Messina Denaro sta male, ma non si pente. Si riapre il caso 41 bis di Diego Motta Avvenire, 10 agosto 2023 Condannato all’ergastolo per le stragi del 1992-1993, è detenuto all’Aquila dal 16 gennaio. Qui è stata allestita per lui una stanza con la chemioterapia per curare il tumore che lo ha colpito. Nessun pentimento, neppure adesso che la malattia lo sta sfiancando pesantemente. Le condizioni di salute di Matteo Messina Denaro si sono ulteriormente aggravate, ma nel cortocircuito mediatico che si è originato ieri intorno alla sua detenzione all’Aquila, oltre alla richiesta dei suoi legali di valutare l’incompatibilità con il 41 bis, sono state le sue dichiarazioni a far ancora una volta discutere. Nessuna concessione, nessuna apparente redenzione, in perfetto stile Cosa nostra. La mafia? “La conosco dai giornali. Io mi sento uomo d’onore, ma non come mafioso”, anche se “la mia vita è stata avventurosa”. L’orrore del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e sciolto nell’acido? “Non c’entro”. Gli insulti a Giovanni Falcone in auto, ripresi nel giorno delle commemorazioni del giudice ucciso a Capaci? “Io non è che volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa... Il punto qual è? Che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione”. La cattura? “Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, ma voi mi avete preso per la mia malattia”. Quanto al concorso esterno in associazione mafiosa, “è un argomento farlocco”. Le dichiarazioni sono state rilasciate al procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e all’aggiunto Paolo Guido e, lette tutte d’un fiato, restituiscono bene la personalità del superlatitante e spiegano bene perché ha avuto la capacità di inabissarsi per lunghi anni nella sua terra d’origine, grazie a una fitta ragnatela di complicità. A tal proposito, è lo stesso Messina Denaro a parlare della sua vita a Campobello di Mazara. “Mi sono creato un’altra identità. Giocavo a poker, mangiavo al ristorante, andavo a giocare”. Oggi però il superboss, colpito da un tumore, è molto malato: nel penitenziario abruzzese è stata allestita per lui una stanza per la chemioterapia, mentre nelle scorse settimane si è reso necessario anche un piccolo intervento per problemi urologici. Per il suo avvocato, Alessandro Cerella, “deve essere assistito 24 ore al giorno. Le condizioni sono peggiorate e non sono compatibili con il carcere duro. A strettissimo giro - ha spiegato - presenteremo istanza per il ricovero ospedaliero”. Messina Denaro, ha sottolineato il suo legale, “assume un po’ di acqua ed integratori ed è molto dimagrito. I medici dell’ospedale dell’Aquila che lo hanno preso in cura da gennaio non lo vedono tutti i giorni e lui ha bisogno di una assistenza giorno e notte da parte di una infermiera”. Secondo alcune fonti, “la situazione, seppur grave, non ha richiesto al momento alcun trasferimento né cambio di cure”. Messina Denaro “non sarebbe in pericolo imminente di vita” almeno secondo quanto emerso dall’ultima tac effettuata in ospedale domenica scorsa. Il boss, condannato all’ergastolo per le stragi del 1992-1993, è detenuto nella struttura dell’Aquila dal 16 gennaio scorso, dopo essere stato arrestato a Palermo dai carabinieri del Ros. Proprio la sua malattia aveva portato gli investigatori e i magistrati sulle sue tracce. In un “pizzino” ritrovato il 6 dicembre a casa della sorella Rosalia era stato infatti trovato un diario con gli aggiornamenti sulla situazione clinica del latitante, con le operazioni subite, gli esami e i cicli di chemioterapia. Subito dopo il trasferimento di Denaro nel supercarcere dell’Aquila, il boss trapanese ha incontrato la figlia e le sorelle. Proprio la famiglia è stato oggetto di uno dei tanti confronti avvenuti con la magistratura dopo il suo arresto. “Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d’arte” ha detto ricordando il genitore, morto da latitante e ritenuto uno dei fedelissimi dei corleonesi di Totò Riina. “Lo Stato ha vinto arrestando Messina Denaro ma perderebbe se gli negasse i suoi diritti” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 agosto 2023 Parla l’avvocato del boss di Cosa nostra operato d’urgenza che ora vuole la revoca del 41bis. La politica si “nasconde” e lascia la palla al giudice di sorveglianza. “Matteo Messina Denaro si è risvegliato dall’operazione che è andata molto bene, è vigile e attivo. È in terapia intensiva solo per prassi dopo interventi del genere”. Lo ha detto il garante dei detenuti in Abruzzo, Gianmarco Cifaldi dopo l’intervento a cui due giorni fa il boss mafioso è stato sottoposto all’ospedale de L’Aquila. “La degenza in ospedale dipende dalla combinazione tra il consulto sanitario e gli approfondimenti del Dap che deve valutare le azioni per garantire la sicurezza interna ed esterna - ha affermato ancora Cifaldi -. Tutte le azioni vanno a garantire i diritti costituzionali sia per il boss sia per tutte le persone libere”. Si è trattato di un intervento chirurgico dovuto a una “ostruzione che non è strettamente legata al cancro”, ha detto l’equipe medica che lo segue. Al momento non ci sarebbero complicazioni. L’avvocato Alessandro Cerella, che dallo scorso giugno affianca la nipote dell’ex primula rossa, l’avvocato Lorenza Guttadauro, nella difesa del capomafia ieri mi ha detto: “lo Stato ha vinto quando lo ha arrestato, ma perderebbe se gli negasse i suoi diritti, quali quello alla salute”. E cosa ne pensa la politica? Abbiamo un po’ faticato a trovare qualcuno disposto ad esporsi, forse la doverosa difesa del diritto alla salute di Matteo Messina Denaro potrebbe essere impopolare tra gli elettori. Comunque il senatore dem Walter Verini ci ha detto: “lo Stato deve rispettare la salute e la dignità dei detenuti, anche di coloro che - come Messina Denaro - si sono macchiati di crimini efferati e non hanno avuto il benché minimo rispetto per le vittime e per lo Stato stesso. Mi pare che lo Stato lo abbia fatto e lo stia facendo, consentendo in questi mesi al detenuto di sottoporsi a cicli di cura in ospedale, fino all’intervento chirurgico dell’altro ieri. Se medici e sorveglianza valutano la compatibilità delle sue condizioni con il carcere, è giusto che torni lì o in una struttura carceraria di alta sicurezza, dotata di adeguato centro medico. Ci sono stati, del resto, anche precedenti in questo senso. Fuori di questo perimetro vedo solo rischi di segnali molto sbagliati dello Stato di fronte ad un criminale mafioso”. Dello stesso parere Devis Dori, capogruppo Avs in commissione Giustizia: “Le cure fuori dal carcere devono essere un’assoluta eccezione e comunque solo per esigenze e tempi strettamente necessari, per poi rientrare in carcere, dove già è stato allestito ciò che serve. Qui non c’è in campo solo la tutela della salute individuale, ma anche e soprattutto le esigenze di sicurezza generale. Lo Stato sta già facendo ciò che è possibile per garantirgli il diritto alla salute. Lo Stato vince non solo quando si sforza di garantire i diritti, ma anche quando non perde la memoria di ciò che la giustizia ha già accertato”. Lapidaria la capogruppo M5S in commissione Giustizia alla Camera Valentina D’Orso: “il diritto alle cure va sempre garantito dallo Stato senza eccezioni”. Nella maggioranza ha parlato solo il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin: “La questione non è politica ma è del giudice di sorveglianza che sarà chiamato a valutare l’istanza della difesa. Va detto comunque, come dimostrato anche nel caso Cospito, che alcune nostre carceri sono dotate delle strutture sanitarie all’altezza anche di quadri clinici complessi”. Pensiero simile espresso all’Adnkronos da Marco Cappato, candidato a Monza alle elezioni suppletive per il seggio al Senato, rimasto vacante dopo la scomparsa di Berlusconi: “La decisione se riconoscere o meno le condizioni di incompatibilità con il regime carcerario di 41 bis è una decisione tecnica, basata sulle reali condizioni sanitarie del detenuto. Non deve in alcun modo diventare terreno di scontro sulla base di giudizi politici. Le leggi ci sono, bisogna applicarle”. “Signor Matteo Messina Denaro ho saputo dalla tv che lei si è aggravato ed è stato portato in ospedale, mentirei a lei e a me stessa se le dicessi con ipocrisia e falsità che mi dispiace”. Inizia così la lettera aperta che Graziella Accetta, la mamma del piccolo Claudio Domino, il bimbo di 11 anni ucciso dalla mafia 37 anni fa, ha indirizzato all’ex primula rossa di Castelvetrano. “Assolutamente no, non mi dispiace, accetti la mia franchezza, lei purtroppo ha fatto crimini così efferati che non si possono perdonare, che nemmeno il Padreterno potrebbe perdonarle, ma due parole gliele voglio dire. Si ricordi che quello che non si paga sulla terra per i credenti si paga in cielo, alleggerisca la sua anima, collabori, ci dica quel che sa, ci dica la verità e chi sono i veri “traditori” di questo Stato”, ha concluso la donna. “Ricordo quando, da presidente dell’Anm - disse il Segretario di Area Dg Eugenio Albamonte - venni aggredito pesantemente, anche dagli altri gruppi associativi, quando appoggiai una decisione della Cassazione che, annullando con rinvio un provvedimento della Sorveglianza relativo alla compatibilità della condizione di Totò Riina col carcere, chiese una valutazione più approfondita della situazione. Dissi che così lo Stato si dimostrava più forte della mafia, perché coltivava i principi di civiltà e non quelli dell’odio e della segregazione a prescindere. Rimasi isolato completamente. A&I che era in giunta mi fece un doc contro. Md restò zitta. Mi attaccò l’intero quadro politico nazionale, destra e sinistra unite”. L’avvocato di Messina Denaro: “Il mio cliente incompatibile con il carcere” di Marcello Ianni Il Messaggero, 10 agosto 2023 Quelle frequenti scorte a sirene spiegate verso l’ospedale San Salvatore dell’Aquila subito blindato, svelano un importante retroscena: “Matteo Messina Denaro oramai è completamente incompatibile con il regime carcerario soprattutto in quello più duro del 41bis. Con un tumore al quarto stadio, con la difficoltà anche a reggersi in piedi, deve essere immediatamente ricoverato”. Lo dichiara, l’avvocato di Vasto, Alessandro Cerella, che dal 25 giugno scorso affianca l’avvocata Lorenza Guttadauro nella difesa del boss mafioso. I due legali presenteranno al tribunale della Libertà dell’Aquila, un’istanza di ricovero urgente all’ospedale dell’Aquila, luogo nel quale il detenuto in regime di 41bis ha già subito un intervento chirurgico urologico il 27 giugno scorso, con un massiccio dispiegamento di forze dell’ordine attorno al presidio. Secondo il legale, le condizioni di salute di Matteo Messina Denaro si sono aggravate nelle ultime settimane, tanto che il detenuto - riferisce Cerella - è costretto ad alimentarsi soltanto con succhi di frutta ed altri integratori. “Sul punto - ha aggiunto il legale - voglio evidenziare il lavoro straordinario, encomiabile che lo staff diretto dal professore Mutti porta avanti fin dal primo momento che ha preso in cura il mio cliente. Io ripongo massima fiducia nel loro operato ma i medici non possono vederlo quotidianamente e nelle sue condizioni le cose cambiano di giorno in giorno. Ora le condizioni di salute di Denaro sono disperate. Deve essere assistito da un infermiere dentro una struttura ospedaliera il prima possibile. In carcere non può più stare - sottolinea sempre Cerella - Nonostante il nome che porta come a qualsiasi altro detenuto devono essere garantiti i diritti costituzionali e il giudice di sorveglianza, leggendo le carte, dovrebbe capirlo. Il mio giudizio nei confronti dell’amministrazione penitenziaria e del sistema giustizia in generale è fortemente critico. Nei confronti di Messina Denaro c’è un accanimento: con un tumore al quarto stadio non può stare in una cella senza un infermiere a bere succhi di frutta, invece di avere delle flebo. Dovrebbe essere controllato h24”. L’ultimo trasferimento in ospedale risale a domenica scorsa quando l’ex super latitante è stato condotto nel nosocomio dell’Aquila per una tac. Don Cozzi: “I miei incontri con i boss al 41 bis. Il carcere duro può salvare una vita” di Diego Motta Avvenire, 10 agosto 2023 Il sacerdote: “No a ragionamenti ideologici, c’è chi ha iniziato percorsi e chi non è mutato di una virgola. La mafia? Un conto sono i capi, un altro i ‘soldati’ mandati alla guerra”. Una vita fatta di incontri, negli spazi chiusi del carcere e in località protetta. Da una parte c’è lui, don Marcello Cozzi, un sacerdote. Dall’altra ci sono loro: i boss delle organizzazioni criminali. Don Marcello ne ha incontrati tanti, da Giovanni Brusca a Gaspare Spatuzza, dai leader di Cosa nostra alla manovalanza delle ‘ndrine e di altri gruppi. “Le parole di Matteo Messina Denaro mi hanno richiamato alla mente il messaggio di un boss, che mi diceva: prima di essere catturato dallo Stato, io ero il soldato di un altro esercito. Perché la mafia, quando ci sei dentro, esige davvero un altro codice di comportamento, che è a noi per fortuna sconosciuto. Per questo, il linguaggio usato da un superlatitante che dimostra di non essersi mai pentito rimanda a un altro modo di gestire la vita e le relazioni. Spetta alla magistratura riuscire a decriptarlo, come si sta facendo ormai da mesi”. Don Marcello oggi è il delegato della Conferenza episcopale della Basilicata all’Osservatorio regionale sulla criminalità e più volte, in pubblico e privato, ha ribadito che “dobbiamo denunciare continuamente il malaffare, promuovere la legalità sempre e contemporaneamente provare a essere testimoni di umanità. Per questo, nel mio ragionamento vorrei partire proprio dal 41 bis”. La richiesta della sua abolizione, in nome del rispetto della dignità anche del peggior criminale, divide da sempre. Eppure i legali dei boss insistono. Che ne pensa? L’unico modo di avvicinarci al tema è proprio quello di evitare le ideologie. Se il 41 bis diventa la negazione dei diritti umani, è inutile parlarne. Andrebbe abolito. Ma lo stesso discorso può valere anche per il carcere, che invece secondo la nostra Costituzione dovrebbe avere una funzione rieducativa. E io credo alla nostra Costituzione. Quello che ho imparato in trent’anni di incontri è che, per dirla alla David Maria Turoldo, ogni persona è un’infinita possibilità. Le prime volte in cui andavo a incontrare mafiosi ed ex mafiosi, avevo in mente un modello di detenzione e di detenuto: poi vedevo delle persone completamente diverse da quelle che immaginavo, ci parlavo e la prospettiva cambiava. Può farci degli esempi? Gaspare Spatuzza, tra gli esecutori materiali dell’omicidio di don Pino Puglisi, ringraziava il cielo perché il 41 bis per lui non erano quattro mura, diceva, ma quattro specchi: aveva iniziato a guardarsi dentro. Lo stesso è accaduto per Giovanni Brusca, che tra le mani teneva un mio libro letto e sottolineato pagina per pagina. Uno ‘ndranghetista calabrese disse che all’inizio sbatteva la testa contro il muro, poi riuscì a incontrare il Signore. Per un membro della Stidda, il tempo del carcere duro significò prendere consapevolezza del cambiamento: avevo un tarlo, mi disse, adesso sono in crisi di coscienza... Per tanti, però, a partire da Messina Denaro nulla è mutato... È vero. I Messina Denaro, i Totò Riina, i Bernardo Provenzano hanno dimostrato che non sono cambiati di una virgola. Un conto sono alcuni boss, un altro i “soldati” mandati alla guerra. Quando Messina Denaro, scrivendo alla sua compagna in un “pizzino”, dice che la storia gli darà ragione, fa capire che davvero Cosa nostra per chi ci appartiene è un altro mondo. Ciò che conta però è che alcuni mafiosi hanno potuto iniziare dei percorsi, non per forza religiosi, spesso anche solo di recupero della propria umanità. Non ho dimenticato quel che accadde all’inizio degli anni Novanta, quando allo stadio di Palermo comparvero degli striscioni contro il 41 bis. Era un segnale: i “duri e puri” avevano capito che gran parte dei loro uomini erano fragili. La verità è che solo in carcere essi potevano toccare con mano che esisteva un altro mondo. Eppure ultimamente, dalle dirette social dietro alle sbarre agli allarmi sulle “celle colabrodo”, sembra vacillare anche la capacità del carcere di essere luogo di redenzione e di recupero. Non è così? Prima di tutto, le parole dei magistrati vanno ascoltate e basta. Sapendo quello che succede, fanno bene a intervenire e a sensibilizzare l’opinione pubblica su eventuali errori, eccessi e storture avvenute dentro i penitenziari. Poi però non si può dire: rinchiudiamo i colpevoli dentro e buttiamo la chiave. Da un paio d’anni, faccio un cammino di affiancamento a un boss che non è affatto pentito. Mi mandò a chiamare: lui è al 41 bis e non ha intenzione di collaborare. Mi dissero: “Ma cosa ci vai a fare, rischi soltanto di perdere tempo...” Io risposi: se mi chiama, ci vado. Il cambiamento inizia dall’incontro e io non posso dire: ti incontrerò solo se hai deciso di cambiare. Così ci sono andato e continuo a farlo. Per me il Vangelo resta fonte di vita e quando sento, nella parabola del Figliol prodigo, che il padre è rimasto ad attendere il figlio che si era perduto mentre i suoi passi erano ancora lontani, non posso che rivedermi in quel padre. Il 41 bis ha una radice clinica e sociologica, prima che legale: per me va mantenuto di Maurizio Montanari* Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2023 La frase “Dottore de Lucia, io non mi farò mai pentito” è stata pronunciata da Matteo Messina Denaro nel suo ultimo verbale; mentre pochi giorni fa, in occasione