoco impegnati nel soccorso. Se l’uomo l’altra sera fosse stato colto da un infarto, anziché da una trombosi, adesso sarebbe l’ennesimo detenuto morto alla Dozza. “Il carcere si dimostra, ancora, lo strumento che la società utilizza per confinare i più poveri - commenta Nicola D’Amore della Cisl -. Uno strumento inadeguato, dove le barriere architettoniche rischiano di far diventare la prigione una tomba”. Torino. La denuncia di un detenuto anoressico senza cure: “Io, per giorni con lo stesso sondino” di Carlotta Rocci La Repubblica, 11 agosto 2023 “Ho dovuto scegliere se avere paura di morire di fame o di morire soffocato”. Sono le parole di un detenuto di 64 anni, che sta scontando la pena inflittagli dal tribunale di Milano, nel carcere di Torino dove è stato trasferito per i suoi problemi di salute dal carcere di Alessandria. “La mia pena è un calvario” racconta nelle venti pagine memoria affidate al suo legale e inviate alla procura di Torino, all’Ordine dei medici e al ministero di Grazia e Giustizia denunciando i medici del carcere. Il detenuto è affetto da anoressia psicogena che gli causa un importante deperimento organico ed è sottoposto a nutrizione parentale, con una pompa infusionale che porta i nutrienti direttamente nello stomaco. La sua legale ha più volte chiesto per lui i domiciliari come pena alternativa al carcere considerato, “non compatibile con il suo stato di salute”. L’udienza è fissata a fine settembre. “Ad Alessandria venivo lasciato senza assistenza e senza campanello quando la pompa era in funzione, così una volta ho rischiato di soffocare”, denuncia. Il suo caso era stato sottoposto anche all’attenzione del garante dei detenuti e il 17 maggio il paziente è stato ricoverato alle Molinette per un intervento alla colecisti. Il 26 giugno è stato dimesso e mandato al Sai delle Vallette, il servizio medico integrato, dopo che anche i medici del carcere di Alessandria avevano scritto in una relazione che un trasferimento a Torino sarebbe stato più indicato. All’uscita dalle Molinette pesava 59 chili, i suoi valori - si legge sulla cartella clinica - erano bassissimi. “Al Sai non mi hanno sostituito il sondino per 30 giorni, le linee guida dicono che per evitare infezioni va sostituito ogni 15”, denuncia il detenuto che nella sua memoria denuncia anche la perdita di una parte della documentazione medica trasferita dal carcere di Alessandria e alcune discrepanze tra quanto riportato da medici interni al carcere rispetto agli esami fatti in ospedale. Dal carcere raccontano come il personale medico fosse molto preoccupato dalle sue condizioni riservandogli tutte le attenzioni necessarie. E anche della sua resistenza alle cure, una circostanza che lui nega. “Eppure le mie condizioni sono peggiorate, nei 19 giorni di detenzione al Sai, dopo le dimissioni dalle Molinette, ho perso altri tre chili - dice - la cattiva gestione del mio caso mi ha costretto a passare dall’alimentazione enterale, meno invasiva, a quella parentale. Così la mia qualità di vita è peggiorata. Qui in carcere non sono possibili le cure di cui avrei bisogno. L’infermeria non può darmi i controlli continui di cui ho bisogno. L’infermeria chiude alle 19.30 e di notte rimane chiusa senza la possibilità di effettuare altre terapie”. Soltanto l’alimentazione con il sondino richiede 18 ore durante il giorno e non è possibile in quel periodo sottoporre il paziente ad altre terapie. L’ordine dei medici ha avviato verifiche sul caso. Roma. La truffa del cibo ai detenuti. “Un cartello di ditte per gli appalti d’oro” di Marco Carta e Andrea Ossino La Repubblica, 11 agosto 2023 Oltre la procura si muovono Corte dei conti, Consiglio di Stato, Anac e Authority. La procura di Roma, la Corte dei Conti, l’ex garante dei detenuti di Roma e quello nazionale. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ma anche il Consiglio di Stato, il Tar dell’Emilia Romagna e l’Anac. Da un po’ di tempo a questa parte sono in molti a occuparsi dell’alimentazione dei carcerati italiani e dei relativi appalti. E quasi sempre le vicende ruotano intorno a una società, la la Ditta Domenico Ventura Srl. Anche gli ultimi fatti, quelli che hanno portato l’Anac ad esaminare le mense destinate agli agenti della penitenziaria e il Tar emiliano ad annullare i decreti con cui la Ventura si era aggiudicata appalti per alcune forniture nei penitenziari di Bologna, Castelfranco Emilia, Ferrara, Forlì, Ravenna, Rimini, Modena e Reggio Emilia. La Ventura non è una ditta come tante. È in mano a due fratelli, Umberto e Achille Ventura. Quest’ultimo è un ex campione di moto d’acqua, già al vertice della Federazione Italiana Motonautica e in passato presidente del Circolo Canottieri Napoli. I due fratelli fanno parte della Napoli che conta. E anche la loro azienda è un colosso, almeno nel mondo delle forniture di vitto e sopravvitto, ovvero delle mense e degli alimenti extra acquistabili nei penitenziari. La Ventura ha centinaia di dipendenti, vince decine e decine di appalti e ha un fatturato che negli ultimi tre anni si aggira intorno ai 30 milioni di euro. Un colosso del settore capace di fornire con 2 euro e 39 centesimi colazione, pranzo e cena a un detenuto recluso nel Lazio. Una cifra incredibile che adesso è stata aggiornata: 3 euro e 90 centesimi per carcerato. La somma tuttavia ha destato molta preoccupazione. Nella Capitale così, grazie alle denunce dell’ex garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, e all’inchiesta del sostituto procuratore Giulia Guccione, è stato aperto un fascicolo e due persone al vertice della ditta Ventura sono finite nel registro degli indagati perché sospettate di non aver rispettato l’appalto allungando il latte dei