“Cari politici riformate subito il carcere. Non è costituzionale” di Angela Stella Il Riformista, 9 settembre 2022 Il carcere è il grande assente della campagna elettorale di questi giorni. Per questo il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha lanciato qualche giorno fa un appello alle forze politiche: “Basta slogan di bandiera, si discuta di problemi concreti”. Il suo mandato scade a febbraio 2023: è quasi tempo di bilanci. Professor Mauro Palma, perché i partiti politici non stanno parlando di esecuzione penale? Non lo fanno per diversi motivi. Primo: quella a cui siamo assistendo è una campagna elettorale assorbita da un bipolarismo bellico, come tipo di atteggiamento. In parte perché si discute molto del conflitto in Ucraina. In parte perché questo tema ha dei riflessi enormi sulle fonti energetiche che si riverberano sull’economia. Mi pare che di problemi sociali, come di istruzione o di sanità, non si stia parlando molto. Il secondo motivo: un conto è dibattere di sicurezza - e questo lo si fa - altra cosa è discutere di carcere con cui le forze politiche non si misurano con facilità. Terzo: il dibattito sulla pena sempre più si polarizza su posizioni rappresentate in maniera quasi estrema. Da un lato chi è rappresentato come tendente a volere tutti fuori, ma non è poi effettivamente così, dall’altro quelli che sono rappresentati come sostenitori del “marcire in galera” e “buttare la chiave”. Questo tipo di narrazione non fa vedere che c’è invece un terreno su cui ragionare. Per fare cosa? In questo momento e in questa situazione di disfunzione del carcere - per chi è ristretto e per chi vi lavora - mi premerebbe di più riuscire intanto ad avere un carcere che in qualche modo assolvesse il suo compito secondo i principi costituzionali. Poi è chiaro: io da una vita sono schierato su una posizione riduzionista del ricorso alla detenzione. Il suo appello non fa differenza tra partiti? La responsabilità del silenzio sul carcere va divisa tra destra e sinistra, compreso il Pd? La responsabilità è generalizzata. Il Partito democratico ha sempre avuto una certa posizione. Per esempio, nelle Agorà che hanno organizzato hanno sempre parlato di pena da rendere modulabile nel corso dell’esecuzione. Però mi sembra che questa sua tradizione culturale che gli riconosco scarsamente sia presente nel dibattito elettorale. Dramma dei suicidi: 59 dall’inizio dell’anno. Possibile che abbiamo bisogno delle parole del Papa per un titolo sui giornaloni? Per fortuna che c’è qualche parola autorevole che fa riferimento al problema. Questi suicidi non interrogano solo l’amministrazione penitenziaria ma la società intera. Un grande numero delle persone che si suicida in carcere è lì da pochi giorni o è prossima ad uscire. È molto difficile interpretare questi gesti. Possiamo comunque dire che chi si suicida ha la sensazione di essere capitato in un mondo di cui non importa nulla a nessuno, che è inessenziale per la società, di essere in un vuoto da cui uscirà ancora più vuoto. E il problema non si risolve soltanto con quelle doverose maggiori attenzioni, di cui parla il capo del Dap nella sua circolare. Per colmare quel vuoto bisogna ricostruire il fatto che anche sei hai commesso un reato tu sei ancora parte della società che non ti rigetterà. Dei 59 suicidi, ha detto Renoldi, “25 riguardavano detenuti definitivi, gli altri erano in misura cautelare”. Dunque non solo per questo, anche l’abuso della custodia cautelare continua ad essere una criticità? Io appartengo alla generazione in cui si parlava di “carcerazione preventiva”. Poi l’abbiamo chiamata “custodia cautelare” per sottolineare che non era una carcerazione predisposta per dare un assaggio al recluso, ma voleva essere un modo per non inquinare l’inchiesta, per evitare la fuga, per non ripetere il reato. In realtà nel nostro sistema è finita per tornare ad essere una carcerazione preventiva. È quella la vera gogna e la vera pena - parlo in particolare di reati minori -, perché poi a conclusione del processo, data anche la lunghezza dei procedimenti, si scopre che hai già espiato una grande parte della pena comminata. Sulla custodia cautelare dobbiamo tornare a riflettere, ritornare alla sua effettiva essenzialità, chiederci quando è data semplicemente perché il magistrato non ha una dimora a cui assegnare la persona. Purtroppo molto spesso la custocautelare è il prodotto di questa minorità sociale. Di chi è la responsabilità di questi morti di persone sotto la custodia dello Stato? Ricordiamo anche che un giovane migrante pakistano si è suicidato due giorni fa al CPR di Gradisca di Isonzo... La responsabilità è dello Stato e non dei singoli operatori. Quel vuoto di cui parlavamo prima è ancora più determinante nei CPR perché lì è sistemico. In che senso? Nei Cpr le persone sono tenute lì senza far nulla. Del carcere possiamo dire “ci sono poche attività o poco personale”, invece nei Cpr non c’è nulla istituzionalmente. Alcune di quelle persone vivono quella esperienza come un proprio fallimento: hanno lasciato la loro casa per andare in un nuovo continente ma poi si trovano in quei centri per essere rimpatriate. Se a questo fallimento si aggiunge quella sensazione del nulla, in soggetti fragili può determinarsi la volontà del suicidio. La Ministra Cartabia aveva istituito la Commissione presieduta dal professor Marco Ruotolo: tutto il lavoro fatto non vedrà la luce. Non ritiene che il carcere non avesse bisogno dell’ennesima commissione ma di atti concreti ed urgenti? Sì, sono d’accordo con lei sulla necessità di questi atti. La Commissione aveva lavorato su tre livelli di elaborazione. Primo: alcune cose da fare subito con circolari. Qualcosa è stato fatto e spero che qualcosa ancora verrà portato avanti. Con gli altri si è proceduto lentamente. Secondo: altre cose richiedevano un cambio di regolamento, strumento normativo meno problematico di una legge ma comunque necessitante di un Dpr, quindi occorreva passaggio parlamentare. Si fa presto a dire ‘date più telefonate’: può andar bene in una situazione di emergenza ma senza una modifica del regolamento non può divenire strutturale. Terzo livello: cambiare alcune norme. Qui si è visto l’ostacolo politico persino alla norma di buon senso, proposta da Giachetti, per l’aumento dei giorni di liberazione anticipata per il periodo di sofferenza maggiore che si era avuta in carcere a causa del Covid. Ma non si poteva prendere il pacchetto pronto degli Stati Generali e della Commissione Giostra? Allora criticai la mancanza di coraggio politico per portare a terdia mine quel percorso. Però il tono dell’eterno rimpianto non mi appartiene. Credo che questi problemi vadano affrontati con un altro impulso. Forse ha ragione lei nel dire che non era necessario creare ulteriori commissioni, seppur la Commissione Ruotolo abbia fatto un buon lavoro in tempi abbastanza stretti. Occorre però la capacità di togliere il mantra dello schieramento intorno al tema del carcere. Il sovraffollamento è ancora un problema? Sicuramente è un problema. È endemico, i numeri stanno ricrescendo. Devo dire che accanto a questo, l’altro problema estremamente grave è l’inutilità del tempo detentivo. Ci sono in carcere circa 1.300 persone che devono scontare pene inferiori ad un anno e circa 2.500 con una pena tra uno e due anni. Per queste persone il tempo è totalmente vuoto. Spesso stanno lì perché non hanno il domicilio o l’assistenza legale, appartengono ad una povertà complessiva. Se riuscissimo a portarle in altre strutture territoriali di controllo e supporto si abbasserebbero anche i numeri del sovraffollamento. Questo potrebbe essere il primo atto del nuovo Governo e Parlamento sul carcere? Certo, aprendo un dialogo con gli enti locali, regionali. Lega e Fratelli d’Italia continuano a dire: certezza della pena è certezza del carcere. Come si rompe questa equazione? Ha poco senso questa espressione. “Certezza della pena” nei manuali di diritto viene assegnata al fatto che la pena non deve essere arbitraria, ma definita dalla legge. Interpretare poi “certezza” da talune forze politiche come fissità, sempre uguale, senza alternative è una visione miope. Lei come Garante ha avuto a che fare con i Ministri Cancellieri, Orlando, Bonafede e Cartabia. Che bilancio può fare? Ho avuto rapporti buoni con tutti e quattro. È chiaro che Cancellieri ha messo la funzione del Garante nella norma, Orlando gli ha messo le gambe e lo ha fatto vivere, Bonafede lo ha sempre rispettato, Cartabia lo ha riconosciuto come interlocutore diretto. Teme un Ministro della giustizia di centrodestra? Temo che nella società possa passare una cultura di contrapposizione e di rifiuto verso le parti che hanno sbagliato. Non temo i partiti o le singole persone, temo questo tipo di culture. Per il resto credo che questo Paese abbia una struttura democratica tale da riuscire a dialogare con tutte le forze politiche. Quindi non sente la preoccupazione di un ritorno al fascismo? La preoccupazione del fascismo per chi come me è cresciuto in ambienti antifascisti c’è sempre ma non attribuita ad un partito politico. Ormai siamo in contesti diversi. Il contesto che potrei definire di cultura fascista è quello della cultura del rifiuto dell’altro, ho paura, ad esempio, quando vedo in un video una persona che auspica che una rom sparisca se vince un partito. Ergastolo: i Cinquestelle dichiarano guerra alla Costituzione di Piero Sansonetti e Tiziana Maiolo Il Riformista, 9 settembre 2022 La riforma del regime ostativo, perfino peggiorativa, è naufragata con la legislatura. L’8 novembre scade il tempo dato dalla Corte costituzionale. Nelle carceri italiane in oltre 1.200 ergastolani aspettano il diritto alla speranza. I Cinque Stelle hanno tentato un blitz al Senato per imporre l’approvazione di una legge che riforma l’ergastolo confermando, sostanzialmente, l’ergastolo ostativo. In contrasto dichiarato ed esibito con la Costituzione e anche con la sentenza della Corte Costituzionale che aveva imposto al Parlamento di modificare l’ergastolo e abolire l’ergastolo ostativo entro l’8 novembre, perché l’ergastolo ostativo in modo del tutto evidente non è compatibile con la Costituzione. Il blitz non è passato e la legge a questo punto decade. Sicuramente il prossimo Parlamento non potrà farne una nuova entro novembre e di conseguenza - salvo colpi di mano alla Consulta - l’ergastolo ostativo sarà cancellato e l’Italia tornerà nel novero dei paesi civili, almeno da questo punto di vista. Il capo dei Cinque stelle, cioè Conte, si è detto indignato della decisione del Senato di respingere l’attacco dei 5Stelle perché- ha spiegato - in questo modo si indebolisce la lotta alla mafia. In effetti tutti conoscono la passione nell’impegno antimafia che l’avvocato mostrò negli anni feroci e sanguinosi durante i quali la mafia colpiva davvero e uccideva. Non era forse l’avvocato Conte l’uomo che guidava il fronte contro le cosche e che ispirò l’azione di Borsellino e Falcone? Era quasi tutti i giorni a Palermo, in trincea, lasciando morire il suo lavoro di avvocato di affari… A parte l’ironia, ieri i Cinque Stelle hanno subìto un altro colpo di immagine, soprattutto alla recente pretesa di essere diventati di sinistra. Loro molte volte hanno invocato il capo della sinistra francese, Jan-Luc Mélenchon. Ieri Mélenchon era a Roma e ha dichiarato: “Non ho niente a che fare con loro. Nel passato mi hanno adulato. Gli esponenti dei 5 Stelle fanno qualsiasi cosa ma alla fine finiscono sempre dallo stesso lato della mangiatoia. Sono un annesso dei potenti di questo paese. Votare il M5S non ha senso”. ----------- La data è quella del prossimo 8 novembre. Ci saranno per quel giorno un Parlamento nelle sue piene funzioni, con ufficio di presidenza e commissioni al loro posto, e un Governo già formato pronti a deliberare, oppure saremo di nuovo nelle mani della Corte Costituzionale per decidere sull’ergastolo ostativo? La questione è politica, ma soprattutto di giustizia. E sarebbe scandaloso se la Consulta concedesse al Parlamento l’ennesima proroga, dopo un anno e mezzo. Per ora si è solo vista l’incapacità delle Camere di produrre un testo decente, che fosse in linea con il mandato della Consulta. Che aveva definito incostituzionale quella norma che a partire dal 1992 aveva creato il doppio binario tra detenuti, escludendo dai benefici penitenziari previsti dalla legge i condannati per fatti di mafia o terrorismo. Ci sono nelle carceri italiane poco più di 1.200 ergastolani che attendono, dopo oltre 26 anni di carcere, di poter accedere alla liberazione anticipata, come ha stabilito la Corte costituzionale dopo aver sancito che la norma che lo vieta ai non “pentiti” è fuori legge perché viola gli articoli 3 e 27 della nostra Carta. Ma la Consulta, dopo aver sancito il principio, ha passato la palla al Parlamento, dando un anno di tempo perché legiferasse in modo conforme. Ma non era bastato, se non per produrre una leggicchia votata alla Camera, che nei fatti poneva tanti ostacoli e inversioni dell’onere della prova al detenuto, da esser resa pressoché inapplicabile. E la commissione giustizia aveva anche dovuto subire lo spettacolo indecente della sfilata di toghe ed ex toghe che, in nome della militanza “antimafia”, avevano remato contro qualsiasi proposta riformatrice. Usciranno tutti i boss, ricominceranno le stragi, avevano gridato, con l’accompagnamento quotidiano degli articoli del Fatto. Solo i deputati di Italia Viva si erano poi astenuti per l’indecenza della norma nel voto finale, e altrettanto avevano fatto i parlamentari di Fratelli d’Italia, forse per ragioni opposte. Il deputato di Più Europa Riccardo Magi (anche lui astenuto) aveva invano fatto anche un tentativo per far modificare almeno quella vergogna della legge voluta dal ministro Bonafede, chiamata “spazzacorrotti”, che equiparava i reati contro la pubblica amministrazione a quelli di mafia. I grillini sotto braccio agli uomini del Pd avevano condotto le danze della piccola vergogna. La leggicchia fuori legge approdava così al Senato, dopo aver calpestato senza pudore il verdetto della Corte di Strasburgo che nel 2019 con la famosa “sentenza Viola” aveva condannato l’Italia proprio per gli stessi motivi che verranno poi ripresi dalla Corte Costituzionale. La quale ha proprio mancato di coraggio, mettendo principi fondamentali come l’uguaglianza dei cittadini e la funzione rieducativa della pena nelle mani di un’assemblea legislativa la cui maggioranza, formatasi nelle elezioni del 2018, era di quel partito che ogni giorno propagandava, tramite il suo vero leader Marco Travaglio, la necessità di chiudere a doppio mandato le carceri. Altro che riforme! Come si fa a chiedere al detenuto che ha già dimostrato con il percorso rieducativo quotidiano, certificato dagli operatori del carcere e dai giudici di sorveglianza, ulteriori prove diaboliche? Dimostrare di aver rescisso i rapporti con la criminalità organizzata, per esempio, e magari aver risarcito le vittime, anche quando non si hanno possibilità economiche. Ma anche l’inversione dell’onere della prova è illegale, in diritto. Lo sanno, i nostri parlamentari? Comunque, venendo a questi giorni, è fallito il tentativo del Movimento cinque stelle di portare a casa, negli ultimi momenti della legislatura, l’ergastolo ostativo di loro gradimento, perché anche il Pd a questo punto li ha abbandonati. Troppo occupato Enrico Letta a studiare il modo di fare cadere il prossimo governo non appena formato. E di continuare a governare senza aver vinto le elezioni. Così quella norma fuori legge del doppio binario già bocciata dalla Consulta e riproposta quasi uguale, a quest’ultima viene riconsegnata sotto forma di patata bollente. E speriamo che i giudici non la lascino cadere di nuovo a terra e che la questione sia messa all’ordine del giorno a partire dall’8 novembre, la data entro la quale, di proroga in proroga, il Parlamento avrebbe dovuto legiferare per rendere conforme alla Costituzione e ai principi della Cedu la norma che dal 1992 è fuori legge. Ma i tempi che occorreranno perché il Parlamento funzioni a pieno ritmo e le commissioni inizino la produzione legislativa, e perché esista un governo che ottenga la fiducia, non saranno brevissimi. E non ci sarà “trascinamento” di leggi semi-approvate da una legislatura all’altra. Tra l’altro anche la Corte Costituzionale vivrà un suo momento elettorale. Perché il suo Presidente Giuliano Amato presiederà per l’ultima volta la Corte il prossimo 13 settembre, data nella quale ci si aspetta un suo grande discorso di commiato. Difficile che parli dell’ergastolo ostativo, prima di lasciare il campo a un successore, il giorno 19. Spetterà a quel punto al Capo dello Stato indicare un nuovo membro della Corte. E poi, solo una volta che sarà ricostruito il plenum, ci si porrà il problema del nuovo Presidente. Che potrebbe essere una donna, per la seconda volta dopo quella di Marta Cartabia del 2019. E’ prassi che al vertice della Consulta venga chiamato il giudice più anziano per carriera. In questo caso in pole position sono addirittura in tre, di cui due donne: Daria De Petris e Nicolò Zanon che furono indicati