Suicidi in carcere, politici assenti di Luigi Manconi La Repubblica, 8 settembre 2022 La situazione nelle prigioni non trova posto nelle agende dei partiti. Quale e quanta distanza corre tra i riti e le simbologie della politica e il corpo di MB, impiccatosi utilizzando come cappio i pantaloni della tuta e quello di DS, soffocatasi inalando gas dal fornelletto dove si cucina il cibo? In altre parole, cosa c’è di più “eccentrico”, rispetto alla campagna elettorale in corso, della notizia relativa all’altissimo numero di suicidi che si registra nelle carceri italiane? Il fatto non ha trovato alcuna eco nel confronto politico tra i partiti che si contenderanno la vittoria il prossimo 25 settembre. Così come non hanno trovato il minimo spazio le tematiche relative all’amministrazione della giustizia, alla riforma del processo penale e di quello civile, al significato della pena e della “rieducazione del condannato” (Art. 27 della Costituzione), in una società sempre più attraversata e lacerata da mille conflitti e in un sistema carcerario dove i reclusi in attesa di un giudizio definitivo rappresentano oltre il 13% del totale. In questo scenario, dal primo gennaio del 2022 a oggi, si sono tolti la vita 59 detenuti. E a morire sono anche le donne: quattro nell’arco di poche settimane. Di conseguenza, il già elevatissimo tasso di suicidi (ovvero il rapporto tra numero di decessi e presenze nel corso di un anno) di oltre 11 casi per 10.000 detenuti, tende a crescere ulteriormente, fino a raggiungere prevedibilmente un macabro record. Tanto più se si considera che in Italia, fuori, tra i “liberi”, quel tasso è di 0,67 ogni 10.000 abitanti. Perché questo dato, unanimemente trascurato, merita attenzione? Intanto, perché conferma quella definizione che equipara il carcere a una “discarica sociale”, dove si addensano tutte le patologie e le dipendenze, tutte le crisi psichiche e le devianze sociali, tutti i processi di annichilimento della personalità e di esaurimento del significato dell’esistenza. E, tuttavia, non si tratta esclusivamente di una emergenza umanitaria, alla quale dedicarsi con il sentimento della compassione e con gli strumenti delle riforme sociali. Il carcere, infatti, è qualcosa di più. È il punto finale di caduta di un sistema esteso e articolato, quello dell’amministrazione della giustizia, che percorre l’intera vita sociale e la condiziona in profondità. Il carcere, con tutta la sua miseria, mostra l’insensatezza di quel sistema della giustizia. E i suicidi ne sono la “rivelazione” ultima. È per questo che quella dell’autolesionismo non è questione filantropica, ma politica, politicissima. Ne è conferma un altro dato: nel corso di undici anni, dal 2011 a oggi, si sono tolti la vita 78 agenti di Polizia Penitenziaria, il numero più alto tra gli appartenenti alle diverse forze di polizia. Confondere i due gruppi di suicidi sarebbe errato: i poliziotti penitenziari vivono all’interno degli istituti esclusivamente il tempo di lavoro, anche se — ricordiamolo — è un tempo frequentemente maggiorato da turni assai lunghi e da straordinari obbligatori. Detto che ogni suicidio è una storia a sé e che le motivazioni di ciascun gesto autolesionista sono complesse e spesso non decifrabili, sembra indubbio che il carcere costituisca un sistema patogeno: ossia che produce malattia, psicosi, morte. A partire dalla sua struttura fisico-materiale, così immanente e coercitiva e così incombente, assillante e totalizzante. Di quelle 59 persone suicidatesi nel corso dell’anno, documenta Antigone, almeno 18 soffrivano di patologie psichiatriche; e la maggior parte si trovavano in carcere da pochi giorni o settimane. Il che conferma un dato già conosciuto: la spinta al suicidio è strettamente collegata al primo impatto col carcere. Alla necessità, cioè, di misurarsi senza alcuna tutela con un universo di cui tutto si ignora: il linguaggio, le gerarchie, le regole di comportamento e i codici di relazione. L’estraneità a quell’universo sconosciuto, avvertito come ostile e senza scampo, induce a cercare la fuga nell’unico modo consentito. Altra correlazione particolarmente intensa è tra indici di sovraffollamento e numero di suicidi: laddove le presenze eccedono la capienza regolamentare, i suicidi sono più frequenti. Per queste ragioni, ho definito la vicenda dei suicidi in carcere come totalmente eccentrica rispetto alle tematiche e ai programmi della campagna elettorale. Chi si batte per farla entrare nell’agenda politica è Rita Bernardini, arrivata al suo ventesimo giorno di digiuno: avrete notato che non ha trovato posto in alcuna lista. Carcere, il Papa rompe il silenzio: “Troppi suicidi in cella” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 settembre 2022 Ieri è arrivata la denuncia di Papa Francesco. “Oggi desidero esprimere la mia vicinanza, in modo speciale alle madri che hanno figli sofferenti, figli malati, figli emarginati e figli carcerati”. Come già scritto su Il Dubbio, tra le 59 persone affidate allo Stato che si sono tolte la vita dall’inizio del 2022, c’è il 28enne pakistano che si è tolto la vita il 31 agosto presso il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo (GO), appena un’ora dopo il suo arrivo nel centro. Sale così a cinque il numero di persone che hanno perso la vita all’interno della struttura da quando ha riaperto, nel 2019. L’ennesima tragedia che ha portato le associazioni del territorio a invocare l’avvio di un’adeguata e approfondita indagine, mentre ieri è arrivata la denuncia di Papa Francesco al termine dell’Udienza generale in piazza San Pietro. “Purtroppo nelle carceri sono tante le persone che si tolgono la vita, a volte anche giovani - ha detto affidando a Maria tutte le mamme che soffrono -. Oggi desidero esprimere la mia vicinanza, in modo speciale alle madri che hanno figli sofferenti, figli malati, figli emarginati, figli carcerati. Una preghiera particolare per le mamme dei figli detenuti, perché non venga meno la speranza”. Non sono state fornite le generalità del giovane che, secondo quanto ricostruito, dopo aver effettuato la visita medica si sarebbe suicidato all’interno della camerata a cui era stato assegnato, dopo aver atteso che le persone con cui divideva quegli spazi fossero uscite per fumare una sigaretta. “Il Friuli-Venezia Giulia, la sua politica, le sue istituzioni e tutta la sua società, sembrano ormai assuefatte a quanto sistematicamente avviene nel Cpr di Gradisca d’Isonzo, da tempo noto per essere il più degradato e problematico d’Italia, al cui interno le persone vivono 24 ore su 24 nelle gabbie senza alcuna attività. E dove non entra quasi mai nessuno, né associazioni esterne alla gestione (il cui accesso è sistematicamente ostacolato), né esponenti politici, sociali e sindacali per effettuare monitoraggi indipendenti”, hanno dichiarato il Centro Ernesto Balducci di Zugliano (UD), la comunità di San Martino al Campo di Trieste, l’Ics-Consorzio italiano solidarietà di Trieste, la rete Dasi Friuli- Venezia Giulia e la rete nazionale RiVolti ai Balcani, evidenziando come la morte del giovane cittadino pakistano sia solo l’ultima di un’allarmante sequenza. Le associazioni impegnate nella tutela dei diritti dei migranti, denunciano che il Cpr di Gradisca è il buco nero del Friuli- Venezia Giulia. Ci tengono a precisare che a poco serve sostenere che la tragica scelta del giovane che si è suicidato all’ingresso nel centro è stata imprevedibile o che la brevità della permanenza non consente di legare il gesto alle condizioni della struttura. Sì, perché - proseguono nella denuncia - “poiché questa ennesima tragedia, anche per la sua dinamica, solleva, al pari delle molte altre morti che sono avvenute nel Cpr, interrogativi inquietanti sull’esistenza e il concreto funzionamento di questa “istituzione totale” sopravvissuta a ogni riforma ed evoluzione sociale e destinata a persone che vengono trattenute in condizioni di gran lunga peggiori di quelle carcerarie senza tuttavia che debbano espiare alcuna pena”. Le associazioni chiedono quindi “l’avvio di un’adeguata e approfondita indagine, anche in sede giudiziaria” che non riguardi solo questa tragedia “ma anche e soprattutto quanto quotidianamente accade all’interno di quel centro nel suo complesso e da troppo tempo e sulle ragioni di tanta sistemica situazione di violenza e degrado. Parimenti è necessario chiedersi se la prefettura di Gorizia, responsabile diretta della gestione del luogo, l’Azienda sanitaria locale, la questura di Gorizia, la Regione, ognuna per i propri ruoli e competenze, insieme a tutta la società regionale, intendano riflettere seriamente sullo stato in cui versa questo buco nero della nostra società”. La campagna LasciateCIEntrare ha ricevuto un video nel quale si sentono i migranti trattenuti al Cpr gridare: “È morto un ragazzo, assassini”. Nel video si vede un lenzuolo prendere fuoco e la tensione è evidente. “Ci chiedono di dire - denuncia l’associazione - che si è ucciso dalla disperazione per quella scelta sulla sua vita. Ci dicono che era nella zona blu, dove tolgono i telefoni e dove vanno le persone appena entrate. I detenuti ci dicono che gli viene nascosto dagli operatori del centro il nome del ragazzo nonostante le loro richieste”. Da dentro al Cpr “raccontano che molti, dopo le udienze con il Giudice di pace, si sentono male e altri hanno provato a impiccarsi, salvati poi dai compagni di stanza. Raccontano che in quei momenti si sta molto male e si perde la testa. Ci raccontano che è peggio di qualsiasi carcere e che nel cibo vengono messi psicofarmaci. Ci chiedono che parlamentari e giornalisti raccontino quello che succede realmente nei Cpr ed entrino”. L’ultima visita parlamentare era stata il 17 giugno scorso. La deputata Doriana Sarli e la senatrice Paola Nugnes, assieme ad una legale e un mediatore, hanno fatto una visita ispettiva di otto ore. “Questi Cpr sono dei centri di detenzione senza colpa che soffrono le pene dell’inferno, la situazione è gravissima, i diritti sono sospesi. È un buco nero!”, hanno dichiarato all’uscita dal centro. Attualmente sono dieci i Cpr attivi in Italia (Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma, Palazzo San Gervasio, Macomer, Brindisi-Restinco, Bari-Palese, Trapani-Milo, Caltanissetta-Pian del Lago) censiti nello studio “Buchi neri” della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) che calcola una capienza complessiva di 1.100 posti e un costo totale di gestione di 44 milioni di euro tra il 2018 e il 2021. Tra giugno 2019 e luglio 2021 sono sei i cittadini stranieri che hanno perso la vita mentre scontavano la detenzione amministrativa. Sono dei buchi neri anche per quanto riguarda l’accesso. In qualunque momento, senza alcuna autorizzazione, possono entrare membri del governo e parlamentari. Altre figure con libertà di accesso sono il delegato in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) o suoi rappresentanti autorizzati e i Garanti dei diritti dei detenuti. Associazioni, giornalisti e personale della rappresentanza diplomatica o consolare del Paese d’origine del recluso possono entrare, invece, solo se autorizzati dalla prefettura. Nel rapporto sulle visite effettuate nei Cpr dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale una delle raccomandazioni è che “venga aumentata la permeabilità e l’osmosi dei centri rispetto ai territori, con la partecipazione anche di espressioni della società civile, per la realizzazione di attività anche di tipo formativo rivolte alle persone trattenute, per un significativo impiego del tempo trascorso in privazione della libertà personale”. Tra gli aspetti critici di carattere gestionale il Garante evidenzia infatti che “l’impermeabilità del Cpr verso l’esterno, a lungo andare, gioca un ruolo negativo rispetto alla vita stessa delle strutture e di chi le abita. L’auspicabile apertura a osservatori esterni non istituzionali - università, media e associazioni - sebbene percepita come “fonte di pericolo”, aumenterebbe il grado di visibilità esterna delle strutture e della loro gestione, abbassando al contempo la divaricazione tra posizioni spesso di tipo ideologico e antagonista”. Dalla lettura del rapporto della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (Cild) emerge quanto queste realtà possano essere redditizie. Un modello di business che ricorda il mercato delle prigioni private negli Stati Uniti. Secondo le stime di Cild, “nell’ultimo triennio sono stati spesi 44 milioni di euro per sostenere una gestione privata della detenzione amministrativa che (…) non garantisce i diritti fondamentali dei trattenuti. Una media giornaliera di spesa pari a 40.150 euro per detenere mediamente meno di 400 persone al giorno (dalle 192 persone presenti al 22 maggio 2020 alle 455 presenti al 20 novembre 2020) per poi constatare che soltanto nel 50% dei casi si realizza lo scopo della detenzione senza reato. La detenzione amministrativa è, infatti, una “filiera molto remunerativa” e la gestione privatizzata dei Centri (finanche per i servizi relativi alla salute) è uno dei nodi più controversi”. Renoldi (Dap): “Allarme suicidi nelle carceri, pronto il piano” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 settembre 2022 Il record negativo battuto nel 2022. Il piano di Carlo Renoldi: “In arrivo altri 200 psicologi e 57 nuovi direttori penitenziari”. Il tetto dei 57 suicidi in carcere raggiunto nel 2021 è stato già superato: 59 nel 2022, e siamo solo a settembre. Con un’impennata estiva da record: 16 ad agosto, uno ogni due giorni. “Una sconfitta per lo Stato”, ha detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia, e ieri anche papa Francesco ha dedicato un pensiero alle “tante persone che si tolgono la vota” dietro le sbarre. “Ciascun suicidio ci interroga sugli sforzi da compiere per migliorare le condizioni di vita in carcere e intercettare il disagio delle persone prima che compiano gesti estremi”, dice Carlo Renoldi nella sua prima intervista da quando, a marzo scorso, è stato nominato capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Svelando un altro dato allarmante: “Voglio ricordare i 1.078 tentati suicidi sventati quest’anno grazie al tempestivo intervento del nostro personale, a cominciare dalla polizia penitenziaria, il cui prezioso ruolo stenta ad essere riconosciuto nella sua importanza. Tutti noi siamo grati ai vigili del fuoco che intervengono nelle sciagure o a poliziotti e carabinieri che ci garantiscono la sicurezza, ma non abbastanza a chi, negli istituti di pena, è impegnato quotidianamente spesso al di là dei compiti assegnati”. Che cosa si nasconde dietro queste cifre da record? “In generale i suicidi in carcere sono molto più frequenti rispetto alla situazione esterna, e l’esperienza insegna che i detenuti hanno bisogno di un supporto maggiore. Soprattutto quando intervengono fattori personali come la rottura di legami familiari, o quando prevale la paura di non farcela ad affrontare la detenzione, con la vergogna e lo stigma sociale che comporta; oppure quando il senso di vuoto esistenziale, soprattutto in chi vive in condizione di “marginalità sociale”, diventa un baratro che sembra non avere alternative”. Dall’esame dei singoli casi si riescono a intuire le cause del fenomeno? “Ci sono indicatori utili alla sua descrizione. Dei 59 suicidi del 2022, solo 25 riguardavano detenuti definitivi, gli altri erano in misura cautelare; 25 erano stranieri, 10 quelli con una diagnosi di patologia psichiatrica; in 8 casi il suicidio è avvenuto nei primi dieci giorni dalla carcerazione, mentre 3 avrebbero finito di espiare la pena quest’anno, uno addirittura il giorno dopo, e altri 5 nel 2023. Soltanto uno era nel circuito dell’alta sicurezza, riservato ai detenuti più pericolosi. In 22 casi il titolo si trattava di reclusi per reati di violenza sulle persone, tra cui 6 casi di maltrattamenti in famiglia. Sette avevano meno di 25 anni. Credo che l motivazioni vadano ricercate nei vissuti delle persone, e lì diventa decisivo il delicato e complesso lavoro di tutte le professionalità presenti nel carcere”. Che cosa prevede la sua circolare per un “intervento continuo” di prevenzione? “Abbiamo fornito a Provveditorati e Direzioni una serie di indicazioni per superare un approccio spontaneistico e non sistematico, sollecitando l’aggiornamento dei piani locali di prevenzione e sottolineando la rivitalizzazione degli staff multidisciplinari per elaborare progetti di sostegno. Abbiamo indicato una serie di “eventi sentinella”, con informazioni fornite dal personale, dal volontariato, dagli avvocati, dalle famiglie dei detenuti”. E quali interventi concreti sono necessari per ridurre il malessere dietro le sbarre? “Serve senza dubbio un maggiore supporto psicologico, quindi più personale medico specializzato inviato dalle Asl. Ma intanto noi ci siamo già mossi per quanto era in nostro potere e d’accordo con la ministra Cartabia abbiamo destinato circa 2.700.000 euro, con una variazione del bilancio in corso d’opera, per aumentare di 200 unità la presenza di psicologi: la profonda solitudine è spesso alla radice di tanti gesti estremi”. C’è chi chiede di aumentare le telefonate all’esterno consentite ai detenuti... “Prima della caduta del governo stavamo lavorando a una modifica del regolamento penitenziario che estendesse in maniera ancora più chiara e netta, rispetto all’emergenza pandemica, la possibilità delle telefonate e dei colloqui, ma la crisi politica ha arrestato la riforma. Ora stiamo per varare una circolare con la quale vengono valorizzate le videochiamate”. Il sovraffollamento è ancora un problema? “Il sovraffollamento è un problema cronico, attualmente l’indice globale è del 118 per cento, ma ci sono situazioni più gravi di altre. Napoli-Poggioreale, ad esempio, è una delle più critiche nei numeri; quando possibile effettuiamo dei trasferimenti, ma dobbiamo fare i conti con il “principio di territorialità”, secondo cui il detenuto deve essere assegnato all’istituto più vicino a quello di residenza, salva l’appartenenza alla criminalità organizzata. Auspichiamo che i flussi di ingresso vengano ridotti dalla riforma Cartabia che prevede un maggiore ricorso alle misure alternative, non di rado più efficaci del carcere”. Il Garante dei detenuti e i sindacati della polizia penitenziaria denunciano che il carcere sia il “grande assente” della campagna elettorale. Lo pensa anche lei? “Io penso che il carcere sia un tema complesso, che però riguarda tutti. Parlarne significa parlare di sicurezza collettiva, di reati spesso molto gravi e delle vittime che li hanno subiti; di come possiamo restituire alla società, come chiede la Costituzione, persone che non intendano più delinquere, e questo sarebbe un beneficio sociale, culturale ma anche economico per tutti. Perciò occorre parlare di qualità della detenzione, per assicurare costanti assunzioni di personale, con formazione e condizioni di lavoro adeguate, intervenire sull’edilizia, migliorare l’assistenza sanitaria e incrementare il lavoro dei detenuti”. E cosa è stato fatto, in concreto? “Tra qualche giorno, prenderanno servizio 57 nuovi direttori penitenziari, che andranno alla guida di istituti rimasti per troppo tempo con vertici costretti a dividersi tra più realtà. Lo sa che erano 25 anni che non si indicevano concorsi per assumerli? Abbiamo assunto 2.580 agenti penitenziari e altri 3mila lo saranno entro il 2023, adottato procedure semplificate per l’edilizia penitenziaria, previsto la costruzione di nuovi padiglioni con i fondi complementari del Pnrr, rilanciato il lavoro penitenziario alle dipendenze di imprese private operanti nel settore della innovazione digitale”. Ma la politica è sufficientemente attenta ai problemi del carcere? “Credo sia decisivo far comprendere che il carcere, con la sua enorme complessità e i suoi infiniti bisogni, riguarda tutta la società, non solo i detenuti e gli addetti ai lavori; un carcere che risponde al dettato costituzionale garantisce più sicurezza”. 59 suicidi in 8 mesi non sono numeri, erano vite di Sofia Antonelli* Il Riformista, 8 settembre 2022 Quasi la metà stranieri, molti affetti da disagi psichici e dipendenze. Persone che non avrebbero neppure dovuto trovarsi in prigione. C’è chi è finito dentro per aver rubato un cellulare, chi una pecora. Alle spalle nessun precedente, ma tante sofferenze e marginalità. Mai così tanti suicidi nei primi due terzi dell’anno. Cinquantanove in totale, più di uno ogni quattro giorni. In soli otto mesi non erano mai stati registrati così tanti decessi. In tutto il 2021 erano stati 57. Se questi numeri fanno impressione già di per sé, il paragone con quanto avviene nella società esterna desta ancora più clamore: in carcere ci si uccide 16 volte di più rispetto a quanto non avvenga nel mondo libero. Mentre l’Italia in generale è considerato un Paese con un basso tasso di suicidi a livello europeo, se si guarda alle sue carceri la posizione in classifica cambia notevolmente, attestandosi al decimo posto tra i paesi del Consiglio d’Europa. Questo è quanto Antigone racconta in un dossier realizzato per non far cadere nel silenzio il dramma che sta colpendo le carceri italiane nel 2022. Un documento voluto per raccontare i numeri, ma anche i luoghi e alcune delle storie di quelle 59 persone che hanno deciso di togliersi la vita. Se si guardano le biografie di queste 59 persone si scopre che quasi la metà era di origine straniera. Quattro le donne, una percentuale particolarmente alta rispetto agli anni precedenti. Molte le persone affette da disagi psichici o da dipendenze. Ma, come dicevamo, il dossier di Antigone non parla solo di numeri, ma soprattutto di vite e di storie. Storie di grande dolore, storie di marginalità. Storie di persone che in carcere si trovavano da poco o che avrebbero dovuto lasciarlo a breve. Storie anche di persone che in carcere non ci sarebbero dovute nemmeno essere. È questo il caso di G.T., un giovane ragazzo di 21 anni arrestato per il furto di un cellulare. A causa delle sue patologie psichiatriche, il Tribunale di Milano lo aveva dichiarato incompatibile con il regime carcerario chiedendo il suo trasferimento in Rems (Residenza per le misure di sicurezza). Dopo diversi mesi da quella pronuncia e un primo tentato suicidio, a fine maggio G.T. si è tolto la vita in una cella di San Vittore. Pochi giorni prima un altro ragazzo si era ucciso a poche celle di distanza. Il dossier riporta poi la storia di A.G., anche lui ventenne, anche lui affetto da disagio psichico, anche lui con un tentato suicidio alle spalle. Neanche due settimane dopo il suo ingresso in carcere si è tolto la vita al Lorusso Cotugno di Torino. Non aveva precedenti penali e quello era il suo primo arresto. C’è poi la storia di D.H., la giovane donna che prima di togliersi la vita nel carcere di Verona ha lasciato un biglietto d’addio al fidanzato. Il magistrato che da anni seguiva il suo caso, dopo il decesso della donna ha ammesso con dolore che con lei tutto il sistema aveva fallito. Tramite la testimonianza di un signore che ha contattato Antigone abbiamo poi saputo la triste storia di un uomo detenuto per aver rubato una pecora e chiesto il riscatto al proprietario. Affetto da disagio psichico, si è tolto la vita nel carcere di Castrovillari. Nessuno ne ha mai reclamato il corpo e dopo qualche settimana è stato sepolto nel cimitero della città a spese del comune. sono solo alcune delle storie raccolte nel dossier, ognuna frutto di personali trascorsi e sofferenze. Non possiamo però non guardarle nel loro insieme come indicatore di malessere di un sistema da cambiare, in cui il profondo isolamento e l’assenza di speranza la fanno da padrone. Gli interventi da apportare sarebbero molti, c’è bisogno di importanti riforme che andavano però fatte