detenuti con l’acqua, servendo carne avariata o preparando il caffè con i fondi. Già nel 2021 la Corte dei Conti aveva ricusato il visto per i pasti all’interno del carcere di Rebibbia, dove l’appalto era stato vinto con “un ribasso del 57,98% sulla diaria pro capite di 5,70 euro”. Tuttavia la Ventura è riuscita a vincere nuovamente il bando indetto in un clima di preoccupazione esternato anche da Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti. Se un’azienda gestisce sia vitto che sopravvitto, è il patema, è facile che la scarsa qualità del primo porti i detenuti a rivolgersi al secondo, più oneroso dunque più redditizio. Tutto ciò “incide su diritti fondamentali della persona detenuta”, spiegava il garante. Nel frattempo anche l’autorità garante della concorrenza e del mercato era intervenuta. Apre un’indagine, è convinta che ci sia un cartello di imprese che ha trovato un sistema per dividersi gli appalti a tavolino. I comportamenti anomali avrebbero riguardato le gara per il Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna e Sicilia. L’Agcm poteva indagare fino al 31 marzo 2024. Ma gli è bastato arrivare al 12 giugno del 2023 per giungere a una conclusione: “Non sussistano sufficienti elementi per accertare la violazione”. Il caso è chiuso. Ma si apre però un’altra partita: all’Anac. Nel maggio 2023 l’Ente esamina le mense “obbligatorie nelle sedi degli istituti penitenziari, scuole e istituti di formazione del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Campania”. Sarebbero emerse “numerose irregolarità”, scrive l’Anac. E poi c’è Roma, dove si indaga sulla qualità del cibo fornito, diverso da quello previsto dal capitolato. Pochi giorni fa anche il Tar dell’Emilia Romagna ha annullato i decreti con cui, mesi prima, erano stati affidati alla Ventura servizi in diverse carceri. L’ennesimo procedimento che non riguarda solo dinamiche aziendali, di mercato e di denaro pubblico, ma i diritti di chi, da dietro le sbarre, difficilmente riesce a far sentire la propria voce. Lecce. Rime in carcere: detenute premiate di Emanuela Tommasi Gazzetta del Mezzogiorno, 11 agosto 2023 La professoressa Cucci: “Hanno espresso quei sentimenti che difficilmente avrebbero manifestato”. Detenute di alta sicurezza aprono il cuore alla poesia e conquistano due premi nazionali. Il 23 agosto prossimo, alle 19, nella Biblioteca provinciale Bernardini, a Lecce, si concluderà la seconda edizione del Concorso “Pluriverso femminile” - aperto a tutte le donne senza limiti di età ha l’obiettivo di diffondere la poesia in tutti gli strati sociali al fine di fare emergere sentimenti ed emozioni troppo spesso sopiti ed ignorati - che ha visto la premiazione dei lavori poetici presentati e provenienti da tutta Italia. Al concorso hanno partecipato alcune detenute di alta sicurezza della Casa circondariale di Lecce, conseguendo lusinghieri risultati. L’iniziativa ha preso le mosse dal laboratorio di lettura “Libere di leggere”, progetto nato alcuni anni fa per iniziativa del comitato Pari Opportunità-Università del Salento, proseguito poi grazie al lavoro di un gruppo informale di volontari. Il gruppo lavora nella sezione femminile e dopo aver costituito la Biblioteca, insegnando alle detenute a catalogare i libri e gestire il prestito, continua l’attività con incontri di promozione della lettura, di organizzazione di laboratori creativi. Tra questi, nell’autunno scorso, è sorto un particolare indirizzo che si è occupato di “Poesia visiva”, gestito dalla professoressa Ornella Cucci, la quale, partendo dai calligrammi di Guillaume Apollinaire, è riuscita a far aprire l’anima e il cuore di quelle persone tristemente indurite dalla vita. Non secondario il fatto di aver insegnato loro una fetta di letteratura, dialogando della complementarietà di immagini e parole, capaci insieme di dare vita ad una vera poesia. “Sono stata invitata dall’Università a realizzare questo progetto - spiega la professoressa Cucci - Ho cominciato a parlare con queste donne di quello che a me piace, leggendo opere di poeti famosi e di poeti detenuti, parlando di tempi quali la libertà, l’amore, Dio, la felicità, commentando con loro le poesie che maggiormente le colpivano. Così ho deciso di coinvolgerle in ciò di cui mi stavo interessando in quel momento, vale a dire la poesia visiva. Dopo aver guardato le immagini che portavo loro di queste poesie, le più famose delle quali di Apollinaire, le ho invitate a cimentarsi, magari con qualcosa di semplice. Il mio intendimento era di far emergere loro quei sentimenti che difficilmente avrebbero manifestato, sentimenti che io ritengo essere anche di innocenza. Donne che hanno sbagliato, che hanno commesso errori anche molto grossi non vuol dire che non possano redimersi e che in qualche modo non abbiano conservato un angolo di innocenza che si vergognano a manifestare, ad ammettere. Ho detto loro di scavare per recuperare il positivo, il buono, il bene nella loro persona: una donna che ha sbagliato non vuol dire sia una donna sbagliata”. Tutte le detenute che hanno partecipato al progetto all’inizio erano scettiche. Poi, durante quelle che la professoressa Cucci chiama chiacchierate, si sono aperte. “Le più arrabbiate e sfiduciate mi avevano detto che non avrei cavato nulla da loro - dice - Invece, così non è stato ed una di loro, in particolare, ha scritto una poesia su un nipotino dicendo cose tenerissime, e me l’ha consegnata quasi piangendo, dicendomi di non immaginare che sarei stata capace di farle dire quello che ha detto”. Le loro opere hanno conquistato la giuria nazionale. “Sono davvero felice per loro - ammette Ornella Cucci - ma rammaricata che non possano ritirare i premi di persona, trattandosi