nel 2014 da Giorgio Napolitano, e Silvana Sciarra scelta, nello stesso anno, dal Parlamento. Anche queste sono scelte politiche, non fingiamo che non sia così. E l’8 novembre questi giudici avranno l’onere, se non mancherà loro il coraggio, di mettere la parola fine sull’ergastolo ostativo, cancellando d’imperio la norma incostituzionale. E ridando la vita non a terroristi o mafiosi, ma a persone ormai lontane dal loro passato. Suicidi in cella, allarme sociale di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 9 settembre 2022 L’estate che ci lasciamo alle spalle, oltre che per la guerra in Ucraina e la siccità, rimarrà tristemente negli annali per l’alto numero di suicidi nelle carceri italiane: sono 59 finora i detenuti che nel 2022 si sono tolti la vita dietro le sbarre. Un numero mai così alto negli ultimi decenni e che coinvolge anche i penitenziari piemontesi. Segno di un malessere che sta diventando un problema sociale perché - oltre ai reclusi - riguarda anche gli agenti penitenziari. In carcere non si vive bene e un numero così imponente di ristretti che si uccidono ci dice che l’articolo 27 della nostra Costituzione, in cui si afferma che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, non è efficace. “Nelle 13 carceri per adulti presenti in Piemonte” commenta Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti “abbiamo registrato 4 morti per suicidio nel 2019 e 4 nel 2020, mentre nel 2021 sono stati 3, tutti italiani (a Cuneo, Novara e Ivrea, rispettivamente di 41, 24 e 39 anni). Per i primi sei mesi del 2022 eravamo a zero in questa tragica classifica, ma la calda estate che stiamo concludendo e che ha fatto registrare un picco di suicidi in tutta Italia, ha fatto sentire le sue negative influenze anche in Piemonte, con i due suicidi di Torino, un pakistano di 38 anni e un italiano di 24 anni”. L’amministrazione penitenziaria e quella sanitaria regionale hanno all’ordine del giorno attività, azioni e attenzioni al fenomeno: “ma certo nessuno può ritenersi soddisfatto degli esiti del lavoro fatto, con protocolli (nazionale, regionale e locale) e con la definizione di équipe multiprofessionali in ciascun istituto predisposte a monitorare le situazioni a rischio per prevenire i gesti anticonservativi” prosegue Mellano. “Gli atti autolesivi, i tentativi di suicidio e le morti autoimposte sono un faro che illumina la dimensione di disperazione che il percorso detentivo determina, in un ambiente di tensione, degrado, mancanza di speranza e di senso che finisce per contagiare anche gli operatori: non a caso la polizia penitenziaria è il corpo delle forze dell’ordine in Italia con il più alto tasso di suicidi”. Cosa di può fare mettere fine a questa ecatombe? “Solo con la sinergia delle amministrazioni e delle professionalità che animano la comunità penitenziaria, nello sforzo costante di dare un senso costituzionale alla pena, che deve essere volta verso il reinserimento sociale e lavorativo” risponde Mellano “ma occorre anche tentare un percorso di innovazione sia per le attività e le procedure della vita quotidiana in carcere, sia nella responsabilizzazione dei detenuti, con la formazione degli stessi nell’assistenza ‘peer to peer’”. Il grido di dolore di queste morti estive, stagione sempre a rischio come le festività, fa appello Mellano “sia ascoltato dai decisori politici e istituzionali, fosse anche soltanto per non lasciare soli gli operatori che lavorano nelle trincee delle prime fila, a cui occorre assicurare strumenti e formazione adeguata, poiché la morte di una persona in custodia lascia inevitabilmente strascichi e pesi in tutta la comunità ristretta, fatta di detenuti e di lavoratori”. “L’età media dei detenuti in questi anni si è abbassata” aggiunge Roberto Gramola, volontario della Caritas diocesana “e sono sempre di più i giovani che commettono reati senza la consapevolezza che rischiano la detenzione: così entrano in carcere senza sapere cosa li attende e chi è così fragile e senza i fondamenti della vita ‘civile’ non regge la privazione della libertà. Sovraffollamento, strutture obsolete, mancanza cronica di personale medico, psicologi ed educatori fanno del carcere un luogo dove chi è sofferente nell’anima soccombe fino al gesto estremo di togliersi la vita. Occorre che al più presto che l’amministrazione penitenziaria affronti il vuoto educativo delle nostre galere che devono diventare istituti dove ci si prepara a tornare a vivere legalmente non a morire”. L’importanza del lavoro in carcere per il reinserimento nella società di Alessandro Cappelli linkiesta.it, 9 settembre 2022 Un percorso professionalizzante può essere la via migliore per combattere la recidiva e creare opportunità per una vita diversa. Molti progetti di aziende e cooperative coinvolgono le persone detenute, ma la quota maggiore di impieghi arriva ancora dalle amministrazioni penitenziarie. Il reinserimento in società è una priorità del nostro sistema carcerario. Un percorso fondamentale che passa, e che deve passare, anche dal lavoro e dalla formazione. Il lavoro è un’opportunità quasi indispensabile, che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento per la Trasformazione Digitale hanno voluto sottolineare firmando il memorandum d’intesa “Lavoro carcerario”, per un progetto con cui le grandi aziende delle Tlc e dell’Ict - Fastweb, Linkem, Tiscali, Sky, Telecom Italia, Vodafone, Windtre, Open Fiber, Sielte e Sirti - entrano in carcere e offrono un lavoro alle persone detenute. L’obiettivo dell’iniziativa è “proporre opportunità professionali, formare competenze specializzate e favorire il reinserimento sociale delle persone detenute”. Dopotutto, la premessa di questo accordo è uno dei valori espressi dalla Costituzione italiana: “L’importanza del lavoro è una componente decisiva e essenziale per garantire il volto costituzionale della pena che, ricordiamolo, secondo l’articolo 27 della Costituzione è sempre orientata alla rieducazione, risocializzazione e reinserimento di tutti i condannati”, ha detto la Ministra della Giustizia Marta Cartabia. Sono 2.326 le persone detenute ritenute idonee al lavoro all’esterno delle strutture penitenziarie in termini di requisiti personali e di legge. Circa un centinaio prenderà parte alla prima fase di sperimentazione e formazione che si terrà presso tre istituti selezionati. In generale, il lavoro in carcere rappresenta uno degli strumenti più validi: occupa il tempo della pena in maniera costruttiva, contribuisce a una formazione e a creare un’attitudine al lavoro. E nelle carceri in cui si lavora i problemi disciplinari sono meno frequenti. Ma non è tutto così semplice. “Nonostante gli incentivi sulle tasse e altre agevolazioni, non sempre le aziende guardano al carcere per cercare forza lavoro”, spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione. “Tutti sanno che ci sono enormi vantaggi, che è importantissimo portare il lavoro ai carcerati, ma è altrettanto vero che tutti gli imprenditori sanno che ci possono essere complicazioni legate al lavoro carcerario: se succede un incidente, tutto si ferma, magari anche per un periodo lungo. Per un imprenditore che guarda al profitto può essere difficile fare una scelta del genere”. Ecco perché, spiega Scandurra, “meglio tanti piccoli progetti che un singolo progetto grande, così magari c’è anche più ricambio. I lavori che hanno standard di professionalità alti, o comunque paragonabili alla vita fuori dal carcere, avranno inevitabilmente numeri piccoli, perché raramente le persone detenute raggiungono gli standard di formazione richiesti”. Un esempio virtuoso in questo senso è certamente “Riparto da me”: progetto, ideato dalla Fondazione Adecco per le Pari Opportunità, che ha come obiettivo l’inclusione lavorativa delle persone detenute di Bollate. “È una grande opportunità per vedersi finalmente come lavoratori e sentirsi pienamente partecipi della società”, ha spiegato a Linkiesta Roberto Bezzi, direttore dell’area educativa della Casa di Reclusione di Milano-Bollate. Giunto alla seconda edizione, dopo lo stop imposto dalla pandemia, nel 2022 il progetto ha coinvolto 30 persone, raddoppiando quindi i beneficiari rispetto alla prima edizione pilota. Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria il lavoro carcerario in Italia è cresciuto nel corso degli anni. L’occupazione lavorativa può svolgersi alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria così come alle dipendenze di soggetti esterni. Spesso, però, si tratta di lavoro limitato a periodi brevi, con orari giornalieri ridotti e dedicato al funzionamento interno alla struttura penitenziaria. Perché, come spiega Alessio Scandurra, “di solito l’employer è il carcere: l’Amministrazione Penitenziaria, a differenza dell’azienda privata, ragiona più con un’ottica di welfare e cerca di far arrivare i soldi in tasca di più persone, anche se magari sono pochi soldi e se è un tipo di lavoro non professionalizzante e non qualificante”. Nel 2021 l’osservatorio Antigone ha visitato 96 istituti in tutta Italia. Dai dati raccolti durante le visite risulta che, in media, lavorava per l’Amministrazione Penitenziaria il 33% delle persone detenute presenti, mentre lavorava per datori di lavoro esterni solo il 2,2%. E ai corsi di formazione professionale partecipa solo il 2,3%. L’Amministrazione Penitenziaria assicura lavoro a circa un terzo delle persone detenute, ma si tratta quasi sempre di lavoro poco qualificante, che non sempre fornisce competenze realmente spendibili fuori dalla struttura carceraria, nel mercato del lavoro.. “Già stare in cucina è diverso, perché è un tipo di occupazione che si presta a una rotazione meno frequente, dunque è meglio che chi acquisisce le competenze rimanga in cucina”, dice Scandurra. Poi ci sono lavori per l’Amministrazione Penitenziaria che hanno a che fare con lavorazioni industriali, e questi consentono un grado di specializzazione leggermente superiore. “Esempi molto validi si possono trovare nella struttura di Massa, dove si producono lenzuola e coperte per il carcere. A Sulmona, in cui si lavora alle calzature, e in Sardegna e sull’isola di Gorgona, in cui si svolgono lavorazioni articolate e professionalizzanti in ambito agricolo. Ma coinvolgono numeri contenuti di detenuti, meno di 2mila in tutto”, spiega Scandurra. Le aziende private hanno un’incidenza ancora minore statisticamente, ma non sono un’eccezione. E ci sono imprese che hanno obiettivi di solidarietà già nella loro mission. Un caso certamente riuscito è quello di Bee4, impresa sociale che svolge attività volte al reinserimento lavorativo, all’interno della Casa di Reclusione di Milano a Bollate, per offrire opportunità di riscatto a chi è in carcere. Si tratta di una cooperativa sociale che permette alle persone detenute di saldare mensilmente la quota di mantenimento in carcere, oltre alla possibilità di pagare spese processuali, multe e risarcimenti “e di provvedere al sostentamento proprio e della propria famiglia attraverso una politica di equa e commisurata remunerazione nel pieno rispetto di quanto previsto dal Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro applicato alle Cooperative sociali” - si legge nel loro statuto. Ma non è l’unico caso. La Cooperativa sociale Giotto, con sede a Padova, nata nel 1986 dall’iniziativa di un gruppo di laureati in scienze agrarie e forestali, offre attività che spaziano dalla progettazione, realizzazione e manutenzione del verde ai servizi ambientali, comprese le pulizie civili e industriali, dalle attività di contact center ai servizi amministrativi di back office, dalla gestione di parcheggi ai servizi museali e di portierato, fino all’attività di assemblaggio di prodotti di ogni tipo. L’avventura nel carcere Due Palazzi di Padova è iniziata nel 1991, con un corso di giardinaggio. In Italia, il tasso di recidiva tra coloro che hanno scontato una pena in carcere è del 68%. Ma le probabilità che si torni a delinquere si abbassano se, durante la detenzione, la persona detenuta ha avuto la possibilità di accedere a corsi di istruzione e formazione e se le viene offerta l’opportunità di lavorare. Per le persone detenute che non svolgono programmi di reinserimento, il tasso di recidiva sfiora il 90%, mentre tra coloro che vengono accolti in un contesto socio-lavorativo scende al 10%. 41 bis, colloqui dei minori senza vetri: la Consulta dovrà valutare l’innalzamento fino a 14 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 settembre 2022 Il magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato l’illegittimità a seguito del reclamo dell’avvocata Barbara Amicarella, proponendo di elevare l’età per i colloqui senza vetro, che rappresenta la soglia dell’imputabilità. La legge prevede che per i figli o nipoti dei detenuti al 41 bis, appena raggiungono i 12 anni di età, scatta l’obbligo dei colloqui con il vetro divisore. Ora sul tavolo della Corte costituzionale arriva la questione di illegittimità costituzionale sollevata a seguito del reclamo avanzato dall’avvocata Barbara Amicarella del foro de L’Aquila per quanto riguarda un detenuto al cosiddetto carcere duro presso il penitenziario di Terni. Parliamo dell’ordinanza del magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi di Spoleto dove, abbracciando la linea difensiva, si ritiene illegittimo non consentire i colloqui senza vetro anche ai minori sino agli anni 14, sollevando quindi la questione alla Corte Costituzionale. Il Dap, inseguito alla legge del 2009, ha disposto che colloqui senza vetro divisorio per minori fino a 12 anni - Ribadiamo che a 12 anni, i figli o nipoti dei detenuti al 41 bis diventano “maggiorenni”. Parliamo di una delle restrizioni che avvengono al carcere duro. Infatti, per i colloqui visivi con i figli minori, in seguito alla legge del 2009 la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) aveva disposto che “i colloqui del detenuto in regime di 41 bis che si svolgano esclusivamente con figli minori di anni 12 potranno avvenire senza vetro divisorio, in sale colloquio munite di impianti di videoregistrazione (con ovvia esclusione del sonoro) e che, nel caso di colloqui con più persone, il colloquio senza vetro divisorio sarà limitato ai soli figli minori di anni 12, e non ecceda della durata complessiva del colloquio”. A 12 anni, dunque, il figlio risulta “adulto” e il colloquio deve essere effettuato tramite vetro divisorio. Però prima della legge del 2009 che inasprì il regime speciale, la restrizione era diversa: c’era la possibilità di effettuare una parte del colloquio visivo con i figli minori di anni 16 senza il vetro divisorio, per tutelare l’esigenza di affettività dei bambini nei confronti del genitore detenuto e per evitare che riportassero conseguenze psicologiche negative dovute al prolungato distacco dalla figura genitoriale. Per il magistrato di sorveglianza ci deve essere una netta prevalenza dei diritti del minore sulle altre esigenze - Con l’ordinanza che solleva la questione di illegittimità costituzionale, non si ripropone l’innalzamento che vigeva prima del 2009, ma di elevare la soglia a 14 anni. Tale parametro viene ricavato da molteplici motivi, partendo principalmente dagli articoli 31 e 117 della Costituzione e quello della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, “per indirizzare - si legge nell’ordinanza - correttamente un giudizio di bilanciamento tra esigenze di sicurezza, massime per come detto, e diritti in gioco, una valutazione anche concernente il superiore interesse del fanciullo e dell’adolescente”. Viene sottolineato che tale principio fondamentale, come noto, deve orientare il legislatore prima, e l’interprete poi, nel segno di una netta prevalenza dei diritti del minore sulle altre esigenze confliggenti, che già varie volte ha indotto la Corte Costituzionale a intervenire, ad esempio in materia penitenziaria, per rimuovere automatismi che ne impedivano il pieno esplicarsi in funzione della speciale pericolosità sociale dei genitori dei minori coinvolti. L’ordinanza, quindi, osserva che il momento del colloquio visivo appare “come l’unico in cui il rapporto con il genitore può esplicarsi, se la persona e detenuta, e tanto più se lo è in regime differenziato, situazione nella quale nello stesso mese in cui si svolge un colloquio visivo non è poi possibile accedere neppure a momenti di dialogo telefonico, e comunque lo stesso tempo del colloquio visivo e limitato alia durata massima di un’ora”. Viene, dunque, sottolineato che in questo contesto, quando il minore e infante o ancora nelle fasi dello sviluppo, il rapporto fisico con il genitore “acquista un ruolo anche intuitivamente centrale, non sostituibile da un dialogo che può non essere neppure possibile, con l’ostacolo del vetro, o comunque rivelarsi inefficace a sviluppare un rapporto umano già tanto compromesso dalla condizione detentiva”. Nel contesto penale i 14 anni costituiscono anche la soglia dell’imputabilità - Ma perché innalzarlo a 14 anni? Tale età costituisce un parametro in plurime occasioni adoperato dal legislatore a segnare una linea di demarcazione. Ad esempio non è un caso che, nel contesto penale, quell’età costituisca la soglia