nei mesi scorsi. Oggi, a pochi giorni delle elezioni, non c’è più tempo. Ma c’è tempo per fare due cose. La prima è quella che Antigone ha chiesto attraverso la sua campagna “Una telefonata allunga la vita”, ovvero la liberalizzazione delle telefonate. Il regolamento attualmente in vigore ne prevede oggi solo una a settimana da 10 minuti, ma la sua entrata in vigore risale al 2000. Si tratta di un intervento semplice ma con un grande impatto sulla vita delle persone, soprattutto nei momenti di difficoltà, quando una voce cara può fare tanto. La seconda è chiedere a tutti i protagonisti della campagna elettorale di impegnarsi per portare avanti quelle riforme necessarie e urgenti per dare un senso alla pena, renderla meno afflittiva, in linea con il dettato costituzionale e la tutela della dignità umana. *Associazione Antigone “Non guardate con sospetto noi Magistrati di sorveglianza, venite in carcere” di Francesca Sabella Il Riformista, 8 settembre 2022 La strage silenziosa in carcere, giudici che non conoscono la realtà dove troppo spesso e con troppa facilità spediscono chi siede sul banco degli imputati. Un sistema penitenziario da rivedere e una cultura da cambiare. Ne abbiamo parlato con Donatella Ventra, magistrato di sorveglianza presso la Corte d’Appello di Salerno. Dottoressa Ventra, in carcere ci sono stati 59 suicidi in otto mesi, 14 solo nel mese di agosto e vale a dire più di uno ogni due giorni: è una strage. Un paese nel quale si muore in carcere e di carcere può definirsi civile? “Sono dati veramente allarmanti, abbiamo già superato il numero dei casi totali del 2021 (quando ce ne furono 57) con la differenza che siamo a settembre. Un altro dato che mi ha colpito molto è che i detenuti di origine straniera che si sono suicidati in carcere sono stati 28, costituiscono quindi il 47,5% dei casi. Questi sono dati molto preoccupanti, ma che purtroppo tristemente non mi sorprendono. Andando oltre i numeri, ci accorgiamo che ci sono tre categorie di soggetti a rischio suicidario: gli stranieri, i tossicodipendenti e soggetti con problemi di infermità psichiatrica”. Mi scusi, ma tossicodipendenti e persone con problemi di salute psichiatrica non sono due categorie di detenuti che in carcere non dovrebbero proprio starci? “Eh… Questa è una questione molto lunga. Purtroppo oggi i soggetti in cella che hanno queste problematiche trovano una struttura carceraria inadeguata sia a livello strutturale che organizzativo. Mancano i mediatori culturali per gli stranieri, manca un’adeguata assistenza sanitaria per la salute mentale. I mediatori culturali per gli stranieri, per esempio, sono importantissimi e la stessa cosa vale per i detenuti tossicodipendenti e con problemi di salute mentale: così la pena assume connotati afflittivi enormi. E non dimentichiamo che il carcere, anche nei soggetti che non hanno fragilità, crea di per sé un trauma. A tutto questo si aggiunge il sovraffollamento e la mancanza di agenti della polizia penitenziaria”. Eppure, il carcere non è affatto considerato come extrema ratio come invece dovrebbe essere per sua stessa natura, anzi vige una smania di manette a fronte di una società sempre più giustizialista. Lei cosa pensa? “Da anni si pensa di affrontare il problema del sovraffollamento come se fosse un’emergenza momentanea e invece è un problema strutturale. Il legislatore nel corso degli anni ha sempre pensato di apporre dei rimedi che si sono rivelati ben presto fallaci. In realtà ci sono state misure che hanno finito per sostituirsi alle misure alternative, in primis alla semilibertà che invece si basa su tutt’altro: principio rieducativo della pena e principio della gradualità del trattamento”. La soluzione troppo spesso, però, è “servono nuove carceri”, quando in realtà si dovrebbe cambiare questa cultura manettara… “No, non servono nuove carceri. Bisognerebbe innanzitutto migliorare le condizioni di vita all’interno del carcere e poi bisognerebbe incrementare l’accesso alle misure alternative. Per fare questo sarebbe necessario un cambio di orientamento culturale che purtroppo non c’è, perché bisognerebbe finalmente iniziare a considerare la fase dell’esecuzione della pena non come un’inutile appendice di un processo da liquidare in fretta e in modo semplicistico, ma come la fase più importante: quella in grado di attribuire un reale significato in termini di giustizia a tutto ciò che la precede. Capisco che l’appeal del carcere a livello politico è prossimo allo zero perché parlare di carcere non porta voti, però bisognerebbe invece invertire questa tendenza facendo capire che un sistema penitenziario efficiente, con maggiore accesso alle misure alternative al carcere, non soltanto consentirebbe di dare concreta attuazione ai principi di pari dignità umana e uguaglianza sostanziale che sono previsti dalla nostra Costituzione, ma consentirebbe anche di ab bassare il tasso di recidiva. La stessa figura del magistrato di sorveglianza oggi viene guardata quasi con sospetto, come se fossimo quelli che quasi distruggono le condanne, ma non è così. Io penso che per ogni magistrato bisognerebbe prevedere un periodo obbligatorio di lavoro in carcere. Ci sono colleghi che in carcere non ci sono mai entrati e questo è profondamente sbagliato”. Quanto sarebbe importante per un magistrato conoscere da vicino la realtà carceraria? “Sarebbe importantissimo. Noi abbiamo una Costituzione bellissima e ci dice che la pena deve essere rieducativa e non contraria al senso di umanità, ma questa funzione rischia di rimanere una formula astratta e priva di contenuti. Per un giudice che applica le leggi e in primis la Costituzione, ritengo che sia una carenza grave non conoscere le carceri. Dottoressa, mi dice una frase garantista…? “Direi ai miei colleghi di entrare in carcere almeno una volta perché altrimenti si ha una visione monca del sistema giustizia. Dobbiamo pensare che tutto ciò che precede la fase dell’esecuzione della pena e quindi indagini preliminari, processo di primo grado, appello, Cassazione, viene vanificato se dopo la condanna non ci si interessa più di quello che succede. Tutto quello che accade prima ha un senso se poi la pena viene eseguita in modo da darle un senso, altrimenti è tutto inutile”. Giustizia, nuovo scontro. Ora rischiano i decreti di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 settembre 2022 Riforme. Ora la palla è passata alle Commissioni giustizia di Camera e Senato. Il loro parere è obbligatorio ma non vincolante. E la strada è in salita. Rischia di diventare un’impresa impossibile. Sorpreso a luglio in mezzo al guado dalla crisi, il governo su spinta della ministra Cartabia ha deciso di provare comunque a portare a compimento la riforma dei codici di procedura penale e civile, due capitoli fondamentali del Piano nazionale di ripresa e resilienza perché funzionali alla riduzione dei tempi dei processi. Il percorso legislativo, da impegni con l’Europa, andrebbe concluso entro l’anno. Per non rischiare il governo ancora in carica per gli affari correnti ha presentato ad agosto i Decreti legislativi di attuazione delle Leggi delega che disegnano le riforme. Ora la palla è passata alle commissioni giustizia di camera e senato. Il loro parere è obbligatorio ma non vincolante. E la strada è in salita. Nelle prime riunioni di ieri, infatti, è apparso chiaro che con il liberi tutti della crisi e delle elezioni imminenti non è più possibile tenere la maggioranza legata al rispetto degli accordi che hanno consentito l’approvazione delle leggi delega. Accordi, del resto, accettati con fatica un po’ da tutta la composita maggioranza. Ieri in commissione giustizia al senato il Movimento 5 Stelle ha resuscitato le obiezioni alla riforma del codice penale che aveva accettato di mettere da parte a suo tempo. E così il senatore Grasso che si muove indipendentemente dal suo gruppo - e non è stato ricandidato. Il relatore Caliendo (Fi) ha detto all’Ansa che ha intenzione di proporre un’approvazione secca del testo del decreto, senza osservazioni. Ma è difficile immaginare forzature a governo dimissionario e camere sciolte. Ancora più accesa la discussione sul civile, sempre al senato il leghista Pillon è tornato sulla sua ossessione di imporre la mediazione anche nelle cause di violenza su donne e minori. “Non è concepibile”, ha replicato la Pd Rossomando. Oggi tocca alla camera. Se non si riuscirà a chiudere entro le elezioni c’è la quasi certezza che i decreti finiranno travolti dai tempi del nuovo parlamento. Decreto penale ancora sotto tiro: Grasso chiede modifiche a Cartabia di Valentina Stella Il Dubbio, 8 settembre 2022 È iniziata finalmente in Parlamento la discussione nelle commissioni Giustizia dei decreti attuativi della riforma del processo penale, propedeutica all’emanazione di pareri non vincolanti da fornire al governo, in particolare alla ministra Marta Cartabia. I commissari hanno tempo fino all’ 8 ottobre, essendo stato trasmesso il provvedimento il 9 agosto. Ma durante il mese precedente la questione non è stata affrontata, e quindici si trova a dover completare l’iter con meno di un mese alla scadenza. Comunque il 6 settembre il presidente della commissione Giustizia del Senato, il leghista Andrea Ostellari, ha conferito l’incarico di relatore al suo collega di Forza Italia Giacomo Caliendo. Quest’ultimo ha illustrato brevemente il provvedimento, per poi lasciare la parola a Pietro Grasso (Gruppo Misto - Liberi e Uguali- Ecosolidali) che ha sollevato una serie di perplessità a partire dal “novellato articolo 447 del codice di procedura penale (richiesta di applicazione della pena nel corso delle indagini preliminari) che ora prevede che - nel decreto di fissazione dell’udienza per la decisione sul cosiddetto patteggiamento sia indicata l’informazione alla persona sottoposta alle indagini della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa. Non si capisce - ha detto l’ex magistrato - in particolare se essa sia alternativa all’accordo delle parti sulla pena da irrogare (e quindi si ponga di fatto come un ulteriore ‘rito speciale’) o una condizione che diventi parte integrante dell’accordo tra le parti. Se così fosse potrebbe esservi una disparità di trattamento legata alle possibilità delle persone indagate, in quanto non tutti potrebbero avere le risorse economiche per poter riparare il danno: forse andava specificato che si fa riferimento ai programmi di giustizia riparativa ‘ anche nelle forme non risarcitorie’, o forse andava effettuato un rinvio alle nuove disposizioni sul tema”. Il tema della giustizia ripartiva, come sanno bene i nostri lettori, è stato al centro negli ultimi giorni anche di un vivace dibattito sulle nostre pagine. Inoltre, ha proseguito il parlamentare, “una parte molto delicata della delega riguarda i criteri di priorità elaborati del Parlamento con legge da indicare nei progetti organizzativi delle procure. Il Governo nel dare attuazione a questo principio di delega, correttamente, non è entrato nel merito dei criteri generali, ma si è limitato a prevedere che nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale il pubblico ministero si debba conformare ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio. Sin qui nulla da obiettare. Ma seri dubbi e perplessità sorgono circa l’attuazione del principio della separazione dei poteri che connota ancora il nostro ordinamento, se si coordina questa disposizione con quella approvata nella riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, dove - in materia di progetto organizzativo della Procura - si stabilisce che i criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale siano indicati con legge dal Parlamento”. La terza criticità sottolineata da Grasso riguarda “l’obbligo di trasmettere i progetti organizzativi degli uffici requirenti al Ministro della giustizia per eventuali osservazioni. Questo consentirebbe anche al