dell’anniversario della morte di Borsellino, mi sono imbattuto in un corteo che inneggiava ad “Uno Stato senza carcere” preceduto da un cartello che gridava “No al 41bis”, formato da persone mobilitatesi per Alfredo Cospito, primo caso di un anarchico sottoposto a questo regime carcerario. In questo “No al 41 bis” confluiscono sia un malinteso senso libertario e anti oppressivo di una parte della sinistra che lo relega a semplice atto di tortura, sia una diffusa pulsione securitaria alimentata da alcune parti politiche. Il 41 bis, ove applicato solo ai boss malavitosi (originari destinatari di questa misura, lo si ricordi sempre) non è l’azione oppressiva di uno Stato orwelliano, sadico e totalitario, che sceglie pene quasi corporali contro le quali ‘ribellarsi’ da sinistra, né deve diventare l’obiettivo di quella parte di popolazione che, da destra, la mano punitiva dello Stato la invoca come illusoria panacea dei tanti reati che sono commessi. Il 41 bis ha una radice clinica e sociologica, prima che legale, ed è proprio il verbale di Messina Denaro a testimoniarlo. Tale articolo, che impedisce ai vertici di organizzazioni criminali quali mafia e ‘ndrangheta di avere contatti con l’esterno, è la sola possibilità che un consesso sociale democratico ha di difendersi da chi obbedisce ad altri codici, altre leggi. Uomini per i quali il concetto di ‘pentimento’, ‘ravvedimento ‘, ‘cambiamento’ non sono contemplati in quanto essi obbediscono a leggi assolute, fondamenta naturali e interiorizzate di un idea di società antagonista a quella basata sulla Costituzione: “desidero che mi rimangano i miei principi, giusti o sbagliati che siano” ribadisce Denaro, spiegando, se ancora ce ne fosse bisogno, il concetto di ‘inappartenenza allo Stato’ e, dunque, di ‘non redimibilità’ o pentimento per azioni criminali non ritenute tali. Il procuratore Sergio Lari, in una lunga intervista relativa ai processi a Cosa Nostra, diceva a proposito di Totò Riina: “In quel contadino analfabeta nessun barlume di pentimento”. Da uomo di legge è riuscito a cogliere quello che la psicoanalisi da tempo conosce e insegna: ci sono persone che obbediscono a leggi diverse dalla lex degli uomini, fedeli a tavole che sono antecedenti al codice penale e civile da essi ritenuto un intoppo al perseguimento di quell’ordine sociale che il codice malavitoso cerca di edificare. Un ordine fondato sulla violenza, sulla gerarchia familiare, sull’eliminazione fisica dell’avversario. Le cronache raccontano che, prima dell’avvento del 41 bis, molti capimafia erano sì detenuti in carcere, ma con ampie possibilità di comunicare col mondo esterno, dunque totalmente dediti alla funzione di dominus che emana ordini, direttive, dà indicazioni e gestisce gli affari anche da dietro le sbarre. La loro parola, fatta giungere a chi di dovere, potendo contare su ‘fedeli’ per i quali assurge a legge, poteva e può mietere ancora morte e vittime nell’ottica di un conflitto continuo. Quando, nei suoi ultimi mesi di vita, Riina veniva intercettato mentre camminava fuori dalla cella, diceva: “Io mi sarei fatto altri mille anni”, ribadendo una natura non redimibile, non mutabile, non soggetta ad altre leggi se non quelle che lo hanno cresciuto e che lui ha introiettato ritenendole le sole giuste, le uniche applicabili. Il capomafia non si ritiene ‘giudicabilè da uno Stato che non riconosce, alle leggi del quale non vuole sottoporsi perché non dà a queste alcun valore. La frase di Denaro “Speriamo che muoio prima, così la chiudiamo qua” va in questa direzione. Quando Giovanni Falcone pensò al 41 bis non voleva la mortificazione del corpo. Né vendetta o men che meno l’annichilimento dell’uomo. Falcone, profondo conoscitore di Cosa Nostra, aveva capito di essere in guerra con un altro Stato, e da stratega voleva togliere ai boss quei legami che permettevano loro di regnare. Avendo intuito la base antropologica e sociale del sistema mafioso, voleva corrodere le fondamenta del potere dei capimafia, convinto da sempre della loro irredimibilità. Da qua il fraintendimento di chi lo accusava di utilizzare strumenti troppo duri. “Non uccidere, e non rubare. Rispetta i servitori dello Stato, paga le tasse”. Facile a dirsi per noi, che con questo senso della legalità siamo nati e cresciuti, chi più chi meno, e un’idea diversa di mondo non la sappiamo immaginare. Il Super Io freudiano è l’istanza morale propria di ciascun uomo, interiorizzata nel corso dello sviluppo, che tende a distinguere il bene e il male secondo le indicazioni sulle quali la società si fonda, trasmesse poi dalle figure genitoriali. Il Super Io ha come base strutturale la prevalenza della legge degli uomini sulla lex perversa che abita il bambino (perverso polimorfo, come insegna Freud) che prevede ab origine una naturale tendenza all’illimitato, strada pulsionale pura che l’infante seguirebbe se non educato. Le regole che la struttura sociale impartisce, filtrate dall’insegnamento dei genitori, determinano una messa a freno e un calmierare di questa tendenza onnipotente in nome del bene sociale. Il senso di colpa, la vergogna, sono i residui non lavorati ma pesanti di quel momento di scarto nel quale il soggetto, una volta cresciuto, si lascia andare a comportamenti diversi da quelli introiettati, provando un senso di colpa direttamente proporzionale alla base etica sulla quale egli si è sviluppato. I capimafia, i soldati sinceramente devoti e assoggettati alla lex dell’antistato, non provano senso di colpa o ‘pentimento’ nel porsi come estensori e continuatori di una legge violenta, perché partono da basi diverse, differenti. Opposte. Nascono, crescono si pascono del nutrimento di un Altro che ha come fondamenta millenarie altri codici morali, altre direttive, che vengono riversate con cura nel fiume dello sviluppo del bambino. Il fine ultimo è un mondo che prevede la violenza al posto del confronto, il rispetto per il potente invece del principio di eguaglianza. I rappresentanti della legge (‘sbirri’, magistrati e servitori dello Stato) sono dunque abitanti di un universo vissuto come nemico, ostile, e la loro opera è un intralcio alla creazione di una società basata sul concetto di ‘fedeltà’, sull’affiliazione parentale come antagonista al benessere collettivo. Dunque, absit iniuria verbis, il loro Super Io interiore è coerente laddove non genera colpa per aver ucciso un poliziotto, un carabiniere, un magistrato. Sono, alla fine, nemici. Sta qua la natura della loro non redimibilità. Come pensate si possa sciogliere un bambino nell’acido senza provare un briciolo di colpa, se non ritenendolo un passo necessario al consolidamento di un potere che non prevede la delazione o il ‘tradimento? (“Alliberati du cagnuleddu”, ‘sbarazzati del cagnolino’ sarebbe stato l’ordine impartito al killer). La tigre non conosce altra legge che la morte della preda, la caccia come elemento regolatore dei rapporti con altri animali. Non può essere ‘convertita’ al vegetarianismo, e non può essere ‘convinta’ a trattare l’uomo come suo simile. Se libera, in una stanza con noi, sbrana. Il 41 bis è quella legge che deve impedire alla tigre di uscire. *Psicoanalista Ocf: ripristinare piena efficienza nelle relazioni tra difensore e detenuto con utilizzo di mail e pec Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2023 L’Ocf denuncia che “l’invito che alcuni direttori di carcere stanno inviando agli avvocati per evitare l’invio di mail o pec per comunicare con i propri assistiti, trasmettendo documentazione processuale, si traduce in una inutile ed evitabile compressione dei diritti di difesa. Sorprende infatti che proprio mentre viene imposto il processo penale telematico si proceda esattamente al contrario nell’ambito carcerario, riducendo l’utilizzo della tecnologia e vanificando così il lavoro di anni ed anni che gli Ordini hanno prodotto, con la stipula di numerosi protocolli con le case di reclusione, proprio per garantire ai detenuti una migliore e più efficiente difesa”. “Tale brusco revirement - prosegue il comunicato Ocf - non si può giustificare neppure con il richiamo ad una recente circolare del Dap che riguarda l’utilizzo del fax e comunque non può certo definirsi improprio il ricorso a mail e pec per comunicare rapidamente con il detenuto, trasmettendogli atti processuali”. Con riferimento poi alle difficoltà lamentate dalla Polizia Penitenziaria, il cui organico è notevolmente carente, a visionare e “scaricare”gli atti inviati dai difensori, occorre dire che tale verifica è ancora più complessa quando avviene al momento del colloquio in presenza o a seguito di un invio tramite posta ordinaria e che comunque l’ ampliamento dell’ utilizzo della mail e della pec può essere visto come un cambiamento in senso migliorativo anche in termini di risorse umane, purché riorganizzate a tal fine. È pertanto indispensabile - conclude l’Ocf - che il Dap intervenga al più presto per evitare che interpretazioni restrittive sulle comunicazioni tra difensore ed assistito in vinculis, si traducano in una minorata difesa ed in un conseguente trattamento inumano del detenuto, promuovendo una adeguata organizzazione del lavoro di ricezione di mail e pec inviate dai difensori. Decreti urgenti e nuovi reati, il liberale Nordio tradisce se stesso di Donatella Stasio La Stampa, 10 agosto 2023 L’esecutivo, e chi lo rappresenta, fa la faccia feroce per “rassicurare” l’opinione pubblica pur sapendo che è sbagliato e non serve a nulla. Se non a cancellare le garanzie. Ha ragione Carlo Nordio: la realtà è complessa, lo è anche il diritto, e figuriamoci la politica. Quindi, si rassegni chi ancora aspetta di vederlo all’opera come ministro garantista o, al contrario, giustizialista. Non sono né l’uno né l’altro, risponde al collega Francesco Grignetti, che lo ha intervistato su questo giornale. È vero, lui è come il Godot di Beckett, si fa aspettare, e intanto confonde, parla e fa parlare di sé in un modo un po’ monotono e surreale, come del resto si addice ai protagonisti del teatro dell’assurdo. Nessuno sa veramente dove ci porteranno Nordio e il suo governo. Mentre leggevo l’intervista, di fronte a quel continuo zigzagare del guardasigilli tra rivendicazioni liberali e risposte panpenaliste, tra esigenze garantiste e politiche repressive, mi chiedevo che cosa avrebbe pensato Marcello Gallo, uno dei più grandi penalisti italiani purtroppo scomparso domenica scorsa e ricordato, tra i tanti, dallo stesso Nordio e dal sottosegretario Alfredo Mantovano perché ha formato intere generazioni di giuristi ed è stato un grande maestro del diritto penale. Anche per me. Non dimenticherò mai il suo richiamo ai colleghi giuristi - era il 2014 - ad abbandonare il linguaggio “ellittico” o “esoterico” solitamente frequentato, che non si fa capire - forse non vuole - e dunque non aiuta a formare leggi “prive di sotterfugi”, cioè leggi che “non tollerino interpretazioni tali da condurre dall’assetto liberal-democratico a soluzioni apparentemente innocenti ma sostanzialmente ispirate alla logica dell’autoritarismo”. Che è quanto denunciano, oggi, soprattutto gli avvocati penalisti e la stampa liberale, che in Nordio avevano riposto grandi aspettative ma che ora chiedono al Parlamento di “fermare la legislazione emergenziale”. Inutile, ormai, aspettare Godot. Al di là delle aspettative, il combinato disposto delle risposte di Nordio e delle sue iniziative politiche concrete purtroppo non rassicura sul fatto che quella logica sia del tutto estranea alla politica penale del governo, che viaggia spesso, troppo spesso, con decreti legge, a dispetto della cultura liberale dichiarata da chi li firma. Tutto è diventato un’emergenza e viene affrontato con insofferenza ai controlli, ai diritti e alle garanzie nonché alla separazione dei poteri, oltre che con un approccio securitario. Con decreto abbiamo visto nascere nuovi reati, alcuni persino universali, e inasprire le pene di molti altri: è accaduto con i rave party, l’omicidio nautico, il traffico di migranti, le violenze al personale scolastico, e ora con l’incendio doloso e colposo. “Un segno di attenzione dello Stato per la repressione di gravissimi fenomeni” spiega il ministro liberale Nordio, sebbene ai lettori dei suoi editoriali abbia per anni ripetuto che “l’errore della destra è pensare di garantire la sicurezza con l’inasprimento delle pene, la creazione di nuovi reati e magari con un sistema carcerario criminogeno come quello che abbiamo”. Insomma, nella migliore tradizione panpenalistica italiana, il governo Meloni, e chi lo rappresenta sul fronte della giustizia, fa la faccia feroce per “rassicurare” l’opinione pubblica pur sapendo che è sbagliato e non serve a nulla. Se non a cancellare le garanzie. Non è propaganda, assicura il ministro nell’intervista. È, appunto, la “complessità” della vita, del diritto, della politica. L’unica propaganda in cui si riconosce, aggiunge, è la “propaganda fide”, la fede nella certezza del diritto. Questa “fede”, e nient’altro, avrebbe ispirato un’altra norma, per certi versi tossica, dell’ultimo decreto legge, già annunciata da Meloni e Mantovano a luglio, nell’anniversario della strage di via D’Amelio, soprattutto per attutire le polemiche sul Nordio-pensiero in materia di concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta della norma per “rimediare” a una sentenza dell’anno scorso della prima sezione penale della Cassazione che - discostandosi da un precedente del 2016 delle sezioni unite - delimitava l’ambito della criminalità organizzata ai fini dell’utilizzo delle intercettazioni consentite per i reati di mafia. Un precedente isolato che aveva però allarmato alcune Procure antimafia, in particolare a Milano e a Torino, nonché la Procura nazionale. Il problema avrebbe dovuto essere risolto dalla stessa Cassazione - che secondo l’ordinamento giudiziario ha proprio la funzione di garantire l’uniforme interpretazione del diritto - ma non ce n’è stata l’occasione (questa la tesi del Palazzaccio) o è stato sottovalutato (secondo la tesi del governo). Meloni e Mantovano hanno quindi deciso di intervenire, annunciando un decreto legge di natura interpretativa. Una forzatura poi abbandonata. Si è optato per una norma innovativa, chiarificatrice, che “tipicizza”, spiega Nordio, e che “allontana il rischio di compromettere molti processi” (ma alcuni noti giuristi non ne sono convinti, come Gianluigi Gatta, autore di un articolo dal titolo: “Intercettazioni e criminalità organizzata: quando a voler precisare si finisce per complicare”). Vedremo. Resta comunque la forzatura del decreto legge, che può rappresentare un fastidioso precedente di fronte a future sentenze indigeste politicamente. Peraltro, da un lato il governo raccoglie le sollecitazioni dei Procuratori antimafia, dall’altro lato le ignora quando si tratta di tutelare i cittadini dalle scorribande della mafia sul terreno della corruzione. Non va in questa direzione, infatti, l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, proposta e difesa da Nordio nel suo Ddl di giugno sulla giustizia, contro cui si sono levate più voci, non solo dal fronte antimafia. Grignetti lo ricorda al ministro nel corso dell’intervista ma Nordio “vola alto”, ignorando, o fingendo di ignorare, persino le preoccupazioni consegnate a Meloni dal presidente della Repubblica per una possibile violazione dei trattati internazionali. Il nostro armamentario anticorruzione, assicura il ministro, “è tra i più forniti d’Europa”. Salvo poi aggiungere: alla bisogna, faremo un “intervento additivo” (leggi: un nuovo reato), naturalmente “tipicizzato”, parola che serve a tranquillizzare chi teme colpi di spugna (per esempio su reati come la tortura o il concorso esterno), ma che di fatto può portare ad analogo risultato. In realtà non sappiamo come finirà sull’abuso d’ufficio, viste anche le diverse posizioni nella maggioranza, con la Lega, in particolare, contraria a soluzioni radicali. Ma c’è da giurare che Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia del Senato - dove il Ddl comincerà in autunno il suo cammino parlamentare - saprà gestire la situazione con la capacità di mediazione dimostrata, ai tempi in cui governava Berlusconi, su provvedimenti altrettanto delicati, come le intercettazioni. Sono stata una delle tante allieve di Marcello Gallo all’Università di Roma negli anni 70 e ci siamo incontrati di nuovo alla fine degli anni 80 in Parlamento, io giornalista e lui senatore della Dc, autorevole presidente della Commissione bicamerale per i pareri al nuovo Codice di procedura penale, al quale diede sostanzialmente il via libera. Proprio quel Codice Vassalli che ora Nordio dice di voler “riportare alle origini”, con modifiche spot e con la separazione delle carriere. Staremo a vedere, ancora una volta, quale logica ispirerà le annunciate modifiche. Anche Gallo era favorevole a una separazione tra giudici e pm ma non ne faceva una crociata. Da cattolico, esortava i giuristi a difendere sempre la laicità del diritto, senza sovrapporre alle norme le proprie opinioni personali, e agli statisti raccomandava di rifuggire dall’imposizione di una morale “perché è l’anticamera del totalitarismo”. Una lezione davvero preziosa. La riforma della giustizia penale? Manette, carcere e ancora carcere di Iuri Maria Prado L’Unità, 10 agosto 2023 Al Guardasigilli non si può rinfacciare la scelta di militare in una formazione parlamentare ed esecutiva anti-liberale, interprete di una giustizia classista, retrograda e poliziesca. Sarebbe ingeneroso attribuire alla responsabilità del Guardasigilli, Carlo Nordio, l’organizzazione dell’orgia forcaiola