dell’imputabilità. Così come, e non appare in questo ambito di secondaria importanza, che quell’età coincide con la conclusione del ciclo di scuola secondaria inferiore. “Appare dunque più immediatamente comprensibile anche per il minore che il passaggio alla scuola superiore, e a una certa nozione di adolescenza piena, coincida con quello in cui si è trattati come gli adulti e, perciò, non si possa più spendere del tempo senza vetro con il genitore o il nonno detenuti”, chiosa l’ordinanza. Ecco perché, il quattordicesimo anno di età - rispetto ai 12 anni - si tratta di una soglia più facilmente ostensibile, anche nel caso della compresenza di più figli o nipoti, come nel caso in questione sollevato. Questi due anni in più, dunque, da un lato rispondono a una ratio già esplicitata dal legislatore penitenziario con la disposizione introdotta nell’art. 18 della riforma (indicando che una particolare cura deve essere dedicata ai colloqui con i minori di anni quattordici), ma dall’altro sono particolarmente utili a rendere maggiormente comprensibile il passaggio, comunque traumatico, in cui cessano i colloqui visivi con contatto fisico, spingendo in avanti il momento in cui si impone al minore questo sforzo, davvero arduo, di accettazione della regola. “L’età più adulta - osserva il magistrato nell’ordinanza - può in tal modo rendere meno drammatico il rischio, che altrimenti si corre, che sia il minore stesso, non abbastanza maturo per comprendere pienamente le ragioni del divieto, a percepirsi come causa dell’esclusione subita, con effetto potenzialmente assai negativo e certamente contrario al suo interesse cui occorre invece dare sempre priorità”. Ricordiamo che il vetro divisorio è stato introdotto al 41 bis per evitare un passaggio di pizzini o qualsiasi altro oggetto volto a dare ordini all’esterno. Innalzare a 14 anni l’età in cui tale misura si impone, non vuol dire abdicare alle esigenze di sicurezza citate, ma - sottolinea l’ordinanza - “affidarne la tutela agli ulteriori e diversi strumenti della video e audio registrazione, nonché dell’ascolto, del colloquio, che può essere interrotto in qualsiasi momento, a fronte di eventuali elementi di criticità”. Per questo e altro ancora, il magistrato di sorveglianza dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41 bis comma 2 quater, lett. b), nella parte in cui dispone che il colloquio visivo mensile del detenuto in regime differenziato avvenga in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti, anche quando si svolga con i figli e i nipoti in linea retta minori di anni quattordici, per violazione degli articoli 3, 27, 31 e 117 della costituzione, in rapporto alla parte 3 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e alla parte 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Giustizia riparativa, nel decreto la riforma può essere migliorata di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 9 settembre 2022 Necessario un rigoroso e imprescindibile coordinamento con i fondamenti della Carta e del Codice, se non si vuole veder sacrificati i principi cardine dell’ordinamento. Lo ha dichiarato da subito, e scritto, da sempre, la ministra Cartabia, che uno dei punti della sua Riforma avrebbe riguardato il grande tema della giustizia riparativa, ritenuto dalla stessa come un vero “investimento culturale” che “può diventare un nuovo pilastro della giustizia, complementare rispetto alla giustizia penale ed anzi trasversale, in grado di entrare in qualunque meandro della giustizia penale”. Così è stato come ampiamente annotato dallo scrivente su queste pagine. È con questo spirito riformatore ed innovatore che lo scorso 4 agosto il Consiglio dei ministri, su proposta della ministra della Giustizia Marta Cartabia, ha approvato tra gli altri, in esame preliminare, uno schema di decreto legislativo attuativo della l. 27 settembre 2021, n. 134 (“Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”). Il decreto passerà ora all’esame delle competenti Commissioni parlamentari, ai cui pareri seguirà un nuovo esame e l’eventuale approvazione definitiva da parte del Consiglio dei ministri. Una trasformazione della finalità della pena che, ferma quella pubblicistica general e special preventiva e quella rieducativa, si apre a quella privatistica della natura riparativa dell’interesse soggettivo leso con la commissione del reato, sia quello della cd. vittima primaria che di quello o quelli delle vittime cd. secondarie. Intervento organico sulla disciplina della giustizia riparativa che, come noto, è da più tempo richiesto anche a livello sovranazionale. Si tratta, a parere di chi scrive, di principi e linee di fondo che segnano un grande passo in avanti dell’idea di giustizia penale che il Paese vuole dare al cittadino (non già solo o meramente punitivo- retributiva ma anche riparativo- restituiva di quell’ordine sociale che la commissione del delitto ha violato) che necessita, tuttavia, di un rigoroso e imprescindibile coordinamento con i principi costituzionali fondamentali e con le norme del Codice di rito per non veder sacrificati sull’altare della restorative justice principi cardine del nostro ordinamento quale, primo fra tutti, quello della presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva. In questi termini sembra muoversi lo schema di decreto attuativo sebbene, forse, alcune modifiche “di sistema” possano ancora essere compiute. Brevemente. Si prevede l’introduzione di un art. 129- bis c. p. p. il quale, andando oltre la fase d’elezione tipica di applicazione di forme di giustizia riparativa già presenti nell’ordinamento (quella dell’esecuzione) - motivo che, per inciso, ha condotto taluni illustri commentatori a paventare un rischio di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 27, comma II, Cost. consentirebbe alla Autorità Giudiziaria “in ogni stato e grado del procedimento” di poter “disporre anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima del reato al Centro per la giustizia riparativa di riferimento, per l’avvio di un programma di giustizia riparativa”. L’invio degli interessati presso tali Centri avverrebbe a seguito di una valutazione prognostica dell’A. G. circa il buon esito del tentativo: in particolare “qualora reputi che lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede e non comporti un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti”. Inoltre, si prevede altresì, che “nel corso delle indagini preliminari provvede il pubblico ministero con decreto motivato”. Al termine dello svolgimento del programma di giustizia riparativa, all’Autorità Giudiziaria perverrà la relazione trasmessa dal mediatore penale, organo di nuovo conio, terzo ma privo di carattere giurisdizionale il quale, come osservato nella Relazione allo schema di decreto, ancor più che equidistante o neutrale dovrà mostrarsi equiprossimo, cioè “in mezzo a”, accanto alle due Parti contrapposte: autore del delitto e vittima. La disciplina trova poi la sua completa collocazione all’interno dello schema di decreto (in attuazione dell’art. 18, comma 1, della legge delega) dagli artt. 42 a 67. Fondamentali, sul punto, l’art. 42 che, in ossequio alla ormai consolidata tecnica legislativa sovranazionale, compendia in un articolo la parte definitoria e l’art. 43 in materia di Principi generali della giustizia riparativa. Nell’attesa, dunque, di conoscere le evoluzioni che avrà lo schema di decreto vale la pena sottolineare che l’essere arrivati sino a questo punto, con l’accordo delle forze politiche, è sintomo positivo della convergenza che il tema in esame comporta. Naturalmente, molto si può ancora fare soprattutto rivedendo alcuni meccanismi potenzialmente distorsivi in fase di applicazione ma, come scrisse Kant, “se derubi un altro, derubi te stesso”. Da qui, dunque, l’innegabile importanza del traguardo raggiunto recentemente dall’Esecutivo (dimissionario) con l’approvazione di questo schema preliminare contenente - dopo lungo tempo - una organica disciplina in materia di giustizia riparativa. *Avvocato, Direttore Ispeg Riforma Cartabia, penalisti: sui decreti delegati timori confermati di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2022 “Il Parlamento reagisca ora, o altrimenti il nuovo Parlamento si impegni ad intervenire. I decreti attuativi riscrivono in modo sensibile la volontà del Parlamento consolidata nella legge delega”. “I decreti delegati snaturano alcuni degli aspetti migliori della riforma Cartabia, e ne aggravano le parti peggiori”. È l’allarme della Giunta dell’Unione camere penali italiane che in una lunga nota analizza il testo. “Ancora una volta - scrivono i penalisti - i decreti attuativi riscrivono in modo sensibile la volontà del Parlamento consolidata nella legge delega. Il Parlamento reagisca ora, o altrimenti il nuovo Parlamento si impegni ad intervenire”. Non va meglio nelle Commissione giustizia di Camera e Senato, che dovranno esprimere un parere entro i primi di ottobre (anche sul civile). Il M5s è orientato a votare contro il decreto legislativo di attuazione della delega penale, mentre in Senato il relatore al civile, Simone Pillon (Lega) ha riaperto il tema della mediazione nei processi in cui in famiglia ci sia stata violenza a danno della donna e dei minori, suscitando un contrasto con il Pd, con la senatrice Anna Rossomando, che era stata correlatrice alla legge delega. Tornando alla nota dei penalisti, l’Unione riconosce che la Riforma Cartabia ha rappresentato un “argine contro le peggiori spinte populiste e giustizialiste”, tuttavia, aggiunge, “la disciplina del processo che rischia di consegnarci questa Legislatura presenta, alla luce dei decreti delegati per come concepiti e redatti, precisi profili di incompatibilità costituzionale”. I penalisti italiani segnalano dunque alla Commissione Giustizia della Camera e a tutte le forze parlamentari e politiche “la necessità di richiamare alla attenzione del Governo almeno le più rilevanti di queste criticità perché si possa proficuamente intervenire e risolverle ancora in questa fase di interlocuzione parlamentare”. Di seguito le principali criticità nella nota delle Camere penali. Videoregistrazione o fonoregistrazione degli atti di indagine e delle dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti - La delega Cartabia aveva recepito tale indicazione ma con l’art 362 comma 1 quater c.p.p., introdotto dal decreto attuativo, l’obbligo diviene una facoltà nella esclusiva disponibilità della persona chiamata a rendere dichiarazioni. Non solo: l’esercizio di tale facoltà è subordinato alla disponibilità degli strumenti di riproduzione. Classico intervento destinato a sterilizzare il principio. Processo a distanza - La stessa relazione illustrativa che accompagna i decreti afferma come si sia inteso estendere la portata della partecipazione a distanza facendone oggetto di una norma di carattere generale. L’introdotto art. 133 bis c.p.p. peraltro, non contiene alcun riferimento al consenso delle parti determinando il presupposto per future ambiguità interpretative. L’avvocatura penale ha sempre dichiarato la propria contrarietà a che i processi potessero svolgersi a distanza. Mutamento del giudice e rinnovazione dell’assunzione della prova - In sede di decreti attuativi non si è inteso, sia pure nel rispetto della delega, di specificare i casi nei quali sia possibile derogare alla regola per la quale il nuovo giudice deve rinnovare l’assunzione della prova. Corollario del principio di immediatezza è che la persona sottoposta a processo possa interrogare e far interrogare i testimoni dinanzi al giudice della decisone. Giustizia riparativa - Il punto di maggior criticità si raggiunge con l’inserimento nel codice di rito del nuovo art. 129 bis c.p.p.. Conforme alla delega e in linea con una concezione non strumentale dell’istituto sarebbe stata la previsione che riservasse l’iniziativa dell’accesso al percorso di giustizia riparativa al solo imputato. La disciplina di attuazione prevede invece che la proposta, in alcuni casi un vero e proprio ordine, possa provenire anche dal giudice e dal P.M. con le evidenti conseguenze sulla genuinità del consenso. Impugnazioni - Lo schema di decreto dà pratica attuazione alle limitazioni all’accesso all’appello disciplinando nuovi adempimenti formali e sostanziali per la proposizione e il deposito dell’atto di impugnazione, sebbene l’ambizione di introdurre con questa riforma il principio della “critica vincolata” come condizione di ammissibilità sia stata sventata grazie al decisivo contributo critico e politico dei penalisti italiani. La dilatazione delle ipotesi di inammissibilità è un’autentica ossessione della magistratura italiana, in realtà già realizzata con la riforma Orlando (inammissibilità per a-specificità dei motivi). Ermini: “La carenza di magistrati è emergenza nazionale” di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 settembre 2022 Il vicepresidente del Csm David Ermini si dice “preoccupatissimo” per la crisi che sta investendo i principali tribunali italiani, dovuta alla carenza di toghe: “L’emergenza durerà almeno fino al 2024, serve impegno della politica”. “Se sono preoccupato? No guardi, io sono preoccupatissimo. C’è una grave carenza di magistrati che investe tutto il sistema giudiziario e che durerà almeno fino al 2024, quando entreranno in ruolo i nuovi giudici reclutati tramite concorso. Fino ad allora, la giustizia italiana vivrà una fase di emergenza”. Intervistato dal Foglio, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, non nasconde i timori per la crisi che sta investendo i principali tribunali italiani, raccontata su queste pagine nei giorni scorsi: da Roma a Genova, la carenza di toghe sta costringendo i tribunali a rimandare al 2024-2025 i processi per reati minori, ma anche a sospendere le udienze per i reati più gravi. E le Corti d’appello non sembrano in grado di rispettare i termini introdotti con la riforma dell’improcedibilità. “L’emergenza nazionale già c’è - dichiara Ermini - perché se la pianta organica prevede oltre 10.500 magistrati ma ce ne sono circa 8.900 che operano sul campo è evidente che l’emergenza già esiste. Ci sono 1.600 posti scoperti. Alle scoperture che potremmo definire ‘formali’ vanno poi aggiunte quelle effettive: giudici in maternità o in malattia o impegnati in altri settori”. La situazione, insomma, è disastrosa. Colpa degli scarsi investimenti per le assunzioni degli ultimi anni, anche se a dare il colpo finale è stata la pandemia, che ha fatto rallentare pesantemente le procedure concorsuali già previste. “Il problema è che fra pensionamenti e dimissioni, il numero dei magistrati reclutati non è mai stato sufficiente. La ‘coperta’ è sempre stata corta”, spiega Ermini. “Poi c’è il problema della lentezza, obiettivamente inaccettabile, delle selezioni. Tra il bando e la presa delle funzioni del magistrato ci vogliono quattro anni”. Dopo essere stati reclutati, infatti, i magistrati devono svolgere un tirocinio di 18 mesi prima di prendere funzione. “La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha sbloccato un concorso da 310 posti fermo a causa del Covid, anche se i candidati sono poi stati falcidiati nelle prove scritte: soltanto 220 candidati sono risultati idonei e le prove orali sono ancora in corso. I nuovi magistrati entreranno quindi in ruolo soltanto nel 2024. Il ministero - prosegue Ermini - ha poi bandito un concorso da 500 posti, di cui è ancora in corso la correzione degli scritti, e nei giorni scorsi ha annunciato un nuovo concorso da 400 posti entro la fine di settembre. Ma quest’ultimo concorso produrrà i suoi risultati nel 2026”. Com’è possibile andare avanti con un sistema del genere? “Bisogna accorciare i tempi dei concorsi”, replica Ermini, sospirando. “Il primo passo l’ha fatto Cartabia, introducendo la possibilità di accedere al concorso in magistratura con la sola laurea in giurisprudenza. Occorrerebbe poi che le correzioni delle prove siano più rapide, così come i tirocini. E’ giusto che le persone siano preparate, ma si possono trovare soluzioni diverse, ad esempio realizzando una formazione mirata già alla fine dell’università per chi sceglie di fare il concorso da magistrato”. Ermini si mostra preoccupato anche per la situazione delle Corti d’appello, alla luce della riforma dell’improcedibilità che ha stabilito termini precisi per la trattazione dei processi. L’emergenza, tuttavia, sembra interessare poco i partiti: “La giustizia interessa soltanto a chi in un modo o nell’altro ci finisce dentro, ma è anche uno dei luoghi in cui si misura la civiltà di un popolo. Credo quindi che l’impegno della politica sia indispensabile”, conclude Ermini. “Giustizia? Se ne parla poco e solo nell’ottica di punire i magistrati” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 settembre 2022 Ieri dalle colonne di Quotidiano Nazionale la responsabile giustizia della Lega, la senatrice Giulia Bongiorno, data anche come possibile nuovo ministro a via Arenula, ha ribadito concetti molto forti in tema di giustizia. Ne parliamo con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia che ci dice: “Io mi sarei aspettato che quanti si preparano a