Governo di poter incidere sulle modalità con cui il Procuratore organizza una funzione di cui, invece, deve essere esclusivo titolare”. La lista proseguirebbe ma rimandiamo al resoconto sul sito di Palazzo Madama. Oggi pomeriggio la discussione si apre anche in commissione Giustizia alla Camera, dove si prevede che il Movimento 5 Stelle sollevi varie obiezioni sul provvedimento. Ergastolo ostativo, i partiti affossano la legge: “Legislatura finita” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2022 Affossata definitivamente la riforma dell’ergastolo ostativo per mafiosi e terroristi detenuti che non hanno collaborato. Al Senato, con l’eccezione del M5S, tutti i partiti hanno deciso che la legislatura finisce con il voto sul decreto Aiuti. Saltano anche l’equo compenso e la delega fiscale. E alla Camera, il M5S la settimana prossima non voterà i decreti attuativi della delega penale se durante l’esame, che comincerà oggi in commissione Giustizia, relatori Giulia Sarti, M5S e Franco Vazio, Pd, non saranno accolte alcune richieste, a partire da puntualizzazioni su cosa accade alle confische in caso di dichiarata improcedibilità di un processo in Appello. Tornando all’ergastolo ostativo, ieri, alla capigruppo, è stata la presidente dei senatori M5S, Mariolina Castellone, a chiedere, di nuovo, di votare la riforma, ma le altre forze politiche, compreso il Pd, che pure aveva sempre dichiarato di essere favorevole, hanno sostenuto che non c’è tempo. “Si sarebbe potuta votare mercoledì, ma c’è stata una ‘sommossa’ da parte di tutti, ci dice Castellone, anche della presidente Casellati, preoccupata che non ci sia la quadra sul decreto aiuti. Come M5S, fino alla fine abbiamo provato a far votare una riforma necessaria per evitare il rischio che escano dal carcere boss mafiosi pericolosi, ma evidentemente per le altre forze politiche questa riforma non è una priorità”. Si fa più concreta, dunque, la possibilità che sia la Corte costituzionale, che ha già operato in merito ai permessi premio, a indicare ai giudici di Sorveglianza i “parametri” anche per concedere la condizionale a detenuti mafiosi all’ergastolo pur non avendo mai collaborato. Nell’aprile 2021 la Corte, dichiarando incostituzionale l’ostativo pure per la condizionale, aveva ordinato al Parlamento di legiferare in merito e gli aveva dato 12 mesi di tempo. A maggio scorso, durante un’udienza per un ricorso, la Corte, in considerazione del fatto che la riforma era stata già approvata a Montecitorio ad aprile e si trovava in commissione Giustizia del Senato, decise d concedere al Parlamento altri 6 mesi, fino all’8 novembre. Le elezioni anticipate, ovviamente, non erano all’orizzonte ma il Senato, comunque, se avesse voluto, avrebbe avuto tutto il tempo di approvare la riforma, ieri, invece, l’ha cestinata. All’udienza dell’8 novembre, la Corte dovrà decidere se entrare nel merito del ricorso perché il vecchio Parlamento ha fallito l’obiettivo o se, invece, dare tempo al nuovo Parlamento che, in quel caso, dovrà ricominciare da zero. Così ha fallito la politica del “buttare la chiave” di Alberto Cisterna Il Riformista, 8 settembre 2022 Femminicidi, pestaggi, vittime della strada: l’estate che sta finendo dimostra il flop delle politiche securitarie e populiste che hanno governato i processi di penalizzazione in questi anni. Si avvia a conclusione un’estate terribile, l’ennesima in verità. Efferati femminicidi, risse tra giovani per le strade della movida, povere vittime travolte da automobilisti ubriachi, addirittura senza patente. Si fanno i soliti bilanci, si conta cinicamente il numero delle vittime, si accendono le polemiche, si invocano ulteriori giri di vite. Eppure. Eppure su tutti questi comportamenti e per tutte queste devianze il Parlamento non aveva mancato di intervenire con pugno di ferro. Pene alte, addirittura misure di prevenzione antimafia per lo stalking, aumenti delle sanzioni per il reato di rissa dopo il pestaggio mortale del povero Willy Monteiro. E a seguire i soliti annunci sulla fine della tolleranza, sulla mano dura, sul carcere come rimedio a ogni violazione. Questa estate mostra con tutta evidenza il fallimento delle politiche securitarie e populiste che hanno governato i processi di penalizzazione negli ultimi anni. In fondo sono proprio questi terribili bilanci, il ripetersi ininterrotto delle morti e dei pestaggi che dovrebbe costituire oggetto di riflessione in una campagna elettorale ormai alle ultime battute e che vede, in qualche misura, recuperare al dibattito soprattutto grazie a Nordio e alla Rossomando nei due schieramenti principali - la questione giustizia. Questione, sia chiaro, che ha mille rivoli, ma che in mancanza di una precisa idea sulla funzione della pena e sulla sua efficacia deterrente rischia di non condurre ad alcuna soluzione efficace e organica. Il ruolo del pm, la durata ragionevole del processo, la presunzione di innocenza, la deflazione dei dibattimenti con i riti alternativi; tutti e ciascuno di questi temi ruota intorno alla funzione che si intende assegnare al carcere come luogo “privilegiato” in cui espiare le proprie responsabilità. Se la reclusione carceraria si erge a unica, vera sanzione efficace contro ogni delitto e contro ogni devianza, allora occorre interrogarsi sul perché abbia così miseramente fallito nel contrasto a fenomeni di così grande allarme sociale; il femminicidio e l’omicidio stradale tra tutti. Se la società non si sente protetta da condotte così impattanti e da eventi così diffusi, dovrebbe essere arrivata la stagione di un profondo ripensamento della funzione del carcere e della pena, come Luigi Manconi - in quasi assoluta solitudine - propone da tempo. Si badi bene: è proprio sul carcere e sulla pena che si gioca la stessa caratura garantista del processo e la vera parità delle parti in esso. Un pm o un qualunque organo di accusa che sia in grado di minacciare una lunga detenzione ha un peso che nessuna regola processuale e nessuna garanzia è capace di contenere e mitigare. Negli ordinamenti in cui la pena esemplare assolve a una funzione di deterrenza sociale su larga scala è inevitabile che lo stesso processo sia avvertito come una minaccia da evitare. Negli Usa e in Gb è in corso da decenni la polemica sui troppi patteggiamenti conclusi dall’accusa con imputati che temono le giurie, non hanno denaro per pagare i propri avvocati e, soprattutto, vogliono evitare pene severe quantunque innocenti in troppi casi. Certo dismettere il nodo scorsoio del carcere e meditare sulla costruzione di sistemi sanzionatori alternativi è un percorso faticoso, urticante, lontano finanche da una sensibilità collettiva che per decenni è stata alimentata da slogan efficaci (“buttare le chiavi”, “farli marcire dietro le sbarre”) e dalla dilatazione, spesso sproporzionata, del ruolo mediatico alle vittime e ai loro congiunti inevitabilmente alla ricerca di una pena che possa contenere il loro dolore e le loro sofferenze. Con tutte le inevitabili frustrazioni ed esasperazioni che si scatenano, poi, quando nelle aule di giustizia si tenta un delicato punto di equilibrio nell’individuazione della pena più conforme al dettato costituzionale. E’ emblematico, in queste settimane di polemica politica, che il pendolo penale oscilli tra la necessità - condivisa da Nordio e dalla Rossomando - di una modifica del reato di abuso d’ufficio e di alcune prescrizioni della legge Severino a carico degli amministratori pubblici e l’idea a esempio di inasprire le pene per i casi di femmicidio e le violenze domestiche. Nel primo caso è addirittura la sola prospettiva del processo a paralizzare l’attività amministrativa e a congelare il governo della cosa pubblica, nel secondo il delirio omicida non si arresta di fronte a qualunque sanzione o pena. Con il clamoroso paradosso che la deterrenza si esercita al massimo grado nei confronti degli amministratori - resi cauti da congegni sanzionatori multilivello previsti per un reato in fondo bagatellare come l’abuso d’ufficio - e invece non esplica alcun effetto per le risse, i femminicidi o gli omicidi stradali che turbano profondamente la pubblica opinione. Occorrerebbe avere l’onestà intellettuale di riconoscere che solo un più minuto e fine controllo del territorio, una più efficace e capillare polizia di prossimità sono in grado di prevenire, di agire tempestivamente e, quando, occorre di reprimere i prodromi delle violenze e delle devianze. Ma in Italia migliaia e migliaia di appartenenti alle forze di polizia sono assorbiti in un elefantiaco sforzo di aggressione a fenomeni di cui, invero, sono solo declamate e pubblicizzate le manifestazioni, ma che appaiono ampiamente recessivi perché duramente colpiti e repressi. Negli ultimi tre decenni si sono costruite mastodontiche macchine investigative, attuati controlli telefonici su larga scala, implementate misure di prevenzione che erano, verto, indispensabili a colpire fenomeni virulenti e pericolosi. E’ forse il tempo di ragionare sulla appropriatezza di questi apparati rispetto ai fini da conseguire e, soprattutto, ai (modesti spesso) risultati che vengono conseguiti. Evasione fiscale, devastazione ambientale, scorrerie automobilistiche, femminicidi, pestaggi e quant’altro imporrebbero un più razionale e meglio orientato impiego sul territorio delle (scarse) risorse a disposizione, rassicurando i cittadini con le divise per le strade e non con le sbarre di una cella. Bongiorno: “Emergenza giustizia, serve cura forte. Csm da demolire” di Elena G. Polidori Quotidiano.net, 8 settembre 2022 Candidata a Roma con la Lega. “La modifica della Cartabia va rivista”. Violenza alle donne: “Il codice rosso è un successo, ma non basta”. Futuro da ministro? “Preoccupiamoci di vincere, è più importante” Giulia Bongiorno, se dovesse vincere il centrodestra farà di nuovo il ministro? “Ma non si parla di queste cose! (ride, ndr). Preoccupiamoci della cosa più importante: che i cittadini vadano a votare. Non esiste la vittoria in tasca, e da avvocato dico sempre che, finché non si ha la sentenza, non si deve dare nulla per scontato”. Questione delicata, quella della posizione della Lega rispetto alle sanzioni verso la Russia. Le parole di Salvini a Cernobbio hanno messo in evidenza una disparità di vedute sul tema dentro il centrodestra… “C’ è una sistematica strumentalizzazione delle parole di Salvini su tutto ciò che riguarda la Russia. In primo luogo, abbiamo sempre votato a favore delle proposte del governo sulla guerra e sulle sanzioni. Salvini ha solo affermato che l’Europa dovrebbe farsi carico degli effetti negativi che le sanzioni di riflesso stanno cagionando sugli italiani. Nessuna posizione equivoca sulla Russia, che è senza dubbio il paese aggressore”. Ci saranno sacrifici da fare in inverno… “In quest’ottica, il segretario della Lega ha richiamato la necessità di un sostegno da parte dell’Europa”. Se andrete al governo rimetterete mano alla riforma della giustizia, rimasta a metà? “Il ministro Cartabia ha fatto un grandissimo lavoro: ma la maggioranza era composta, oltre che da noi e FI, da Pd e 5 Stelle, e il ministro ha dovuto mediare tra posizioni di partiti con idee anche molto diverse sul tema. Questo non le ha consentito di attuare una riforma veramente incisiva. Pd e 5Stelle hanno sempre frenato. Ecco perché il lavoro fatto finora è insufficiente”. Di cosa parliamo quando si fa riferimento a una riforma costituzionale sulla giustizia? “Innanzitutto, di una riforma del Csm. Una casa da demolire e ricostruire da zero, puntellare non serve”. Vi accuseranno di lavorare contro la magistratura… “Lo abbiamo messo in conto, ma così non è. Noi siamo contro il correntismo esasperato, di cui la magistratura stessa è la prima vittima. La degenerazione delle correnti mette a rischio l’imparzialità del giudice: perché magari in un’aula di giustizia c’ è un pubblico ministero che fa parte di