di detenute di alta sicurezza”. Il lavoro della professoressa non si ferma e riprenderà a settembre. Ornella Cucci ha iniziato a realizzare progetti con le detenute nel 2018, e nel 2019. Dopo l’interruzione durante gli anni del Covid, ha ripreso, l’anno scorso, anche con un progetto musicale. Un libro che ci svela il 41 bis di Frank Cimini L’Unità, 11 agosto 2023 “Pensare l’impensabile tentare l’impossibile” è il titolo di un lavoro di 73 pagine (10 curo Edizioni Colibrì) - a cura dell’Archivio Primo Moroni, Calusca City Lights e Csoa Cox 18 - che sintetizza un dibattito avvenuto a Milano nei mesi scorsi e va oltre aggiornando il caso di Alfredo Cospito e del 41bis del quale viene messa in discussione la definizione di carcere duro perché significherebbe pensare che possa esistere un carcere leggero. Insomma il problema è il carcere. “Pensare l’impensabile, tentare l’impossibile” è una frase di Alfredo Cospito riferita da uno dei suoi legali Maria Teresa Pintus. “Il 41bis è una misura di pressione non una condanna come si sente dire nei talk show e pure nei telegiornali. La condanna la infligge il giudice, il 41bis no - sostiene Pintus - La sottoscrizione avviene a firma del ministro della Giustizia, quindi dell’esecutivo. Se da un punto di vista tecnico è un errore, da un punto di vista popolare il 41bis invece resta effettivamente una condanna di cui è molto difficile ottenere la revoca. Il 41bis diventa un marchio. L’unico giudice competente a revocarlo è nel nostro paese il Tribunale di Sorveglianza di Roma che si configura come un tribunale speciale”. E non è vero che il 41bis viene applicato solo a chi ha l’ergastolo ostativo. Tra i destinatari anche reclusi in attesa di giudizio. Charlie Bernao parla del collegamento fortissimo tra guerra è populismo penale, attività interna di repressione di punizione e di uso della tortura. “I giuristi creano a tavolino il diritto penale del nemico e contro il nemico si creano i presupposti per utilizzare la tortura che sarebbe vietata dalle convenzioni internazionali. Gli psichiatri e gli psicologi ci dicono che l’effetto dell’isolamento sulle funzioni cerebrali del prigioniero è molto simile a ciò che succede quando un uomo viene picchiato affamato o privato del sonno”. Insomma il 41bis è una forma aggiornata e particolarmente disumana di tortura. Elton Kalica parla di “carcere di annientamento” oltre che di tortura. Kalica che è stato detenuto in regime di alta sicurezza racconta che “ti contavano i calzini le mutande i pantaloni le magliette e soprattutto i libri. Al 41bis sono morti gran parte dei membri di Cosa Nostra e altri ormai in età avanzata moriranno nei prossimi anni. Poi si cercherà altra gente a mettere al 41bis o si deciderà di chiuderlo? “A mio avviso - conclude Kalica - il fatto di averlo reso permanente attesta l’intenzione di perpetuarlo. Magari mi sbaglio ma voi non contateci”. “In tanti vogliono il morto ma nessuno si assume la responsabilità di vestire i danni del boia - dice Anna Beniamino coimputata di Cospito nel processo per i pacchi bomba di Fossano - in compenso sono tanti i becchini pronti per preparare la fossa all’anarchico, un balletto sguaiato intorno a una forca. La lotta di un anarchico in sciopero della fame ha spezzato la narrazione imperante nonostante il ridicolo tentativo di dipingerlo colluso con i mafiosi”. L’avvocato Flavio Rossi Albertini ricorda che quando Cospito ha deciso di interrompere lo sciopero della fame ha ringraziato tutti e tutte coloro che hanno reso possibile “questa tenace quanto inusuale forma di protesta”. Considerazione finale inevitabile. Di questo lavoro sarebbe stato orgoglioso, e lo dimostra la partecipazione all’iniziativa dell’Archivio, il Maestro Primo Moroni che aveva dedicato molti anni della sua vita alla battaglia contro il carcere e l’articolo 90 il padre del 41bis all’inizio dell’infinita emergenza italiana. Infinita e infatti siamo ancora qui. Marcello Gallo, le lezioni senza fine del professore dei professori di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 11 agosto 2023 Ha formato generazioni di avvocati, notai e magistrati I suoi “Appunti” dedicati “Allo Stato dei diritti”. Ha suscitato grande commozione la scomparsa di Marcello Gallo. Il giurista aveva 99 anni (nacque a Roma nel 1924) ed è stato ordinario di diritto penale nelle Università di Urbino, Torino e Roma “La Sapienza”. È stato anche Accademico dei Lincei e all’impegno universitario affiancò quello in politica: fu eletto senatore della Democrazia Cristiana nel 1983 per poi essere riconfermato nel 1987. Prima di approdare in Parlamento, negli anni Sessanta, ricoprì la carica di assessore comunale a Torino, sua città di adozione. Il professor Gallo fu allievo di Francesco Antolisei, autore di uno dei più importanti manuali di diritto penale. L’insigne penalista, scomparso pochi giorni fa, fu relatore della tesi del leader del Partito Radicale Marco Pannella, laureatosi ad Urbino nel 1953. Tra gli scritti di Marcello Gallo sono ancora attuali gli “Appunti di Diritto penale”, pubblicati in varie edizioni da Giappichelli editore. Nel primo volume, dedicato alla legge penale, l’autore fa una premessa molto interessante che si ricollega direttamente al titolo della pubblicazione. Gli “Appunti” di diritto penale e sul diritto penale avevano - e hanno - un carattere di supporto ai manuali. Gallo attribuisce alle parole un valore fondamentale. Non può essere diversamente per un giurista e per chi ha formato generazioni di avvocati, notai e magistrati. “Le parole - scrive il “professore dei professori”, come veniva affettuosamente chiamato - hanno il loro posto in frasi, testi e situazioni. Liberiamo la parola dal suo