governare si ponessero il problema del miglioramento della risposta di giustizia ai cittadini e non il problema del governo dei magistrati”. Presidente Santalucia, la senatrice Bongiorno ha dichiarato: “Csm da demolire, puntellare non serve”. Che ne pensa? Il Consiglio superiore della magistratura è un organo di garanzia costituzionale. Parlare di demolizione di un organo di garanzia, a mio parere, è il segno di un approccio sbagliato. Ma lei crede che il nuovo Csm sarà quello della rigenerazione etica richiesta dal Presidente Mattarella? Credo che una riflessione collettiva su quello che è venuto fuori dal cosiddetto scandalo Palamara è iniziata da tempo. Non abbiamo bisogno di attendere il nuovo Consiglio per avere una rigenerazione dei comportamenti e dei costumi. Questa è stata avviata già da tempo; lo scandalo ha scosso la magistratura nel suo insieme e non è passato sotto silenzio. Si lavora su più piani all’accertamento delle responsabilità, sia disciplinari sia all’interno dell’Anm, come si evince dai vari Comitati direttivi centrali. Quindi mi sembra riduttivo affidare al nuovo Consiglio l’inizio della rigenerazione etica. Sono peraltro convinto che il nuovo Csm proseguirà con l’attenzione dovuta alla correttezza dei comportamenti. Bongiorno ripropone anche con forza il tema del sorteggio... Mi pare che il piano delle riforme si stia spostando dalla legislazione ordinaria a quella costituzionale. Non posso che dissentire da un programma che vuol riformare la Costituzione per privare i magistrati del diritto di elettorato passivo e attivo. Bisogna arricchire le garanzie e non comprimerle. Un punto su cui tutto il centrodestra è d’accordo, e anche il Terzo Polo, è la separazione delle carriere con due Csm distinti. Teme che questa volta sia quella giusta per la riforma costituzionale? Ahimè, la separazione di fatto è già avvenuta con la riforma Cartabia. Ora si vuole completare il quadro di separazione sul piano costituzionale. Faccio notare che nel prossimo Consiglio i pubblici ministeri saranno cinque su trenta componenti, un sesto del totale. Con le riforme costituzionali che si paventano - e quindi con un Csm dei pm - questi ultimi nel loro Consiglio, che deciderà sulle loro carriere e sulle loro promozioni, saranno in maggioranza assoluta. Non credo che questo sia un modo oculato e sapiente di gestire la magistratura requirente, allontanandola dalla giurisdizione e facendola diventare maggioranza nel governo delle loro carriere con un aumento enorme dei loro poteri. Ciò imporrà, a differenza di quello che sostengono i riformatori o di coloro che si presentano come tali, un controllo su questo piccolo numero di magistrati che detiene il potere dell’azione penale. In conclusione, perseguire questa strada è sbagliato perché alla fine ci condurrà ad un controllo politico sull’azione penale. Come giudica in generale questa campagna elettorale sui temi della giustizia? Ne sento parlare poco. E quello che si sente non va nella direzione che almeno io mi attendevo. Convengo che le riforme fatte da ultimo sono timide ma lo sono sul piano del miglioramento dell’efficienza della macchina giudiziaria. Gli obiettivi del Pnrr sono la riduzione del 40% e del 25% dell’arretrato del civile e del penale: la timidezza è nei meccanismi che ci dovrebbero consentire di raggiungere questi obiettivi, non nelle riforme che riguardano i magistrati. Io mi sarei aspettato che quanti si preparano a governare si ponessero il problema del miglioramento della risposta di giustizia ai cittadini e non il problema del governo dei magistrati. Mi sembra un modo asfittico di guardare alla giurisdizione, come se tutto si riducesse alle carriere dei magistrati e al Csm. L’attenzione andrebbe concentrata su come recuperare efficienza. La magistratura è quindi preoccupata per una possibile vittoria del centrodestra? No, la magistratura non ha questo tipo di letture della campagna elettorale. Noi registriamo quello che viene detto da qualunque forza politica. Se mi devo misurare con quanto lei mi sta sottoponendo, le faccio una valutazione di merito, non di schieramento. Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale ha lanciato un appello alle forze politiche: parlate di esecuzione penale. Che ne pensa? Sono d’accordo. Continua ad essere una perenne emergenza del Paese: anche per questo nel prossimo congresso dell’Anm che si terrà a metà ottobre a Roma ci sarà una sessione dedicata al carcere. Quale dovrebbe essere il primo atto in tema di giustizia del nuovo Parlamento e del nuovo Governo? Come le dicevo, certamente il primo obiettivo è verificare se quelle promesse fatte con il Pnrr potranno essere soddisfatte. La riduzione dei carichi: questa è l’emergenza della giustizia, sia per i cittadini sia per gli obblighi che abbiamo con l’Unione Europea. Nino Di Matteo contro la riforma Cartabia: “Pericolosa, mette il bavaglio ai magistrati” di Edoardo Bianchi La Repubblica, 9 settembre 2022 “Oggi, con la vigenza della legge Cartabia, le esternazioni di Falcone e Borsellino sarebbero sottoposte a provvedimento disciplinare. Con questa riforma, tutti potranno intervenire nel dibattito pubblico, tranne chi conosce in maniera approfondita i fatti processuali”. Con queste parole il consigliere togato del Consiglio Superiore della Magistratura, Nino Di Matteo, durante la presentazione del libro di Vittorio Manes ‘Giustizia mediatica’ tenutasi a Milano all’interno di Palazzo di Giustizia, si è soffermato sulla riforma del ministro della Giustizia definita “retrograda e pericolosa”. “Sono convinto che la tutela della presunzione di innocenza sia sacra, ma non si attua mettendo il bavaglio ai magistrati” ha concluso il magistrato Di Matteo. Via D’Amelio, risarcimento per il carrozziere accusato ingiustamente dal falso pentito Scarantino di Salvo Palazzolo La Repubblica, 9 settembre 2022 Un milione e mezzo di euro agli eredi. La Corte d’appello di Catania accoglie l’istanza dei familiari di Giuseppe Orofino. L’avvocato Scozzola: “Lo Stato dovrebbe rivalersi sui magistrati che sbagliarono”. Il “più grande depistaggio della storia della giustizia italiana”, com’è stato chiamato, costa caro al ministero dell’Economia e delle Finanze: un milione 404.925,25 euro dovrà essere pagato a sette eredi di Giuseppe Orofino, il carrozziere palermitano che nel 1996 era stato condannato all’ergastolo per la strage Borsellino. Si tratta del risarcimento più alto fin qui stabilito, Orofino era incensurato a differenza degli altri indagati che furono ingiustamente accusati. Ad accusare Orofino, il falso pentito Vincenzo Scarantino, il balordo del quartiere Guadagna trasformato in provetto Buscetta: restò in carcere quasi sette anni. Nel 2008, il boss Gaspare Spatuzza ha poi smascherato l’impostore, ma restano tanti misteri: chi orientò per davvero Scarantino? Sotto accusa è finito l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, ma è morto nel 2002. Sotto processo sono finiti tre componenti del gruppo d’indagine sulle stragi Falcone e Borsellino: a luglio, due poliziotti sono stati salvati dalla prescrizione, uno è stato assolto. Dice l’avvocato Giuseppe Scozzola, legale della famiglia Orofino: “Lo Stato, chiamato a pagare il risarcimento, dovrebbe rifarsi sui magistrati di Caltanissetta che gestirono il falso pentito e poi emisero le condanne. Il collaboratore Cancemi aveva detto chiaramente in un drammatico confronto che Scarantino non era affatto un uomo d’onore, non parlava neanche come un mafioso”. Il Papa e i suicidi in carcere. “La pietà non serve a niente” di Francesco Merlo La Repubblica, 9 settembre 2022 Caro Merlo, non so dirlo bene, ma mi ha fatto arrabbiare il Papa quando ha detto: “nelle carceri tante persone si tolgono la vita, a volte anche giovani, e l’amore di una madre può preservare da questo pericolo. La Madonna consoli tutte le madri afflitte per la sofferenza dei figli”. Le mamme? La Madonna? Ma la smetta, Santità. Ho pensato a Rita Bernardini che almeno è in sciopero della fame dal 16 agosto per svegliare non le mamme, ma il governo. Quanti dei 59 suicidi sarebbero vivi se avessero avuto più spazio, un telefono, un computer, un lavoro esterno, un’attenzione per le loro fragilità…? Mi è tornata in mente l’ultima pagina di Camus che non rileggevo da tantissimi anni e chissà cosa dicono le mamme di quel “disturbato” che si è impiccato con i calzoni e di quella ragazza che ha inalato il gas del fornellino. Si sono inflitti da soli l’esecuzione, boia di sé stessi, privati persino dell’esibizione del risentimento, di quel gusto aspro che, con l’ultimo respiro, difende e celebra la vita. Nessuno ha il diritto di provare pietà per loro. “Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta ad augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio”. I condannati italiani al suicidio non possono permettersi parole così. Possono solo sottrarsi, scomparire, e nient’altro. Lucia Marozzi (ma non è il mio nome vero) Non provo nemmeno a rabbonirla, cara signora. Dicono che il silenzio è la maniera migliore di rispettare i morti. Ma la verità è che, come le vittime del Covid, i suicidi delle carceri italiane non hanno diritto al “coccodrillo” né alla colonna di amabile prosa funeraria che i quotidiani consacrano agli scomparsi, ma solo alla pietà della prediche papali che lei respinge, forse con troppa rabbia, e alle astrazioni dei sociologi liberali che aggiornano i loro dossier (totale morti 110, nel 2021: 148, nel 2020: 154; e poi gli istogrammi per età e sesso). Tengono sotto sorveglianza il fenomeno come si tiene sotto sorveglianza il pentolino che scalda al fuoco e intanto il sovraffollamento delle carceri con annessi suicidi è diventato un ozioso genere giornalistico che strizza l’occhio ai radicali e al quale ogni tanto offriamo tutti un contributo come fra gli aztechi si facevano i riti propiziatori. È evidente che le carceri sono uno scandalo politico e architettonico che non riguarda i sentimenti e che nessuno vuole davvero risolvere. Per il famoso Pnrr, tra tante idee buone, sono stati presentati progetti mattoidi, atolli esagonali, isole artificiali, idrovie e idroscafi a iperguida turbolaser, e strade, strade, strade. L’Italia ha bisogno di una grande riforma carceraria che ovviamente cominci con l’edilizia, la manutenzione, la distruzione e la ricostruzione, gli ampliamenti, le forme attraverso le quali passa la sostanza. C’è un modello che funziona: Bollate. Studiamolo, perfezioniamolo, moltiplichiamolo: dieci, cento, mille Bollate. Nessuno riuscirà mai ad abolire i suicidi né in carcere né fuori, ma forse un giorno l’Italia, con il suo Papa, si riprenderà il diritto di piangerli con dignità. Caro dott. Capece, in carcere non ci sono buoni contro cattivi di Maria Brucale* Il Riformista, 9 settembre 2022 Caro dottor Capece, il carcere è un mondo difficile, di straordinaria complessità, quella che connota le innumerevoli sfaccettature dell’essere umano. Non è un luogo all’interno del quale si contrappongono buoni e cattivi, diritti tutelabili e diritti da calpestare. È, soprattutto, un luogo che appartiene alle istituzioni e le rappresenta, un pezzo dell’ingranaggio chiamato Stato, all’interno del quale le esigenze di sicurezza dei cittadini, tutti, anche quelli reclusi, devono essere curate affinché la società sia più ordinata, sicura. È, ancora, un luogo dove le persone che hanno commesso reati espiano una pena che deve essere utile a reintrodurle produttivamente nel consesso civile. È, infine, un luogo dove talvolta, non così raramente, sono private della libertà in attesa di giudizio persone che verranno assolte da tutte le accuse, che patiranno un’ingiusta interruzione di vita e subiranno le tragiche conseguenze del disdoro e della mutilazione di relazioni connesse alla reclusione. È, quindi, necessario che ci si doti di risorse umane e materiali dentro e fuori le carceri che consentano a ogni persona che voglia riabilitarsi di poterlo fare senza subire la violenza di una punizione fine a sé stessa che sottrae dignità, priva di autonomia di pensiero e azione, lede il decoro del vivere, annienta gli affetti, nega la speranza. Non possiamo entrare nel cuore e nella mente di chi ha sentito che la propria esistenza non avesse più nulla da offrire, di chi ha pensato che la morte fosse la sola occasione di sollievo per sé e per i propri cari. Sappiamo però che il disinteresse della collettività per la persona che finisce nel circuito stigmatizzante del carcere determina una percezione di abbandono che può risultare insuperabile. Sappiamo che il carcere impone un marchio di infamia indelebile che scalfisce la credibilità personale e pregiudica il ritorno al mondo del lavoro. Che in carcere manca tutto quello che dovrebbe esserci, che la comunità penitenziaria tutta vive in disperante disagio. Tutti - agenti, educatori, personale sanitario e amministrativo - patiscono il disinteresse dello Stato e una carenza endemica di risorse. Sono assurde, insensate, nocive le contrapposizioni. Ci dice, dott. Capece, che gli agenti di polizia penitenziaria “nel solo primo semestre 2022 hanno sventato 814 tentativi di suicidio da parte di altrettanti detenuti”. Certo, a loro va tutta la nostra gratitudine perché esercitano la professione in condizioni lavorative estremamente penalizzanti, ma il dato su cui tutti, insieme, dobbiamo soffermarci è che 814 persone fossero arrivate a decidere che per loro ogni speranza fosse inutile, morta. La sicurezza sociale passa per il benessere delle persone che stanno in carcere, tutte, quelle che espiano la loro pena, quelle che lo Stato pone quali custodi e garanti che quella pena sia orientata ai suoi scopi costituzionali. Il benessere del carcere inteso come comunità e come parte integrante dello Stato è possibile solo se ogni suo anello è coeso saldamente a tutti gli altri. L’azione politica nonviolenta di Rita Bernardini, Presidente di Nessuno tocchi Caino, di quanti di noi la sostengono con il digiuno a staffetta è tesa proprio al recupero della tenuta sociale, è rivolta alle Istituzioni perché attraverso segnali di ristoro dimostrino in concreto alla comunità penitenziaria tutta l’interesse dello Stato e il proposito di includere finalmente quella comunità negletta tra gli obiettivi politici. È chiaro che senza riforme strutturali e senza aiuti adeguati il problema non può essere risolto. Se amnistia e indulto non sono obiettivi perseguibili nell’immediato, va detto però che le situazioni di emergenza a volte richiedono provvedimenti di urgenza tesi a ridimensionare la portata di fenomeni drammatici, ingovernabili e insopportabili in uno Stato di Diritto. Bisognerebbe anche guardare alla realtà e vedere, ad esempio, che i tribunali non sono in grado di gestire il carico processuale che hanno e rinviano a tempi lontanissimi la trattazione dei processi relativi ai reati più gravi comportando di fatto la malagestio della giustizia, la disattenzione alle attese di chi l’ha invocata, l’impossibilità di pervenire a pene giuste perché inflitte quando hanno ancora una utilità sociale, quando ancora la persona che ha commesso il reato può percepire il senso dell’impeto punitivo dello Stato. Certezza della pena è concetto completamente travisato. Il senso di questa espressione è una pena mite, coerente alla gravità del reato, dinamica, non fissa, che assecondi il fine di un rientro nella vita libera. Nessuno tocchi Caino vuole oggi con il digiuno di Rita e da sempre con la sua azione politica unicamente che sia rispettata la legge nelle carceri e che ogni diritto umano trovi nello Stato il giusto ristoro e la giusta attenzione. *Avvocato Campania. Ciambriello: “La politica ci aiuti nella gestione delle carceri, siamo in emergenza” di Valerio Esca Il Mattino, 9 settembre 2022 Celle senza un bagno, un educatore ogni 231 detenuti, 69 tentativi di suicidi e 5 suicidi, 12 milioni di euro fermi da cinque anni e destinati alla ristrutturazione di 4-5 padiglioni. Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania ha rivolto un appello a deputati, senatori, canditati, consiglieri regionali ad entrare nel carcere di Poggioreale per riportare al centro del dibattito politico l’emergenza carceri. In diversi, oggi, hanno accettato, dal Pd al M5S a Italexit. “Hanno risposto ad un appello che stiamo facendo come garanti in tutta Italia per mettere nell’agenda politica il tema delle carceri e della giustizia - ha detto all’uscita Ciambriello, accompagnato anche dai garante di Napoli, Pietro Ioia, e di Caserta Emanuela Belcuore - Sono rimasti sconvolti delle celle fatiscenti senza bagno, senza niente, dei ritardi, ammessi dallo stesso direttore, sui 12 milioni che ci sono e che dovrebbero servire per ristrutturare almeno quattro padiglioni, del fatto che qui dentro c’è un educatore ogni 231 detenuti, hanno ascoltato storie rispetto a magistrati che non rispondono a lettere da sei mesi”. C’è una responsabilità collettiva sul carcere. Abbiamo incontrato persone con problemi psichiatrici, qui ci sono due psichiatri, c’è una legge regionale che dice ogni 500, ce ne dovrebbero essere cinque. Soltanto l’anno scorso in regione Campania 69 tentativi di suicidio e 5 suicidati”. Della delegazione hanno fatto parte Paola Nugnes, coordinatrice della componente ManifestA al Senato; Raffaele Bruno M5S, Paolo Siani del Pd Doriana Sarli e Cinzia Leone di Insieme per il futuro, i consiglieri regionali Diego Venanzoni e Loredana Raia. Presenti anche all’esterno del carcere Dario Vassallo per M5S e Francesco Amodeo, Italexit. Al presidio presenti anche rappresentanti di associazioni che hanno urlato ‘basta suicidì e hanno chiesto, tra l’altro, la riapertura di reparti per la cura del cancro. Sassari. Detenuto morto a Bancali: indagato il compagno di cella di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 9 settembre 2022 Secondo la Procura di Sassari gli avrebbe ceduto una dose letale. C’è una svolta inattesa nell’inchiesta della Procura della Repubblica di Sassari sulla morte di Salvatore Usai, il detenuto sassarese di 42 anni trovato senza vita martedì scorso all’interno della sua cella nel carcere sassarese di Bancali. Quello che era stato inizialmente classificato come “infarto” è in realtà qualcosa di ben più grave. Usai, che stava scontando una condanna a 14 anni per l’omicidio della zia, commesso a Sassari a gennaio di sei anni fa, è morto a causa di un’overdose di eroina, o forse un mix micidiale di diverse sostanze stupefacenti. A cedergli la dose letale sarebbe stato il suo compagno di cella, Omar Ndiaye un detenuto senegalese di 44 anni, appena entrato nell’istituto di pena sassarese dopo un arresto proprio per spaccio di droga. Dopo gli accertamenti degli investigatori della squadra mobile della questura di Sassari disposti dalla Procura all’interno del carcere e una prima ricognizione esterna del cadavere, il detenuto straniero è stato iscritto nel registro degli indagati dal sostituto procuratore Ermanno Cattaneo, titolare dell’inchiesta. Il reato che gli viene contestato è “morte come conseguenza di altro reato”, che in questo caso sarebbe la cessione della droga alla vittima. Ieri mattina il magistrato ha affidato al medico legale Salvatore Lorenzoni l’incarico di effettuare l’esame autoptico sulla salma di Usai, trasferita dopo il decesso nell’istituto di patologia forense dell’università. Gli esiti degli accertamenti medico legali eseguiti ieri e degli esami tossicologici si conosceranno solo tra sessanta giorni, ma dell’esame sarebbe già emersa la presenza di droga nel corpo della vittima. Nella notte tra lunedì e martedì Tore Usai aveva avuto problemi con un compagno di cella e gli agenti della polizia penitenziaria per evitare guai ulteriori lo avevano trasferito nella cella numero 32 con Omar Ndiaye, appena arrivato a Bancali. L’ipotesi della Procura della Repubblica è che il detenuto senegalese sia riuscito in qualche modo a eludere i controlli e introdurre nel carcere della sostanza stupefacente e che lunedì notte ne abbia ceduto una dose a Tore Usai. Su disposizione della Procura la cella in cui è avvenuta la tragedia è stata perquisita e poi messa sotto sequestro. La notizia della morte del detenuto tre giorni fa aveva fatto salire ulteriormente, tra gli agenti e il personale civile, il livello di preoccupazione nella struttura penitenziaria di Bancali, dove mancano ancora il comandante e il direttore titolari e gli incarichi vengono coperti da personale in missione. Il fatto che la morte di Tore Usai non sarebbe avvenuta per cause naturali, secondo quanto risulta dai primi accertamenti, riporta d’attualità la sicurezza all’interno dell’istituto di pena sassarese. Solo un mese e mezzo fa infatti c’era stato il decesso di un altro detenuto, morto a Bancali a causa dell’aggressione da parte di un compagno di cella. Nella notte fra martedì 25 e mercoledì 26 luglio Giuseppe Pisano, appena arrivato in carcere, aveva colpito alla testa con uno sgabello il sassarese Graziano Piana, uccidendolo. Brescia. “Stipati senza un futuro”, la protesta dei detenuti di Federica Pacella Il Giorno, 9 settembre 2022 La battitura sulle sbarre per richiamare l’attenzione sui problemi del carcere. Quattro educatori per 400 detenuti, di cui 306 al Nerio Fischione e un centinaio a Verziano, è un numero che può rendere l’idea di come si sia lontani dal fare del carcere il luogo della rieducazione e del reinserimento in società. Ma al Nerio Fischione si è ormai anche oltre: con una presenza doppia di detenuti rispetto alla capienza regolamentare (189), è difficile assicurare anche solo una vita dignitosa. L’ultimo suicidio, risalente a poco meno di un mese fa, e un’estate bollente, con i detenuti costretti a dormire per terra su lenzuola bagnate per resistere all’afa, hanno esasperato una situazione che è al limite da anni. Ieri pomeriggio alle 16, poi di nuovo alle 21, una parte dei detenuti dell’ala sud ha urlato il proprio disagio mettendo in atto la “battitura” contro le sbarre, per richiamare l’attenzione sulla questione sovraffollamento. Lo faranno per due o tre giorni, sempre pacificamente. Nei giorni scorsi era stato annunciato il respingimento del cibo del carcere, oltre alla battitura 3 volte al giorno, ma il confronto con la garante dei detenuti, Luisa Ravagnani, ha portato a optare per una protesta responsabile per non sprecare il cibo ed evitare che la manifestazione, pur pacifica, potesse sfociare in violenza: la maggior parte dei detenuti si è dissociata dalla battitura fatta nell’ala sud. “Non parliamo di numeri, ma di persone - ha spiegato Ravagnani, che insieme al presidente del consiglio comunale, Roberto Cammarata, si è fatta portavoce del disagio che i detenuti hanno espresso in una lunga lettera-. Il reato è il passato, il futuro è il reinserimento, come previsto dalla Costituzione. Il carcere è l’autobus che dovrebbe condurre verso il futuro, ma oggi ha le gomme bucate. Non si sta chiedendo indulto o amnistia, ma di dare voce a queste persone. Se lo Stato mette le persone in carcere, deve poi poterle gestire. Altrimenti si facciano le liste d’attesa, come nel Nord Europa, per cui entra una persona quando esce un’altra”. La situazione mette a dura prova anche il personale, che resta sotto organico. “La pena non può essere umana o degradante - aggiunge Cammarata. Si parla da anni di nuovo carcere per Brescia, ma sembra essere un perverso gioco dell’oca in cui si torna sempre al punto di partenza”. La solidarietà privata non manca, anche il Comune di Brescia sta facendo la sua parte, destinando alloggi per chi esce dal carcere, ma il problema è a monte, nei numeri troppo alti. Napoli. Parlamentari nel carcere di Poggioreale: “Condizioni disumane” di Massimo Romano napolitoday.it, 9 settembre 2022 Hanno visitato il penitenziario insieme ai Garanti dei detenuti. Protesta dei parenti: “Basta morti dietro le sbarre”. Ci sono volute le elezioni e la campagna elettorale per convincere un drappello di parlamentari e candidati a entrare nell’inferno del carcere di Poggioreale. I garanti dei detenuti di Campania e Napoli Samuele Ciambriello e Pietro Ioia hanno accompagnato nel tour del degrado Paola Nugnes, coordinatrice della componente ManifestA al Senato, Raffaele Bruno (M5S), Paolo Siani (Pd), Doriana Sarli e Cinzia Leone (Insieme per il futuro) e i consiglieri regionali Diego Venanzoni e Loredana Raia. Ad accogliere gli esponenti politici associazioni e parenti dei detenuti che hanno urlato “Basta morti in carcere”. Da anni si parla di riforma delle carceri e da altrettanti anni si discute di abbattere il penitenziario di Poggioreale per realizzarne uno nuovo. Parole che nessun ministro della Giustizia, fino a oggi, ha tramutato in fatti. “Hanno visto con i loro occhi come si vive a Poggioreale - ha affermato Ciambriello - Hanno visto celle fatiscenti senza bagni, il sovraffollamento, il fatto che ci sia un solo educatore ogni 231 detenuti. Senza contare i 12 milioni di euro destinati alla ristrutturazione del carcere, che sono fermi da anni”. La senatrice Paola Nugnes, eletta nel Movimento 5 Stelle e transitata in Leu, Sinistra italiana, Rifondazione comunista e oggi esponente di ManifestA, ha fatto appello alla Costituzione, ricordando che “queste non devono essere strutture punitive ma di recupero, mentre qui dentro si può solo peggiorare”. Le colpe sono di tutti, ribadisce Pietro Ioia, garante di Napoli “...le condizioni in cui si lasciano queste persone sono disumane”. C’è anche chi storce un po’ il naso per questa iniziativa: “Fa rabbia che ci siano volute le elezioni per farli venire qui - commenta don Franco Esposito, il parroco del carcere - Poggioreale è l’emblema del fallimento italiano, dove un detenuto costa 200 euro al giorno allo Stato e viene abbandonato a se stesso, senza alcuna attività da svolgere”. Ma a colpire sono le storie che raccontano i parenti di chi è dietro le sbarre: “Mio figlio è tossicodipendente - spiega Rosa - È qui da 11 mesi. Abbiamo trovato una comunità che potrebbe accoglierlo e curarlo, ma la nostra istanza è stata rigettata. Certamente a Poggioreale non potrà guarire, potrà solo peggiorare. È dimagrito 7 chili”. E’ ancora don Franco a ricordare che ci sono centinaia di persone in galera in attesa di giudizio. “Restano in attesa mesi, a volte anni. Molte di loro saranno proclamate innocenti, ma avranno la vita rovinata dal tempo trascorso qui e lo Stato avrà speso migliaia di euro di soldi pubblici per nulla”. Palermo. Sciopero della fame a staffetta per chiedere una carcerazione più umana di Daniele Ditta palermotoday.it, 9 settembre 2022 L’iniziativa radicale e non violenta, partita il 16 agosto scorso dalla presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini per fermare l’ondata di suicidi nei penitenziari, in Sicilia ha mobilitato alcuni esponenti politici, fra i quali la responsabile per i Diritti umani della Dc Eleonora Gazziano Sciopero della fame a staffetta per chiedere “una carcerazione più umana” e “la salvaguardia dei diritti dei detenuti”. L’iniziativa radicale e non violenta, partita il 16 agosto scorso dalla presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, per fermare l’ondata di suicidi che si sta verificando nelle carceri italiane (58 dall’inizio dell’anno), in Sicilia ha mobilitato alcuni esponenti politici, fra i quali la responsabile per i Diritti umani della Dc Eleonora Gazziano. “Nelle ultime 12 ore - spiega Gazziano - sono stata contattata dal padre di Roberto il ragazzo che al carcere Pagliarelli ha tentato di suicidarsi per tutte le volte che le sue richieste lecite sono state disattese, e da Salvina una delle molte madri col cuore dilaniato dalla sofferenza per il proprio figlio, un ragazzo detenuto in Sicilia per omicidio. L’amnistia e l’indulto sono le loro richieste, ed io purtroppo mi sento talmente impotente da ritenere che l’unica azione giusta sia aderire al digiuno di dialogo intrapreso da Rita Bernardini già da oltre 20 giorni. Digiunerò per 24 ore a partire dalla mezzanotte di oggi ed invito tutti cittadine e cittadini, candidati e non, a farlo”. La scelta è stata condivisa anche dal commissario regionale del la Dc, Totò Cuffaro, che digiunerà dalla mezzanotte di oggi fino a quella di domani: “Mi associo all’appello della responsabile per i diritti umani della Dc, Eleonora Gazziano, e digiunerò per 24 ore perché possa esserci una carcerazione più umana e perché possano essere salvaguardati i diritti di tutti i detenuti”. Un digiuno che intende dare corpo e voce a chi in prigione continua ad essere solo un numero. Cittadini detenuti così disperati da scegliere la morte perché privati dell’attenzione necessaria nel percorso di reinserimento previsto dalla Costituzione. Genova. “Mancano medici specialisti all’interno del carcere di Pontedecimo” lavocedigenova.it, 9 settembre 2022 L’allarme lanciato dall’avvocato civilista specializzato in diritti umani e immigrazione Alessandra Ballerini, dall’Onorevole Luca Pastorino e dal Consigliere Regionale Gianni Pastorino. Una lunga mattinata nella Casa Circondariale di Genova Pontedecimo per l’avvocato civilista specializzato in diritti umani e immigrazione Alessandra Ballerini, l’Onorevole Luca Pastorino ed il Consigliere Regionale Gianni Pastorino. Quasi cinque ore per osservare e capire quali siano le problematiche di questo istituto penitenziario, per incontrare le detenute e i detenuti, le persone sia civili che della polizia penitenziaria che ci lavorano. Emergono problemi alla struttura: per quanto siano iniziati gli interventi di manutenzione, restano alcune problematicità sia all’interno che all’esterno. C’è poi la grande problematica legata alla sanità penitenziaria: nonostante la presenza giornaliera di medici ed infermieri è evidente la mancanza di una serie di specialisti necessaria alla complessità della vita carceraria. “Oggi parlare di carcere in Liguria diventa ancora più urgente perché, dopo lo sforzo che abbiamo fatto per approvare in extremis nella passata Legislatura la legge sul garante regionale dei diritti dei detenuti, per motivi interni al Consiglio Regionale non si riesce ad addivenire a tale nomina che, lo ribadisco, sarebbe un’importantissima figura di comprensione e mediazione dei problemi carcerari e sicuramente di sostegno della popolazione detenuta ma anche di chi lavora in carcere”, dice il capogruppo di Linea Condivisa in Consiglio Regionale Gianni Pastorino. Il carcere di Pontedecimo è una struttura complessa anche dal punto di vista della composizione dei detenuti: 65 donne detenute per una molteplicità di reati e 76 uomini che invece appartengono alla categoria dei “sex offender”. Questo aspetto aumenta la complessità di gestione di un carcere dove si è pensato di mettere insieme donne con uomini che hanno commesso e reiterato pesanti reati di violenza contro le stesse donne. A nulla vale l’idea che siano distinti che non si incontrino perché è evidente che questo tipo di promiscuità crea moltissimi problemi di non facile gestione sia per gli operatori di polizia penitenzia che per la conduzione logistica del carcere. “Il diritto alla sanità nelle strutture carcerarie non è garantito - aggiunge l’avvocato Alessandra Ballerini - Alla luce di questa visita e come osservatrice di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, sottolineo con forza la necessità della presenza anche in Liguria di un garante regionale dei diritti dei detenuti”. Una visita dunque per avere ulteriori informazioni, per conoscere le difficoltà che vivono detenuti e detenute ed operatori e per rilanciare, anche nel dialogo politico in Consiglio Regionale, la questione della sanità penitenziaria, elemento molto sentito all’interno della struttura. “È stata una visita importante - conclude l’Onorevole Luca Pastorino - Sottolineo la grande disponibilità da parte della direttrice e del comandante della polizia penitenziaria. Aldilà della buona gestione è emersa la necessità della figura del garante dei diritti del detenuto, un tema centralissimo. Emerge anche la necessità di ripristinare un sistema di sanità all’interno delle carceri che funzioni, che sia puntuale e presente. Ci sono situazioni di vera difficoltà che non possono essere affrontate con il sistema del medico di famiglia”. Napoli I ragazzi del carcere minorile di Nisida diventano sub napolitoday.it, 9 settembre 2022 Il progetto Bust-Busters con l’Archeoclub protagonista. “Da oggi parte a Napoli il progetto “Bust Busters”. Formeremo i ragazzi dell’Area Penale di Napoli per farli diventare sub. Daremo loro la possibilità anche di conoscere l’ambiente sommerso, il patrimonio culturale, le bellezze che sono nei fondali. Nel 2019 insegnammo ai ragazzi ciechi e ipovedenti ad andare nei fondali marini. Da questo incontro è nata la voglia di iniziare questo nuovo e bel progetto con il Ministero di Grazia e Giustizia. Alla fine del corso di formazione, i ragazzi avranno conseguito un brevetto che potrà offrire loro opportunità anche di lavoro, magari come guide in ambiente sommerso. Daremo loro la possibilità di conoscere un mondo nuovo: il patrimonio ambientale sommerso. E con loro puliremo anche i fondali lungo la parte costiera di Napoli”. Lo ha affermato Rosario Santanastasio, Presidente Nazionale di Archeoclub D’Italia, a margine della prima giornata svoltasi a Napoli, presso il Centro Minorile ai Colli Aminei. “Con tale progetto formeremo gruppi di lavoro misti che, con attrezzature e strumenti messi a disposizione dai Partner, ripuliranno periodicamente (15-30gg) la superficie dell’intero specchio d’acqua del Borgo Marinari. Questi gruppi saranno preliminarmente formati alle tecniche della subacquea, che individuano e recuperano dal fondo dello stesso specchio d’acqua i rifiuti più voluminosi e inquinanti. Il progetto BUST-BUSTERS si propone di ottenere da un lato un risultato di tipo ecologico, dall’altro di realizzare un’attività riparativa svolta dai giovani in Area Penale, a testimonianza di una recuperata coscienza civile e di partecipazione attiva al decoro della città di Napoli. Le attività saranno coordinate e monitorate da una cabina di regia formata da rappresentanti del Centro per la Giustizia Minorile della Campania - ha dichiarato Giuseppe Centomani, Direttore del Centro di Giustizia Minorile della Campania - e verrà realizzato in due step”. Archeoclub D’Italia è parte del progetto e supporterà l’intera attività con il suo