una potente corrente che potrebbe incidere sulla carriera del giudice. Gli scandali degli ultimi anni, come quello fatto emergere da Palamara, hanno reso evidente qualcosa che noi sapevamo da tempo, ovvero che dentro il Csm ci sono correnti particolarmente influenti, in grado di incidere sulla carriera dei magistrati, a prescindere dal merito. E alcune correnti hanno più peso di altre…” Voi volete anche la separazione delle carriere, giusto? “Certo. Noi vogliamo anche due distinti Csm, uno per la magistratura inquirente e l’altro per la magistratura giudicante. E a chi ci accusa di porre così l’azione del pubblico ministero sotto il potere esecutivo, rispondo che è un’assurdità; i giudici non devono essere controllati da nessuno, men che meno possono essere alla merc é delle correnti, e devono essere indipendenti dalla politica. Ma per raggiungere questo obiettivo è necessaria una riforma profonda del Csm, tema sul quale il centrodestra è compatto”. Resta il tema dell’elezione al Csm dei magistrati... “La soluzione che permette di recidere il legame tra correnti ed eletto è il sorteggio temperato. Nel senso che, fatto un elenco di magistrati con determinati requisiti, si va a sorteggio sulla parte finale dell’elezione. Solo così si estirpa il cordone ombelicale che lega il candidato al suo elettore. Insomma, noi vogliamo che il sistema delle carriere della magistratura diventi meritocratico: non c’ è altro modo modo per porre fine alla degenerazione del correntismo interno esasperato”. Dopo la riforma della giustizia, probabilmente il centrodestra di governo dovrà rimettere mano alla legge sulla violenza alle donne... “Prima di dire quel che farò, vorrei ricordare che, in veste di presidente della commissione Giustizia, ho voluto e mandato avanti la legge sullo stalking, che sta funzionando molto bene. Con la Lega ci siamo poi fatti sostenitori del Codice Rosso, che prevede nuove norme a tutela delle donne, per esempio, sul revenge porn e sui matrimoni forzati, e la riduzione dei tempi tra il momento del deposito di una denuncia e quello in cui lo Stato interviene. Il lavoro non è concluso” Perché? “Perché la norma sul Codice Rosso non sempre viene applicata correttamente. C’ è scritto che la donna dev’essere ascoltata entro tre giorni dal momento dell’iscrizione della notizia di reato, ma non sempre è così. Questo provoca dei ritardi nella valutazione dell’eventuale applicazione di misure cautelari a carico dell’indagato. Trovare il coraggio di denunciare è tutt’altro che facile e, se si sentono tradite dallo Stato, se hanno la sensazione di non essere tutelate, le donne rinunciano a parlare. E a proposito di donne non tutelate. La legge elettorale stabilisce regole precise sulla rappresentanza di genere, ma i partiti sono riusciti a trovare il sistema per aggirarla: si mette una donna capolista in più collegi, e sotto tutti uomini. Lei viene eletta, ma è una, e gli uomini sono sempre in numero superiore… “Nei collegi uninominali la Lega ha candidato il 56% di donne: un dato oggettivo che esprime una volontà ben precisa. Aggiungo che il Codice Rosso esiste perché avevo iniziato a parlare di quest’idea ben prima di candidarmi con la Lega, e Salvini ha fatto in modo di inserirla nel nostro programma. Senza la Lega, il Codice Rosso non sarebbe mai approdato in parlamento”. Nordio: “Certezza della pena? Mi occupo delle vittime di errori giudiziari” di Simona Musco Il Dubbio, 8 settembre 2022 Sul garantismo non c’è nessuna contraddizione interna a Fratelli d’Italia. Parola di Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia e ministro della Giustizia ideale della leader Giorgia Meloni, che nonostante le parole del responsabile giustizia Andrea Delmastro, secondo cui “bisogna smetterla con il garantismo” rassicura gli elettori sull’unità di intenti della coalizione di centrodestra. “Lo scopo del diritto penale è non lasciare impunito il delitto e non condannare l’innocente - spiega -. Nel programma di governo la concordia è totale sulle priorità”. L’eventuale vittoria della destra aprirebbe una stagione di nuove riforme della Giustizia, a partire da quanto seminato dalla ministra Cartabia. Quali sono le priorità e perché? La priorità assoluta è la lentezza dei processi penali e civili, madre dell’incertezza del diritto, della sfiducia dei cittadini e di un rallentamento dell’economia che ci costa un due per cento di Pil. A questa si rimedia con una semplificazione delle procedure e con un adeguato aumento di risorse, non solo di magistrati ma soprattutto di collaboratori amministrativi. La seconda urgenza è la piena attuazione del codice Vassalli, un codice liberale voluto da un socialista decorato dalla Resistenza, che è stato progressivamente demolito. La terza è la risoluzione della nostra contraddizione più perniciosa: in Italia è tanto facile entrare in galera prima della condanna, da presunti innocenti, quanto è facile uscirne dopo, da colpevoli conclamati. Il dottor Scarpinato, sul Fatto Quotidiano, ha sostenuto che le sue proposte in tema di giustizia siano contrarie alla Costituzione, in quanto eliminerebbero i capisaldi posti a garanzia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario. Come risponde a queste accuse? Ogni volta che si propone una riforma seria, arriva un predicatore apocalittico che ci prospetta una dittatura. Invece si tratta proprio di risolvere quelle antinomie tra codice e Costituzione che paralizzano la Giustizia. Mi spiego: la Costituzione, nata dalla Resistenza, ha paradossalmente recepito i princìpi del processo penale del 1930 firmato Mussolini, che i padri costituenti avevano davanti: unità delle carriere, obbligatorietà dell’azione penale, privilegio della prova scritta e un ruolo del Pm che era la brutta copia del Giudice Istruttore. Nel 1989 Giuliano Vassalli, ripeto un socialista ed eroe partigiano, ha invece introdotto il codice cosiddetto anglosassone, che funziona con principi radicalmente opposti, a cominciare dalle carriere separate. Lo stesso Vassalli ammise all’epoca che si sarebbe dovuto adattare la Costituzione. Possiamo farlo ora. Non è un sacrilegio, perché i tempi mutano. Soltanto la “Veritas Domini”, come recita il salmista, “manet in aeternum”. Le sue proposte garantiste stridono con alcuni aspetti della propaganda politica di Fratelli d’Italia, che è invece un partito che invoca più pene e manette facili. Il responsabile giustizia, Andrea Delmastro, ha addirittura affermato: “Bisogna smetterla con il garantismo”. Come spiega agli elettori questa contraddizione? E come si concilierebbe con la sua eventuale nomina a ministro della Giustizia, così come pare essere nelle intenzioni di Meloni? Prima di tutto non sappiamo chi sarà il ministro della Giustizia, la cui nomina, prerogativa del Capo dello Stato, dipende da una serie di variabili. Per quanto riguarda il garantismo, ho sempre detto che esso ha due volti: la presunzione di innocenza e la certezza della pena dopo la condanna definitiva. Non c’è alcun contrasto con Delmastro: lui non dice basta con il garantismo, ma basta con il garantismo in fase esecutiva, che è poi la contraddizione perniciosa di cui parlavo prima. Ci siamo divisi i compiti: lo scopo del diritto penale è non lasciare impunito il delitto e non condannare l’innocente. Lui interpreta le sacrosante esigenze delle vittime del reato, io quelle delle vittime degli errori giudiziari. Oggi nessuna delle due è tutelata. Alcune sue proposte hanno anche suscitato le reazioni degli altri partiti della coalizione. Crede che questo possa essere un problema per la futura compagine governativa, in caso di vittoria del centrodestra? In una coalizione ci sono sensibilità differenti, e lo si è visto anche durante il referendum, ma nel programma di governo la concordia è totale sulle tre priorità che ho elencato prima. Quanto all’immunità parlamentare ho già detto e ripetuto che non è affatto un’urgenza: semplicemente ritengo che i nostri padri costituenti, che non erano degli ingenui, avessero fatto bene ad introdurla, e che negli anni 90 fosse stato un errore abolirla. Nella sua carriera da magistrato ci sono stati momenti in cui ha difeso lo strumento della custodia cautelare, sottoscrivendo un documento assieme ai suoi colleghi contro le norme che riducevano le possibilità di disporla. Cosa le ha fatto cambiare idea? È vero: quando nel 1992 indagai sulla tangentopoli veneta, vidi una tale estensione di illegalità e di sperperi che usai anch’io la custodia cautelare in modo severo. Mi fecero cambiare idea alcuni eccessi che provocarono sofferenze, e persino suicidi, di persone magari colpevoli ma incarcerate senza necessità, e feci autocritica. Nel 1996 lo dissi a Cernobbio, e alcuni quotidiani scrissero in prima pagina: “Il giudice Nordio si pente”. Non mi ritenni affatto offeso, era così. Quello che mi irritò furono le reazioni delle solite anime belle della magistratura, che mi consigliarono di autodenunciarmi. Loro non avevano mai sbagliato: beate loro. Le riforme Cartabia hanno tentato di porre un argine alle porte girevoli. Come giudica la presenza delle toghe in politica e qual è la soluzione migliore? Ho sempre detto che un magistrato in servizio non dovrebbe mai candidarsi, soprattutto se ha indagato su politici, per non suscitare due sospetti: di aver strumentalizzato le sue indagini per far carriera in Parlamento, e di utilizzare in modo improprio le informazioni sensibili di cui potrebbe essere in possesso. Io stesso ho accettato la candidatura dopo quasi sei anni dal pensionamento, e ancora con molte esitazioni. In ogni caso chi entra in politica non può poi rivestire la toga. Gli ultimi tre procuratori nazionali antimafia sono entrati in politica un minuto dopo aver appeso la toga al chiodo. La Dna serve solo come trampolino? Non serve come trampolino, ma secondo me occorrerebbe un congruo intervallo tra le dimissioni e la candidatura, non solo per le ragioni che ho detto prima, ma anche per evitare il sospetto che gli approcci con i partiti siano avvenuti mentre il magistrato era in servizio. Qual è la sua ricetta contro il correntismo? Il correntismo in sé non è un male, è giusto che all’interno di un sindacato vi sia un dibattito tra chi ha idee differenti. È la correntocrazia, o “correntopatia”, che va sradicata. Io credo nel sorteggio dei membri del Csm, da effettuarsi nell’ambito di un canestro composto di magistrati anziani, docenti universitari e presidenti di ordini forensi. È vero che c’è il rischio che anche i sorteggiati diventino una corrente. In fondo è sempre questione di educazione, indipendenza e sensibilità istituzionale. Ma quella è come il coraggio: se non ce l’hai, non te la puoi dare. Un magistrato a via Arenula è un tabù? No, ma non è detto che, pur essendo un buon giurista, sia anche un buon politico e un buon organizzatore. Lo stesso accade negli uffici giudiziari: presidenti di tribunali bravissimi nello scrivere sentenze si rivelano pessimi manager. Il ministro dev’essere essenzialmente un coraggioso politico e un abile diplomatico. Poi le leggi le fa il Parlamento. La sua proposta sui tagli alle intercettazioni è stata giudicata in maniera negativa dal presidente della Commissione Giustizia alla Camera Mario Perantoni, secondo cui “la destra fa l’occhiolino a mafie e delinquenti alla ricerca del loro sostegno”. Come incide la sua idea sulla lotta alle mafie? Bisogna avere della mafia una concezione infantile per credere che i mafiosi parlino al telefono. Un vero criminale parte dal presupposto di esser intercettato anche se parla in aperta campagna: se lo fa al cellulare è perché vuole che si ascolti quello che dice, per depistare le indagini. E in effetti molte inchieste fondate sulle sole intercettazioni sono finite male, con errori colossali, e costi altissimi in termini di denaro e di sofferenze. Noi intercettiamo il quadruplo, e forse più, della media europea, dieci