isolamento, poniamola nella concatenazione del suo contesto, ed insieme a questo in una situazione di vita vissuta. È così che si presentano normalmente le parole. Altrimenti non si comprende cos’è una parola e come funziona il suo significato”. A questo punto una precisazione, degna dello studioso della scienza penalistica: “La frase è il ponte tra il significato e l’intendimento. Assieme all’ulteriore contesto e alla situazione inerente, la frase limita il significato (ampio, vago, sociale, astratto) in funzione dell’intendimento (circoscritto, preciso, ordinariamente individuale e concreto)”. I lettori più attenti possono notare che negli “Appunti” spicca la seguente dedica: “Allo Stato dei diritti”. L’uso del plurale non è casuale, come spiega lo stesso autore, perché “è nello Stato dei diritti che la nostra attesa di determinazione viene maggiormente appagata”. Con una precisazione che, seppur inserita tra le note - la prima del volume -, assume lo stesso un carattere fondamentale alla stregua del resto del testo. “Preferisco parlare - spiega Gallo - di Stato dei diritti anziché, come si usa, di Stato di diritto. Questa è formula che è sorta, e vieppiù si è sviluppata nel tempo, caricata di buone intenzioni. Il significato che le si attribuisce, però, è condivisibile solo da chi dà alla parola diritto un valore superiore a quello della mera positività. Dal punto di vista dell’effettuale, ogni Stato, cioè gli ordinamenti la cui norma base non riposi su altra appartenente ad un sistema di rango superiore, è Stato di diritto: perfino il più embrionale o tirannico. Certo, mi rendo conto che anche Stato di diritti rinvia all’assetto normativo che tali diritti assicura. C’è, però, il grande vantaggio di individualizzare le prescrizioni normative: mettendo in evidenza la posizione di soggetti titolari di facoltà o aspettative. C’è, insomma, l’espressione di un momento di garanzia che serve a definire in senso penalistico un ordinamento, uno Stato”. Sin qui, seppur brevemente, abbiamo preso in considerazione una piccolissima parte dell’opera dell’accademico romano-torinese. Nella comunità accademica in tanti ricordano gli insegnamenti di Gallo. Tra questi Nicola Triggiani, ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Bari “Aldo Moro”. “Ho incontrato - dice al Dubbio - il professor Marcello Gallo una sola volta, molti anni fa, in occasione di un convegno all’Università di Bari. Fu per me davvero una grande emozione conoscerlo personalmente, perché la sua fama lo precedeva e mi aveva parlato molto di lui, sempre con grande entusiasmo e commossa devozione, il professor Aldo Regina, ordinario di Diritto penale nell’Ateneo barese e suo allievo. A confermare il tributo che intere generazioni di penalisti devono all’insigne giurista, torinese d’adozione, basterebbe ricordare proprio la dedica che il professor Regina ha inserito in un suo recente lavoro intitolato “Memorie per la toga”: “Al mio Maestro - Marcello Gallo - al quale devo tutto ciò che so di diritto penale”. Passione per lo studio, ma anche per la toga. Gallo si è recato in udienza fino a qualche anno fa, nonostante le precarie condizioni di salute. “L’eredità scientifica e culturale di Gallo - commenta il professor Triggiani - è immensa e colpisce anche il valore della sua testimonianza umana: la perdita della vista negli ultimi 25- 30 anni della sua vita e l’avanzare dell’età non gli hanno assolutamente impedito di continuare instancabilmente i suoi studi, di elaborare progetti, di restare, con la sua dirittura morale, onestà intellettuale e professionalità, un punto di riferimento imprescindibile per l’accademia e l’avvocatura. I suoi studi monografici, tra i quali spiccano, in particolare, quelli sul dolo e sul concorso di persone nel reato, restano dei contributi fondamentali della scienza penalistica e il tempo trascorso dalla loro pubblicazione non toglie nulla alla validità della costruzione dogmatica. Ancora di recente aveva ripubblicato una nuova edizione dei suoi celebri “Appunti” e, da ultimo, aveva dato alle stampe il volume “Le formule assolutorie di merito- Art. 530 c. p. p.”“. L’insigne penalista è stato pure un uomo delle istituzioni, come evidenzia Nicola Triggiani. “Il nome di Gallo - aggiunge - resta legato anche al vigente codice di procedura penale, avendo presieduto, da senatore della Democrazia Cristiana, la Commissione bicamerale per il parere al Governo sulle norme delegate relative al nuovo codice di rito, consentendo così, dopo questo vaglio di conformità ai princìpi della legge-delega, il varo definitivo del provvedimento, entrato in vigore il 24 ottobre 1989. E, come ricorda lo stesso Gallo in un articolo del 2019, scritto per celebrare i trent’anni di vigenza del codice (“Romanzo di un codice”), la Commissione parlamentare da lui presieduta affrontò l’impegno sempre in stretta collaborazione con i componenti della Commissione ministeriale presieduta dal professor Giandomenico Pisapia. Gli intendimenti, le motivazioni, il modello vagheggiato erano, infatti, comuni ad entrambi i gruppi: l’”obiettivo era inverare, nel concreto della prassi giudiziaria penale, i grandi principi della Carta costituzionale”“. Il professor Triggiani è certo che il pensiero del compianto Accademico dei Lincei troverà sempre terreno fertile: “Da studioso del processo penale, mi piace concludere questa breve riflessione sull’opera del Maestro con un suo attualissimo monito: “Poiché un codice di procedura è essenzialmente stipulazione di un modus operandi, l’operatività abbisogna di una regolamentazione precisa, scarsa di angolature e frammentazioni. Le eccezioni, inevitabili, dovrebbero essere poche e tutte dichiarate con la maggiore evidenza”“. Se il