ramo marino quale è Marenostrum. “Avremo almeno 10 lezioni teoriche che si svolgeranno ai Circoli Savoia, Italia, Rari Nantes, Club Nautico della Vela e ben quattro pratiche, dunque con immersioni reali. E’ un’azione importante perché da competenze a questi ragazzi che loro nel tempo potranno anche approfondire. La nostra associazione ha da sempre ritenuto che migliorare le condizioni di vita dei minori sottoposti alla pena detentiva - ha dichiarato Francesca Esposito, Referente Attività Sociali di Marenostrum - con attività socio educative legate al mare, possa essere non solo motivo di socializzazione, di interrelazione, ma anche una grande opportunità per il loro graduale reinserimento all’interno del tessuto sociale. Molti di questi ragazzi provengono da situazioni di degrado ed emarginazione, grazie a progetti come questi possiamo dimostrare loro che un altro modo di vivere e di autodeterminarsi sia possibile. Siamo anche convinti che questo sia solo l’inizio di una sempre più stretta e proficua collaborazione, creando per il futuro percorsi educativi che saranno incentrati sulla tutela dei beni culturali e ambientali e sulla valorizzare e promozione del territorio, dando a questi ragazzi la possibilità di vivere opportunità condivise, uscendo da un contesto di degrado socio-culturale”. Due obiettivi: utili alla società, patrimonio culturale punto di riferimento per i ragazzi! “Abbiamo due obiettivi: essere utili alla società, fare in modo che il patrimonio culturale diventi un punto di riferimento anche per ragazzi che hanno vissuto difficoltà. E’ un’esperienza che guarda al futuro. Archeoclub D’Italia, sempre nell’ottica di guardare al passato - ha dichiarato Cataldi Innocente, Consigliere Nazionale Archeoclub D’Italia - e guardare al futuro vuole dare un messaggio di apertura al sociale. Il patrimonio culturale è anche patrimonio utile al sociale”. Dunque Archeoclub D’Italia è in prima linea anche in Campania su più settori: dal coinvolgimento di minori a rischio nelle attività sociali dedite alla valorizzazione del patrimonio ambientale alle azioni concrete sul recupero dei Borghi. “Faremo in corso sub per un brevetto che consente di scendere ad un massimo di 18 metri - ha affermato l’istruttore Pasquale Di Lorenzo, Associazione Sant’Erasmo che è parte di Marenostrum - Archeoclub D’Italia - che poi questi ragazzi potranno utilizzare un giorno anche in occasione di concorsi nazionali. Avremo una parte teorica ma anche una parte pratica. I ragazzi utilizzeranno delle mute, impareranno a pinneggiare, conosceranno la pressione subacquea poi, appena saranno pronti, si immergeranno”. “È evidente che un interrogativo nuovo va posto in questo contesto in cui esistono discrepanze sociali sempre più ampie. E’ evidente che le iniziative culturali devono e possono ridurre questo gap. Questa è una delle tante iniziative che stiamo facendo su tutto il territorio della Campania. Ad esempio siamo in prima linea sui piccoli Borghi - ha affermato Michele Martucci, Coordinatore Archeoclub D’Italia Campania - sul contrasto allo spopolamento. E’ evidente che tutte queste iniziative porteranno ad un interrogativo: perché la cultura non sarebbe socialità? Solo attraverso la cultura è invece possibile venire incontro alle classi disagiate”. Roma. L’Assemblea Capitolina approva nuove regole per il Garante dei detenuti askanews.it, 9 settembre 2022 Rafforzare il ruolo e le funzioni del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale. L’Assemblea capitolina ha approvato con 28 voti favorevoli il nuovo Regolamento che introduce alcune importanti novità, a partire dalla modalità di elezione del Garante. La delibera n. 54 di proposta consiliare, che vede prima firmataria la consigliera del Partito democratico e vice presidente della commissione Pari Opportunità Claudia Pappatà, affida l’elezione del Garante all’Assemblea capitolina, e non più con nomina diretta del Sindaco, con una modifica che rafforza l’autonomia e l’indipendenza del Garante. Inoltre il provvedimento amplia le funzioni rispetto a quelle previste dal vecchio ordinamento, recependo le indicazioni contenute nelle linee guida della Conferenza dei Garanti territoriali favorendo il collegamento tra i vari livelli, nazionali e regionali, delle figure a tutela delle persone private della libertà personale. “Oggi facciamo passi in avanti sui diritti, sui diritti delle persone, uomini e donne, private della libertà, ad ottenere un trattamento conforme a principi di dignità e umanità. Lo facciamo affidando all’Assemblea capitolina l’elezione del Garante dei detenuti, ma soprattutto riaffermando quelle funzioni specifiche che tale figura esercita per la tutela dei diritti fondamentali e dei percorsi di reinserimento sociale”, dichiara la consigliera del Partito democratico Claudia Pappatà. “Roma è stata la prima città d’Italia a istituire, nel 2003, il Garante dei detenuti. E oggi vogliamo dare seguito a quel percorso virtuoso che la Capitale ha intrapreso, rafforzando il nostro impegno in tema di diritti umani, sociali e civili. Desideriamo ringraziare tutte le consigliere e i consiglieri che hanno collaborato alla stesura del nuovo Regolamento, nelle commissioni e in Aula, la presidente della commissione Politiche sociali Nella Converti, la presidente della commissione Pari Opportunità Michela Cicculli, il presidente della commissione Roma Capitale Riccardo Corbucci, la consigliera Cristina Michetelli, le commissioni consiliari e municipali, gli uffici. Ciascuno ha dato il suo contributo per questo passo che Roma oggi fa, dalla parte dei diritti”, conclude. “Oggi in Aula Giulio Cesare, con voto favorevole di tutta l’Assemblea, fatta eccezione dei consiglieri di M5S, abbiamo consegnato a Roma il Regolamento più avanzato del Paese sul tema del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, con la previsione delle nuove competenze in materia di prevenzione sul reato di tortura e con la supervisione sui trattamenti nelle Rsa. Roma, dopo anni di politiche giustizialiste del ‘buttate la chiave’ e del ‘lasciateli marcire in galera’, torna a recuperare finalmente il rapporto anche con questa parte dei cittadini, che seppur privati nella libertà, conservano pieni diritti civili per la cui tutela necessitano di una maggiore assistenza”, così la consigliera capitolina dem Cristina Michetelli. “Nel richiamare quello che accadeva a Roma con le giunte di centro sinistra, quando il carcere veniva considerato un Municipio della città e alcuni consigli comunali vennero tenuti dentro Rebibbia, con attenzione particolare ai problemi di detenuti, agenti penitenziari e operatori, abbiamo anche ricordato in Aula la figura dell’on. Leda Colombini, che ha dedicato l’ultima parte della sua vita ai bambini reclusi con le loro mamme dietro le sbarre” ha aggiunto la consigliera del Pd. De Priamo (Fdi): ora Garante detenuti potrà essere avvocato La proposta di Deliberazione sul Regolamento che istituisce il Garante dei diritti delle persona private o limitate della libertà personale “è un passo importante per la tutela dei diritti individuali di persone che si trovano in regime carcerario e che, nello scontare la pena o nell’attendere la conclusione del giudizio in regime di detenzione, devono veder garantita la dignità della persona e i diritti individuali. La centralità che l’Assemblea assume nella nomina e nella verifica dell’operato garantisce una scelta di questa importante figura attraverso di tutta la rappresentanza politica e garantisce una trasversalità e imparzialità del ruolo che il garante dovrà svolgere”. Lo dichiara il consigliere capitolino di Fratelli d’Italia Andrea De Priamo, presidente della commissione capitolina Trasparenza e candidato al Senato. “Grande soddisfazione per i nostri emendamenti approvati dall’Aula - aggiunge De Priamo - in particolare quello che elimina la incompatibilità tra la figura del Garante per i Detenuti e chi esercita la professione di avvocato e che aveva provocato proteste nell’Ordine degli Avvocati di Roma, e quello che chiede che il Garante vigili sulla adeguatezza dei luoghi dedicati a per colloqui con minori, che in una situazione difficile, sono vittime incolpevoli e particolarmente fragili e che, pertanto, necessitano di un’attenzione e di interventi di maggiore tutela. Una detenzione dignitosa e il rispetto dei diritti di una persona affidata alla custodia delle strutture carcerarie sono indici fondamentali della civiltà di uno Stato”, conclude. Lecce. “Innovazioni sartoriali”, le detenute ricamano con il filo dei molluschi di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 9 settembre 2022 Non tutti sanno che il bisso - il filo che fuoriesce dai gusci dei molluschi - se lavorato, è usato nella produzione di stoffe pregiate. Non è più un segreto per le detenute delle carceri femminili di Lecce e Taranto, che impiegano il filo per decorare e ricamare oggetti e vestiti. Il progetto per il reimpiego di questo particolare materiale si chiama “Innovazioni sartoriali”, ed è promosso dalla Fondazione Territorio Italia e da Made in Carcere. L’iniziativa punta a includere le detenute in un percorso di acquisizione di competenze, che le aiuti a sostenersi da un punto di vista economico. L’idea è quella di immettere sul mercato le creazioni, con il supporto di Luciana Delle Donne, imprenditrice e fondatrice della cooperativa sociale “Officina Creativa” e di Made in Carcere. Un’attenzione particolare è rivolta al concetto di economia sociale, visto che vengono lavorati materiali che, come il bisso dei molluschi, se non riutilizzati sarebbero destinati allo scarto. Non è la prima volta che le persone detenute sono coinvolte in progetti di creazione e messa in vendita di accessori, vestiti e prodotti in genere. Sul sito del Ministero è possibile visitare la vetrina con tutti gli articoli. Livorno. I detenuti di Gorgona di nuovo in scena con le “Metamorfosi” di Ovidio di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 9 settembre 2022 Le “prigioni” non sono solo appannaggio dei detenuti: le vivono anche le persone libere, sotto forma di abitudini, dipendenze, pregiudizi. Il cambiamento è la spinta per uscirne, e questa è l’idea ispiratrice di “Metamorfosi”, lo spettacolo interpretato dai detenuti della casa di reclusione di Gorgona che andrà in scena sull’isola toscana il 12 settembre e il 2 e il 3 ottobre. Ispirato all’omonima raccolta di miti greci di Ovidio, “Metamorfosi” è il secondo episodio della trilogia “Il teatro del mare”, per la regia di Gianfranco Pedullà. I detenuti-attori si rimettono in gioco, dopo che il primo episodio “Ulisse o colori della mente” ha vinto il premio Catarsi - teatri della diversità 2020 dell’Associazione nazionale critici di teatro. Nel luglio scorso, la ministra Cartabia ha visitato il carcere in occasione del protocollo siglato dalla casa circondariale di Livorno con la scuola superiore Sant’Anna di Pisa: la sezione di Gorgona è un caso di studio interessante, proprio per la serie di iniziative virtuose che coinvolgono i detenuti. Esemplare è il progetto rieducativo della produzione vitivinicola, arrivata al decimo anno di attività e avviata da Lamberto Frescobaldi, proprietario del marchio di vini Marchesi Frescobaldi. Per rendere immersiva l’esperienza di “Metamorfosi”, oltre che per ragioni di sicurezza, le autorità ritireranno i cellulari e i documenti agli spettatori in viaggio verso Gorgona. Lo spettacolo inizierà alle 11 del mattino e sarà “itinerante”, coinvolgendo diversi punti dell’isola. “Metamorfosi” fa parte del progetto Teatro in Carcere, patrocinato dalla Regione Toscana in collaborazione con la casa di reclusione di Gorgona. Brindisi. “Parole incatenate-dal carcere al palco per cantare la libertà” di Anna Rita Pinto mesagne.net, 9 settembre 2022 “Parole Incatenate” è il titolo dello spettacolo a ingresso gratuito che la Commissione Pari Opportunità, Politiche di Genere e Diritti Civili di Mesagne (Br) ha organizzato all’interno cartellone “Mesagne Estate 2022 - lo spettacolo dell’inclusione” previsto per domenica 11 settembre alle ore 21:00, in piazza Orsini del Balzo. Gabriella Ferri, Pasolini, Balestieri, Buttitta, Viviani, Di Giacomo, sono solo alcuni dei cantori dell’emarginazione popolare che verranno omaggiati con canti, poesie e monologhi della cultura carceraria. Voci che sono diventate libere nelle celle, nelle docce, nei corridoi, per mandare messaggi di nostalgia, disperazione o per raccontare un sogno. La cultura carceraria è fatta di tradizioni consolidate che si tramandano da decenni. Occhi che esprimono consenso o riprovazione, parole che fanno parte di uno slang che nasce nei quartieri disagiati e viene assimilato dalle mura dei penitenziari. E poi esistono le canzoni e le poesie che narrano vite vissute o semplicemente desiderate. Questo è uno spettacolo di rimembranze e suggestioni che nasce da storie che diventano leggende e che vede in scena, insieme, attori di teatro penitenziario, operatori sociali ed ex detenuti della compagnia romana “Stabile Assai” come: Eugenio Deidda, poeta di cultura popolare (vincitore del Premio Goliarda Sapienza, ex detenuto); Giovanni Arcuri, attore di teatro penitenziario (protagonista del film “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani e vincitore dell’Orso d’oro di Berlino nel 2012); Max Taddeini, attore di teatro penitenziario (ex detenuto); Giorgio Carosi: attore di teatro penitenziario; Tamara Boccia: attrice (pedagogista); Enzo Pitta: piano, chitarra e voce (collaboratore di Sergio Endrigo); Roberto Turco: basso (collaboratore di Rino Gaetano); Lucio Turco: batteria (tra i più importanti batteristi del jazz italiano); Massimiliano Anania: voce (ex detenuto); Antonio Turco, regia, chitarra e voce. La compagnia “Stabile Assai” è un gruppo teatrale che dai primi anni ‘80 opera all’interno del contesto penitenziario italiano, formato da detenuti e da detenuti semi-liberi che fruiscono di misure premiali, oltre che da operatori carcerari e da musicisti professionisti. I testi degli spettacoli sono inediti, scritti con la collaborazione di tutti i detenuti. Nel corso degli anni la Compagnia si è esibita alla Camera dei deputati e al Campidoglio di Roma e ha inoltre collezionato diversi riconoscimenti, tra cui il Premio Massimo Troisi. Sulla Compagnia è stato girato il documentario “Offstage” del regista Francesco Cinquemani. L’evento è patrocinato dall’amministrazione comunale di Mesagne e promosso dalle A.P.S. Cabiria e Cittadini del Mondo. La direzione artistica è curata da Anna Rita Pinto in collaborazione con Valentina Begaj, rispettivamente presidente e vicepresidente della Commissione Pari Opportunità. Partner dell’evento: Ministero della Giustizia, dipartimento Minorile e di Comunità per Puglia e Basilicata; Ordine degli Assistenti Sociali - Consiglio Regionale della Puglia; Ambito Territoriale Sociale BR 3 e BR4; Cooperativa Rinascita - Progetto SAI Mesagne. Media partner: Idea Radio e Punto Sud News. Il Papa: “Rischio escalation nucleare violato il diritto internazionale” di Andrea Gualtieri La Repubblica, 9 settembre 2022 C’è il rischio di una “escalation nucleare” e ci sono “pesanti conseguenze economiche e sociali”: è per questo che papa Francesco richiama l’attenzione del corpo diplomatico vaticano sull’Ucraina, indicandola come epicentro di una crisi planetaria. Il pontefice si è rivolto ieri ai superiori della Segreteria di Stato e a 91 nunzi apostolici e 6 osservatori permanenti che costituiscono, insieme a 167 collaboratori, la rete di contatto tra la Santa Sede e gli Stati esteri. Bergoglio è tornato a parlare di “terza guerra mondiale a pezzi”, un’espressione utilizzata per la prima volta nel 2014 e poi rievocata spesso per richiamare l’attenzione sui diversi scenari di conflitto. “Voi - ha detto anche ieri rivolgendosi ai nunzi apostolici - ne siete testimoni nei luoghi in cui state svolgendo la vostra missione”. Ma da febbraio, con l’attacco russo all’Ucraina, la preoccupazione del Papa sembra aumentata, tanto da fargli dire nei mesi scorsi che la terza guerra mondiale “è incominciata a pezzi e adesso sembra che non sarà a pezzi”. L’udienza di ieri è avvenuta nell’ambito dell’incontro triennale dei rappresentanti pontifici, in corso in Vaticano dal 7 al 10 settembre e presieduto dal Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin. Un vertice programmato dopo l’emergenza sanitaria che ha sconvolto il mondo: “La tempesta della pandemia da Covid-19 ci ha costretti a varie limitazioni della vita quotidiana e delle nostre attività pastorali - ha ricordato il pontefice -. Ora sembra che il peggio sia passato, e grazie a Dio possiamo ritrovarci. Ma purtroppo l’Europa e il mondo intero sono sconvolti da una guerra di speciale gravità”. Bergoglio, davanti ai suoi rappresentanti diplomatici, ha sottolineato in particolare “la violazione del diritto internazionale” a cui si è assistito in Ucraina, rimarcando quindi una presa di posizione rispetto al ruolo dei due Paesi in conflitto. È una puntualizzazione che arriva a breve distanza dalla reazione indignata di Kiev per l’udienza generale in cui il Papa, parlando dell’omicidio di Daria Dugina, figlia dell’ideologo