che via via è venuta a istituzionalizzarsi nei provvedimenti della maggioranza in materia di giustizia. Ingeneroso sarebbe fare il conto delle pernacchie e degli sberloni con cui l’azione di governo ha dato riscontro ai vagheggiamenti da convegno e da salotto di quel liberale a parole. Né gli si può rinfacciare la scelta, dopotutto legittima, di militare in una formazione parlamentare ed esecutiva anti-liberale, interprete di una giustizia classista, retrograda, esclusivamente afflittiva, poliziesca. È la tradizione del liberalismo italiano: disinibito in cenacolo e recessivo in auto blu ministeriale; Beccaria sul comodino e pena di morte in emergenza. Ma dire che non è colpa esclusiva di Nordio, responsabile semmai di concorso interno all’associazione carcerista di centrodestra, serve soprattutto a tenere dritta la barra del giudizio contro una cultura e una prassi dell’amministrazione della giustizia che da quelle parti è ampiamente collegiale: ed è messa tutt’al più in bella copia dal giurista veneziano, ma nella sostanza sarebbe uguale senza di lui. L’estensione dello spionaggio giudiziario, tramite intercettazione, su ulteriori ettari della legislazione penale, con cimici e trojan posti a presidiare le zone contigue alla galassia antimafia sino a trasformarla nel buco nero che ingurgita tutto, dal traffico di rifiuti al sequestro di persona, non è meglio di uno sputo in faccia al pluridecennale tentativo garantisca di limitare il ricorso a quei mezzi invasivi e di sistematica violazione dei diritti individuali. La previsione di “condizioni meno stringenti per l’autorizzazione e la proroga delle intercettazioni stesse”, trasfusa nei manifesti e nei post social della presidente del Consiglio che rivendica di aver in tal modo “difeso la legalità antimafia”, non è altro che una delega supplementare al potere sconfinato dell’accusa pubblica e al dovere di compiacenza del giudice nell’assoggettarvisi. “Ora i servitori dello Stato”, dice Giorgia Meloni, “sanno di avere un governo che sta dalla loro parte”. Vuol dire dalla parte di chi reclama più reati, più carcere, più rastrellamenti giudiziari, più cittadini esposti all’occhio inquirente del potere pubblico, più libertà tentacolare della piovra giudiziaria. Gli slogan come quello, messi insieme a margine del Consiglio dei ministri dell’altra sera, fieri nella riaffermazione delle virtù del carcere duro e dei rimedi ostativi, altra faccia della moneta governativa che enuncia le ragioni del proprio sdegno per l’imputazione di un sottosegretario e per l’affronto indiziario ai danni delle gentildonne ministeriali, sono i facili e osceni esperimenti con cui questo esecutivo si fa ventriloquo della piazza che chiede le solite cose di piazza, sicurezza e onestà e tutela delle vittime: cioè le cose perseguite (e non ottenute) con gli strumenti che da decenni fanno e assolvono l’ingiustizia italiana. Disastrata com’è l’amministrazione della giustizia, e ormai in irrimediabile derelizione lo Stato di diritto in questo Paese, magari qualcuno poteva pensare che fosse impossibile fare peggio. Sbagliava. Nordio: “Nessun disagio per l’inasprimento delle pene. Non sono giustizialista né garantista” di Claudio Cerasa Il Foglio, 10 agosto 2023 Il decreto anti-piromani “valorizza la certezza del diritto e della pena”, dice il ministro della Giustizia. Sul suo ddl: “L’efficienza è prioritaria. Tempi lunghi per la separazione delle carriere, serve intervento costituzionale”. E parla di “piena sintonia con Meloni” e di rapporti “molto buoni” con i vertici dell’Anm. “Non esistono i panni del garantista o del giustizialista ma la complessità della realtà”, dice in una lunga intervista alla Stampa il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Nell’ultimo Cdm prima della pausa estiva sono stati approvati, tra le altre cose, il decreto legge che estende l’area delle intercettazioni e innalza le pene ai piromani. Ed ecco aggiungersi un ulteriore tassello a quello che oggi, in un editoriale sul Foglio, segnaliamo come il paradosso di un ministro garantista che, da quando siede in Via Arenula, sta introducendo nuovi reati e alzando le pene persino più del professo giustizialista Alfonso Bonafede. Dal nuovo reato di gestazione per altri all’omicidio nautico, equiparato a quello stradale; e poi le pene aumentate per le violenze al personale scolastico, per il reato di istigazione sul web, per l’immigrazione clandestina e il giro di vite contro i rave party. L’impressione è che a ogni emergenza (spesso molto mediatica) la risposta in automatico del governo, anziché individuare meccanismi di intervento e prevenzione, sia quella classica securitaria: più galera per tutti. Il Guardasigilli, alle domande della Stampa sul tema, si giustifica dicendo che “il garantismo ha una duplice coniugazione: l’enfatizzazione della presunzione di innocenza e la certezza del diritto e della pena. In questo decreto, si valorizza il secondo aspetto; nel disegno di legge di giugno, il primo”. E sul caso specifrico della norma “anti-piromani”, aggiunge: “Non sono affatto a disagio per l’inasprimento delle pene contro dei criminali: rappresenta l’attenzione dello Stato per la repressione di gravissimi fenomeni e la tutela di chi li subisce. Anche il governo Draghi era intervenuto; noi abbiamo aggiunto un’aggravante per punire chi si procura un vantaggio, mandando in fumo aree del nostro meraviglioso Paese”. Riguardo all’altro decreto appena approvato, in cui si estende l’area delle intercettazioni, il ministro dice che “è un intervento che assicura ed estende la possibilità di adottare incisivi strumenti di indagine, come le intercettazioni ambientali, per reati aggravati dal metodo mafioso, dalla finalità di terrorismo o per il sequestro per estorsione. È una norma specifica, di tipicizzazione per allontanare il rischio di compromettere molti processi”. Sulla separazione delle carriere Nordio conferma che “è nel programma ma richiede un intervento costituzionale e quindi tempi più lunghi”, mentre “ora, le priorità sono l’efficienza agli uffici giudiziari e gli impegni con l’Europa”. Il ministro si smarca invece dalle domande sul concorso esterno in associazione mafiosa (“ripeto ancora che non è nel programma di governo”) e sull’ipotesi di cancellare l’obbligatorietà dell’azione penale, “che non esiste nei Paesi dove è nata la democrazia, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, dove tra l’altro il pm non è sottoposto al potere esecutivo ma è eletto dai cittadini”. Secondo Nordio sono “tutti i temi” da affrontare”con razionalità, non a colpi di slogan” ma poiché si tratta “di capitoli non ancora aperti, posso solo dire che non ci sarà mai alcun controllo politico. La magistratura, però, non deve essere indipendente solo dalla politica, ma anche dalle degenerazioni correntizie”. Quanto all’abrogazione del reato di abuso d’ufficio e sul rischio che questa possa mandare l’Italia in rotta di collisione con la Commissione europea e con i Trattati, rischiando la procedura di infrazione, il ministro ribatte che “l’Europa non ci chiede di mantenere il reato com’è, ma di assicurare un’efficace lotta alla corruzione. Ho già illustrato in due occasioni al commissario Reynders il nostro arsenale preventivo e repressivo, tra i più forniti d’Europa. I numeri ci dicono che a fronte di 5.000 fascicoli all’anno, le condanne sono una manciata e per reati connessi”. Infine, il Guardasigilli sostiene di essere “in assoluta sintonia” con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e di avere rapporti “molto buoni” con i vertici dell’Anm, nonostante le “differenze di vedute che sono e saranno oggetto di confronto”. “Parlare, come qualcuno ha fatto, di aggressione alla magistratura è improprio, come sarebbe improprio parlare di aggressione al Parlamento quando un pm invia un’informazione di garanzia ad un suo membro”, conclude. Nordio diventa grillino: accantona il garantismo e fa il contrario di quanto annunciava di Angela Stella L’Unità, 10 agosto 2023 Sono trascorsi nove mesi e due settimane dal giuramento del Governo Meloni e non c’è traccia del Ministro della Giustizia Carlo Nordio. No, non siamo stati vittime di una insolazione agostana, semplicemente abbiamo messo in fila alcune circostanze e ci siamo resi conto che forse a Via Arenula c’è solo un ologramma dell’ex magistrato, ex saggista ed ex editorialista che fa tutto il contrario di quello che aveva annunciato il vero Nordio, quello garantista, liberale, contrario al panpenalismo e all’ergastolo, e fautore del carcere come extrema ratio. Partiamo dai fatti più recenti, ossia dall’approvazione in Cdm due giorni fa di un decreto legge che, per “rimediare” ad una decisione garantista della Cassazione, prevede l’estensione ad una serie di ipotesi di reato di criminalità grave - come quelli aggravati dal “metodo mafioso”, con finalità di terrorismo, reati di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti e sequestro di persona a scopo di estorsione - degli strumenti di investigazione disciplinati dalla legislazione in materia di criminalità organizzata, quelli cioè più agili per i pm. Eppure nelle sue linee programmatiche e in altre occasioni pubbliche il Guardasigilli aveva ripetuto: “Noi interverremo sulle intercettazioni molto più radicalmente. Che questa sia una barbarie che costa 200 milioni di euro l’anno per raggiungere risultati minimi è sotto gli occhi di tutti”. Come si può pensare che Nordio porti a termine la separazione delle carriere se appena i pm antimafia alzano la voce gli prepara un dl ad hoc? Sempre nello stesso decreto-legge si innalza la pena edittale minima prevista per l’ipotesi di incendio doloso: da quattro anni a sei anni di reclusione; per l’ipotesi di incendio colposo, si passa da uno a due anni di reclusione. Inoltre si aggiunge a quella già esistente un’ulteriore circostanza aggravante. “E di certo - disse il presidente Anm Giuseppe Santalucia ad aprile - i pochi interventi visti non sono assolutamente rappresentativi di un Nordio liberale, basti pensare al decreto anti-rave party”. Non scordiamoci che all’interno di quel decreto era anche contenuta la nuova norma sull’ergastolo ostativo che impone, come specificato da molti giuristi, una prova diabolica al detenuto non collaborante per chiedere il beneficio della liberazione condizionale. Fu lo stesso Nordio a presentarlo nella prima conferenza stampa del Governo, proprio lui che in più occasioni, tipo una intervista al Corriere della Sera, aveva detto che l’ergastolo andrebbe abolito. E che dire del Decreto Cutro che “prevede un aumento delle pene per il traffico di migranti e l’introduzione di una nuova fattispecie in relazione alla morte o alle lesioni gravi in conseguenza al traffico di clandestini”? Nordio entrando nel merito del provvedimento disse che è “un intervento estremamente severo nei confronti degli scafisti”. Dov’è finito quel Nordio che rifletteva così, come ricordato dal Foglio tempo fa: “La sicurezza va garantita in modo preventivo e quindi attraverso il controllo del territorio, il potenziamento delle forze dell’ordine e di tutte quelle attività di prevenzione utili, da utilizzare a patto che restino segrete, come le intercettazioni. E l’errore, l’equivoco della destra, è quello di pensare di garantire la sicurezza attraverso l’inasprimento delle pene, la creazione di nuovi reati e magari con un sistema carcerario come quello che abbiamo che diventa criminogeno”? Ecco, lui si è candidato proprio con quella destra che criticava e che però lo ha fatto nominare convintamente Ministro della Giustizia, ancora non sappiamo perché a questo punto, visto che lo sta snaturando mossa dopo mossa. Dov’è quel Guardasigilli che appena dopo il giuramento da Ministro davanti a Mattarella esclamò: “La velocizzazione della giustizia passa attraverso una forte depenalizzazione e quindi una riduzione dei reati”? Parliamo ora delle carceri: il Guardasigilli appena insediato aveva lodato l’operato dell’ex capo del Dap Carlo Renoldi, magistrato tra i più esperti di carcere, che in pochi mesi aveva dato importanti segnali di riforma, dalla circolare sui colloqui e le videochiamate al rinnovo delle indicazioni per la prevenzione del rischio suicidario. E poi però lo ha silurato chiamando alla guida dell’Amministrazione penitenziaria Giovanni Russo, proveniente dalla DDA. Un altro esempio: come sottolineato criticamente dal Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, il Senato bocciò gli emendamenti al dl anti-rave per prorogare le licenze straordinarie ai semiliberi. In 700 sono rientrati a dormire in carcere a fine anno dopo più di 2 anni di ottima prova in libertà. Ogni appello al Ministro è rimasto vano. Lo sconcerto di Forza Italia: “Che fine ha fatto il Nordio garantista?” di Simona Musco Il Dubbio, 10 agosto 2023 C’è perplessità in FI per le contraddizioni del ministro della Giustizia, che ha anche dichiarato di non essere né garantista né giustizialista. “Ma com’è possibile che, dopo tutte le dichiarazioni fatte dal ministro, gli unici provvedimenti presi finora sono aumenti di pena, nuovi reati e un allargamento del perimetro delle intercettazioni? Erano solo dichiarazioni spot?”. C’è sconcerto in Forza Italia per le contraddizioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ieri, in un’intervista alla Stampa, ha dichiarato di non essere né garantista né giustizialista. Dichiarazioni, le sue, che hanno fatto saltare sulla sedia uno dei più grandi sostenitori, il deputato di Azione Enrico Costa, che ha accostato le parole del Guardasigilli a quelle dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che tre anni fa aveva definito quelle tra le due prassi “contrapposizioni manichee”. Per Nordio, chiamato a fare i conti con provvedimenti che smentiscono le sue dichiarazioni programmatiche, i suoi libri e i suoi editoriali, esiste solo “la complessità della realtà”, che forse, molto più semplicemente, è il confronto tra la teoria e la pratica, dove la pratica non è più quella delle aule di giustizia - dove poteva contare sulla propria indipendenza di magistrato -, ma l’arena politica, dove tocca fare i conti con il mandato popolare e, soprattutto, con le regole d’ingaggio. E a scrivere le regole è Giorgia Meloni, una scesa in politica nel nome di Paolo Borsellino, come ama ricordare ad ogni polemica sollevata dalla magistratura, che finora è riuscita a far raddrizzare il tiro alla premier ogni volta che ha potuto. E in questo braccio di ferro a rimanere schiacciato è proprio Nordio, costretto a fare passi indietro per rimanere fedele a Meloni, con la quale ribadisce ad ogni occasione la “piena sintonia”. Così, se è vero che “inasprire le pene e creare nuovi reati non serve a nulla”, come affermava nel suo libro “Giustizia”, ciò non toglie che si possa agire proprio in tal senso per dare un segnale “politico”, come dichiarò mesi fa a “Che tempo che fa” dopo aver messo la firma sul tanto discusso decreto Cutro. Ciò perché, aveva spiegato, nonostante “il segnale della legge penale” non abbia “un significato di deterrenza”, ciò che arriva è “un segnale politico”. Un segnale rivolto all’elettorato - “serve a dimostrare che siamo attenti a questo fenomeno”, in quel caso l’immigrazione clandestina -, dunque, e che a gestire il fenomeno serve poco. Come dimostrato dai dati sconcertanti degli ultimi tempi: durante il governo Meloni gli sbarchi sono triplicati. L’ultima contraddizione risale a pochi giorni fa, quando con un decreto legge il governo ha ampliato le possibilità di fare intercettazioni telefoniche e ambientali, rendendo la norma applicabile anche ai procedimenti in corso, per sanare il vulnus segnalato da molte toghe a seguito di una sentenza di Cassazione. Un intervento annunciato in occasione della commemorazione della strage di via D’Amelio, quello di Meloni, costretta, allora, a “zittire” Nordio, che l’aveva messa in imbarazzo dichiarando ciò che in realtà ha sempre dichiarato, ovvero che il concorso esterno è “un ossimoro”. Ieri, dunque, la premier ha rivendicato il decreto e il suo impegno “nella lotta alla mafia”, ha dichiarato sui social. A manifestare sconcerto è stata, in primis, l’Unione delle Camere penali, da sempre strenua sostenitrice di Nordio, che in un documento ha evidenziato come via Arenula faccia “oramai sistematicamente seguire alle condivisibili dichiarazioni garantiste del ministro, disegni, atti e proposte che vanno in altra direzione”. Misure “irragionevoli, inutilmente punitive, assunte proprio mentre si chiede all’avvocatura di utilizzare i soli strumenti informatici per procedere al deposito degli atti difensivi”. Ma a dirsi perplessa è soprattutto Forza Italia, l’unica forza di governo a portare avanti il programma annunciato dal ministro al suo insediamento. Uno sconcerto emerso nel segreto delle chat, dove deputati e senatori hanno mugugnato per il taglio giustizialista dei provvedimenti del primo anno di governo, mentre in pubblico l’ordine è quello di difendere il difendibile. “Quando si tratta di mafia, Forza Italia non può che essere del tutto intransigente”, ha dichiarato a Rainews 24 il senatore Pierantonio Zanettin. Che però, “da giurista”, non ha potuto fare a meno di dirsi perplesso per il “metodo”, ossia per la scelta “di intervenire con un decreto legge per sanare un contrasto giurisprudenziale”. Un “precedente pericoloso”, fanno sapere da FI, che ora punta tutto sulla possibilità di portare a casa l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. “Siamo convinti che si debba abolire - ha aggiunto Zanettin -, perché è una spada di Damocle sulla testa di migliaia di