fine vita si avvicina di Filomena Gallo* La Stampa, 11 agosto 2023 Sul fine vita l’Italia si sta avvicinando alla Svizzera senza che il Parlamento si occupi della materia. Il merito è del coraggio delle persone malate che hanno agito alla luce del sole, delle azioni di disobbedienza civile e dell’esercizio della responsabilità professionale di medici e giudici. Esistono ormai i precedenti giudiziari e amministrativi per accogliere legalmente in Italia, oggi, le richieste di aiuto al fine vita da parte dello stesso segmento di popolazione che ottiene legalmente l’eutanasia in Olanda. Nell’indifferenza dei partiti, abbiamo ottenuto riforme tanto profonde quanto sconosciute. Per questo è fondamentale riepilogare e fare chiarezza. Era il 22 novembre 2019 quando la Corte Costituzionale emanava la sentenza 242 di incostituzionalità parziale dell’articolo 580 del codice penale, nel cosiddetto caso Cappato-Antoniani. Nella sentenza fu individuata un’area circoscritta in cui l’incriminazione per il reato di aiuto al suicidio non è conforme alla Costituzione e dunque non è punibile, ovvero quando l’aiuto riguarda una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli e quando tali condizioni, insieme alle modalità per procedere con il suicidio assistito, sono state verificate dal sistemo sanitario nazionale con il parere del comitato etico competente per territorio. In base alla legge sulle disposizioni anticipate di trattamento del 2019, il paziente in tali condizioni può già decidere di lasciarsi morire chiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sedazione profonda continua, che lo pone in stato di incoscienza fino al momento della morte. Il medico è tenuto a rispettare questa decisione. La Corte, alla luce del fatto che il Parlamento non era intervenuto con una legge, ritenne di dover porre rimedio alla violazione riscontrata affinché non fosse limitata irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta dei trattamenti, compresi quelli finalizzati a liberarlo dalle sofferenze, garantita dalla Costituzione. Fabiano, Davide, Federico, Antonio, Fabio, Stefano, Gloria e poi Anna e Laura sono persone che avevano o hanno in comune una sofferenza che reputano intollerabile, determinata da malattie diverse, forme diverse di sostegno vitale e la piena capacità di autodeterminarsi per cui chiedono o hanno chiesto di accedere all’aiuto alla morte assistita. In tutti questi casi, i medici, nell’applicare quanto scritto dai giudici della Consulta, hanno definito per ogni persona cosa sia un trattamento di sostegno vitale. Con l’eccezione di Laura, in Umbria, che attende da mesi che nella sua regione sia applicata la sentenza della Corte Costituzionale con tutti gli adempimenti necessari. Nel frattempo, ci sono casi di persone malate che hanno scelto di non attendere in Italia le verifiche che hanno tempi lunghi e forse interpretazioni diverse e con l’accompagnamento di Marco Cappato, Felicetta Maltese, Chiara Lalli e Virginia Fiume sono andate in Svizzera dove l’aiuto al suicidio non è vietato. Sono casi all’attenzione della magistratura, essendosi gli accompagnatori tutti autodenunciati al loro ritorno in Italia. In Olanda, uno dei primi Paesi a regolamentare la materia, in venti anni di applicazione della legge sono state 91.565 le persone che ne hanno usufruito. Nel 2022, sono state 8.720 le persone che hanno ottenuto l’aiuto medico alla morte volontaria: il 10,3% di loro aveva più di 90 anni, il 59,4% tra i 70 e i 90 anni, mentre il 27,1% tra i 50 e i 70 anni. Se guardiamo alle patologie che hanno motivato la richiesta, nel 57,8% dei casi si tratta di tumori ormai incurabili, nel 16,4% dei casi di polipatologie irreversibili e nel 7% dei casi di malattie neurodegenerative. La maggioranza delle patologie che hanno motivato la richiesta in Olanda sono le medesime per cui, oggi, le persone malate hanno potuto procedere anche in Italia. Ciò significa che in Italia, in base alla giurisprudenza, i precedenti del Veneto e del Friuli già garantirebbero alla quasi totalità dei pazienti che ne facessero richiesta l’accesso legale all’aiuto alla morte volontaria, proprio come in Svizzera. Ma cosa manca? In alcune regioni - nonostante il tentativo dell’Associazione Luca Coscioni con la campagna Liberi Subito di proporre una normativa mirata e rispettosa delle competenze regionali - manca la volontà politica di rispettare la sentenza della Consulta sul caso Cappato e in Parlamento manca la volontà politica di rispettare le scelte delle persone. Oggi una legge serve per loro. Intanto tra tribunali e disobbedienze, l’Associazione Luca Coscioni con le azioni portate avanti a partire da Piergiorgio Welby, ha determinato giurisprudenza, diritto, diritti riconosciuti per tutti coloro che vogliono essere liberi di scegliere e autodeterminarsi. *Segretaria dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica I bambini prigionieri del filo spinato: quel grido di dolore che l’Europa ignora di Don Mattia Ferrari La Stampa, 11 agosto 2023 Le richieste d’aiuto dei migranti deportati e bloccati al confine tra Libia e Tunisia: “Empatizzate con noi”. È l’apice della violenza contro le persone che dal Sud del mondo cercano dignità bussando all’Occidente. “Empatizzate con noi!”: è questo il grido disperato arrivato dall’ultimo video dei migranti deportati dalla Tunisia nel deserto al confine con la Libia. Il movimento sociale dei migranti Refugees in Libya ha raccontato, mostrando i video, che centinaia di persone sono rimaste bloccate per 6 settimane al valico di Ras Ajdir, 174 tra cui 14 bambini, intrappolate in uno spazio di 10 metri per 5 e circondate da filo spinato, mentre in un altro luogo a 2 chilometri sono imprigionate