ultranazionalista russo Aleksandr Dugin, aveva sottolineato “la pazzia della guerra”, ricordando “quella povera ragazza volata in aria per una bomba che era sotto il sedile della macchina a Mosca”. “Le parole del pontefice equiparano ingiustamente l’aggressore e la vittima”, aveva contestato il Ministero degli Esteri ucraino dopo aver convocato il nunzio apostolico. E una prima risposta pubblica era stata affidata ad Andrea Tornielli, direttore editoriale del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, con una nota in cui si precisava che il Papa “non è mai stato ‘equidistante’: ha condannato con parole nette l’aggressione perpetrata dalla Russia. È stato piuttosto ‘equivicino’, cioè vicino a tutti coloro che soffrono per le conseguenze della guerra, in primo luogo la popolazione innocente dell’Ucraina che muore sotto le bombe russe”. Ora Francesco ribadisce la condanna dell’aggressione russa. Nello stesso tempo, con un messaggio inviato tramite il cardinale Parolin alla direttrice generale dell’Unesco Audrey Azoulay in occasione della Giornata Internazionale per l’Alfabetizzazione, il Papa chiede “un’alleanza” tra gli abitanti della Terra per generare “pace, giustizia e accoglienza tra tutti i popoli della famiglia umana e dialogo tra le religioni”, attraverso “una sana antropologia, altri modi di intendere l’economia, la politica, la crescita e il progresso”. “Gino Strada si batteva per i diritti. Primo: la salute” di Marta Serafini Corriere della Sera, 9 settembre 2022 “La guerra ha il tratto di Guernica: visi sfigurati dalla disperazione, paura, corpi straziati, la madre che tiene il figlio senza vita tra le braccia e maledice il mondo. Quante donne ho visto abbandonarsi alla disperazione per un figlio ucciso”. Sono le parole che Gino Strada ci lascia in eredità nel suo ultimo libro, pubblicato da Feltrinelli e curato dalla moglie Simonetta Gola, responsabile della comunicazione di Emergency,Una persona alla volta. È questo il titolo che hai scelto... “Era il modo di Gino di cambiare il mondo. Lui curava la persona che si trovava di fronte. Ma poi avanzava una domanda politica: cosa posso fare per prevenire la situazione di tanti nelle stesse condizioni? Il suo era un approccio politico: rivendicava i diritti per tutti, a partire da quello della salute”. Cosa avrebbe detto di questa guerra? “È difficile rispondere a questa domanda. Il conflitto in Ucraina è diverso da quelli del passato più recente, perché vede due eserciti contrapposti. Ma Gino non distingueva più tra guerra e guerra. Andava dritto alla questione essenziale, il corpo delle vittime, alla differenza tra l’essere vivi e l’essere morti. E se la guerra è causa di morte sia per i civili che per i militari, l’approdo è il pensiero di Einstein, quando sostiene che la guerra non può essere umanizzata ma solo abolita”. È possibile trovare una cura a questo male? “È difficile farlo quando la guerra è iniziata perché quando ormai è in corso troppi aspetti sfuggono al controllo. Andrebbe iniziato un ragionamento su come prevenirla”. Ossia? “Faccio un esempio. L’Italia ha abolito la pena di morte a differenza di altri Paesi. Significa che ha trovato un altro modo di punire e sancire che lo stato non intende usare la violenza fisica per punire un reato, per quanto grave. Non significa che non voglia affrontare il problema dei crimini più efferati, ma che ha cercato un’altra soluzione. Potremmo fare lo stesso per la guerra”. Settimana scorsa Emergency ha annunciato il varo di una nave per i migranti nel Mediterraneo. È un messaggio politico? “No, è il risultato di un progetto cui Gino teneva moltissimo e che ha richiesto un lungo lavoro di preparazione, iniziato quando lui era ancora vivo. Rimane il valore politico del progetto: salvare vite umane invece di lasciarle affogare”. Un lascito solidale a Save the Children. “Un futuro ai nostri sogni” di Giancarla Pancione* Corriere della Sera, 9 settembre 2022 Lasciare un’eredità alle generazioni che verranno significa avere la responsabilità di lasciare un mondo migliore, significa fare la propria parte e generare nuove opportunità. Martedì 13 settembre si celebra la Giornata mondiale dei Lasciti testamentari, uno strumento che negli anni si è sempre più diffuso tra coloro che vogliono lasciare un segno reale nella vita di tante persone. Aiutare chi vive in condizioni di svantaggio socio economico, in Paesi in via di sviluppo, o in quartieri privi di servizi di quelli occidentali può essere, oggi più che mai, una scelta consapevole e culturale. Un lascito testamentario viene spesso considerato come la prosecuzione naturale del sostegno di una vita all’Organizzazione che più ci sta a cuore. Nella nostra esperienza a Save the Children, è proprio la conoscenza dell’ente prescelto, della sua missione, del suo modo di operare, ad essere la leva che spinge sempre più persone a prendere in considerazione il lascito solidale, a prescindere dalla propria situazione economica o familiare. E sono sempre più numerosi i percorsi di avvicinamento a questa forma di donazione che avvengono di concerto con la famiglia. L’ospedale in Nepal - Grazie ad un lascito solidale può nascere una clinica in un Paese dove madri e bambini muoiono ancora nel momento del parto, si possono distribuire medicine e cure a quelli che ne hanno bisogno o formare professionisti che possano occuparsi della loro salute, dove la malaria, il morbillo o una polmonite uccidono ancora, soprattutto i più piccoli. Mi piace considerare il lascito come un sogno che si avvera, come ad esempio è accaduto nel piccolo comune rurale di Bishnupur, in Nepal: grazie al sostegno di un eredità devoluta alla nostra Organizzazione, siamo stati in grado di riqualificare la struttura sanitaria Simra Singyaun Kankata. C’era bisogno di costruire una sala parto con servizi igienico-sanitari e un angolo per la gestione dei neonati, di rinnovare l’area Kangaroo mother, dove le mamme e i papà posso creare un contatto fisico fin dalla nascita con il bambino. I lavori di ristrutturazione sono stati avviati nel novembre 2021 e ora il Centro è pronto. Abbiamo in questo modo potuto rendere concreta la volontà di Nicoletta, portata avanti dalle proprie sorelle. Save the Children da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine, i bambini e garantire loro un futuro, ma riesce a portare avanti il proprio lavoro quotidiano, in tantissimi luoghi del mondo, anche i più remoti, grazie alle donazioni, ed in particolare i lasciti hanno un ruolo fondamentale. Negli scorsi anni ci hanno consentito di sfamare bambini in Malawi o riempire le aule in Nepal, trasformando la donazione ricevuta in sorrisi, quelli dei bambini che senza l’aiuto di questi sostenitori non avrebbero mai avere garantiti i loro diritti alla salute, all’istruzione, ad essere protetti, al gioco. Nel 2021, oltre il 55% di queste somme sono state destinate ai nostri progetti in Italia per contrastare la povertà educativa e garantire protezione ai minori migranti. All’estero, l’Etiopia, lo Zambia, il Sud Sudan, l’Egitto, il Nepal e i Balcani sono i paesi che ne hanno beneficiato maggiormente. Una piccola donazione, assume una nuova vita sotto forma di scuole, libri, materiale scolastico. Anche in Italia c’è un grande bisogno di mobilitare risorse per equiparare le disparità sociali, nel nostro lavoro lo vediamo ogni giorno anche per questo negli ultimi anni abbiamo realizzato campagne di sensibilizzazione che informassero i cittadini sull’importanza di questo strumento, sul suo valore, anche simbolico: lasciare un’eredità alle generazioni che verranno, significa avere la responsabilità di lasciare un mondo migliore, significa fare la propria parte e generare nuove opportunità. È quello che ci ha detto Marco, che ha deciso di includere Stc nel proprio testamento, quando lo abbiamo incontrato: “Fare un lascito testamentario è un bel pensiero sulla fine. È come chiudere bene la nostra storia”. *Direttrice Marketing e Fundraising di Save the Children Stati Uniti. Un filosofo a Sing Sing: “La semplicità come sfida” di Leonardo Caffo Corriere della Sera, 9 settembre 2022 È il filosofo analitico italiano più celebre al mondo, insegna alla Columbia come nelle carceri americane. “Può sembrare irriguardoso, visto che chi è dentro ha problemi più seri della validità di un sillogismo” dice “eppure è lì che si gioca la partita”. chille Varzi è il filosofo analitico italiano più celebre al mondo. Insegna da decenni alla Columbia University a New York, da altrettanti decenni è il punto di riferimento internazionale della filosofia della logica, della metafisica, della filosofia in relazione alla matematica. Una filosofia difficile, meno divulgativa, che pur tuttavia ha saputo diffondere con i libri scritti a quattro mani con Roberto Casati sulle storie filosofiche, con i manuali introduttivi, con le partecipazioni televisive e forse soprattutto con il suo progetto più rilevante: l’insegnamento della filosofia nelle carceri americane. L’occasione del nostro incontro, con un po’ di soggezione dato che Varzi è stato un mio grande punto di riferimento da studente, è l’uscita del mio libro “La velocità di fuga. Sei parole per il contemporaneo” (Einaudi) con cui, tra le varie cose, provo a fare il punto sulla filosofia come immagine del mondo utile a decifrare lo spirito del tempo attuale. Ed è su questo che si è concentrata la nostra conversazione. Iniziamo da una domanda necessaria, la filosofia come disciplina tecnica e come immagine del mondo trasversale. “La filosofia muove dall’apparente semplicità delle cose quotidiane per mostrarne la meravigliosa complessità. Dunque non può che essere al tempo stesso un’avventura trasversale e una disciplina impegnativa. In quanto trasversale, c’è spazio per linee e tracciati filosofici divulgativi; ma se davvero le cose sono complesse, si capisce anche che per esaminarle possono essere necessari strumenti di analisi tutt’altro che elementari, e così la filosofia diventa tecnica. Potremmo parlarne come di due lati di una stessa medaglia. I lati di una medaglia però sono opposti, mentre immagino tu sia interessato alla loro continuità. Lo sono anch’io. E se di continuità si può parlare, la individuerei nel fatto che in filosofia un percorso autenticamente divulgativo deve appunto riflettere l’ordine delle cose: non si tratta di presentare problemi complessi in modo semplice, ma di accendere lo sguardo indagatore su ciò che sembra semplice e invece non lo è, quello stesso sguardo di cui poi la filosofia specialistica si fa esercente. Con Roberto Casati siamo sempre stati convinti che nella divulgazione si debbano evitare le false scorciatoie, così come negli approfondimenti “tecnici” non ci si deve nascondere dietro accademismi di facciata. La sfida, per così dire, è riuscire a presentare la semplicità come sede della complessità così da scorgere scenari altrimenti impensabili, altri modi di osservare la realtà, nuove possibilità operative. Ma resta una sfida…”. Cosa significa provare a insegnare filosofia nelle carceri? Lo fai da tanti anni... “Tutto nasce con un progetto della Columbia University avviato qualche tempo fa. Insegniamo in alcuni penitenziari statali, federali e municipali dello stato di New York. Scenari drammatici, come puoi ben immaginare. Alcuni di questi istituti carcerari, come Sing Sing, sono di massima sicurezza e i contatti con l’esterno sono estremamente limitati. Ciononostante il progetto non si limita a offrire qualche occasione di contatto in più. L’obiettivo è fornire alle persone detenute l’opportunità di seguire percorsi di studio per quanto possibile simili a quelli che offriamo regolarmente a Columbia, evitando facili paternalismi e nel rispetto delle aspettative di chi partecipa alle lezioni. Io, per esempio, insegno un corso di logica e teoria dell’argomentazione. Può sembrare irriguardoso, visto che chi è in carcere ha problemi ben più seri della validità o meno di un sillogismo. Eppure la partita si gioca proprio lì, nella capacità reciproca di andare oltre gli stereotipi e lavorare insieme su quei temi e quelle materie che chi è dentro non ha avuto l’opportunità - lasciami dire la fortuna - di poter studiare. Una volta in metropolitana vidi un ragazzo con una T-shirt che diceva: “Pensi che l’istruzione sia faticosa? Prova l’ignoranza!”. Niente di più vero, purtroppo, soprattutto in un paese dove l’educazione può essere molto costosa e, quindi, discriminante. Naturalmente il nostro progetto è poco più di una goccia nell’oceano, e nel mio piccolo credo di avere imparato più cose io, insegnando in carcere, degli studenti che hanno seguito i miei corsi con tanta bravura. Ma anche le gocce hanno la loro importanza. Negli Stati Uniti lo stigma della carcerazione è molto forte per chi riesce a tornare in libertà, con effetti di marginalizzazione che si traducono in un pesante tasso di reincarcerazione. Per chi frequenta programmi di studio (e quello di Columbia non è il solo) i numeri cambiano significativamente in meglio, così come credo cambino le vite di tanti nostri studenti”. So che è complesso, ma in breve: perché consideri la logica lo strumento portante di una analisi filosofica del mondo? “Tanto per cominciare, perché la logica è la scienza delle possibilità: non si occupa soltanto di come vanno le cose ma di tutti i modi in cui è concepibile che possano andare; e dal ventaglio delle possibilità dipende tutto, a partire dalle nostre speranze. In secondo luogo, la logica è alla base di qualunque teoria dell’argomentazione e in quanto tale è uno strumento fondamentale per articolare le nostre convinzioni e per comprendere le ragioni di chi la pensa diversamente. Infine la logica può anche aiutarci a capire meglio le nostre responsabilità. È chiaro a tutti che siamo responsabili, non solo delle nostre azioni, ma anche delle loro conseguenze. Se tiro un sasso e rompo un vetro, benché la mia azione sia solo tirare il sasso, io sarò responsabile anche della conseguente rottura del vetro. Meno chiaro, forse, è che siamo responsabili egualmente di ciò che diciamo come di ciò che ne segue. In questo caso non si tratta di conseguenze causali ma, appunto, di conseguenze logiche: se affermo A, e se la verità di A comporta quella di B, allora B segue dalla mia affermazione e sono tenuto a risponderne in pari misura. Questo semplice fatto è alla base del pensiero consapevole e, quindi, di qualunque indagine filosofica”. Ma c’è una speranza che la filosofia possa dirci qualcosa su come il mondo è fatto davvero? “Sai, questa è di per sé una bella dostoria manda filosofica, anzi direi che è la domanda filosofica di fondo. Non credo quindi si possa fornire una risposta neutrale. Certamente possiamo sperare che la filosofia ci dica qualcosa su come noi pensiamo sia fatto il mondo. Ma da lì a capire come sia fatto davvero il passo è lungo, e da Kant in poi c’è chi ritiene sia un passo fuori dalla nostra portata. Personalmente mi accontento di sperare che la filosofia possa aiutarci almeno a capire perché il passo è lungo e dove si annidano i trabocchetti lungo il percorso. Se poi insisti, ti dirò che a mio avviso il trabocchetto più insidioso è anche quello più evidente: pensare che il mondo debba essere fatto in un certo modo per il semplice fatto che ci conviene pensare che sia fatto così”. Qual è la differenza principale tra fare filosofia in America e farla in Italia? “Fino a qualche tempo fa avrei detto che in America prevaleva un approccio alla filosofia orientato direttamente ai temi e ai problemi piuttosto che alla loro o allo studio degli autori, mentre in Italia prevaleva un’impostazione di stampo storiografico. Oggi questa differenza mi sembra decisamente attenuata. È chiaro a tutti che non si può fare filosofia senza conoscerne la storia così come è chiaro che non basta conoscere la storia della filosofia per essere dei filosofi. Ci sono però altre differenze. Per esempio, in America non c’è più quella forte contrapposizione tra la filosofia analitica e la filosofia continentale (cosiddette) che continua invece a dominare il panorama italiano, con il rischio di campanilismi accademici poco proficui. D’altra parte, è solo di recente che in America la filosofia si è avvicinata alle scienze sociali, soprattutto per effetto della crescente influenza dei “Critical Studies” in ambito accademico, mentre in Italia il dialogo tra queste discipline c’è sempre stato e ha sempre funzionato”. Su cosa lavori ora? “Sto scrivendo un libro sui confini. Solco dopo solco, tratto dopo tratto, queste strane linee hanno riempito i nostri atlanti e invaso le nostre vite. Come è successo? Da dove deriva tutta questa loro importanza? Perché abbiamo così tanto bisogno di demarcare e classificare ogni cosa? Ma soprattutto: è proprio vero, come vuole una certa tradizione, che alcuni confini siano più importanti di altri, più oggettivi, più “naturali”? La storia recente ci ha fatto capire quanto siano rilevanti queste domande per la nostra vita pubblica. Ma a ben vedere si tratta di domande che riguardano ogni aspetto della nostra vita, perché i confini svolgono un ruolo cruciale a qualsiasi livello di rappresentazione della realtà in