amministratori e nella sostanza è un reato che non porta a condanne”. Il punto di caduta, dunque, è proprio il ddl Nordio, già a rischio, secondo quanto trapelato, dati i timori di FdI di scontentare il proprio elettorato. Ma Forza Italia è pronta ad andare fino in fondo. “Ci aspettiamo molto da questo ddl - fa sapere un forzista di primo piano - e siamo pronti a migliorarlo in chiave garantista”. Ma sono le intercettazioni a preoccupare, soprattutto alla luce dell’indagine conoscitiva già svolta in Senato, dove tra l’altro la posizione di Fratelli d’Italia era apparsa molto più orientata al rispetto delle garanzie. Una posizione espressa da Sergio Rastrelli il 12 luglio scorso, lo stesso giorno in cui Nordio pronunciò le parole tanto contestate sul concorso esterno. “Nonostante la riforma del 2017 abbia rafforzato il sistema delle garanzie a tutela della riservatezza delle intercettazioni - aveva dichiarato il senatore di FdI - permangono ancora abusi, che devono essere eliminati a tutela di libertà fondamentali dei cittadini. Anticipando in questa sede la posizione del Gruppo di Fratelli d’Italia”, aveva evidenziato, se è necessario proteggere lo strumento delle intercettazioni, “a garanzia della lotta contro la criminalità”, in relazione “alla procedura prevista dal codice di rito sulle intercettazioni, ritengo non utile allargare la base dei reati per i quali esse sono previste, anzi il medesimo catalogo, come sottolineato anche da molti auditi, andrebbe accuratamente rivisto per eliminare fattispecie di reato di carattere più marginale”. Eliminando, inoltre, il fenomeno delle intercettazioni a strascico. Insomma, tutto il contrario di quanto deciso pochi giorni fa in Consiglio dei ministri. La sensazione, ancora una volta, è che la postura panpenalista del partito di maggioranza freni il ministro, al quale però rimangono ancora alcune partite aperte: dalla separazione delle carriere - sostenuta anche da una parte della magistratura - all’inappellabilità delle sentenze. Fronti sui quali il Nordio politico potrebbe rispolverare il Nordio editorialista, lo stesso che aveva scritto quelle dichiarazioni programmatiche finora rimaste lettera morta. Il pericoloso precedente della legge fatta per neutralizzare una sentenza di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 10 agosto 2023 Pericoloso precedente il metodo con cui il provvedimento del governo modifica i requisiti per il controllo delle comunicazioni. Un intervento legislativo giusto nel contenuto (la stabilizzazione di alcuni standard di intercettazione per una serie di reati a cui sinora si applicavano per via giurisprudenziale) può però diventare metodologicamente un precedente pericoloso se, come nella scelta l’altro giorno del Consiglio dei ministri, viene fatto non solo con uno strumento discutibile (il decreto legge), ma anche per una ragione sbagliata quale il dichiarato proposito del governo di neutralizzare i paventati effetti di una sentenza di Cassazione; in un momento sfasato, un anno dopo, alla faccia del requisito dell’”urgenza” che dovrebbe giustificare il delicato ricorso al decreto; e per di più con una norma transitoria ambigua, che per le intercettazioni già disposte nei procedimenti in corso sembra far valere le regole nuove stabilite per il futuro. Il tema trentennale è quali siano i “reati di criminalità organizzata” non specificati nel 1991 dalla legge che, per questa categoria, ammette (in deroga al regime ordinario) intercettazioni anche solo se “necessarie” (anziché “indispensabili”); in presenza di indizi anche solo “sufficienti” anziché “gravi”; in partenza per 40 giorni anziché 15; e nel domicilio anche senza bisogno che vi si stia svolgendo un’attività criminosa: solo i reati associativi, oppure anche i reati monosoggettivi come l’omicidio o l’estorsione se però aggravati dall’impiego del metodo mafioso o dalla finalità di agevolare un’associazione di tipo mafioso? Su questa seconda opzione si assestano nel 2016 le Sezioni Unite della Cassazione con la “sentenza Scurato”. Ma nel marzo 2022 la sentenza 34895 di una sezione semplice, la prima, su un omicidio a Napoli la reinterpreta a modo suo e torna all’opzione solo dei reati associativi: normalmente simili contrasti nella giurisprudenza si autocorreggono e si autostabilizzano proprio nel susseguirsi di pronunce e, se necessario, attraverso un nuovo approdo alle Sezioni Unite. Ma stavolta il meccanismo non si mette in moto, o almeno non con la prontezza auspicata dal mondo dell’antimafia, preoccupato (come nella lettera scritta a fine 2022 dal procuratore nazionale Melillo alla Procura generale della Cassazione) per l’utilizzabilità nei processi in corso delle intercettazioni disposte in base ai criteri delle Sezioni Unite 2016. Se nulla accade in Cassazione, a rispolverare il tema è invece il Consiglio dei ministri molti mesi dopo, il 17 luglio scorso, nel pieno delle polemiche sul ministro della Giustizia per la caldeggiata abolizione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa: in un comunicato Palazzo Chigi anticipa che “il governo, anche in considerazione delle richieste pervenute da alcuni tribunali, ritiene necessaria e urgente l’adozione di una norma d’interpretazione autentica che eviti l’applicabilità in senso generalizzato dell’interpretazione di recente avanzata dalla Cassazione”. Nel decreto legge il governo sceglie poi di scrivere invece una norma nuova, che integra la legge del 1991 e prevede che le modalità più semplificate di intercettazione siano possibili anche per i delitti aggravati dal metodo mafioso o dalla finalità di agevolazione mafiosa o di terrorismo, per il sequestro di persona a scopo di estorsione, e per il traffico organizzato di rifiuti. È norma processuale, quindi le nuove intercettazioni andrebbero con questa nuova regola, le vecchie resterebbero regolate dal precedente quadro interpretato dalla giurisprudenza. Ma il decreto legge finisce con una norma transitoria: “La disposizione si applica anche nei procedimenti in corso”. E “procedimenti” vuol dire non solo indagini in corso con intercettazioni ancora da disporre, ma anche processi in Tribunale, Appello e Cassazione con intercettazioni già disposte: può essere (ora) un decreto legge del governo a ripararle sotto il nuovo ombrello (per allora)? È un dubbio che forse potrebbero porsi anche quanti (magistrati compresi) oggi sembrano paghi del positivo risultato conseguito per l’efficacia delle indagini. Perché oggi lo spartito governativo può essere più apprezzato delle (magari stonate) note di una sentenza di Cassazione. Ma se lo si assume come precedente, c’è da assumere anche il rischio che in futuro altri gettoni, da altri inseriti nel cangiante juke box delle convenienze politiche, su questa o quella sentenza possano far suonare una musica meno gradita. Altro che stretta, sulle intercettazioni Nordio dà il via libera di Paolo Pandolfini Il Riformista, 10 agosto 2023 Con il nuovo Decreto Legge basteranno i “sufficienti indizi” per autorizzare gli ascolti invece dell’originaria formula dei “gravi indizi”. La tanto attesa stretta sulle intercettazioni telefoniche, “una barbarie che ci costa 200milioni di euro l’anno per raggiungere risultati minimi” è durata giusto il tempo di un paio di interviste: quando si è trattato di passare dalle parole ai fatti, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha dato invece il via libera ad un provvedimento che è l’esatto contrario. Da ora in avanti intercettare sarà dunque molto più facile, essendo stata prevista una corsia preferenziale per un lungo elenco di reati. In pratica, con il decreto legge approvato questa settimana dal Consiglio dei ministri, l’ultimo prima della pausa estiva, basteranno i “sufficienti indizi” per autorizzare gli ascolti invece dell’originaria formula dei “gravi indizi”. La norma, peraltro, si applicherà ai procedimenti già in corso. Nello specifico, il nuovo regime riguarda le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, il sequestro di persona a scopo di estorsione, i delitti commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni tipiche della mafia previste dall’articolo 416-bis del codice penale o al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose. Ciò significa che si potranno effettuare intercettazione anche per reati “comuni” purché siano stati commessi con il metodo mafioso. È di tutta evidenza che gli ascolti cresceranno in maniera esponenziale dal momento che in questi anni il concetto di “metodo mafioso” si è allargato a dismisura. Le cronache sono tutto un pullulare di “nuove” mafie che, utilizzando le parole della Cassazione “non radicate nel patrimonio storico assicurato dal prestigio criminale della tradizione, come nel caso delle mafie storiche, quali Cosa nostra, o ndrangheta e camorra”. Anzi, la Cassazione ha anche sdoganato la “piccola mafia la quale nel suo ambito ha sviluppato una forza di intimidazione scaturente dal vincolo associativo fino a farne derivare quella tangibile condizione di omertà e assoggettamento di coloro che si siano trovati a rapportarsi con essa”. Ma non solo. C’è il sospetto che questa riforma estento da ancora di più l’utilizzo del trojan, il virus spia che trasforma il telefono in un microfono sempre acceso e che, appunto, è previsto proprio per i reati di mafia e terrorismo. Virus spia oggetto di un approfondimenin queste settimane in Commissione giustizia al Senato per la sua estrema invadenza nella sfera privata delle persone, anche non direttamente coinvolte nelle indagini. “Con le nuove norme si è inteso ampliare il novero delle fattispecie che confluiscono nel c.d. doppio binario e per le quali è consentito il massiccio ricorso alle intercettazioni, anche attraverso il captatore informatico, in presenza di indizi (solo) sufficienti di reato” hanno scritto in un comunicato gli avvocati dell’Unione delle camere penali. “Il governo - hanno aggiunto - ha scardinato l’insieme dei limiti alla compressione del diritto alla segretezza e inviolabilità delle comunicazioni prevedendo, secondo il dettato normativo, una qualche rigidità dei presupposti e un freno all’utilizzo delle intercettazioni in procedimento diverso da quello nel quale sono state predisposte” e così “realizzando i desiderata di alcune Procure oramai aduse a fondare quasi esclusivamente sulle intercettazioni l’impianto probatorio a sostegno dell’azione penale”. “Il Dicastero guidato da Nordio fa oramai sistematicamente seguire alle condivisibili dichiarazioni garantiste del Ministro, disegni, atti e proposte che vanno in altra direzione. L’avvocatura penale saprà individuare le forme più adeguate per dar voce alla protesta e richiamare alla coerenza con gli impegni assunti tutti gli attori istituzionali”, concludono quindi i penalisti. “Quando si tratta di mafia, Forza Italia non può che essere del tutto intransigente” ha dichiarato il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin. “Da giurista - ha aggiunto - manifesto piuttosto una perplessità sul metodo, più che sul merito, ossia sulla scelta di intervenire con un decreto legge per sanare un contrasto giurisprudenziale. Sicuramente Nordio, che è un ministro molto pragmatico, ha voluto risolvere in maniera concreta e immediata la questione e sulla norma specifica noi non possiamo che essere d’accordo”. Caro Guardasigilli, cosa porterà a casa dopo aver ceduto su intercettazioni e ostativo? di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 10 agosto 2023 Se per portare a casa qualche riforma, pur importante e gradita a tanti, come quelle sui reati contro la pubblica amministrazione, sei costretto a gettare il topolino, cioè le garanzie nei confronti degli imputati dei processi di mafia, nella gola del serpente, cioè del popolo affamato di forche, hai disatteso il tuo compito di riformatore. Può darsi che nella visione perfetta dei compiti che deve assumere il Principe per essere vincente, fini subordinati ai mezzi, ci sia una certa normalità. Per cui qualunque comportamento, se finalizzato a portare a casa il risultato, sia “normale”. Ma normale non è sinonimo di “giusto”. E ancor meno può esserlo il palese baratto che sulla giustizia il governo Meloni e i ministro Nordio stanno mostrando con un comportamento che secondo le leggi di natura può apparire, appunto, normale. Getta il topolino vivo in pasto al serpente. Così tu ti salvi perché lui ha avuto il suo nutrimento e non ti molesta. Se per portare a casa qualche riforma, pur importante e gradita a tanti, come quelle sui reati contro la pubblica amministrazione, sei costretto a gettare il topolino, cioè le garanzie nei confronti degli imputati dei processi di mafia, nella gola del serpente, cioè del popolo affamato di forche, hai disatteso il tuo compito di riformatore. Prima di tutto perché in questo modo hai tagliato fuori non la mafia, ma tutto il sud d’Italia. Regioni che, dopo aver subito la disattenzione o attenzioni sbagliate da tanti governi che hanno tenuto per decenni luoghi meravigliosi come quelli della Calabria in condizione di sottosviluppo, stanno tuttora subendo la violenza della criminalità organizzata e l’insipienza di chi dovrebbe combatterla. Dire “ai diritti di Messina Denaro pensiamo un’altra volta”, mentre lui sta morendo, è un po’ come tagliare con l’accetta dalle riforme tutti i processi basati sui reati associativi e con l’aggravante mafiosa. Ma c’è di più. Perché si ha la sensazione che il fatto che questo governo abbia esordito sulla giustizia con un provvedimento repressivo e un po’ assurdo (che non verrà mai applicato, scommettiamo?) come quello sui rave party, ma soprattutto sui reati ostativi, sia stato il passepartout per poter fare altre riforme. Getto il topolino dell’ergastolo ostativo nella gola del serpente dell’antimafia. La norma con il trucco, quello di fingere di abbattere il concetto di “pericolosità oggettiva” del detenuto e dargli l’illusione di poter accedere alla liberazione condizionale, come imposto dalla Corte Costituzionale. Ma con il trucco di introdurre una serie di vincoli- capestro che rendono impossibile il percorso. Che cosa portiamo a casa, dopo aver dato in sacrificio questo primo topolino? Che cosa ci consente il serpente? Potrebbe essere l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, o almeno una sua modifica. Riforma importante per una serie di amministratori locali che vedono la propria carriera politica - perché alla notizia dell’informazione di garanzia si accompagna la pubblica vergogna - offuscata e a volte distrutta. Una riforma popolare anche in una parte dell’opposizione di sinistra, perché sostenuta da molti sindaci del Pd, da Gori a Ricci a Decaro. Un punto a favore del governo, dunque. Ma intanto il topolino dell’ostativo è morto. Ci sarebbe poi quell’altro, quello del concorso esterno in associazione mafiosa, quello che desta orrore negli altri paesi europei perché prima ha messo insieme due articoli del codice penale per crearne un terzo, ma poi ha consentito alla giurisprudenza di sostituirsi al Parlamento con la creazione di un nuovo reato. Questo topolino non è all’ordine del giorno delle riforme del Governo, ha detto ancora ieri il ministro Nordio. Quindi è morto in culla, nonostante i desiderata dello stesso guardasigilli. Però abbiamo messo in tavola qualcosa di appetitoso, per i pubblici amministratori, dopo il fallimento, per scarsa affluenza di cittadini, degli ultimi referendum sulla giustizia. Parliamo della “legge Severino”, quella che impedisce di ricoprire cariche elettive a coloro che abbiano avuto una condanna per reati non colposi e che prevede anche una sospensione temporanea dall’incarico per quegli amministratori locali che abbiano subito una condanna anche solo in primo grado. Molti sono stati fin dal 2012, data di approvazione della legge, i tentativi di denunciarne la violazione dell’articolo 27 della Costituzione sulla non colpevolezza prima di sentenza definitiva. Ricorsi vani. Ma ora, e dopo un tentativo di referendum di cui fu garante e numero uno proprio Carlo Nordio, non ancora guardasigilli, il governo ha messo in campo, nell’ultimo Consiglio dei ministri, la riforma del Testo unico degli enti locali. Proprio per rivedere quel punto. Un’altra riforma che potrebbe avere l’approvazione di una parte dell’opposizione di sinistra. Non quella di Marco Travaglio (e ce ne faremo una ragione), il quale ha già dato voce alla sua ossessione, perché ogni cambiamento sulla giustizia secondo lui porta le impronte digitali di “B”. Ma sarà invece contento perché, sempre nell’ultimo Consiglio dei ministri, ha preso corpo quello che era un timore di tanti giuristi e della stessa Unione delle Camere penali. Perché il topolino che voleva ridurre le intercettazioni è stato sacrificato al serpente della Direziona Nazionale antimafia che ha chiesto vengano aumentate. Anche contro la Cassazione che in diverse occasioni si era pronunciata in modo esplicito. L’aggravante di mafia che consente il ricorso alle intercettazioni, ha sancito più volte la suprema corte, va contestata solo in presenza del reato associativo. Ora non più, sarà sufficiente l’intenzione di agevolare, anche con un singolo atto, l’attività di una cosca, per consentire l’uso delle captazioni. Chi sentiva il bisogno di questa contro-riforma, oltre a tutto presentata sotto la forma di decreto, oltre al Procuratore nazionale antimafia che l’ha sollecitata? Non le procure sparse in tutta Italia, a quanto pare, visto che l’ultima sentenza della cassazione al riguardo risale a quasi un anno fa e nessuno aveva lanciato l’allarme sui processi in corso. Ma forse il provvedimento è