più di 200 persone e altrettante nella vicina Al-Assa. Persone bloccate in condizioni disumane, i bambini costretti a bere acqua di mare. “Aiutateci, stiamo morendo uno dopo l’altro”, gridavano quelle persone nelle scorse settimane. Il loro grido non è stato ascoltato e così molte di loro nel frattempo morte. Secondo Al Jazeera, le vittime sono al momento almeno 27. Tra queste ci sono Fati e la piccola Marie, la cui storia è stata raccontata da La Stampa. Nel pomeriggio di ieri, Refugees in Libya ha riportato che il ministero dell’Interno libico ha annunciato di aver trasferito le 174 persone verso la regione di Al-Assa, affinché vengano rimpatriate nei Paesi d’origine. Questa violenza brutale è la conseguenza delle politiche europee: il Memorandum siglato il mese scorso tra l’Italia e la Tunisia non contempla il rispetto dei diritti umani, mentre prevede sostegno economico in cambio del contenimento dei migranti. Questa è l’apice della violenza che si scaraventa contro le persone del Sud del mondo che hanno scelto di cercare una vita degna bussando alle porte di quell’Occidente colonizzatore che ha depredato e continua a depredare i popoli più poveri e la natura. Nelle ultime ore la Tunisia e la Libia hanno annunciato un accordo per risolvere il nodo dei migranti africani deportati alla frontiera fra i due Paesi, in base al quale la Tunisia riprenderebbe in carico un gruppo di 76 uomini, 42 donne e 8 bambini, mentre la Libia si farebbe carico dei restanti 150 migranti. I numeri però non corrispondono a quelli di cui parlano gli attivisti, secondo i quali i deportati sarebbero circa 600. Inoltre la presa in carico da parte della Libia rischia di significare semplicemente trasferimento dal deserto ai lager. Il report Unicef diffuso l’8 agosto ribadisce che in Libia i migranti e i rifugiati continuano a subire violazioni sistematiche dei diritti umani e riferisce che si stima che il 30% della popolazione nei centri di detenzione libici sia costituita da bambini. Nel mentre aumentano anche le stragi in mare. Nei giorni scorsi si sono verificati almeno 4 naufragi, con un totale di più di 100 vittime. L’ultimo naufragio, avvenuto mercoledì 9 agosto, ha visto annegare 41 persone, di cui 3 bambini. Alarm Phone aveva lanciato l’allarme già venerdì 4 agosto, informando di aver allertato tutte le istituzioni sulla presenza in mare di una ventina di piccole imbarcazioni in pericolo a causa dell’imminente maltempo. La nostra indifferenza uccide. Secondo il Missing Migrants Project dell’Oim sono già oltre 1.800 le persone morte e disperse lungo la rotta quest’anno. Ma il Mediterraneo è solo il secondo più grande cimitero, come ha affermato Papa Francesco domenica scorsa in conferenza stampa: “Il Mediterraneo è un cimitero, ma non è il cimitero più grande. Il cimitero più grande è il nord Africa”. La nostra colpa è grande, perché siamo noi, con gli accordi siglati con la Libia nel 2017 e poi sempre rinnovati e con quelli siglati con la Tunisia quest’anno, che causiamo questa violenza disumana. Due settimane fa una ragazza di 14 anni del gruppo scout in cui faccio servizio, il Roma 147, avendo saputo dei migranti deportati tra Tunisia e Libia mi ha chiesto: “Com’è possibile che nessuno faccia niente per salvare queste persone? È incredibile che stiamo tollerando tutto ciò!”. La ragazza ha ragione. Se davanti a tutto questo le nostre coscienze si sentono tranquille, significa che sono malate. In effetti il sistema capitalista e patriarcale cerca di addomesticare le nostre coscienze perché ritengano che la felicità stia nei prodotti da acquistare e consumare e nel benessere materiale individuale. Nasce così quella che uno dei maestri ispiratori del Sessantotto, Herbert Marcuse, definiva falsa coscienza. Se la nostra coscienza è questa, allora non ci sarà mai spazio per il grido dei migranti, che resteranno così prigionieri nei lager. Ma al tempo stesso resteremo intrappolati anche noi, prigionieri di quella falsa coscienza che ci inganna, facendoci spendere la vita nel cercare una felicità consumistica che non riusciamo mai ad afferrare pienamente, perché la nostra vera felicità non sta lì, ma nell’empatia. La prova di questo sta nella gioia che hanno sprigionato i giovani alla Gmg di Lisbona o alle altre esperienze che stanno prendendo corpo in questa estate, come i campi scout, i campi di Libera e tante altre. Nei giorni scorsi, ad esempio, ho avuto il dono di partecipare ad una delle esperienze che costruiscono attivamente un’altra società: il Revolution Camp, il campeggio studentesco organizzato ogni anno a livello nazionale dalla Rete degli studenti e dall’Unione degli universitari. Il campeggio si è svolto nella Fattoria dei Sogni, gestita dalla cooperativa sociale “Al di là dei Sogni” e realizzata nel bene confiscato alla Camorra “Alberto Varone” a Maiano di Sessa Aurunca, nell’alto Casertano. Qui, dove si lotta contro la mafia, migliaia di studenti medi e universitari sono stati insieme e hanno voluto ascoltare tante esperienze, come quelle di Libera, Mediterranea, Spin Time di Roma, Lgbtqia+ e molte altre. Tutte esperienze accomunate dall’amore viscerale che ci porta a lottare e a costruire attivamente, a partire dai nostri corpi e dalle nostre relazioni, un altro mondo possibile, dove la fraternità diventa carne, genera un nuovo paradigma politico e porta alla gioia vera. Occorre decolonizzare corpi e cervelli, come dice Vandana Shiva. La chiave per farlo è quell’empatia che ci libera dalle catene che questo sistema impone ai nostri cuori e alle nostre vite e ci spinge a costruire un’altra società, quella che nei giorni scorsi si è intravista al Revolution Camp e in altre realtà. Ecco allora che il grido dei