volte la media americana e trenta volte quella britannica. La grandissima parte delle intercettazioni è inutile, costosa e dannosa. Con quei soldi potremmo assumere molto personale, e creare centinaia di pattuglie aggiuntive per il controllo territoriale, il miglior mezzo per garantire la sicurezza dei cittadini. Csm, per le toghe quella disciplinare è una giustizia “domestica” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 8 settembre 2022 “L’intera responsabilità disciplinare è dominata da una logica profondamente sbagliata: quella che operi esclusivamente all’interno del circuito giudiziario e sia del tutto indifferente agli effetti che le condotte dei magistrati producono su chi attende giustizia, quale che sia il suo ruolo”. A dirlo sono gli avvocati Vincenzo Giglio e Riccardo Radi che sul loro blog “Terzultima fermata” hanno pubblicato questa settimana una interessante raccolta di sentenze di assoluzione della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, tutte con motivazioni a dir poco sorprendenti. “Nella selezione del campione delle decisioni - proseguono i due avvocati - ci siamo fatti guidare da alcuni criteri: abbiamo preso in considerazione l’ultimo massimario disponibile, volendo privilegiare la giurisprudenza più recente e abbiamo selezionato quasi solo provvedimenti che riteniamo più distanti dal sentire comune o dal ciò che normalmente accade in altri ambiti giudiziari e disciplinari”. La casistica prodotta, come detto, è quanto mai variegata. In questa sede vale la pena soffermarsi solo sulle assoluzioni che hanno riguardato magistrati che, per un motivo o per l’altro, si erano “dimenticati” di liberare le persone che si trovavano in quel momento sottoposte allo loro custodia. Una azione quanto mai fastidiosa, essendo la libertà personale uno dei maggiormente tutelati dalla Costituzione. La giustificazione usata dalla Sezione disciplinare del Csm per assolvere il magistrato “sbadato” è quasi sempre la ‘ scarsa rilevanza del fatto”. Ma andiamo con ordine. Il primo caso preso in esame è quello di un pm presso il Tribunale dei Minori “che ha omesso di richiedere la cessazione della misura della permanenza in casa”. Per il Csm, tale “condotta non ha determinato alcun discredito per l’ordine giudiziario essendo emersa solo in sede di ispezione ministeriale, non è stata presentata istanza di riparazione per ingiusta detenzione, il fatto non ha avuto eco o risonanza mediatica e non vi è stato alcun pregiudizio per il minore per il quale la prosecuzione si è, invece, rivelata vantaggiosa”. Il secondo, invece, riguarda un giudice del dibattimento “che dispone la scarcerazione dell’imputato oltre il termine di durata massima custodiale”. Sempre per il Csm, si è trattato di un “unico episodio nella carriera del magistrato” ed è “mancata (la) compromissione dell’immagine del magistrato, essendo stato accertato il ritardo solo in sede di ispezione ministeriale”. L’ultimo caso, infine, riguarda un gip che non ha rispettato i termini di durata massima della custodia. Anche in questo “l’accertamento dell’illecito è avvenuto dopo oltre tre anni a seguito di ispezione ministeriale e, quindi, la condotta non ha creato alcun discredito per l’ordine giudiziario”. Leggendo con attenzione le motivazioni di assoluzione, i due avvocati provano a ripercorrere quale possa essere stato il criterio argomentativo. “Nel caso del minore sottoposto alla misura della permanenza in casa, quello che conta è che il fatto era emerso solo dopo un’ispezione, che non è stata presentata alcuna istanza di riparazione per ingiusta detenzione, che è mancata l’eco mediatica e che infine la prosecuzione della misura è stata addirittura vantaggiosa per il minore. Se un giudice dibattimentale o un gip dimenticano in carcere un imputato - puntualizzano Giglio e Radi - quello che conta è che si è saputo della dimenticanza solo a distanza di anni dal fatto e di conseguenza non ne ha sofferto la credibilità dell’ordine giudiziario”. Queste sentenze di assoluzione, soprattutto dopo il Palamaragate, non possono comunque non indurre ad una riflessione. “Si dice spesso - aggiungono i due avvocati - che la valutazione della condotta del magistrato incolpato deve essere fatta ex post e non capiamo perché non debba essere ex ante. Forse perché la valutazione ex post consente di ampliare il novero delle possibili giustificazioni”. Ma non solo: “Si parla spesso di assenza di danni, di eco mediatica, di discredito. Non capiamo come sia stata verificata questa assenza. Tanto per capirci, qualcuno ha chiesto alle persone che hanno aspettato per anni un provvedimento che non arrivava mai se l’attesa sia stata dannosa per i loro interessi oppure no?”. Ed infine: “Si accenna spesso all’emersione tardiva delle condotte incolpate e la si usa come causa di giustificazione. A noi pare un’aberrazione concettuale e non aggiungiamo nient’altro”. In altre parole, concludono Giglio e Radi, “dire che è irrilevante che una persona rimanga illegittimamente in carcere significa che non si vuole considerare gli effetti che ciò comporta”. Una giustizia disciplinare, non a caso “domestica”, contraddistinta poi da numeri impietosi. Su oltre duemila segnalazioni di media, la percentuale di casi che finisce davanti alla Sezione disciplinare del Csm è pari ad appena il 5 percento. Prendendo come rifermento l’anno 2020, la sezione disciplinare ha concluso 114 giudizi: le condanne sono state 25, mentre tutti gli altri esiti sono stati di assoluzione, non doversi procedere, non luogo a procedere. Il nuovo Csm deve ripartire dalla trasparenza di Beatrice Secchi* Il Domani, 8 settembre 2022 Sarà necessaria la pubblicazione della calendarizzazione dei lavori delle commissioni; sarà indispensabile garantire ai magistrati un’informazione capillare su qualsiasi intervenuta modifica tabellare, sulle nomine, le conferme ed i trasferimenti e lo stato delle pratiche di suo interesse, senza dovere acquisirle con modalità “informali”. Il prossimo Consiglio superiore della Magistratura dovrà svolgere compiti molto complessi, anche in relazione alla necessità di portare a compimento - con l’emanazione delle relative circolari - la riforma Cartabia. Ritengo qui utile e doveroso affrontare uno dei nodi maggiormente problematici che dovranno necessariamente essere sciolti dal nuovo Csm, ovvero il tema della questione morale e della trasparenza. Gli eventi della primavera del 2019 sono stati gravissimi, dirompenti e hanno reso palese una realtà drammatica, della quale peraltro si avevano vari segnali. Questi gravi fatti hanno interessato tutti i gruppi associativi e chiamano in causa, da un lato, le responsabilità di chi gestisce i ruoli Una delle più gravi è - secondo me - l’attuale disaffezione di molti magistrati (soprattutto i più giovani) per qualsiasi forma di partecipazione alla vita associativa, l’astensionismo dal voto, la sfiducia profonda degli stessi magistrati nel proprio organo di autogoverno, la sfiducia dei cittadini nell’operato della magistratura. Ritengo dunque assolutamente necessario organizzare occasioni di confronto negli uffici, dialogare con i colleghi più giovani (che guardano ai più anziani con forte sospetto), spiegare loro, da un lato, le ragioni della necessità di impegno nella vita associativa e, dall’altro, aiutarli ad elaborare una visione del nostro lavoro non burocratica, ma realmente impegnata ed attenta ad ogni vicenda umana sottoposta al nostro vaglio. Sarà poi imprescindibile, al fine di recuperare la fiducia sia dei cittadini che dei molti colleghi oggi delusi da una certa gestione dell’autogoverno, un’azione estremamente chiara, autorevole, rigorosa, efficace e trasparente del Consiglio. Il Consiglio dovrà rendere conto all’esterno - anche attraverso strumenti di comunicazione adeguata e nell’ottica di rendere sempre più trasparente la sua attività - dei propri lavori e delle motivazioni delle proprie scelte. Sarà necessario proseguire nella via tracciata da questo Csm con la rigida calendarizzazione delle varie pratiche (in primo luogo quelle di nomina dei direttivi e semi direttivi, oggi peraltro prevista dalla disposizione di cui all’art. 2 lett. B della riforma Cartabia) secondo criteri oggettivi e predeterminati; dovrà essere assicurata la massima attenzione ed allo stesso tempo la tempestività delle nomine; dovranno essere attentamente considerate le difficoltà specifiche di ogni singolo ufficio, al fine di comprendere le reali condizioni nelle quali i magistrati si trovano ad operare ed al fine di una migliore distribuzione della risorse. Informazione sul lavoro delle commissioni - Inoltre, al fine di rendere sempre più trasparente l’attività del Consiglio, sarà necessaria la pubblicazione della calendarizzazione dei lavori delle commissioni; sarà indispensabile garantire ai magistrati un’informazione capillare su qualsiasi intervenuta modifica tabellare, sulle nomine, le conferme ed i trasferimenti; garantire ad ogni magistrato, attraverso un apposito applicativo, la possibilità di vedere in tempo reale lo stato delle pratiche di suo interesse e di accedere alle informazioni a lui necessarie, senza dovere acquisirle con modalità “informali”. Il Consiglio, poi, con la propria azione dovrà alimentare una concezione della magistratura conforme a quella delineata dalla Carta Costituzionale: una magistratura orizzontale, nell’ambito della quale la “carriera” non esiste, mentre deve essere valorizzato l’esercizio delle funzioni giudiziarie con professionalità e consapevolezza del ruolo istituzionale ricoperto. Tutto questo nella certezza che solo un lavoro intenso, di qualità, efficiente e verificabile potrà consentirci di acquisire, come è stato in tante stagioni passate, la fiducia dei cittadini e di coinvolgere nella gestione dell’autogoverno il maggior numero di colleghi. *Giudice presso il Tribunale di Milano, candidata alle elezioni del Consiglio Superiore della Magistratura Alle giovani toghe dico: il Csm è da sempre sotto attacco, difendiamolo di Valerio Savio Il Domani, 8 settembre 2022 Non vi piacciono le correnti, l’Anm? Inventatevi qualcosa di diverso, possibile che scopriate perché sono nate. Prendete in mano il vostro futuro di magistrati. E partecipate, all’autogoverno: è nell’assenza di partecipazione, che si creano e prosperano le oligarchie. E distrutto l’autogoverno, ci sarà solo l’eterogoverno. Difendete l’habitat della professione che avete scelto con entusiasmo e passione intellettuale e civile. Con le vostre scelte, difendete il Consiglio Superiore della Magistratura. Il primo appello che ci si sente di dover fare ai magistrati in vista delle prossime elezioni per il Csm, innanzitutto a chi ha tutta la carriera davanti, è in difesa dell’istituzione Consiglio, più che per una particolare candidatura. Sempre sotto attacco - Il Csm è da sempre sotto attacco. A volerlo distruggere, con la finalità ultima di ridurre il ruolo della giurisdizione, da quarant’anni è innanzitutto il partito trasversale che attraversa il mondo politico e che punta se non a cancellarlo a ridurne attribuzioni e profilo, per trasformarne le funzioni in quelle di un consiglio di amministrazione del personale che si occupa solo di trasferimenti, aspettative e pensionamenti, una soluzione che piaceva al Piano di Rinascita Nazionale di Licio Gelli, e perfino ad un Presidente della Repubblica anche per questo guadagnatosi la fama di ‘picconatore’. A questo partito trasversale da circa un decennio si è malinconicamente affiancata una minoritaria ma consistente parte della magistratura. In due modi. In un primo modo diretto e consapevole, facendo propria culturalmente l’idea del consiglio di amministrazione del personale, rifiutando l’idea che il Csm debba mantenere un proprio protagonismo istituzionale sui temi della giustizia, proponendo il sorteggio dei suoi componenti o almeno dei candidati (con indebolimento della