utile ad allontanare le polemiche sulle dichiarazioni del ministro Nordio rispetto al concorso esterno. Così, altro topolino in gola al serpente. Sarà utile al Principe per raggiungere i propri fini politici? Forse normale, ma sicuramente non giusto. Caso De Angelis, non chiamatelo revisionismo di Benedetta Tobagi La Repubblica, 10 agosto 2023 Si tratta di tesi difensive infondate, e già ampiamente smentite in decenni di processi sulla strage di Bologna, che rientrano in un più ampio tentativo da parte della destra di costruire una narrazione alternativa del passato. Con riferimento alle dichiarazioni di Marcello De Angelis che negano la responsabilità dei terroristi neri nella strage di Bologna del 2 agosto 1980, si è spesso parlato di “revisionismo”, ma così facendo si rischia di dare eccessivo valore e dignità alle sue parole e ad altre affermazioni consimili. Si tratta semplicemente di tesi difensive infondate e già ampiamente smentite in decenni di processi, che rientrano in un più ampio tentativo da parte di porzioni significative della destra italiana di costruire una narrazione alternativa del passato, in cui, di preferenza, i suoi esponenti si presentano come vittime e capri espiatori; una narrazione che poggia su basi ideologiche anziché documentali, strumentale ai propri obiettivi politici e alla legittimazione delle proprie radici, a discapito dell’adesione ai principi fondativi del patto costituzionale. Affermazioni incuranti dei dati accertati in sede giudiziaria e storiografica, che puzzano di negazionismo assai più che di revisionismo, termine con cui si definisce una corrente storiografica, volta (cito dalla Treccani) “a rivedere gli studi sul fascismo e sul nazismo, per darne una lettura compiutamente storica, senza pregiudizi ideologici”. Marcello De Angelis, già membro del gruppo di estrema destra Terza posizione e condannato per il reato di associazione sovversiva e banda armata, cognato di Luigi Ciavardini (militante dello stesso gruppo poi associatosi ai Nar, con cui ha compiuto delitti per cui è stato condannato in via definitiva, in particolare, nell’estate del 1980, l’omicidio del magistrato Mario Amato e la strage del 2 agosto), parla come molti esponenti della sua area politica passati per le aule di giustizia. Carlo Maria Maggi, per esempio, leader di Ordine Nuovo condannato in via definitiva per la strage di piazza della Loggia e a lungo indagato per altri massacri della strategia della tensione, nel 2010 pubblica un’autobiografia intitolata “L’ultima vittima di piazza Fontana”. Già nel 1974, l’estrema destra si appropria dello slogan “la strage è di Stato” coniato a difesa degli anarchici - loro sì falsamente accusati della strage di piazza Fontana - per la campagna innocentista a favore dei terroristi neri Franco Freda e Giovanni Ventura. La tesi che i terroristi neri fossero i capri espiatori di una macchinazione governativa, perché anche Bologna era una “strage di Stato”, è stata riproposta dall’estrema destra ancora al recente processo contro il Nar Gilberto Cavallini, condannato in primo grado per la strage (si attende a breve la pronuncia del giudizio d’appello). Ma in tutte le inchieste per strage, da Milano a Brescia, a Bologna, i terroristi neri, lungi dall’essere capri espiatori, sono stati protetti da un’orgia di depistaggi messi in atto da pezzi importanti delle forze di sicurezza. Quanto ai dubbi sulle condanne a carico dei Nar, riproposti anche su queste pagine da Luigi Manconi, occorre far presente che, dopo le condanne definitive di Mambro e Fioravanti nel 1995 e di Ciavardini nel 2007, i recenti processi a carico del suddetto Cavallini e di Paolo Bellini hanno confermato e alquanto rafforzato il quadro accusatorio (che era indiziario, certo: come in tutti i processi pesantemente intralciati sin dal principio dai depistaggi). I legami di Cavallini con la vecchia guardia della destra ordinovista hanno mandato a gambe all’aria l’autorappresentazione dei Nar come “spontaneisti” nazional-rivoluzionari, mentre il delinearsi con sempre maggior chiarezza del ruolo della P2 di Gelli dietro la strage del 2 agosto getta una luce sinistra sulle vigorose dichiarazioni d’innocenza dei Nar: se mai avessero confessato, infatti, avrebbero rischiato di dover dar conto di tutta una torbida e potentissima rete d’interessi ben poco antisistema. Negare tutto è un’attitudine frequente - e anche comprensibile, per carità - da parte degli imputati di delitti gravi e delle persone a loro vicine. Ma nel dibattito pubblico non dovremmo trattare uscite simili come tesi equiparabili a ricostruzioni ben altrimenti documentate. Mi pare che il caso De Angelis non solo si iscriva nella tradizione delle polemiche neofasciste sullo stragismo, ma rientri in una più ampia degenerazione che ha ridotto il dibattito pubblico a un perenne talk show a cielo aperto, in cui le opinioni si equivalgono, mentre ricostruzioni giudiziarie frutto di decenni di inchieste e processi, ricerche storiografiche o studi scientifici sono trattati alla stregua di semplici costruzioni interessate o persecutorie. L’Italia, d’altra parte, è il Paese in cui Berlusconi si è proclamato per decenni vittima innocente di una persecuzione giudiziaria delle “toghe rosse”, in cui una sua maggioranza di centro-destra in Parlamento ha avallato col proprio voto che Ruby sarebbe stata la nipote del presidente egiziano Mubarak, in cui qualcuno si ostina a definire “esuli” dei latitanti. Quindi, per favore, non chiamatelo revisionismo. I nuovi giustizieri: dopo la morte di Michelle, Sofia e Chris è esplosa la sete di vendetta degli amici di Grazia Longo La Stampa, 10 agosto 2023 Prima le minacce sui social, poi le spedizioni punitive a caccia dei ragazzi accusati di omicidio. I più cauti, si fa per dire, si scatenano sui social media dove demoliscono con insulti e minacce il bersaglio prescelto. Quelli più temerari si lanciano, invece, in vere e proprie spedizioni reali dove sono pronti a tutto pur di punire il colpevole di turno. Armati di una violenza cieca e sorda che va al di là della legge. Negli ultimi giorni per ben tre volte abbiamo assistito ai raid dei nuovi giustizieri: giovani scatenati, nell’ordine, contro l’assassino della diciassettenne Michelle Causo, abbandonata in un cassonetto dei rifiuti a Roma; contro l’omicida di Sofia Castelli, 20 anni, a Milano, e contro il pirata della strada che ha investito a morte il tredicenne calciatore Chris Abom a Negrar di Valpolicella in Veneto. Quest’ultimo è il caso più recente: martedì pomeriggio, l’abitazione della compagna, dove Davide Begalli, 39 anni a Ferragosto, sta scontando i domiciliari, è stata letteralmente presa d’assalto. “Erano una trentina, tutti uomini di colore, la maggior parte con il volto coperto da bandane e t-shirt. Lanciavano sassi contro la porta d’ingresso, la prendevano a calci, pugni e bastonate. Urlavano “Vieni fuori che ti ammazziamo, dopo la morte di Chris non abbiamo più niente da perdere”“. A raccogliere lo sfogo di Begalli è il suo difensore, l’avvocato Massimo Dal Ben: “In quel momento il mio assistito si trovava nella casa della compagna insieme al figlio minorenne della donna, è stato un autentico blitz punitivo, gridavano di volerlo uccidere, Begalli e il ragazzo hanno cercato in ogni modo di bloccare la porta dall’interno per impedire a quelle persone di buttarla giù. Il mio cliente adesso ha la spalla dolorante, alla fine quegli uomini se ne sono andati sentendo che Begalli stava chiamando i carabinieri”. Il 29 luglio scorso cambiano la città e l’obiettivo, ma la sete di vendetta è la stessa. Questa volta nel mirino dei nuovi giustizieri c’è Zakaria Atqauoi, 23 anni, italo-marocchino che ha confessato di aver accoltellato a morte per gelosia l’ex fidanzata Sofia Castelli, dopo essersi introdotto di nascosto a casa sua e averla aspettata chiuso in un armadio. Alcuni amici della studentessa universitaria hanno presidiato l’ingresso della caserma di Cologno Monzese dove si trovava l’assassino e hanno cominciato ad inveire contro di lui. “È un arrogante, un vigliacco - hanno urlato -. Ce lo devono lasciare qua due minuti, ne bastano due, e poi vediamo...”. E appena il giorno prima, venerdì 28 luglio, a Roma dal corteo pacifico in memoria di Michelle Causo, uccisa a Primavalle, un centinaio di ragazzi tra i 15 e 18 anni si è trasformato in una squadra punitiva. In tanti, furiosi, prima hanno bloccato il traffico, poi hanno colpito un’auto e infine si sono scatenati contro l’abitazione dell’assassino, O.D.S., 17 anni. Hanno preso a spallate il portone della palazzina dove abitava l’arrestato, hanno rotto i sigilli e sono entrati nell’appartamento. Qui dentro è successo il finimondo: l’alloggio è stato praticamente devastato, l’arredamento distrutto. Non a caso molti giovani sono stati identificati dalla polizia e denunciati per violazione di sigilli, invasione di edifici, danneggiamento e manifestazione non autorizzata. Non basta, il regolamento dei conti è poi proseguito nelle chat dove qualcuno, che si pone al di sopra della legge, ha scritto: “Piano piano se li famo tutti, devono pagà pure l’amici sua”. Liguria. Rems, mettiamo al centro la cura delle persone di Doriano Saracino* La Repubblica, 10 agosto 2023 Negli istituti penitenziari della Liguria il tema della salute psichiatrica in carcere è enormemente sentito: mancano gli specialisti, il disagio psichico è cresciuto, i comportamenti messi in essere dai detenuti malati sono difficilmente gestibili. “È così da quando hanno chiuso gli Opg”, spesso si dice. Per chi non lo sapesse l’acronimo sta per “Ospedale psichiatrico giudiziario”, un luogo che non si dimentica facilmente se si ha la ventura di averlo visitato, di averci lavorato o, peggio, di esservi stati rinchiusi. Internati: questo era il loro nome. Non nominalmente detenuti perché malati, ma pur sempre reclusi. L’esigenza della sicurezza sociale prevaleva sul bisogno di cura. Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono stati un “residuo manicomiale” sopravvissuto ad oltre trent’anni di legge Basaglia. Nel 2011 la Commissione parlamentare accende una luce sulle condizioni di “vita” negli Opg. Uomini e donne legati ai letti, sottoposti a pesanti trattamenti farmacologici, costretti a vivere in condizioni igieniche miserrime. Le riprese video girate dalla Commissione colpiscono l’opinione pubblica. In breve tempo il numero degli internati scende, si riesce a trovare una soluzione alternativa per quei folli giudicati pericolosi socialmente: com’è possibile? Semplicemente gli operatori dei servizi psichiatrici territoriali iniziano ad entrare negli Opg, prendono in carico i malati ed inizia un programma di dimissioni. Insomma, molti internati stavano lì perché nessuno li prendeva in carico. Parliamo di circa mille persone dimesse in tre anni. Una legge del 2014 segna la fine degli Opg e l’apertura delle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza applicate nei confronti dei soggetti giudicati parzialmente o totalmente incapaci di intendere e di volere. Al 31 marzo 2015, giorno che decreta formalmente la fine degli Opg, restano ancora 689 internati, che nel giro di qualche tempo sono stati trasferiti nelle Rems. In cosa le Rems si differenziano dall’Opg? In primo luogo, la loro funzione principale è la cura e non la detenzione. Non sempre si può guarire, ma è sempre possibile curare, alleviare la sofferenza che la patologia psichiatrica causa anche nei malati più gravi. Inoltre, la permanenza in Rems è di norma un percorso a termine, a cui segue una dimissione: a differenza di quel che accadeva negli Opg nelle Rems non si può protrarre all’infinito la misura di sicurezza per una supposta pericolosità sociale della persona malata. Una ulteriore differenza è la regionalizzazione: mentre i sei vecchi Opg accoglievano malati da ogni parte d’Italia, oggi ogni regione deve farsi carico dei propri malati. Tuttavia a quest’ultimo principio è stata stabilita una eccezione, che riguarda la Liguria: infatti a Calice al Cornoviglio è presente una Rems destinata ad accogliere quelle persone che si trovano illegittimamente in carcere in quanto giudicati incapaci di intendere e di volere e che per svariati motivi non trovano accoglienza nelle Rems della propria regione. Il Garante nazionale ed io abbiamo visitato questa Rems, dove a maggio erano presenti meno di quindici persone. Si tratta di una sede molto lontana da qualsiasi abitato, ed i pazienti sono sottratti alla possibilità di una significativa relazione territoriale per la sua specifica collocazione difficilmente raggiungibile: al di là della professionalità e dalla dedizione del personale, secondo l’opinione del Garante nazionale da me pienamente condivisa, ciò “contraddice in sé la finalità della collocazione in una Rems come tappa di un percorso” di reinserimento. Il timore è che per i pazienti ritenuti più gravi si vada verso una de-territorializzazione del ricovero delle persone più gravi e che si crei un modello di Rems dove l’aspetto di sicurezza, seppur necessario, diventi preponderante rispetto alla cura. Secondo i dati più recenti, riportati a giugno dal Garante nazionale nella sua relazione annuale, nelle Rems ci sono 632 persone. Sommando ad esse i 42 illegittimamente in carcere arriviamo ad un numero grosso modo simile a quello delle persone recluse negli Opg al momento del loro smantellamento. È vero, ci sono altre persone in lista di attesa per entrare in Rems, ma non dobbiamo immaginare che essi si aggirino a piede libero nel nostro Paese. Alcuni sono ricoverati nei reparti psichiatrici degli ospedali, con grande dispendio di forze della polizia penitenziaria che li sorveglia, altri sono inseriti in normali comunità psichiatriche, o talvolta sottoposti a misure come la libertà vigilata, e capita che nel momento in cui il posto in Rems si libera essi nemmeno ci vadano, perché il magistrato valuta che la misura adottata sia sufficiente, perché il paziente-reo è adeguatamente seguito dai servizi territoriali ed ha ottemperato alle prescrizioni del giudice. Non è quindi la chiusura degli Opg la madre di tutti i problemi. Al tempo stesso sarebbe sciocco negare la sofferenza psichica in carcere. Secondo Antigone il 9,2% dei detenuti soffre per patologie psichiatriche gravi, ma prima era possibile “scaricare” in Opg parte di tali detenuti malati, oggi ciò non è possibile con le Rems. E se non si trova una comunità psichiatrica che lo possa accogliere, un detenuto malato è destinato a restare in carcere. Si aggiunga inoltre che il disagio psichiatrico nella nostra società sta cambiando, ed il carcere non ne è che lo specchio: panico, disturbi da stress post-traumatico, abuso di farmaci, non sono che alcune delle forme che oggi si ritrovano, dentro e fuori da quelle mura. Mi chiedo allora se non sia il momento di provare a discutere insieme di tutto questo, senza dividerci, senza steccati ideologici, con la prospettiva di curare tutti, per garantire una società più sana dal punto di vista psichico. Lavorare insieme, portando le diverse prospettive, quelle degli operatori penitenziari, degli psichiatri e degli psicologi, aperti al contributo dell’etno-psichiatria, o di chi si confronta con il disagio dei giovani o con le nuove dipendenze. Nell’idea basagliana è la comunità che cura: non il farmaco e nemmeno lo psichiatra. La mia ambizione è quella di pensare che in questa comunità che cura siano inclusi gli abitanti di Prà e di Calice al Cornoviglio, così come di ogni altro luogo che accoglie una struttura per la cura delle persone con problematiche psichiatriche, che siano autori di reato o meno. *Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Liguria Sassari. In sciopero della fame da febbraio, detenuto in 41bis chiede suicidio assistito Adnkronos, 10 agosto 2023 In sciopero della fame dallo scorso febbraio, detenuto al 41 bis nella casa circondariale di Bancali, in Sardegna, chiede il suicidio assistito. In merito, la Garante regionale delle persone private della libertà della Sardegna Irene Testa in una dichiarazione precisa: “Già nel mese di giugno mi sono recata a fare visita ai detenuti del carcere di Bancali. Tra questi ho incontrato Domenico Porcelli, Detenuto al 41 bis che afferma di essere in sciopero della fame dal mese di febbraio. Porcelli ha riferito di essere monitorato costantemente dagli operatori a vario titolo presenti nella struttura e in particolare dal presidio sanitario. Anche l’educatore riferisce di aver effettuato oltre 10 colloqui con il detenuto. Dal mese di febbraio ha effettuato diversi elettrocardiogrammi e visita cardiologica. Martedì 8 agosto Porcelli ha ribadito l’intenzione di proseguire lo sciopero della fame, dice di assumere 1kg di zucchero a settimana con camomilla, the e latte. Da una decina di giorni dice di aver maturato la volontà di porre fine alla sua vita e a tal fine ha chiesto al suo avvocato di prendere informazioni sulla fattibilità di poter ottenere l’eutanasia”. “Ho informato le autorità competenti della situazione che si è venuta a creare”, precisa la Garante regionale Testa. E ancora: “Al netto della situazione specifica, in Sardegna c’è un numero spropositato di detenuti in 41bis ed alta sicurezza, con l’intento di averne ancora di più. Dopo le servitù militari si pensa di fare della Sardegna la Cayenna d’Italia?”