migranti deportati nel deserto tra Tunisia e Libia, “Empatizzate con noi!”, indica la strada per salvare non solo loro, ma anche noi stessi, tutti. I politici e la società intera abbiano il coraggio di accogliere questo grido, smettano di trattare i migranti come oggetto e riconoscano loro la dignità di soggetti, li evacuino e li trattino come veri interlocutori: solo allora, insieme, animati dall’empatia e dalla fraternità incarnata, troveremo le vie per affrontare l’attuale crisi, costruendo insieme una nuova società, veramente felice, come i ragazzi ci stanno insegnando. Tunisia e Libia si dividono i migranti ammassati al confine di Marina Della Croce Il Manifesto, 11 agosto 2023 Accordo raggiunto tra i due paesi ma nessuno garantisce sul rispetto dei diritti umani. Pattuglie miste a guardia della frontiera. Tunisia e Libia si dividono i migranti ammassati da settimane senza cibo né acqua al confine tra i due paesi. A dare l’annuncio sono stati ieri il ministro dell’interno libico, Imed Trabelsi e l’omologo tunisino Kamal El-Feki al temine di un negoziato nel quale è stato deciso anche di creare pattuglie comuni per garantire “la sicurezza della frontiera”. La notizia è però solo in parte positiva. Se da un lato si sblocca finalmente una situazione di estremo pericolo per alcune centinaia di uomini donne e bambini abbandonati da giorni nella terra di nessuno nei pressi del valico di Ras Jedir, va anche detto che non sembra siano state offerte garanzie sul tipo di trattamento a cui saranno sottoposti i migranti, né sono previsti controlli da parte di organizzazioni internazionali. Sia la Tunisia che la Libia sono infatti paesi in cui non solo non vengono rispetta i diritti umani, ma palesemente ostili nei confronti degli stranieri, in modo particolare se subsahariani come i disperati deportati e abbandonati nel deserto dalla polizia del presidente tunisino Kais Saied. Secondo l’agenzia Associated Press, che ha raccolto le dichiarazioni delle autorità libiche, i corpi di almeno 27 migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana sono stati trovati nei giorni scorsi a ridosso del confine tunisino. L’accordo raggiunto ieri prevede la presa in carico da parte dei due paesi di circa 300 migranti ancora bloccati alla frontiera di Ras Jedir. In particolare Tunisi accoglierà un gruppo di 76 uomini, 42 donne e 8 bambini mentre la Libia si occuperà dei rimanenti, tra le 150 e le 200 persone. “Il trasferimento del gruppo è avvenuto ieri nei centri di accoglienza di Tataouine e Medenine con la collaborazione della Mezzaluna Rossa tunisina)”, ha detto un portavoce del ministero dell’Interno di Tunisi. Le condizioni di sicurezza per i migranti saubsahariani presenti in Tunisia sono improvvisamente precipitate fino ad annullarsi dopo le frasi choc pronunciate il 21 febbraio scorso dal presidente Saied che ha parlato di un “piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia”. Parole che hanno alzato la tensione e provocato scontri a Sfax, principale punto di imbarco per chi vuole raggiungere l’Europa, duranti i quali è morto un tunisino di 40 anni. A fine luglio circa duemila migranti sono stati deportati dalla polizia al confine con la Libia e abbandonati nel deserto. Un situazione che nelle scorse settimane ha provocato anche una presa di posizione dell’Onu, con il segretario generale Antonio Guterres che ha chiesto alla Tunisia di fermare l’espulsione dei migranti nelle aree di confine nel deserto e di trasferire coloro che già vi si trovavano. “Centinaia, tra cui donne incinte e bambini, sarebbero rimasti bloccati in condizioni estremamente disastrose con scarso accesso a cibo e acqua”, aveva detto un portavoce. Nonostante le violenze e le discriminazioni nei confronti degli stranieri, solo poche settimane fa l’Unione europea ha siglato un memorandum di intesa con la Tunisia che prevede lo stanziamento di 250 milioni di euro (150 dei quali per la gestione delle frontiere), in cambio di maggiori controlli mirati a impedire le partenze di barconi. Accordo che però preoccupa il parlamento europeo, che chiede di conoscerne meglio i contenuti. In una interrogazione alla Commissione europea, gli eurodeputati di S&D, Verdi, Renew, The Left e Ppe definiscono l’intesa raggiunta “profondamente preoccupante, dato il peggioramento dei diritti dei migranti nel Paese, comprese le espulsioni collettive alle frontiere non sicure, le violazioni durante le intercettazioni in mare e gli arresti di migranti dell’Africa subsahariana da parte della polizia”. Gli eurodeputati chiedono inoltre “quali misure intende adottare la Commissione per garantire che i finanziamenti non vadano a beneficio delle istituzioni coinvolte in violazioni dei diritti umani e perché nel memorandum d’intesa non sono contenute le richieste di lunga data dell’Ue per un dialogo nazionale esaustivo e il rilascio dei prigionieri politici”. Stati Uniti. Quando l’impegno civile si trasforma in business di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 11 agosto 2023 Gli attivisti del “Cop watching” inseguono ovunque i poliziotti “armati” di cellulare. Gli agenti sono diventati più rispettosi dei diritti dei cittadini, ma anche più timorosi. Cop watching, l’impegno di attivisti che riprendono gli interventi della polizia per documentare possibili abusi o usi eccessivi della forza, negli ultimi anni si è talmente diffuso negli Stati Uniti da diventare una piccola industria. Quelli che un tempo si presentavano come citizen journalist, cittadini che, armati di smartphone, riprendevano e ritrasmettevano eventi ai quali era capitato loro di assistere, sono diventati attrezzatissimi professionisti dell’appostamento: scelgono gli incroci nei quali stazionano