rappresentatività degli eletti anche rispetto ai componenti eletti dal Parlamento), e ancora proponendo la soppressione delle immunità dei consiglieri per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni: promuovendo l’idea di un Csm non organo di garanzia da difendere ma sorta di “controparte datoriale” dei magistrati, da cui difendersi. Ed in un secondo modo indiretto e inconsapevole, danneggiandone la credibilità, promuovendo presso i magistrati - per ultimo anche in questa tornata elettorale -- una visione strettamente corporativa delle sue attribuzioni, da interpretare e svolgere non nell’ottica dell’interesse della Comunità ad una giurisdizione efficiente e di qualità, autonoma ed indipendente da poteri pubblici e privati, bensì nell’ottica di ciò che è più utile e più comodo ai magistrati. È l’ottica di chi ad esempio cerca facile consenso proponendo che il Csm applichi standard di rendimento non ai ridotti fini della giusta tutela anche disciplinare del magistrato che lavora, ma come un preordinato limite non scritto all’impegno professionale, impensabile rispetto ad una funzione primaria dello Stato. Di chi al contempo propugna una più ampia possibilità di svolgere altrove remunerati incarichi extragiudiziari. Di chi propone una difesa corporativa dei singoli sempre e comunque anche di fronte a condotte che vengono meno ai doveri che la responsabilità sociale, culturale e professionale impone a chi giudica, appiattendo il merito dei tanti che si distruggono di lavoro al livello dei pochi neghittosi che dal lavoro si difendono. È l’ottica autoreferenziale di chi su questa via per ultimo arriva a proporre che le valutazioni di professionalità siano fondate, nella giusta ricerca del ‘consolidato merito di scrivania’, essenzialmente sull’autorelazione del magistrato in valutazione. Ai giovani magistrati - Innanzitutto ai giovani magistrati chiedo: pensate possa essere questa la strada per recuperare credibilità davanti ai cittadini? Pensate che su questa via ci possa essere chi in futuro difenda le prerogative della magistratura quali prerogative funzionali alla giurisdizione e quindi agli interessi di chi ha bisogno del diritto, vale a dire i soggetti più deboli? Pensate che ai nostri giorni e in futuro come magistrati ci si possa mostrare attenti innanzitutto al nostro particolare? Pensate, se volete anche in un’ottica di tutela dell’ordine giudiziario, che possa essere questa la strada per mantenere l’attuale statuto costituzionale e di servizio della magistratura? Si obietta: c’è poco da demolire, a distruggere il Consiglio sono state le degenerazioni correntizie. Si devono ridurre la discrezionalità, i poteri, il profilo istituzionale del Consiglio per distruggere il potere delle correnti. Sono cose dette a seguito di fatti veri e gravi, quanto avvenuto avendo leso gravemente la credibilità del Csm e mostrato - per usare la perfetta sintesi del Presidente Sergio Mattarella - la “modestia etica” di tanti, troppi, magistrati (ahimè di certo non solo consiglieri superiori). E non si discute la buona fede, la voglia di rinnovamento, le buone intenzioni di chi le dice. Il problema è che di buone intenzioni è notoriamente lastricata la strada dell’inferno. Ci sono stati parlamentari corrotti, e ciclicamente emergono fenomeni corruttivi sistemici nel mondo politico. E’ una buona ragione per abolire il Parlamento, o per stabilire che possa occuparsi solo del colore delle divise dei vigili urbani? C’è chi ha tradito - Ci sono stati consiglieri superiori che hanno tradito i doveri del loro ruolo, gestendo fenomeni clientelari divenuti sistemici anche per il corrosivo carrierismo diffuso tra i magistrati. E’ una buona ragione per distruggere il ruolo che la Costituzione ha disegnato per il Csm, il suo essere un organo di rilievo costituzionale istituito per difendere la possibilità di un esercizio della giurisdizione libero da ogni tipo di ingerenza degli altri poteri? Magistratura democratica ha riguadagnato la sua autonomia politica, dopo alcuni lustri, per non chiamarsi fuori da questa difficile impresa di ricostruzione della credibilità del Csm. Non abbiamo soluzioni pronte. Nè ci sentiamo evidentemente i soli o i primi a poterlo fare. Siamo pronti però a provarci seriamente, nel confronto con tutti, dentro la magistratura, e fuori, ascoltando il punto di vista esterno innanzitutto di Avvocatura e cultura giuridica ma anche di ogni istanza della società civile. C’è da occuparsi di grandi questioni al Consiglio, altro che basso profilo e mera applicazione della legge . Di questioni che richiederanno scelte, da adottarsi in un contesto politico-istituzionale che non si presenta agevole per un confronto sereno nel merito delle questioni. Uno l’obiettivo da perseguire, in quest’opera di recupero della credibilità del Consiglio, innanzitutto davanti ai magistrati: che il prossimo Csm sia ricordato per tutto tranne che per le nomine degli incarichi direttivi. Che le nomine restino sullo sfondo, che la consiliatura sia ricordata per avere approvato Circolari che abbiano difeso il lavoro dei magistrati dai tanti rischi che si addensano sulla giurisdizione: a) dai rischi che la gerarchizzazione degli uffici ed il produttivismo da catena di montaggio (per ultimo rilanciato dalle esigenze del Pnrr) portino ad una giurisprudenza difensiva e ad un approccio burocratico al lavoro come smaltimento di pratiche che faccia degradare la qualità della giurisdizione, che faccia dimenticare che i procedimenti civili come penali hanno l’unicità delle vicende umane, richiedono attenzione ed impegno non standardizzabili, e non sono omologabili a numeri; b) dai rischi che il Ministero, nella scelta e destinazione delle risorse umane e materiali, e nel controllo dei risultati degli uffici anche agli effetti del Pnrr, possa sottrarre sempre più spazi a dirigenti, Consigli giudiziari, Csm; c) dai rischi che la sempre maggiore informatizzazione non si adegui alle esigenze dei processi lavorativi (che devono restare nell’autonomia organizzativa dei magistrati, come singoli e come uffici), ma finisca con il piegarli alle esigenze della gestione tecnologica dei dati. I procedimenti disciplinari - Ancora, servirà un Consiglio da ricordare per l’alto profilo tenuto nella gestione dei procedimenti per incompatibilità ambientale o funzionale e nelle pratiche a tutela, nella difesa di chi lavora con indipendenza qualità e coraggio nell’affermare i diritti e nella tutela della legalità dell’azione di poteri pubblici e privati. E ancora, per avere reso più incisive ed attuate le normative che regolano il lavoro di chi ha figli piccoli o esigenze di cura. Servirà un Consiglio che, nell’ambito delle sue attività di vigilanza ed indirizzo sulla Scuola Superiore della Magistratura, promuova una formazione che rinforzi la capacità dei giudici di restare al passo con l’evoluzione delle culture, dei saperi e dei linguaggi che si confrontano nella società in perenne evoluzione, e di mediare e contemperare valori nella complessità dei nostri tempi. Che rilanci la cultura istituzionale che ha fatto scrivere ai costituenti che i magistrati “si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni” e quindi diffonda tra i magistrati l’antidoto primo e originario alla cultura del carrierismo: la convinzione che non vi sia compito più alto, in magistratura, che fare giurisdizione. Che il massimo della credibilità personale e professionale, e se si vuole anche del prestigio personale, anche dopo trent’anni di magistratura, risieda nel fare bene il lavoro del giudice e del Pm, non necessariamente nell’avere un incarico direttivo. Da magistrato ormai anziano con oltre 35 anni di magistratura tutta in ruolo e tutta in primo grado, mi sento in sintesi ed in coscienza di dire ai colleghi più giovani: con le vostre scelte, non solo elettorali, non partecipate all’opera autodistruttiva e nichilista di chi anche da dentro la magistratura vuole distruggere il Csm, e con lui il governo autonomo. Non vi piacciono le correnti, l’Anm? Inventatevi qualcosa di diverso, possibile che scopriate perché sono nate. Prendete in mano il vostro futuro di magistrati. E partecipate, all’autogoverno: nell’organizzazione condivisa dei vostri uffici, collaborando con i dirigenti, nei Consigli giudiziari, nella formazione e nell’elaborazione collettiva di progetti. È nell’assenza di partecipazione, che si creano e prosperano le oligarchie. E distrutto l’autogoverno, ci sarà solo l’eterogoverno. Dopo Roma anche Genova: la crisi dei tribunali non si ferma di Ermes Antonucci La Stampa, 8 settembre 2022 Il tribunale genovese è ormai al collasso per la carenza di magistrati: i processi per reati minori sono stati rinviati al 2025, ma la paralisi rischia di colpire anche i procedimenti per reati gravi. Gli avvocati penalisti in sciopero il 12 settembre. Anche a Genova, come a Roma, la giustizia penale è ormai al collasso per la grave carenza di magistrati. Per denunciare questa situazione, gli avvocati penalisti genovesi hanno indetto uno sciopero per il 12 settembre, giorno in cui doveva riprendere il maxi processo per il crollo del ponte Morandi (l’udienza sarà rinviata al giorno successivo). Pochi giorni fa, su queste pagine abbiamo dato notizia dell’incredibile decisione del presidente del tribunale di Roma di sospendere per sei mesi, dal 15 ottobre, la fissazione delle udienze di competenza collegiale, cioè quelle per i reati più gravi (per i reati meno gravi le udienze già vengono ormai fissate a partire dal 2024). L’emergenza ora è esplosa anche al tribunale di Genova, in cui la carenza di magistrati rispetto all’organico previsto risulta essere del 20 per cento. Il problema riguarda soprattutto la magistratura giudicante: tra penale e civile mancano 15 giudici su 65. La situazione più grave è nel settore “dibattimento”, dove mancano nove giudici su 19. Il tribunale ha già dovuto rinviare le udienze per i reati minori fino al 2025, ma la paralisi rischia di riguardare presto anche i procedimenti per reati gravi. Il maxi processo sul ponte Morandi (59 imputati, centinaia di testimoni e circa 300 parti civili) sta assorbendo ingenti risorse del tribunale: per evitare il rischio di prescrizione dei reati, tre giudici sono stati assegnati a tempo pieno al dibattimento, che si terrà al ritmo di tre udienze a settimana. Molto presto, a complicare il quadro, arriveranno a dibattimento anche altri due maxi processi: quello Autostrade bis, su viadotti, gallerie e pannelli fonoassorbenti a rischio crollo, e quello sul fallimento milionario di “Qui! Group”. A differenza del caso romano, su Genova le istituzioni hanno risposto agli allarmi lanciati dagli avvocati e dai vertici della procura e del tribunale. La ministra Cartabia ha voluto incontrare i penalisti, il vicepresidente del Csm David Ermini ha promesso l’arrivo di due nuovi giudici nei prossimi giorni e un bando agli inizi di ottobre per la selezione di altri cinque magistrati. Le soluzioni, tuttavia, sono state giudicate insufficienti: “I rimedi che ci sono stati proposti sono troppo pochi per farci revocare questa unica giornata di astensione, che è solamente simbolica e non creerà nessun danno al processo sul ponte Morandi”, dichiara al Foglio la presidente delle Camere penali liguri, Fabiana Cilio. “Basti pensare - aggiunge - che a gennaio un altro giudice andrà in pensione e due magistrati dell’ufficio gip andranno via, insomma saremo al punto di partenza”. Di concorsi neanche a parlarne. Cartabia ha meritoriamente sbloccato il concorso da 310 posti fermo per il Covid e poi ne ha bandito uno da 500 posti, ma per i tempi biblici richiesti dalle selezioni prima del 2024 non si vedranno magistrati entrare in servizio. L’emergenza, così, nei prossimi mesi rischia pure di espandersi ad altri importanti tribunali del paese. Ingiusta detenzione, Petrilli: “Un comma era anticostituzionale” news-town.it, 8 