. Palermo. Detenuto di 86 anni all’Ucciardone. Corbelli (Diritti Civili) ne chiede la liberazione lanuovacalabria.it, 10 agosto 2023 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, interviene “sul dramma e sulla grande ingiustizia che si sta, in silenzio, consumando nel carcere di Palermo”, chiedendo, con un appello, pubblicato oggi su La Verità, “l’immediata liberazione, o in alternativa quantomeno i domiciliari, per un poveruomo di 86 anni, disabile, malato e su una sedia a rotelle in cella all’Ucciardone dal Natale dello scorso anno per scontare una pena di 6 anni. L’anziano uomo, gravemente infermo, sino al momento della condanna era incensurato. La vicenda è stata resa nota nei giorni scorsi dall’Agenzia Agi che ha raccolto la testimonianza del Garante dei detenuti del comune di Palermo, Pino Apprendi, che è andato, in carcere, a incontrare il recluso. Corbelli, che com è noto, da 30 anni è impegnato a denunciare il dramma delle carceri e per questo suo impegno per una giustizia giusta e per le decine di persone recluse, gravemente malate (italiane e stranieri di diversi Paesi), fatte scarcerare, con le sue battaglie civili e manifestazioni di piazza(storie e casi che sono tutti documentati nel sito di Diritti Civili), venne intervistato nel lontano febbraio 1995 finanche dal più grande giornale del mondo, The New York Times, chiede se sia “un atto di giustizia giusta tenere in una cella quel poveruomo in quelle condizioni drammatiche di salute: ha l’ulcera perforata, non può camminare, è su una sedia a rotelle, per muoversi viene aiutato dai compagni di cella”. “Ho sempre avuto il massimo rispetto per la magistratura e continuerò ad averlo. Ma chiedo, afferma ringraziando il quotidiano di Belpietro e Dè Manzoni per il sostegno dato anche per questa battaglia civile: è una Giustizia Giusta quella che mette in carcere un anziano uomo 86enne, invalido e su una sedia a rotelle e lascia invece impuniti, in libertà e nemmeno indagati, i responsabili di crimini orrendi contro un popolo inerme? Per questo chiediamo di liberare subito questo poveretto e perseguire chi, con leggi liberticide e repressive, ha provocato dolore e morte in migliaia di famiglie”, conclude Corbelli. Crotone. Presentata la relazione pubblica sull’attività del Garante dei detenuti crotoneinforma.it, 10 agosto 2023 Alla data del 08.08.2023 erano presenti in Istituto 136 detenuti di cui 89 di nazionalità italiana, 16 egiziani, 6 turchi, 6 kirghizi, 19 di altre nazionalità. Anche l’anno in corso ha visto la prosecuzione dell’attività di monitoraggio e vigilanza da parte dell’Autorità di Garanzia comunale dei detenuti avv. Federico Ferraro, sullo stato della detenzione carceraria, nell’area di competenza territoriale del Comune di Crotone. Per quanto riguarda le problematiche locali e nazionali, permane anche a Crotone la carenza di camere di sicurezza operative e fruibili, presso i presidi di polizia già segnalata, peraltro nelle scorse relazioni periodiche. Permane il tema del sovraffollamento. Come momento grave, che ha caratterizzato l’anno in corso, si segnala la triste notizia del suicidio di un 39 enne calabrese, nuovo giunto e soggetto all’esecuzione di misura cautelare in carcere, in attesa di definitivo. Questa vicenda ha rappresentato una vera e propria sconfitta per un moderno Stato di diritto ed ha visto apposite lagnanze e segnalazioni ai vari livelli istituzionali, sia in sede di Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che in sede Regionale, nell’ambito della Commissario alla Sanità, per chiedere un incremento di strutture idonee per persone in stato di detenzione, con fragilità e problemi psichici. Per quanto riguardano i temi più generali e noti, è oramai improcrastinabile un intervento sul tema e sul funzionamento della giustizia, un potenziamento delle misure alternative alla detenzione, un intervento straordinario di ammodernamento delle strutture, impianti e soprattutto impiegando scientemente i fondi e le risorse del PNRR a disposizione. Sono fondamentali delle efficaci misure nazionali di reinserimento socio lavorativo, come guide da poter attuare nei singoli territori “difficili”, con gli opportuni adattamenti. Occorre altresì potenziare tutta la Rete Sanitaria ed intervenire con misure adeguate per quei detenuti o soggetti a restrizione in luoghi diversi dal carcere, affetti da fragilità o da patologie psichiche importanti. Occorre anche evidenziare la necessità di un rafforzamento della pianta organica nel personale in servizio presso la Polizia Penitenziaria e nell’autorità giurisdizionale di Sorveglianza. Occorre prevedere anche delle norme che siano “guarentigie” che rendano in misura standardizzata, su tutto il territorio nazionale, il ruolo dei Garanti dei detenuti, sempre più effettivo ed incardinato nel sistema penitenziario, soprattutto nelle realtà territoriali più difficili, con adeguati strumenti che consentano un lavoro efficace ed effettivo, nell’ottica della risoluzione dei problemi atavici e dei nuovi. Dal 23 novembre scorso si è avviato al lavoro di pubblica utilità, il primo detenuto coinvolto nel progetto, che ha svolto la sua attività presso la Villa Comunale, all’esito della dimissione del recluso per ammissione a misure alternative, non è stata possibile la sostituzione e la direzione attende indicazione dall’ Ente comunale per la prosecuzione della convenzione del 31 maggio 2022. Tali progetti aiutano a superare gli stereotipi della realtà detentiva e permettono di valorizzare la dignità della persona e del lavoro. Da ricordare in questa sede è anche l’importante convegno a difesa delle libertà fondamentali, promosso dall’Assessorato alla Cultura, per i 75 anni della nostra Costituzione, a cui ho avuto il piacere di partecipare come relatore: Tutela dei diritti è Costituzione. Il 24 marzo scorso, a seguito della visita di verifica alle camere da ricovero presso l’Ospedale Civile San Giovanni di Dio, svolta dal Garante Ferraro, alla presenza della Direttrice dell’Istituto penitenziario di Crotone, del Comandante pro tempore di Polizia Penitenziaria e del Comandante del Nucleo Traduzione e Piantonamento, si era potuto constatare il ripristino dell’agibilità dei locali da ricovero per detenuti: è stata riattivata, altresì, la funzionalità della rete idrica e sono stati effettuati interventi di tinteggiatura e di intervento sull’umidità. Vivo apprezzamento per l’iniziativa di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani, va al Football Club Crotone. Un sentito grazie rivolgo anche al Taranto Football Club e alla Lega Pro, che hanno subito aderito all’iniziativa, consentendo la lettura in campo dei nomi delle vittime della strage, avvenuta nelle acque di Steccato di Cutro, prima dell’inizio del match di domenica 2 aprile. Questa importante iniziativa ha confermato che il mondo dello sport può essere valido veicolo per sensibilizzare le coscienze su temi delicati e fondamentali per tutta la società. Il 4 maggio si è svolta, invece, la presentazione delle opere dedicate alle vittime della tragedia, realizzate dai detenuti della Casa Circondariale di Crotone ed esposte nell’atrio del Palazzo Comunale. Una iniziativa fortemente voluta dal Garante comunale sostenuta dall’Assessore alla Cultura Nicola Corigliano, dalla direzione della Casa Circondariale di Crotone, in sinergia con la Cappellania dell’Istituto detentivo. Il 19 maggio per la prima volta si è attuata la mia proposta del teatro dei burattini in carcere: grazie al Teatro Nazionale dei Ferraiolo, con momenti di svago all’insegna della riflessione, per la popolazione detenuta. Per l’estate 2023 occorre insistere sul tema dei diritti umani e su iniziative di sensibilizzazione soprattutto indirizzate al mondo giovanile, affinché vi sia sempre una maggiore attenzione e sensibilità; a tal proposito esprimo vivo apprezzamento per la sinergia produttiva creatasi tra la figura del Garante comunale e la III - IV Commissione Consiliare, con la Commissione alle Pari Opportunità, con le quali sta proseguendo un’ attenta opera istituzionale di sensibilizzazione: lo scorso autunno sulle libertà fondamentali e il divieto di discriminazione e violenze, volte alla contrasto della reclusione sociale, presso la Lega navale di Crotone, con la partecipazione di numerosi consiglieri comunali, di Associazioni cittadine e della Pro Loco. Questa estate riprende, invece, come già lo scorso anno, è ripresa la sensibilizzazione per i giovani, dal titolo: “Gustati la vita, se bevi non guidi”. Ringrazio le già citate commissioni consiliari ed i loro presidenti Anna Maria Oppido, Antonella Passalacqua e Fabrizio Meo. Ringrazio parimenti il Vicesindaco Sandro Cretella, che ha permesso di veicolare il messaggio istituzionale di prevenzione e contrasto alla guida in stato di ubriachezza nel concerto del 4 agosto scorso. Plaudo all’iniziativa “Voci dall’interno”, promossa dall’Assessorato alla Cultura e la Biblioteca Comunale di Crotone Armando Lucifero, nell’ambito del progetto “Frequenze Bibliotecarie”; si stratta di un intervento che intende valorizzare e dar voce al punto di vista dei detenuti e ad alla loro intelligenza creativa, con spirito critico, abbattendo quelle barriere culturali che spesso sono in essere nella società a molti livelli. Esprimo infine apprezzamento per le progettualità attualmente in essere presso il locale Istituto di pena: dal corso di chitarra, al laboratorio teatrale, ai progetti finalizzati all’acquisizione di abilità lavorative e alla valorizzazione della persona reclusa anche attraverso lo sport; valido strumento di aggregazione umana e sociale. Una riflessione fondamentale, in tema di restrizione della libertà personale, l’ha pronunciata Papa Francesco nel suo discorso per la firma della Dichiarazione congiunta dei Leader religiosi contro la schiavitù il 02.12.2014: “Qualsiasi relazione discriminante che non rispetta la convinzione fondamentale che l’altro è come me stesso costituisce un delitto, e tante volte un delitto aberrante.” Brescia. Imparare l’arte della pizza in carcere interris.it, 10 agosto 2023 Il progetto è stato organizzato dal pizzaiolo Ciro Di Maio in collaborazione con il comune lombardo. Un giovane pizzaiolo napoletano che si è trasferito in Lombardia ha insegnato l’arte della pizza ai detenuti del carcere Canton Mombello di Brescia e ad ottobre ci sarà la consegna degli attestati. Ciro Di Maio, nato nel 1990 a Frattamaggiore, in provincia di Napoli, è un giovane pizzaiolo. Nel 2015 ha deciso di cercare nuove opportunità trasferendosi in Lombardia. Così è cominciata l’avventura di “San Ciro”, la sua pizzeria a Brescia. Il nome del locale è un omaggio ai nonni di Ciro, dal lato materno e paterno, figure fondamentali nella sua vita. Suo padre, in particolare, ha dedicato il suo tempo al volontariato e all’aiuto dei giovani tossicodipendenti, collaborando con una comunità per offrire loro una possibilità di uscire dalla droga e ricostruire una vita migliore. Ciro si considera oggi un privilegiato e ha deciso di offrire ai meno fortunati la possibilità di trovare lavoro. Nei primi mesi dell’anno, infatti, Ciro ha insegnato l’arte della pizza ai detenuti del carcere Canton Mombello di Brescia, grazie a un progetto sviluppato in collaborazione con Luisa Ravagnani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia, e sostenuto dalla direttrice del carcere, Francesca Paola Lucrezi. Per alcuni mesi, il pizzaiolo è stato in carcere due volte a settimana, conducendo lezioni teoriche e pratiche sulla preparazione della pizza. Dall’importanza del sale alla temperatura dei forni, passando per i segreti dell’impasto e del pomodoro. Sette detenuti, accusati di reati minori e quindi destinati a scontare un breve periodo di detenzione, hanno partecipato alle lezioni, quaranta ore di un corso professionale. La giusta conclusione sarà un evento che si terrà dopo l’estate e nel quale Ciro presenterà la pizza che ha pensato come “regalo” agli (ex) detenuti. “Presenterò ufficialmente ‘San Ciro’, una pizza che rappresenta per me l’unione tra Nord e Sud d’Italia, tra la mia vecchia vita e quella nuova, e per un certo verso anche una sintesi tra errori che portano in carcere e l’impegno che poi genera una nuova vita”, dice Ciro. “Sarà una pizza semplice, fatta con le orecchie come piace a me: la pizza va fatta a mano e non può essere rotonda, i pomodori devono essere a pezzettoni. Avrà tre prodotti che uniscono l’Italia: la provola affumicata di Caserta, la porchetta di Ariccia Igp del Lazio e delle melanzane messe sott’olio. Quest’ultimo ingrediente è quello che rappresenta per me la casa, sono infatti preparate tutte a mano da mia mamma, mi piace però condividerle con tutti”. Questa sarà la pizza che Ciro preparerà insieme ai detenuti in autunno, durante la cerimonia di consegna degli attestati. Il suo obiettivo a medio termine è quello di creare una sorta di consorzio di pizzaioli che, come lui, vogliano dare una chance a chi ha commesso errori e, contemporaneamente, colmare le posizioni ancora vacanti. “Lancio un appello ai miei colleghi del settore della ristorazione”, conclude Ciro. “Vorrei fondare un’associazione di persone disposte ad aiutare gli ex detenuti a reinserirsi professionalmente. In un periodo in cui mancano lavoratori, questo è un modello positivo per tutti”. La bomba sociale dei giovani di Chiara Saraceno La Stampa, 10 agosto 2023 Che i giovani guadagnino in media meno delle persone con maggiore esperienza lavorativa di per sé fa parte di una norma accettata e accettabile. È il “quanto” in meno e le sue ragioni che sollevano problemi non solo di equità, ma di sostenibilità, tanto più che i salari medi italiani sono tra i più bassi in Europa. Un salario pari al 40% del salario medio, come è il caso dei giovani sotto i 25 anni, indica una situazione di fragilità economica che impedisce ogni progettualità, a partire dall’uscita dalla famiglia di origine per provare a stare sulle proprie gambe. Non si tratta solo di salari inaccettabilmente troppo bassi, rispetto ai quali l’esistenza di un salario minimo legale avrebbe un effetto di protezione, ma di condizioni lavorative in cui si mescolano stage, tirocini più o meno efficaci a fini professionalizzanti, tempo parziale involontario, precarietà contrattuale e conseguente discontinuità lavorativa, in modo ulteriormente accentuato se si è donne. È un fenomeno iniziato già negli anni Novanta del secolo scorso, ma che ha conosciuto una accelerazione negli ultimi dieci anni, peggiorando le condizioni di ingresso e permanenza nel mercato del lavoro per ogni coorte successiva. La ricerca realizzata dal Consiglio nazionale giovani insieme a Eures denuncia le conseguenze di lungo periodo per le diverse coorti di giovani lavoratori in termini pensionistici. Per chi ha oggi fino a 35 anni, la pensione arriverà attorno ai 74 anni e sarà di importo molto modesto, circa tre volte l’assegno sociale, cioè quanto prende un anziano/a povero che non abbia maturato un numero sufficiente di contributi, o non ne abbia nessuno per non aver mai avuto un’occupazione, almeno non nel mercato del lavoro regolare. Il lavoro povero di oggi si tradurrà in pensione povera domani, con la beffa che, per ottenerla, bisognerà lavorare per più anni, ben dentro l’età anziana, rispetto a chi va in pensione oggi o ci è andato nei decenni scorsi. È noto da tempo il fenomeno per cui in media chi ha iniziato a lavorare presto, ha svolto lavori pesanti e con una remunerazione modesta in media non solo prende una pensione (a volte molto) più bassa di chi ha studiato a lungo, ha iniziato a lavorare più tardi e in occupazioni meno faticose e fisicamente usuranti. Ne può anche godere per un tempo più ridotto, perché le sue speranze di vita sono più ridotte, non riuscendo sempre a fruire di tutta la ricchezza pensionistica maturata, che va a finanziare quelle dei più fortunati la cui vita sopravanza i contributi pensionistici accumulati. Oggi, con l’andata a regime del sistema contributivo, a questa disuguaglianza nelle chance di fruire della pensione per molti anni si aggiunge quella prodotta dal paradosso per cui saranno i lavoratori più poveri e con lavori fisicamente più faticosi, specie se hanno avuto una carriera lavorativa discontinua, a dover lavorare anche ben dentro l’età anziana per poter maturare il diritto a una pensione non miseranda. Ne abbiamo già visto le avvisaglie con la famigerata quota 100 che, come era da attendersi, è stata fruita nella stragrande maggioranza da lavoratori maschi con carriere lavorative continue e una buona pensione, non le lavoratrici e neppure i lavoratori con carriere discontinue o comunque con pensioni basse. Ma non si tratta solo di mettere a punto strumenti per impedire di produrre una generazione di anziani poveri e per contenere le diseguaglianze generazionali in vecchiaia, come quelli proposti dal Consiglio nazionale giovani. La fragilità economica delle generazioni più giovani ha effetti non solo sulle loro condizioni di vita e su ciò che possono o non possono fare. Ha conseguenze anche sulla società nel suo complesso, innanzitutto peggiorando il già squilibrato bilancio demografico. Giovani che, pur lavorando, non guadagnano abbastanza per mantenersi, pagare un affitto con continuità, far progetti al di là del quotidiano, difficilmente decideranno di avere figli. La sovrapposizione di diseguaglianze generazionali e sociali rischia di diventare una bomba a orologeria, se non per tutta la coorte di età oggi sotto i trentacinque anni, certo per la parte più svantaggiata. I, e soprattutto le giovani a bassa istruzione, infatti, sono coloro maggiormente e più a lungo esposti alla precarietà lavorativa, ai contratti intermittenti e sotto-pagati, che non consentono di fare progetti a medio-lungo termine, non solo rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, ma anche dei coetanei “più fortunati”, con