le pattuglie della polizia e quando una vettura viene fermata saltano fuori riprendendo il colloquio tra agente e guidatore. A volte intervengono avvertendo il cittadino che in certe circostanze ha il diritto di non fornire le sue generalità, i più audaci non indietreggiano nemmeno quando il poliziotto, irritato, dice loro di levarsi di torno minacciando l’arresto. Diverbi e tintinnio delle manette fanno impennare l’audience sui social media: il Washington Post ha calcolato che cop watcher di successo come Paul Reyes e Chris Ruff, capaci di gestire canali su YouTube, riescono a guadagnare, tra pubblicità e abbonamenti, anche 150 mila dollari al mese. Alcuni diffondono anche tutorial per illustrare ai cittadini i loro diritti davanti a un agente. Il movimento Copwatch esiste dagli anni Novanta, ma ha preso quota nel 2014 dopo la rivolta di Ferguson dove un ragazzo nero di 18 anni, Michael Brown, venne ucciso da un agente e soprattutto dopo la morte per soffocamento di George Floyd nel 2020: la scena del poliziotto che schiaccia per vari minuti il suo ginocchio sul collo dell’inerme afroamericano, ripresa coi telefoni e ritrasmessa in tutto il mondo provocò proteste che incendiarono per settimane l’America. Molte di queste riprese sono servite davvero a far emergere abusi di agenti violenti: un fenomeno che ha costretto i dipartimenti di polizia a “rieducare” i detective che ora indossano anche loro una telecamera. Ma quando anche l’impegno civile diventa business, arrivano gli eccessi: spesso ragazzi col telefonino cercano di provocare la reazione degli agenti. Un paio dei watchers di maggior successo, poi, hanno precedenti penali per furti e rapine. Risultato: agenti più rispettosi dei diritti dei cittadini, ma anche più timorosi. Inseguiti ovunque da gente armata di cellulare, spesso tendono a ridurre gli interventi al minimo indispensabile. La maggioranza dei distretti denuncia carenze d’organico: molti agenti si dimettono senza attendere l’età pensionabile e, in questo clima, sono poche le nuove reclute che si presentano. Niger. Respinta la mediazione. Blinken: “La Wagner trae vantaggio dall’instabilità” di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 11 agosto 2023 ll generale Tiani non incontra l’Ecowas, Bazoum ancora recluso. I capi di Stato del blocco africano si sono dati appuntamento domani in Nigeria. “Chiamateci in qualunque momento”, fa sapere Evgeny Prigozhin, il capo della Wagner, ai golpisti del Niger. “Il dialogo è lo strumento preferibile per risolvere la crisi”, manda a dire ai partner africani e occidentali il segretario di Stato americano, Antony Blinken. In serata, in un’intervista alla “Bbc”, Blinken aggiunge: “Non so se quello che sta accadendo in Niger è stato fomentato dalla Russia o dalla Wagner, ma sono loro che stanno cercando di trarne vantaggio”. Il destino del Paese africano è sospeso tra queste due dichiarazioni, tra la prospettiva potenzialmente devastante della guerra e un negoziato comunque complesso. L’Ecowas, l’organizzazione per la cooperazione economica tra 15 Stati dell’Africa occidentale, non ha dato seguito all’ultimatum scaduto il 6 agosto. Per adesso non sembra immediato un intervento armato per liberare il presidente Mohamed Bazoum, imprigionato il 26 luglio scorso dal comandante della Guardia presidenziale, il generale Abdourahamane Tiani, ora leader della giunta militare. I capi di Stato del blocco africano si sono dati appuntamento per domani, giovedì 10 agosto, ad Abuja, la capitale della Nigeria. Il tempo che resta dovrebbe servire per avviare un dialogo con i nuovi padroni del Niger. Ma i segnali non sono incoraggianti. Ieri Tiani ha respinto la proposta di incontrare una delegazione dell’Ecowas. Non li ha fatti neanche atterrare: è la seconda volta in una settimana. Al limite dell’incidente diplomatico anche il trattamento riservato a Victoria Nuland, sottosegretaria al Dipartimento di Stato, una delle figure chiave per la politica estera Usa. La stessa Nuland ha riferito ai giornalisti di aver incontrato, lunedì 7 agosto, i vertici della giunta, ma non il generale Tiani. L’americana ha chiesto anche di vedere il presidente Bazoum: richiesta respinta. “Sono stati colloqui difficili. Non ho trovato disponibilità per una trattativa”, ha concluso Nuland. Fonti diplomatiche nigerine fanno sapere che Bazoum è tuttora recluso nella residenza presidenziale. I suoi carcerieri gli hanno tagliato l’acqua corrente e l’elettricità. Inoltre hanno bloccato con vistosi catenacci porte e finestre. Domenica 6 agosto, Tiani si è fatto acclamare da circa 30 mila supporter nello stadio di Niamey. Ieri ha nominato un suo primo ministro, Ali Mahaman Lamine Zani, già titolare delle Finanze dal 2002 al 2010. Ma, soprattutto, stando alle indiscrezioni, sarebbe già in “stretto contatto” con Prigozhin e i suoi mercenari. Tutte mosse che ostacolano il confronto con l’esterno. All’indomani del golpe, il presidente Emmanuel Macron sembrava pronto ad appoggiare l’intervento dell’Ecowas, magari facendo leva sui 1.500 soldati transalpini di stanza in Niger. La prudenza americana, condivisa da Germania e Italia, cioè gli altri Paesi che hanno contingenti militari nel Paese, ha convinto la Francia a smorzare i toni. Una retromarcia che ha innescato un intenso dibattito a Parigi. La gran parte dei commentatori, da destra e da sinistrra, parla di “fallimento” della “dottrina africana” di Macron. Anche l’Ecowas sembra essersi ricompattata, almeno fino al 10 agosto. L’organizzazione è guidata dal presidente della Nigeria, Bola Tinubu, in un primo momento fautore di un’operazione armata. Ma ieri ha ripetuto a Le Monde le parole di Blinken: “la diplomazia è la via migliore da seguire”.