cui siamo immersi. Non a caso Kant affiancava regolarmente alle sue lezioni di metafisica un corso di geografia. Mi piacerebbe provare a seguire il percorso inverso: partire dalla geografia per arrivare alla metafisica”. C’era una volta la tollerante Svezia: prigione a vita per un adolescente di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 9 settembre 2022 Ergastolo. È la sentenza del tribunale svedese che ha giudicato Fabian Cederholm, il diciottenne colpevole del duplice omicidio, nel marzo di quest’ anno, delle due insegnanti, Victoria Edstrom e Sara Book, dell’istituto d’arte Malmo Latin School. In Svezia il caso ha scosso il paese innanzitutto per la sua efferatezza, le vittime infatti, ambedue cinquantenni, sono morte sotto i colpi di ascia e coltello. La stessa primo ministro svedese Magdalena Andersson era intervenuta sull’accaduto esprimendo “tristezza e sgomento”. La giovane età dell’assassinio ha scatenato il dibattito su un’ondata di violenza che anche nella democratica e tollerante nazione scandinava sta preoccupando le autorità. Quello di Malmoe è il terzo attacco eseguito con armi da taglio in una scuola nella regione di Skåne nell’ultimo anno, anche se la polizia non ha mai stabilito alcun legame tra questo episodio e i precedenti incidenti non mortali. Inoltre lo stesso processo non è riuscito a stabilire il movente del gesto. Cederholm non aveva precedenti penali. Un motivo sconosciuto con assenza di prove di un legame insolito tra l’assassino e due insegnanti dunque, che rimarrà tale a meno di una dichiarazione del diciottenne che intanto sconterà la prigione a vita. Anche il fatto che lo stesso studente ha chiamato la polizia, arrivata dieci minuti dopo la strage, contribuisce ad aumentare l’alone di mistero che circonda questo caso. La pena dell’ergastolo è stata spiegata dal giudice Johan Kvart che ha emesso la sentenza con il solo fatto che “questi sono due omicidi molto brutali in cui le vittime hanno sofferto molto e sperimentato una grave paura della morte”. Si tratta della persona più giovane mai condannata all’ergastolo nella storia della Svezia. Il ragazzo si è dichiarato subito colpevole, ha affermato che per lui non esiste posto nella società e credeva di rimanere ucciso durante l’attacco agli insegnanti. Gli esami psichiatrici hanno mostrato che soffre di una forma di autismo, ma secondo il tribunale non di un grave disturbo psichiatrico. Rifugiato siriano torturato a morte in Libano: indagherà la procura militare di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 settembre 2022 L’immagine del corpo senza vita di Bashar Abdel-Saud, il rifugiato siriano torturato a morte alcuni giorni fa da agenti dei servizi per la sicurezza dello stato del Libano, è straziante: un cadavere pieno di ematomi e ferite da taglio. Abdel-Saud, 30 anni, padre di tre figli di cui uno nato da appena un mese, aveva disertato dall’esercito siriano otto anni fa e si era rifugiato in Libano. Lavorava come facchino e viveva nel campo profughi palestinese di Sabra e Shatila, alla periferia di Beirut. Lì, nella sua abitazione, era stato arrestato l’ultimo giorno di agosto, senza alcun mandato di cattura. Il 3 settembre la famiglia ha ricevuto una telefonata nella quale le veniva chiesto di ritirare il cadavere del congiunto presso il quartier generale dei servizi nella città di Tebneen, nel Libano meridionale. Dopo lo scandalo suscitato dalla diffusione delle immagini del corpo seviziato di Abdel-Saud, i servizi per la sicurezza dello stato si sono affrettati a diffondere una bizzarra dichiarazione secondo la quale l’uomo era stato arrestato per il possesso di una banconota falsa e per il possesso di Captagon (una droga) e che in seguito aveva confessato di far parte dello Stato islamico. L’indagine è stata affidata alla procura militare e cinque funzionari dei servizi di sicurezza sono stati arrestati e sottoposti ai primi interrogatori. Ma il rischio che finisca in un nulla di fatto è elevato. Sono rimaste impunite le torture nei confronti di altri 26 rifugiati siriani, tra cui quattro minorenni, lungo un arco di tempo dal 2014 al 2021. Ed è rimasta impunita la tortura subita dall’attore Ziad Itani, accusato ingiustamente di essere una spia israeliana. In Libano, dal 2017, è in vigore la legge contro la tortura. Ma fino a quando le indagini saranno condotte dai tribunali militari - in violazione delle norme internazionali, secondo le quali personale militare può essere processato in corte marziale solo nei casi di violazione della disciplina militare - non c’è speranza che verrà applicata. Giustizia spagnola “nelle tenebre”. Il Cgpj blocca le nomine dei giudici di Simona Musco Il Dubbio, 9 settembre 2022 Lo scontro tra partiti paralizza l’organo di autogoverno spagnolo, che non riesce a rinnovarsi da quasi quattro anni: Suprema Corte e Corte costituzionale in ostaggio. È proprio il caso di dirlo: tutto il mondo è Paese. E la giustizia vive una stagione di caos non solo in Italia, dove gli scandali che hanno travolto il Csm hanno fatto emergere accordi e spartizioni dietro le nomine più importanti del Paese, ma anche in Spagna, dove l’organo di autogoverno della magistratura risulta, di fatto, paralizzato da anni. Una lotta tutta politica, secondo quanto evidenziato da El Pais, che ieri ha dedicato la prima pagina alle polemiche interne al Consiglio generale del potere giudiziario. Da tre anni e nove mesi, infatti, il Cgpj non viene rinnovato a causa della difficoltà del Psoe - il Partito socialista operaio - e del Pp - il partito popolare - di raggiungere un accordo, incidendo così sul funzionamento della Suprema Corte e il rinnovo stesso della Corte Costituzionale. Un’assoluta novità nel sistema giudiziario spagnolo, che per la prima volta si ritrova con una Corte Suprema a ranghi ridotti, con il conseguente rallentamento della macchina giudiziaria. Secondo il quotidiano spagnolo, tutto dipenderebbe dall’ostruzionismo del Pp, affiancati da un gruppo di consiglieri del Cgpj conservatori con mandati scaduti che rifiutano di accordarsi sui nomi per occupare i due incarichi in Corte Costituzionale. “Il funzionamento della giustizia è condizionato da un partito politico — con Mariano Rajoy, con Pablo Casado e con Alberto Núñez Feijóo — determinato a non cedere il potere (giudiziario) quando passa all’opposizione - sostiene El Pais -, in un tentativo profondamente anomalo di perpetuare un pregiudizio conservatore per la vita nelle alte Corti, cioè che uno dei poteri dello Stato sia sempre nelle mani di un unico segno ideologico”. Il Consiglio generale ha essenzialmente due compiti: organizzare l’attività giudiziaria ed effettuare le nomine. È composto da 20 membri - otto giuristi e 12 giudici - eletti dal Parlamento a maggioranza qualificata, una gestione politica del potere giudiziario che desta non poche preoccupazioni in seno alle istituzioni europee, che chiedono da tempo che tutte o almeno una parte delle nomine sia effettuata dalla magistratura, per evitare la politicizzazione dell’organo di autogoverno. Scaduto il quinquennio il 4 dicembre 2018, dunque, i vecchi membri del Consiglio sono rimasti in carica, continuando a svolgere le proprie mansioni fino marzo 2021, quando il governo ha modificato la legge impedendo al Cgpj di fare nuove nomine in regime di prorogatio. Un tentativo, questo, di fare pressione sul Pp affinché si sbloccasse la situazione, ma che non ha sortito alcun effetto. Data la situazione attuale, si è reso dunque impossibile sostituire i giudici della Suprema Corte ormai decaduti, creando una situazione che in alcuni casi, secondo Carlos Lesmes, presidente della Cgpj e della stessa Corte Suprema, “è disperata”. Nel caso della Corte costituzionale, il Consiglio elegge solo due dei suoi 12 membri, che vengono rinnovati ogni nove anni. Le nomine sarebbero dovute avvenire il 12 giugno - giorno in cui sono scaduti i mandati del vicepresidente Juan Antonio Xiol e del giudice Santiago Martínez-Vares - ma la nuova legge ha impedito che venissero effettuate. Così il governo, a luglio scorso, ha varato una nuova riforma per consentire al Consiglio di poter procedere almeno con queste due nomine, entro il 13 settembre, termine previsto tassativamente dalla legge. Ma si tratta di una scelta delicata, perché tale elezione determina in qualche misura l’orientamento ideologico della Corte costituzionale. I conservatori hanno così alzato il livello dello scontro minacciando di non eleggere in tempi utili i nuovi giudici, necessari a garantire il funzionamento della stessa Corte. Da qui l’ultimatum di Lesmes, che nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario di mercoledì ha invocato un accordo sui nomi entro il 12 settembre, minacciando, in caso contrario, le dimissioni. Secondo El Pais se i conservatori dessero corso alla loro minaccia il Consiglio si troverebbe nell’inadempimento della legge, cosa “inaudita per la prima istituzione della giustizia spagnola”. L’ultima sessione plenaria straordinaria del Cgpj di si è conclusa dopo quattro ore senza alcuna nomina, ma con la scelta di alcuni interlocutori, designati dal settore progressista, per cercare di raggiungere un accordo. Nessuna data per la prossima sessione plenaria, che verrà convocata su iniziativa del presidente Lesmes o su richiesta di almeno cinque membri, ma solo una volta raggiunto un accordo sui nomi da proporre. Stando alle regole concordate, i membri potranno presentare proposte per ulteriori candidati fino al momento stesso dell’inizio della sessione plenaria. Si potrà votare per un massimo di due persone a votazione e la nomina si riterrà avvenuta soltanto se i due candidati avranno raggiunto, contemporaneamente o successivamente, i voti dei tre quinti dei presenti. Inoltre, nel caso in cui nessuno ottenga un numero sufficiente di voti, gli stessi candidati potranno essere proposti anche in sessioni plenarie successive. Insomma, la giustizia spagnola “è nelle tenebre”. Il Libano in crisi che odia le donne di Pasquale Porciello Il Manifesto, 9 settembre 2022 La denuncia delle ong che si occupano di diritti. Abusi e violenze senza precedenti da quando il Paese è finito nell’abisso, con dati spaventosi sulla povertà. Mariti, fratelli, padri scatenati. E uno stato fallito che non applica le sue leggi. La misura di quanto sia profonda la notte libanese è forse tangibile quando si ha a che fare con i dati di questi ultimi anni sulla violenza di genere. Hanaa Khodr, 21 anni, bruciata viva dal marito che non voleva portasse avanti la terza gravidanza. Madre di due figli e incinta al quinto mese, è morta dopo una settimana di agonia il 17 agosto in ospedale a Tripoli. Ghinwa Rameh Allawi, 41 anni, di Akkar, madre di tre figli, dopo 14 anni di violenze ripetute da parte del marito, ha provato a togliersi la vita il 14 agosto. Qualche giorno prima il marito, che lavora nelle forze di sicurezza libanesi, l’aveva ripresa mentre la picchiava e la umiliava facendola inginocchiare con le mani alzate; aveva poi mandato il video alla famiglia di lei. Nabila Aidan, 35 anni, sempre di Akkar, madre di quattro, portata dal marito in ospedale ore dopo la sua morte negli stessi giorni. Il marito, che aveva dato lì appuntamento alla famiglia della vittima, è scomparso. La maggior parte dei crimini e delle violenze contro le donne non viene però denunciata. Statistic Lebanon ltd riporta che il 96% di donne e ragazze vittime di violenza domestica che vivono in Libano non aveva denunciato prima per svariati motivi. Avevano paura di non avere giustizia (27,1%), di non essere prese seriamente in considerazione (22,4%), di essere rifiutate dalla società (23,3%) o dalla famiglia (13,8%), paura della reazione dell’abusatore (14,3%) e di perdere i figli (14,7%). Altre ragioni sono: non sapere di poter essere aiutate (12,4%), denunciare una violenza non è una priorità in questo momento di crisi (11%), accettazione passiva della realtà (11,9%), aspettare di lasciare il paese per denunciare (5,2%). “Assistiamo all’emergere di comportamenti senza precedenti da quando la crisi economica, politica e sociale è peggiorata” le parole di Ghida Anani, direttrice di Abaad, ong che si occupa di diritti delle donne e di uguaglianza di genere, che commenta così gli ultimi fatti di cronaca. “Di solito il periodo più caldo è settembre - prosegue Anani - per via dello stress da ritorno a scuola dei figli, ma in questi ultimi mesi stiamo ricevendo tantissime chiamate in qualunque momento. La violenza è contro le donne sposate e quelle nubili per mano del padre o dei fratelli. (…) Leggi che dovrebbero proteggere le donne vittime di abusi esistono, ma non vengono applicate, specie in questo periodo di crisi e scarsità di risorse”. Una crisi, la più grave della storia del paese, che ha avuto e ha effetti devastanti sulla società, in particolar modo su quelle fasce di popolazione già isolate e in difficoltà prima del 2019. I numeri del report annuale dell’agenzia Onu Escwa sulla “Povertà Multidimensionale” in Libano del settembre 2021 erano già impietosi. 74% della popolazione in povertà e con i dati di accesso a sanità, educazione e servizi pubblici la percentuale sale all’82%, cifra raddoppiata rispetto al 42% del 2019. L’88% di palestinesi e siriani rifugiati, sempre secondo il report, vive sotto la soglia minima di sopravvivenza. Sono aumentate esponenzialmente le richieste di cittadinanza nelle ambasciate straniere e l’onda migratoria che parte dal Libano è paragonabile a quella della guerra civile (1975/90). Lo scoppio della bolla finanziaria nell’autunno del 2019, che gli analisti inascoltati avevano ampiamente previsto, ha causato una svalutazione della moneta, da 1507,05 a 35mila lire circa per un dollaro, un’impennata sregolata e incontrollata dei prezzi e una speculazione selvaggia. I conti bancari sono stati congelati e in pratica prosciugati, il ceto medio si è impoverito e non è più in grado di sostenere spese mediche, scolastiche o accedere a beni di prima necessità. In Libano ogni settore della vita pubblica è privato perché le politiche di impianto neoliberista, soprattutto negli ultimi trent’anni, hanno puntato esclusivamente sul terziario, per cui la crisi ha trovato un paese completamente incapace di affrontarla. Come ci racconta Zoya Rouhana, direttrice di Kafa - Basta violenza e sfruttamento -, ong nata nel 2005 per contrastare violenza di genere, domestica, sfruttamento della prostituzione e riduzione in schiavitù, “in aggiunta alla crisi, la pandemia e l’esplosione al porto hanno fatto in modo che le donne siano diventate le prime vittime. Abbiamo notato un aumento della violenza negli ultimi anni, ma soprattutto di quella di genere e all’interno delle famiglie”. “Possiamo senza dubbio dire - prosegue Rouhana - che la crisi ha rappresentato una chiara battuta d’arresto per ogni donna che voglia rompere il circolo di violenza nel quale vive. Fare scelte in questa direzione diventa particolarmente difficile quando i suoi bisogni e quelli dei suoi figli sono strettamente legati a chi abusa. Le priorità diventano un tetto, cibo e acqua. Ci sono poi altre discriminanti: essere rifugiata o cittadina libanese, l’appartenenza a una classe sociale o un’altra, avere o meno alle spalle una famiglia capace di supportare le decisioni”. I 24 casi di violenza su donne e bambini registrati la settimana scorsa e che Kafa ha utilizzato per l’ennesima campagna di sensibilizzazione social, non hanno però sortito alcun effetto per quanto riguarda le autorità. Il governo non sembra dare alcuna importanza al tema, continuando a ignorare i ripetuti appelli e l’opinione pubblica. Ad aggravare ulteriormente la situazione contribuiscono altri fattori importanti. Le stazioni di polizia non hanno elettricità, le volanti sono ferme per mancanza di carburante o non ce ne sono abbastanza in dotazione, per cui molte chiamate vengono lasciate disattese. Di recente lo sciopero dei giudici ha bloccato molte procedure e praticamente anche i controlli sono fermi. C’è poi l’aspetto legislativo, in tutto favorevole all’uomo in caso ad esempio di divorzio e di affidamento dei figli. Il matrimonio rimane sotto la giurisdizione religiosa e non quella civile, quindi hanno molto rilievo il fattore culturale, quello geografico, il contesto sociale, l’appartenenza comunitaria. Sopravvive, ad esempio, in contesti marginali la pratica del matrimonio tra spose-bambine e uomini adulti, un vero e proprio atto di compravendita, o quella del matrimonio riparatore. Ancora, le donne non possono dare la nazionalità ai figli, senza la quale non si può accedere a servizi essenziali come istruzione e sanità. Non deve allora trarre in inganno l’immagine un po’ cliché di un Libano/Svizzera del Medioriente aperto e libertario nella forma di alcune aree del paese più avanzate e ricche. Nella sostanza, quando non protetta dall’ombrello dell’appartenenza a una classe sociale alta, ma minoritaria, la donna libanese è in una condizione di forte inferiorità rispetto all’uomo. I ripetuti appelli delle ong in proposito non sembrano essere una priorità in questo momento e il Libano precipita ogni giorno di più in un abisso, oltre che economico, di profonda indecenza.