una educazione migliore e con una dotazione di capitale sociale più ricca e articolata. Tra i lavoratori sotto i 25 anni, quelli in condizioni economiche più fragili sono la maggioranza. Invece di indugiare in una narrativa che vuole i giovani (poveri) come senza voglia di lavorare, sarebbe opportuno intervenire sulle condizioni i cui troppi di loro sono costretti a farlo. Se i migranti vengono abbandonati in mare di Giorgia Linardi La Stampa, 10 agosto 2023 La “solita” strage annunciata. Venerdì pomeriggio Alarmphone segnalava almeno 20 barchini in pericolo e ne urgeva il soccorso in vista della nota tempesta in arrivo. La notte il sonno è stato interrotto più volte dal maestrale che sbattendo porte e finestre svegliava il pensiero per tutte quelle persone in balia del mare. E infatti puntuali sono arrivate le notizie dei naufragi al largo di Lampedusa, dove la Guardia Costiera ha salvato chi poteva in condizioni di mare avverse ma alle segnalazioni iniziali non sono seguiti interventi immediati, prima che la perturbazione si abbattesse sul Canale di Sicilia, sospendendo persino i collegamenti marittimi con le isole minori fino a martedì. Tre i naufragi noti fino a ieri. Almeno 44 dispersi e i corpi di una donna incinta e di una bambina che ricordano l’immagine recente della ragazza riversa a faccia in giù nella sabbia accanto a sua figlia, nel confine desertico tra Tunisia e Libia. Intorno un alone bagnato di sudore, tutto quello che gli era rimasto, simbolo della disidratazione che le ha portate alla morte. Prendere il mare è un tentativo di fuga da un Paese che ti deporta nel deserto a morire di stenti nel tuo sudore. Queste due coppie di madri e bambine sono il simbolo della sorte dei migranti neri a due settimane dall’accordo tra Tunisia e Unione europea, che non prevede alcuna alternativa incentivando anzi i respingimenti. Chi cerca la sicurezza di avere acqua da bere per sé e la propria famiglia muore di sete nel deserto o annega nel mare. Intanto un’attivista che è riuscita ad avvicinarsi a un gruppo di persone deportate racconta di cadaveri ammassati accanto al gruppo di persone (ancora) vive, intrappolate tra forze tunisine e libiche che gli impediscono di muoversi. “I libici mettono lì vicino i corpi che trovano sulla frontiera”. Un’altra voce dal deserto chiede cure mediche: “Ci stanno mangiando gli scorpioni”. Come i rifugiati terrorizzati dai morsi di ratto nel Silos di Trieste. Condannati al limbo del confine. Di ieri la notizia di un quarto naufragio. Le immagini diffuse dall’aereo di Sea-Watch mostrano 4 persone sbracciare con non si sa quali forze residue, agitando un paio di piccoli salvagenti di fortuna che gli hanno salvato la vita, mentre gli altri 41 compagni di viaggio che non avevano nulla a cui aggrapparsi, o erano troppo piccoli o troppo deboli per farlo, sono andati a fondo. Immagina. Partire da Sfax giovedì mattina su un guscio di metallo, (forse, stando alle ricostruzioni ancora in corso) subire l’attacco di predoni che rubano il motore, restare alla deriva e sentire salire il vento e il mare fino a far ribaltare la barca, lì morire in mezzo ai graffi di chi cerca di sopravvivere aggrappandosi a te (così funziona un naufragio). Oppure vivere, aggrappato a un galleggiante per ore, poi arrampicarsi su un barchino vuoto, probabilmente segno di un’altra sventurata partenza di questi giorni, aspettare per giorni, senza acqua né cibo e le onde ancora alte che spingono verso la Libia. Poi finalmente, ormai inaspettata, la salvezza. La ricostruzione è confusa, i sopravvissuti in stato di choc rischiano una condanna fino a 30 anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con l’aggravante dei 41 morti, secondo la modifica introdotta dalla legge Cutro. Sempre di ieri è la notizia di un soccorso da parte della Ong Louise Michel, a cui i sopravvissuti hanno raccontato di essere rimasti alla deriva per dieci giorni. All’arrivo dei soccorsi c’erano diverse persone in acqua: si stava consumando quello che sarebbe stato il quinto naufragio noto di questa settimana. “Abbiamo contato 161 persone morte o disperse, siamo solo a mercoledì. E chissà di quanti non sapremo mai”. Parla Tamino Böhm, capo missione delle operazioni aeree di Sea-Watch. I prossimi giorni non sono rassicuranti e l’equipaggio di volo si prepara al peggio. “Mi aspetto di veder emergere cadaveri. Temo che dovremo riprendere ad assegnare un numero ai corpi che avvistiamo”. Alla domanda “come ti senti?” risponde: “La sensazione è di stare letteralmente volando su un cimitero, capisci?”. Questo davanti alle file di ombrelloni delle spiagge del Mediterraneo, dove si erge il filo spinato della fortezza Europa, che però non riesce a celare del tutto l’evidenza delle tragedie in mare. Ad oggi resta lettera morta la risoluzione approvata al Parlamento Ue che chiede una missione di soccorso europea nel Mediterraneo. Le persone nel Mediterraneo non si possono salvare tutte, ma si può almeno evitare di ignorarle, di condannarle a morte, si può e si deve fare di più. Migranti. “Un’onda ci ha travolti. Abbiamo visto gli altri scomparire tra i flutti” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 10 agosto 2023 I racconti dei superstiti. Il procuratore di Agrigento Salvatore Vella: “Criminale farli partire, queste barche di metallo si ribaltano subito in mare. Sono delle bare galleggianti”. “E poi è arrivata quell’onda”. Il racconto si inceppa, ci sono parole che non trovano la via per uscire. La ragazza, soprattutto. Non riesce ad andare avanti. Chi ha raccolto il suo racconto dice che era terrorizzata, come se il muro d’acqua fosse ancora lì, davanti a lei. Apnea. Ci vuole un po’ prima che torni il respiro. Il passaggio successivo si può riassumere così: “La barca si è rovesciata e siamo finiti tutti in mare. Qualcuno di noi aveva delle camere d’aria che abbiamo usato come salvagenti per rimanere a galla, ma non tutti quelli che ce l’avevano si sono salvati. Il mare ci ha disperso, ho visto gli altri sempre più lontani sparire fra i flutti, grandi e bambini. Siamo stati in acqua per qualche ora. A un certo punto un gruppetto di noi ha visto una barca in lontananza. Ci siamo affannati per raggiungerla ma ci siamo arrivati solo noi quattro”. Gli altri tre-quattro (il numero non è chiaro), che hanno cercato disperatamente di arrivare a quella barca, sono stati trascinati via dalla corrente. A poche bracciate dalla salvezza, secondo i compagni di sventura che oggi raccontano di loro. Una barchetta di ferro alla deriva in mezzo al mare. E quattro naufraghi ragazzini - anni dichiarati: fra i 13 e i 18 - che finiscono sulla sua stessa rotta. Che riescono a salire a bordo senza farla ribaltare. Che vagano alla deriva per cinque giorni finché un aereo di Frontex li intercetta, una nave battente bandiera maltese li salva e la nostra Guardia Costiera li porta a Lampedusa, la loro Terra promessa. “È una storia che ha dell’incredibile” commenta da Agrigento il procuratore capo facente funzione Salvatore Vella. Tanto incredibile che sulle prime è sembrata perfino inverosimile, ma “allo stato non abbiamo motivo di dubitare del loro racconto”, dice. “Loro sono dei miracolati ma non lo sono chissà quante centinaia di persone morte in questa ultima finestra di maltempo. Dev’essere stata un’ecatombe. È criminale averli lasciati partire”. Il procuratore se la prende con i trafficanti tunisini: “Nei loro cantieri artigianali costruiscono a Sfax questi barchini, tutti uguali, che sono bare galleggianti. E li mandano verso Lampedusa carichi di migranti. Tutti di ferro, 6-7 metri di lunghezza, ci salgono dalle 40 alle 70 persone. Affondano appena arrivano in mare aperto, dopo le isole Kerkennah che fanno da barriera alle correnti. Ripeto: è stato criminale farli partire con il maltempo perché chi li mette in acqua e li lascia andare lo sa che vanno a picco”. Sulle spiagge tunisine di Sfax si affollano ogni giorno a migliaia, pronti a lasciare un Paese che non vede l’ora di cacciarli per arrivare (quando ci arrivano) in un altro che non li vuole. C’erano anche i nostri quattro naufraghi di ieri: una ragazza che dice di avere 17 anni, un suo coetaneo, un ragazzino più piccolo e un diciottenne. Arrivano dalla Guinea e dalla Costa D’avorio. Agli operatori della Croce rossa che li hanno assistiti sono sembrati sfiniti, traumatizzati, ma tutto sommato in condizioni fisiche non preoccupanti. Soltanto lei, la ragazza, ha ustioni (non gravi) sul viso causate dalla lunga esposizione al sole. Nessuno di loro ha ancora raccontato del viaggio via terra per arrivare a Sfax. Le storie della loro vite, nei verbali, partono dalla spiaggia di Sfax, da qualcuno che ha messo fra le loro mani la camera d’aria di uno pneumatico come salvagente e li ha fatti salire sulla carretta a motore affondata sei ore dopo. “Abbiamo pagato il ticket e siamo saliti a bordo”, hanno raccontato. Il ticket, biglietto per lo spettacolo osceno del rischio della vita. “Eravamo in 45 e c’erano anche tre bambini. Abbiamo navigato per un po’ di ore ma poi è arrivata quell’onda violenta...”. Gli operatori di Frontex li hanno fotografati nel barchino senza motore che la sorte ha piazzato sulla loro rotta. Braccia tese verso l’alto e il “salvagente” sventolato come bandiera: “Siamo qui. Siamo ancora qui, malgrado tutto”. Migranti. Avremmo i mezzi per salvarli e non lo facciamo di Vittorio Alessandro* Il Manifesto, 10 agosto 2023 Il commento dell’Ammiraglio. Non si capisce come mai non siano dislocate a Lampedusa e nei porti del canale di Sicilia le unità di altura della Guardia Costiera, raramente operative in questi soccorsi. L’ultimo grave naufragio nel canale di Sicilia, con quarantuno morti dopo i novanta dello scorso fine settimana, è l’ennesima prova di inadeguatezza del sistema dei soccorsi. Il gran numero di interventi in mare e di sbarchi a Lampedusa tradisce l’assenza di una visione realistica delle cose: non soltanto si sono moltiplicati gli arrivi rispetto a quelli dello scorso anno, ma lo Stato fa costante ricorso all’intervento delle navi Ong. Eppure continua ad additarle come fattore di attrazione e le accusa perfino di complicità con i trafficanti, penalizzando la loro attività operativa o addirittura punendole. Nonostante i moltiplicati sforzi della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza, fino alle loro estreme possibilità operative, continua il silenzio imbarazzato del governo. Che appare impegnato soprattutto a svuotare in continuazione l’hotspot di Lampedusa, dove anche le istituzioni locali sono portate allo stremo per riuscire a garantire la continuità delle operazioni. Gli accordi con la Libia e la Tunisia non hanno cambiato una situazione che, se mai, risulta aggravata. Per il crescente numero di morti in mare: oltre 1.800 dall’inizio dell’anno, secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), fra loro moltissimi bambini, e una quantità imprecisata di dispersi. Mentre continuano le denunce delle efferatezze sistematicamente compiute da quei Paesi nei confronti dei migranti, nei propri territori e in mare, dove le rispettive milizie esercitano non il soccorso, ma spregevoli inseguimenti. Se crediamo veramente in una politica marittima che veda in primo piano il rispetto dei diritti e la qualità dei rapporti diplomatici, dobbiamo finalmente abbandonare la logica delle frontiere, mai invalicabili dalla disperazione, né commissionare ad altri il lavoro sporco di chi asseconda le partenze fingendo, poi, di volerle ostacolare. Tale strategia produce morti invisibili e propaga nella nostra società veleno e sempre maggiore indifferenza, colpendo un impegno nei soccorsi che, per quanto generoso, risulta incoerente e induce a gravi errori - come sappiamo essere accaduto a Cutro. Porta anche a vere e proprie vessazioni, come nel caso della nave Geo Barents. Martedì scorso ha recuperato quarantasette migranti alla deriva da sei giorni con una complicata azione di salvataggio, durante la quale tre persone sono cadute in mare e una è rimasta dispersa. Dopodiché la nave si è vista assegnare il porto di La Spezia. Così quei naufraghi, dopo aver sofferto il mare grosso e la paura, stanno ancora percorrendo un ulteriore viaggio di quattro giorni, prima di poter toccare terra. È urgente e necessario, dunque, che si aprano corridoi umanitari. E laddove questi dovessero rendersi subito di difficile percorrenza, che si apprestino nel frattempo adeguati dispositivi di soccorso in mare. Ma anche di accoglienza. Non si capisce, ad esempio, come mai non siano dislocate a Lampedusa e nei porti del canale di Sicilia le unità di altura della Guardia Costiera, raramente operative in questi soccorsi, e non si vede perché non si affronti l’emergenza con tutte le risorse disponibili: i grandi porti del Sud e il volontariato organizzato secondo un rigoroso coordinamento dello Stato. Sono questi passi da compiere subito perché possa parlarsi di un ruolo forte dell’Italia nel nostro mare. Nel segno della civiltà e della comprensione di un fenomeno che non chiama in causa soltanto i buoni sentimenti, ma secoli di civiltà marinara oltre che una grande sedimentazione di esperienze e di regole. *Ammiraglio in congedo ed ex portavoce della Guardia Costiera Accoglienza a rischio, il governo cerca una soluzione per ricollocare 90mila migranti di Eleonora Camilli La Stampa, 10 agosto 2023 Ma le associazioni umanitarie minacciano di sfilarsi: “Spreco di fondi”. Nuovi centri di primissima accoglienza nelle Regioni del Sud, Sicilia, Calabria e Puglia e un piano di redistribuzione su base regionale che porterà all’apertura di altre strutture su tutto il territorio nazionale. Con l’aumento degli arrivi, il Viminale sta cercando in queste ore nuovi posti per ricollocare una parte degli oltre 90mila migranti approdati sulle nostre coste dall’inizio dell’anno e decongestionare l’hotspot di Lampedusa. Ma il piano del governo potrebbe arenarsi di fronte al rifiuto delle organizzazioni di terzo settore. Le principali associazioni che si occupano di accoglienza e tutela dei migranti (tra cui Caritas, Arci, Save the children, Cnca) riunite nel Tavolo asilo sono infatti pronte a sfilarsi dalla partita, disertando i prossimi bandi che saranno indetti dalle prefetture. Contestano le nuove regole imposte dalla legge 50 del 2023 (il cosiddetto decreto Cutro) e una gestione non programmata e considerata fin troppo emergenziale. “A queste condizioni non ci stiamo - sottolinea Filippo Miraglia di Arci, portavoce del Tavolo. L’idea del governo è quella di attrezzare grandi centri, comprese tensostrutture, per sistemare in fretta le persone. Saranno centri di accoglienza provvisori, come previsto dalla nuova normativa. Ma i numeri, anche se in aumento, sarebbero perfettamente gestibili”. Per le associazioni si dovrebbe implementare il sistema ordinario dell’accoglienza diffusa Sai (Sistema accoglienza e integrazione). “Le nuove strutture imposte dall’alto, oltre a produrre uno sperpero inutile di fondi, avranno anche un impatto devastante sui territori - continua -. Da gennaio abbiamo chiesto al ministero dell’Interno un incontro per programmare l’accoglienza dei migranti in vista dell’estate, il prefetto per l’emergenza Valenti ha deciso di incontrarci solo in questi giorni, presentando un piano che non condividiamo”. La nuova normativa cambia alcune regole di gestione, come il costo pro capite al giorno per l’accoglienza dei migranti nei centri di accoglienza straordinaria (Cas) che scende da 35 a 28 euro, una cifra considerata inadeguata dagli enti del terzo settore per garantire gli standard minimi. “È un riconoscimento economico insufficiente a offrire servizi che non siano di mero albergaggio. Per noi sarà impossibile sia trovare delle strutture adatte che pagare personale qualificato. Il governo vuole dei guardiani per i migranti non degli operatori sociali specializzati”, aggiunge Gianfranco Schiavone, presidente dell’Ics di Trieste. “Inoltre - aggiunge - il nuovo decreto esclude per i richiedenti asilo sia i servizi psicologici che la tutela legale e i corsi di italiano. Sono previsti solo per chi è già riconosciuto rifugiato. Questo significa che a chi arriva non insegneremo più neanche la lingua. Un evidente passo indietro sul fronte dell’integrazione. Con le nuove disposizioni stiamo tornando al periodo dei decreti sicurezza di Salvini, anzi la situazione che si sta delineando potrebbe essere anche peggiore”. Già nel 2018, con la stretta sull’accoglienza voluta dal governo gialloverde, le associazioni avevano rifiutato di partecipare alla gestione dell’accoglienza, mandando deserti i bandi delle prefetture. Una situazione che potrebbe ripetersi in questi giorni con i numeri degli arrivi lievitati rispetto a cinque anni fa. A creare la frattura tra le associazioni e il ministero è anche la situazione a rischio delle persone più vulnerabili, come le donne vittime di tratta e i minori. “Stiamo registrando diversi casi di ragazze ivoriane coinvolte in dinamiche di sfruttamento, non si sa molto di cosa ci sia dietro queste storie, ma insieme ad altre reti cattoliche stiamo facendo assistenza per capire questo nuovo fenomeno - spiega Manuela De Marco di Caritas italiana -. Il problema è che la legge 50 ha previsto una procedura accelerata per chi proviene da Paesi terzi sicuri, tra questi c’è anche la Costa D’avorio. Ciò significa che sarà sempre più difficile proteggere queste ragazze, che dovrebbero essere accolte in strutture adeguate e non trattenute in frontiera come prevede il decreto”. Anche Save the children chiede che il sistema tenga conto delle tutele previste per i minori. “I trasferimenti veloci da Lampedusa sono una novità importante, ma rimane necessario prevedere un sistema di prima accoglienza come delineato dalla legge - afferma Antonella Inverno dell’associazione -. Temiamo che nei centri approntati in emergenza vengano previsti standard non adeguati per i tanti bambini e ragazzi, molti dei quali non accompagnati, che arrivano sulle nostre coste. Per noi è fondamentale garantire in fretta la prima accoglienza di solo trenta giorni per poi passare velocemente alla seconda accoglienza e far iniziare ai ragazzi percorsi di integrazione. Per fare questo, però servono più posti nell’accoglienza diffusa”. Nazioni e popoli che rischiano di sparire: non ne possono più di Danilo Taino Corriere della Sera, 10 agosto 2023 Il 16% degli adulti del mondo vorrebbe emigrare, circa 900 milioni di persone. Più del 50% degli abitanti di Sierra Leone, Afghanistan, Libano pensa di andarsene. Civiltà che rischiano la fine. Ci sono Nazioni destinate a sparire? E a non lasciare tracce memorabili delle loro culture, come accadde ai Visigoti, agli Unni, ai Burgundi? Se l’è chiesto l’economista, studioso delle disuguaglianze, Branko Milanovic qualche tempo fa osservando i desideri di emigrazione in una serie di Paesi. Un’analisi pubblicata quest’anno dall’istituto di sondaggi globali Gallup ha confermato la legittimità della domanda che si è posto Milanovic. Nel 2021, il 16% della popolazione adulta mondiale ha espresso il desiderio di lasciare il proprio Paese: quasi 900 milioni di persone. Nel 2011, la quota era il 12%, segno che, in un decennio, in molte parti del pianeta la vita è diventata più dura. I risultati del sondaggio Gallup - condotto su 127 mila adulti in 122 Nazioni - forniscono una mappa approssimativa di come vanno le cose nel mondo. In dieci anni, la voglia di emigrare è aumentata ovunque meno che nell’Unione europea e nell’Asia dell’Est. In America Latina e Caraibi, è passata dal 18 al 37% degli adulti. Nel 2021, lo stesso 37% ha detto di volere andarsene anche dall’Africa subsahariana, rispetto al 29% del 2011. Nel Commonwealth centrato sulla Russia, il desiderio di emigrare è passato dal 15 al 21% (e questo prima dell’invasione dell’Ucraina). La voglia di cambiare Paese è cresciuta persino nell’America del Nord (dal dieci al 15%) e in Australia e Nuova Zelanda (dall’otto al 10%). Nella Ue è scesa dal 20 al 17% e nell’Asia dell’Est dal sette al 4%. Dalla Sierra Leone, il 76% degli adulti vorrebbe emigrare; dal Libano il 63%; dall’Honduras il 56%; dal Gabon il 55%; dall’Afghanistan, dalla Repubblica del Congo, dal Ghana, dalla Nigeria il 53%. Gli Stati Uniti rimangono la destinazione più desiderata, anche se in calo dal 22 al 18% nel decennio, seguiti dal Canada all’8% e dalla Germania al 7 (l’Italia è scelta dal 3%). Di solito ci si domanda, soprattutto in Europa, quali effetti culturali ha e potrebbe avere sulle società occidentali l’immigrazione di massa da Paesi diversi. Milanovic si chiede invece se alcune Nazioni - segnatamente le più povere - non siano destinate a sparire, assieme alle loro culture, una volta che la maggioranza delle loro popolazioni se ne dovesse andare, tra l’altro innescando un processo di fuga a valanga. Intere culture sparirebbero. Ma, tra la scelta di conservare tradizioni e culture e la libertà di muoversi, l’economista dice di preferire la possibilità di movimento, di emigrazione. “Il mondo ha perso i Marcomanni, i Quadi, i Samaritani, gli Alani, i Vandali, gli Avari e migliaia di altri. Sono scomparsi assieme ai loro linguaggi, alle loro culture e alle loro tradizioni. Ci mancano davvero, oggi?”. Le grandi migrazioni sono destinate a cambiare il mondo. Tutto. Maria Kolesnikova e altri 1.500 isolati nelle carceri bielorusse di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 10 agosto 2023 La donna coordinava il movimento di protesta contro il falso esito delle elezioni, arrestata nel 2020 e condannata a 11 anni, da 7 mesi di lei non si hanno più notizie. Secondo Alexander Lukashenko, autoritario e longevo presidente della Bielorussia, nel paese non ci sono prigionieri politici, perché non esiste un articolo del genere nel codice penale. Un eufemismo e una derisione della lotta condotta da migliaia di cittadini bielorussi che due anni fa sono scesi nelle strade per protestare contro la rielezione di Lukashenko, una vittoria macchiata da brogli e dalla repressione di qualsiasi dissenso. Le sarcastiche affermazioni del presidente, stretto alleato di Vladimir Putin, sono facilmente contraddette dall’organizzazione che difende i diritti umani, Vesna. Per l’ong nelle prigioni bielorusse languono attualmente 1500 persone arrestate per le loro azioni o opinioni politiche per lo più espresse in maniera pacifica. Gli arresti continuano a essere la norma anche oggi, un’onda lunga repressiva che fa sentire ancora i suoi pesanti effetti. Il regime di Lukashenko però deve affrontare un malcontento e un’opposizione persistente che sebbene colpita dalle incarcerazioni continua in varie forme a far sentire la sua voce. Ora viene messa in atto una strategia per fiaccare la resistenza applicando in maniera massiccia lo strumento dell’isolamento. I prigionieri vengono nascosti, spariscono per mesi dietro le sbarre e neanche le famiglie riescono a ricevere notizie. È il caso di Maria Kolesnikova che nel 2020 è stata condannata a 11 anni di reclusione con l’accusa di estremismo e tentativo di rovesciare il potere di Lukashenko. La donna faceva parte del trio tutto al femminile composto anche da Svetlana Tikhanovskaja e Veronika Zepkalo, che di fatto rappresentava e coordinava il movimento di protesta contro il falso esito delle elezioni presidenziali. Maria Kolesnikova è finita in carcere in seguito agli arresti di massa che sono stati pubblicamente documentati ma categoricamente negati dai funzionari del governo. Flautista 39enne, direttrice di un centro culturale a Minsk, nota dal punto di vista estetico (riconoscibile per il suo taglio corto di capelli completamente tinti di bianco e lo smagliante sorriso esaltato da un rossetto rosso vivo) ma soprattutto per la determinazione e la forza d’animo dimostrata. A differenza delle sue compagne infatti non è riparata all’estero. Inizialmente era stata condannata all’esilio, ma al momento di essere espulsa ha strappato il passaporto. A fornire le scarne notizie che giungono dalla Bielorussia riguardanti Maria Kolesnikova è solo sua sorella Tatsiana che ha ricevuto una cartolina dal carcere l’ultima volta lo scorso 2 febbraio. Nella lettera Kolesnikova aveva usato un tono confidenziale e scherzoso ma da allora, quasi 7 mesi, non è giunta piu nessuna sua notizia. Evidentemente è tenuta in totale isolamento in carcere senza possibilità di telefonare o scrivere. Negate anche le visite di parenti e del suo avvocato. Un trattamento inumano che può essere assimilato ad una vera e propria tortura, la stessa che stanno subendo altre due figure chiave dell’opposizione. Sergei Tikhanovsky e Viktor Babaryko, scomparsi nel sistema carcerario e gravati da lunghe pene detentive. La loro colpa quella di aver tentato nel 2020 di candidarsi contro l’autoritario Alexander Lukashenko alla presidenza, la reazione del regime è stata l’arresto immediato. Qualche altra notizia su ciò che i prigionieri subiscono in carcere è riportata da chi è stato rilasciato. Gli attivisti tornati in libertà parlano di un isolamento feroce e di essere costretti a dormire spesso sul pavimento della cella. Sempre secondo l’organizzazione Vesna almeno 3 prigionieri sono morti in carcere senza che nessuno abbia potuto vederli, tra loro l’artista Ales Pushkin deceduto recentemente mentre si trovava in custodia giudiziaria senza che ancora sia stata resa nota la causa ufficiale della morte. Il sospetto, suffragato da testimonianze miracolosamente arrivate all’estero, è che avesse perso molto peso forse a causa di denutrizione o per un rifiuto del cibo. In molti e molte sono stati costretti a fuggire all’estero perché la repressione si mantiene costante, al momento non sembra esistere un luogo veramente sicuro dove nascondersi. Alcuni racconti rilasciati dagli espatriati, soprattutto in Polonia e Lituania, dicono che viene preso di mira qualsiasi luogo comprese le case famiglia per donne. Basta poco per incappare nelle strette maglie della polizia, sufficiente una foto di una manifestazione, magari trovata sul telefono di un arrestato, per essere a propria volta perseguiti. A quel punto non rimane altro che contattare le reti clandestine che aiutano a lasciare di nascosto la Bielorussia. Il silenzio calato sui detenuti politici dunque è pesantissimo, chiaramente la televisione di stato non accenna minimamente né a proteste né a incarcerazioni. La Bielorussia è una gabbia di cemento dalla quale non esce che una debole voce che si tenta di propagare in qualsiasi modo. In questo senso i social aiutano, su alcune piattaforme non è raro vedere i fuoriusciti che usano l’arma dell’ironia deridendo Lukashenko, un mezzo forse non sufficiente ma tra i pochi ancora a disposizione. Abusi e maltrattamenti sui minori palestinesi nel sistema di detenzione militare israeliano di Manuela Valsecchi altreconomia.it, 10 agosto 2023 L’arresto e la detenzione nelle carceri israeliane è un’esperienza che riguarda ogni anno tra i 500 e i mille bambini e ragazzi palestinesi. Il principale crimine presunto è il lancio di pietre. Save the children ha intervistato oltre 220 ex “trattenuti” da uno a 18 mesi. Alla maggior parte sono stati negati acqua, cibo, assistenza legale e sonno. “Ci si sente come se tutti i sogni che si avevano prima dell’arresto fossero passati e cerchi di raggiungerli ma non ci riesci. Quello che avevi in mente prima non sembra più realizzabile. È come se questa esperienza ti privasse del tuo tempo e del tuo futuro”. La storia di Jamal, ragazzo palestinese arrestato a 15 anni dall’esercito israeliano, è stata raccolta dalla Ong Save the children nel rapporto “Injustice”, una ricerca sull’esperienza dei minori palestinesi nel sistema di detenzione militare israeliano condotta per aggiornare un primo lavoro di tre anni fa e pubblicata nel luglio 2023. Non è infatti un tema nuovo: “Il maltrattamento dei minori che entrano in contatto con il sistema di detenzione militare sembra essere diffuso, sistematico e istituzionalizzato durante tutto il processo, dal momento dell’arresto fino al procedimento giudiziario e all’eventuale condanna”, si leggeva già in una pubblicazione dell’Unicef del 2013 (“Children in Israeli military detention: observations and recommendations”). In dieci anni la situazione non è cambiata, anzi. Tra i 500 e i 1.000 minori palestinesi continuano ad essere arrestati dall’esercito israeliano ogni anno, principalmente con l’accusa -ma basta il sospetto- di lancio di pietre, un crimine che può portare a una condanna di 20 anni di reclusione. Una prassi che viola i loro diritti e ha conseguenze profonde sulla loro salute fisica e mentale, sulla loro vita sociale, sulla loro istruzione e sul loro futuro. I bambini e i ragazzi palestinesi sono gli unici al mondo a essere sistematicamente perseguiti da tribunali militari che non rispettano gli standard internazionali in tema di giustizia minorile e che non garantiscono un processo giusto. Negli ultimi 20 anni si stima che 10mila minori palestinesi siano transitati dal sistema di detenzione militare israeliano, un’esperienza che segna qualcosa come il 40% della popolazione maschile che vive nei Territori occupati. Per dare un quadro aggiornato della situazione, Save the children ha condotto una ricerca sul campo tra febbraio e marzo di quest’anno coinvolgendo in interviste e focus group 228 bambini e ragazzi che sono stati detenuti dall’esercito di Tel Aviv quando avevano tra i 12 e i 17 anni, il 97% di loro è di sesso maschile e il 71% era stato rilasciato nell’ultimo anno. I dati raccolti sono allarmanti per ogni fase della detenzione. Ben oltre la metà degli arresti è avvenuto di notte (il 45% oltre mezzanotte), attraverso un’irruzione -con distruzione di porte o finestre- senza che fosse fornita una motivazione e nella maggior parte dei casi si è trattato di episodi violenti. I minori intervistati raccontano di essere stati picchiati con calci, pugni, schiaffi (73%), alcuni di loro (47%) anche con bastoni o armi, compreso il calcio della pistola; dicono di essere stati ammanettati (85%), bendati (77%) e perquisiti (45%). Anche l’interrogatorio è un momento molto traumatizzante: “Dopo l’interrogatorio, ne sono uscito completamente diverso. Ero legato a una sedia di ferro, con le mani dietro la schiena. Le percosse sembravano non finire mai. Ero bendato, quindi non potevo vedere il bastone con cui mi picchiavano, né quando sarebbe arrivato il colpo successivo. Non sapevo nemmeno distinguere la notte dal giorno” ha raccontato Hisham, detenuto all’età di 14 anni. Un aspetto, questo, decisivo perché la stragrande maggioranza delle condanne nel sistema di detenzione militare si basa su dichiarazioni rilasciate durante l’interrogatorio, anche se ottenute attraverso palesi violazioni dei diritti del minore, come quelle documentate nel rapporto: negazione di acqua e cibo, privazione del sonno, minaccia di danni fisici o di ripercussioni sulle famiglie, costrizione in posizioni di stress, isolamento. Anche il diritto a parlare con un avvocato può essere esercitato solo alla fine dell’interrogatorio e non è prevista nemmeno la presenza di un genitore o di un interprete che possa tradurre la documentazione in ebraico che di solito viene fatta firmare ad un certo punto del “colloquio”. Il trasferimento da un centro di detenzione all’altro o dalla prigione al tribunale a bordo del “Bosta”, l’autobus dei detenuti, è considerato da alcuni degli intervistati uno degli aspetti più traumatici della detenzione: i minori hanno riportato di essere stati ammassati nell’autobus, in piedi per tutto il tragitto, con mani e piedi ammanettati, senza cibo o acqua, né accesso ai servizi igienici, per 12 o più ore. La gamma di abusi fisici e psicologici si riproduce anche durante il tempo passato in prigione con percosse, perquisizioni, minacce, isolamento, negazione di cibo, acqua, cure mediche, privazione del sonno. Sono aumentate anche le denunce di violenze e abusi di natura sessuale che alcuni degli intervistati hanno descritto come “tocchi nelle parti intime” e “colpi sui genitali”: il 69% di loro ha riferito di essere stato spogliato durante la detenzione, “una forma di abuso sessuale e una tattica di umiliazione” spiegano i curatori del rapporto, ricordando che “la Convenzione sui diritti dell’uomo delle Nazioni unite prevede che nessun bambino privato di libertà possa essere sottoposto a tortura o ad altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Anche il contatto con il mondo esterno dovrebbe essere tutelato nel caso di minori detenuti, invece a oltre la metà dei bambini e dei ragazzi che hanno preso parte all’indagine è stato impedito di vedere le proprie famiglie mentre erano in carcere. Non stupisce dunque il forte disagio psicofisico manifestato dopo il rilascio che si traduce in disturbi del sonno o insonnia (73% del campione), incubi (53%), rabbia (62%), sfinimento (50%), mal di testa e vertigini (57%), perdita dell’appetito (39%), attacchi di panico o difficoltà a respirare (35%), dolori muscolari (42%), brividi (22%). “Il sistema di detenzione ha un impatto distruttivo sul benessere a lungo termine dei minori. Cambiamenti comportamentali come il sentirsi arrabbiati per la maggior parte del tempo, la scarsa o nulla volontà di comunicare con gli altri, la maggiore tendenza a passare il tempo da soli o l’eccessivo attaccamento alla madre hanno avuto un impatto sulla vita quotidiana e sul benessere emotivo”, chiariscono gli esperti di Save the children. E le conseguenze avranno un impatto per tutta la loro vita: basti pensare che almeno un terzo dei ragazzi intervistati ha abbandonato la scuola dopo il rilascio e molti di quelli che vi hanno fatto ritorno sono stati costretti a cambiare percorso di studi o a ridimensionare le loro aspirazioni. Anche i rapporti sociali e i legami famigliari di questi minori subiranno delle ripercussioni: non solo per l’ovvia lontananza dalle opportunità di formazione o dalle attività tipiche del tempo libero patita in carcere, ma anche per l’accusa di essere una spia che alcuni di essi si sentono rivolgere dopo essere stati rilasciati e il conseguente stigma che questo comporta su di loro e le rispettive famiglie. Questo si traduce in bambini e ragazzi che non si sentono sicuri fuori da casa, che evitano interazioni con persone che non conoscono, che hanno difficoltà a esprimere i propri sentimenti. “Con il giusto supporto i minori possono trovare la fiducia in se stessi per poter utilizzare la loro capacità di recupero e iniziare a elaborare il grave disagio emotivo che hanno vissuto” concludono i ricercatori di Save the children, sottolineando ancora una volta che “l’arresto militare, la detenzione e il procedimento giudiziario dei bambini e dei ragazzi palestinesi è un problema importante e di lunga data per i diritti umani. Gli ultimi risultati di questa ricerca seguono una tendenza profondamente preoccupante nell’ultimo decennio e confermano il peggio”. La richiesta avanzata dalla Ong è quella di “una moratoria immediata sull’arresto, la detenzione e il processo dei minori da parte delle autorità militari israeliane. Nessun bambino dovrebbe entrare in contatto con il sistema di detenzione abusivo, fino a quando non saranno attuate riforme sostanziali”.