settembre 2022 “Facendo una ricerca ho scoperto che la Corte Costituzionale nel 2008 , sentenza n.219/2008 stabilì che un comma sull’ingiusta detenzione era anticostituzionale. Ma i giudici di Milano e quelli della Cassazione nel giudizio su di me non hanno avuto attenzione a questo”. Cosi Giulio Petrilli, portavoce comitato per il risarcimento per ingiusta detenzione a tutti gli assolti in una nota. “L’ultima lettera che ho scritto sul tema dei mancati risarcimenti alla Ministra Cartabia - prosegue - era quello di verificare alla Consulta la costituzionalità o meno del primo comma dell’articolo 314 del codice di procedura penale sul risarcimento per ingiusta detenzione”. “Chiedevo se questo comma fosse o meno costituzionale, in quanto il risarcimento per ingiusta detenzione diventa ostativo per “dolo e colpa grave”, introducendo nei fatti un giudizio morale sugli assolti che non ha nulla a che vedere con l’elemento giuridico. Quindi secondo tantissimi giuristi e’ incostituzionale. Ora - dice Petrilli - ho scoperto che la Corte Costituzionale nel 2008 dichiarò anticostituzionale il comma per il quale non mi hanno concesso il risarcimento”. “Spero che ci sia un’attenzione su questo tema. Tante leggi sono anticostituzionali ma qui tutto passa sotto silenzio. Hanno tutti timore di attaccare la magistratura quando sbaglia - tuona il portavoce -. C’è un servilismo incredibile che fa chiudere gli occhi su tutto, una corsa a difenderli sempre. Ma non va bene. Non risarcire un assolto è una follia, ma per tanti va bene lo stesso perché la colpevolezza è una condizione imprescindibile. Non esistono innocenti, per tanti questa è la verità. Una volta arrestato - conclude la nota di Petrilli - sei sempre colpevole”. Anche un detenuto lavoratore ha diritto alla disoccupazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 settembre 2022 Scrive il Tribunale di Milano: “Se si negasse al lavoratore il trattamento di disoccupazione, si impedirebbe proprio al lavoro penitenziario di espletare, con efficacia duratura nel tempo, quella finalità rieducativa e di reinserimento sociale che ne costituiscono invece l’essenza”. Anche il detenuto che ha svolto attività lavorativa per la casa circondariale, e all’interno della stessa oltre che alle dipendenze del Ministero della Giustizia, ha diritto a percepire la Naspi una volta concluso il rapporto lavorativo in ragione della fine dello stato di detenzione. Nonostante un forte indirizzo restrittivo dell’Inps, restio ad accogliere le domande presentate nell’interesse dei detenuti afferenti il diritto a percepire la indennità di disoccupazione, la Giurisprudenza apre sempre più ampi spiragli in merito nell’ottica di una equiparazione del lavoratore detenuto rispetto ad ogni altra categoria di lavoratori. Ultima innovativa pronuncia è quella emessa dal Tribunale di Milano, Sezione Lavoro e Previdenza, in persona del Giudice Dott.ssa Eleonora De Carlo, che con sentenza n. 1988/2022 ha riconosciuto il diritto di un ex detenuto, E.C. di origine romena, a percepire la Naspi relativamente alla attività lavorativa di addetto alle pulizie che lo stesso aveva prestato all’interno della Casa Circondariale di San Vittore dall’agosto 2019 al 16 dicembre 2021, momento di cessazione del rapporto lavorativo a causa del fine pena del soggetto, ristretto in ragione di svariati titoli esecutivi per reati come tentata rapina. Nonostante una prima istanza rigettata dall’Inps in sede amministrativa, il Tribunale di Milano, sulla scia di una giurisprudenza innovativa, ha accolto le istanze del legale dell’uomo, avvocato Eugenio Spadafora del foro di Cosenza, il quale ha fatto leva sulle necessaria equiparazione tra la figura del lavoratore detenuto, che deve considerarsi lavoratore subordinato a tutti gli effetti, ed ogni altro soggetto che al termine di un qualsiasi rapporto lavorativo si trovi in uno stato di disoccupazione involontario. Ed infatti la cessazione dello stato di detenzione non può essere affatto assimilata ad una cessazione del rapporto per volontà del lavoratore, circostanza questa che farebbe venir meno il diritto alla Naspi. Questo aspetto, unito alla considerazione secondo la quale si impone una lettura costituzionalmente orientata sia del rapporto di lavoro all’interno della struttura carceraria che della finalità rieducativa che va riconosciuta allo stesso, è stato fatto proprio dal Tribunale di Milano che, superando dei vetusti orientamenti, ha ammesso al beneficio l’uomo, in presenza ovviamente di tutti i requisiti necessari per l’accesso alla misura. “Se si negasse al lavoratore il trattamento di disoccupazione - si può leggere nella sentenza -, si impedirebbe proprio al lavoro penitenziario di espletare, con efficacia duratura nel tempo, quella finalità rieducativa e di reinserimento sociale che ne costituiscono invece l’essenza”. L’abitualità che esclude la tenuità del fatto deriva anche dalla condanna per reati della stessa indole prescritti di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2022 Il giudice di appello ha dichiarato la prescrizione per diverse identiche violazioni pregresse ritenute però ostative al beneficio. L’abitualità del comportamento, che impedisce il riconoscimento della causa di non punibilità per tenuità del fatto, può derivare anche dalla commissione di reati della stessa indole dichiarati prescritti. In quanto la prescrizione non cancella gli effetti della condanna. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 32857/2022, ha respinto le lamentele del ricorrente contro il mancato riconoscimento della tenuità del fatto in relazione all’unico episodio rimasto punibile di una serie di illeciti accessi a manifestazioni sportive. In effetti gli episodi precedenti per i quali era intervenuta condanna in primo grado erano stati dichiarati prescritti dal giudice di appello, che però aveva emesso condanna per quello più recente. E sul quale non aveva riconosciuto l’applicabilità dell’articolo 131 bis del Codice penale proprio in ragione dei precedenti reati, anche se prescritti. In quanto della stessa indole e più di due. Ragionamento ora confermato dai giudici di legittimità. La Cassazione argomenta facendo rilevare che la causa di non punibilità invocata dal ricorrente non può essere riconosciuta - se vi è abitualità nel comportamento - anche quando i reati della stessa indole precedentemente commessi rientrino nel perimetro della tenuità del fatto. Quindi, conferma la Cassazione, non vi è ragione di escludere il reato prescritto dalla categoria dei reati “della stessa indole” che determinano la causa ostativa al riconoscimento della non punibilità. La Cassazione accoglie il ricorso sulla protezione umanitaria: perché è una sentenza importante di Iside Gjergji* Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2022 La sentenza n. 26089/2022 della prima sezione civile della Corte di cassazione è importante. Non tanto perché introduce una nuova interpretazione dell’art. 5, comma 6, del D. Lgs. n. 286/1998, che garantisce la protezione umanitaria agli stranieri presenti in Italia, ma perché consolida in modo convincente e definitivo l’orientamento già affermato dalla Corte in altre recenti sentenze (24413/2021; 7396/2021; 16369/2022). La vicenda si è avviata con il ricorso di un cittadino sierraleonese all’autorità giudiziaria per vedersi riconosciuto lo status di rifugiato o, in subordine, la protezione sussidiaria, oppure, in ulteriore subordine, la protezione umanitaria. Sia il tribunale che la Corte d’appello di Cagliari non avevano accolto le istanze del richiedente. La Corte di cassazione, invece, pur confermando (parzialmente) il giudizio dei giudici di merito sullo status di rifugiato e sulla protezione sussidiaria, ritiene invece sussistente il diritto alla protezione umanitaria. E non tanto perché lo straniero corra rischi per la propria incolumità nel paese di origine, ma perché ha mostrato “la seria intenzione d’integrazione sociale”. La serietà dell’intenzione, secondo la Corte, è desumibile da una pluralità di attività, come ad esempio la frequentazione dei corsi di lingua italiana oppure la presenza di un contratto di lavoro, seppur a tempo determinato. Sul punto la Corte si spinge a fare considerazioni di tipo sociologico, specificando che non si può pretendere dal cittadino straniero un contratto di lavoro a tempo indeterminato proprio quando “tale obiettivo presenta difficoltà non irrilevanti anche per i cittadini del paese ospitante”. Elementare applicazione del principio di uguaglianza, insomma. Come già detto la sentenza conferma il recente orientamento della corte, in primis quello delle sezioni unite (sent. 24413/2022), nel quale è stato specificato che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, esiste l’obbligo dell’autorità di operare una valutazione comparativa “tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione d’integrazione raggiunta in Italia”, attribuendo a quest’ultima un peso maggiore. Tale orientamento della Corte recepisce correttamente il dettato costituzionale sulla figura dello straniero, così come delineato dagli artt. 2, 3 e 10 della Costituzione. L’art. 2, infatti, che accoglie il principio personalista, si rivolge a ogni “uomo” garantendo ogni riconoscimento e la tutela dei diritti inviolabili, nell’ambito di un’organizzazione sociale protesa all’adempimento “dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Nel concetto di “uomo” espresso da suddetto articolo sono ovviamente compresi i cittadini stranieri, sicché le disposizioni concernenti i diritti di libertà e i diritti sociali si rivolgono alla persona umana a prescindere dall’appartenenza nazionale. Inoltre la Costituzione è fondata sul lavoro (art. 1) e di conseguenza si ispira al valore della “persona” socialmente qualificata, ossia il lavoratore (naturalmente va compreso anche chi è in cerca di lavoro). Da qui la concezione sostanzialistica della cittadinanza fornita dalla Costituzione italiana, la quale è riconosciuta a chiunque partecipi attivamente alla vita economica, sociale e politica della comunità in cui vive, senza alcuna considerazione per il Blut und Boden. Dopo questa sentenza non resta che auspicare un veloce adeguamento delle decisioni delle commissioni territoriali, delle questure e dei tribunali di merito, senza costringere gli stranieri a ricorrere in Cassazione per ottenere quanto li spetta. *Sociologa e giurista Alessandria. “Terrorista misantropo” deve vegliare su compagno di cella con istinti suicidi di Sarah Martinenghi La Repubblica, 8 settembre 2022 Ad Alessandria l’anarchico Buono arruolato come “badante” di un affiliato alla Jihad con turbe psichiche. Lui scrive alla Garante dei detenuti: “Non voglio l’incarico”. La direttrice del Dap: “Accade, ma su base volontaria”. Gli atti dell’indagine che l’hanno portato all’arresto per terrorismo lo descrivono come un misantropo, un nichilista, un anarchico antisociale. Un profilo particolare quello del torinese Federico Buono, 45 anni, accusato di essere un affiliato dell’Its, il movimento sudamericano degli Individualisti tendenti al Selvaggio, che combatte, con attentati, la tecnologia, il progresso e la modernità. Portato in carcere ad Alessandria, sottoposto al regime dell’alta sicurezza 2, è finito in cella con un detenuto pakistano accusato anche lui di terrorismo ma di matrice diversa: secondo gli inquirenti farebbe parte di un’organizzazione islamica internazionale, una cellula jihadista del “Gruppo Gabar” che il 25 settembre 2020 firmò un attentato, a Parigi, davanti all’ex sede di Charlie Hebdo, teatro della strage di cinque anni prima. Una convivenza problematica, però, quella tra i due, che ha portato Buono a scrivere una lettera alla garante dei detenuti Alice Bonivardo per segnalare il suo disagio: lamentava di essere stato incaricato di controllare a vista il compagno di cella soprattutto perché non si togliesse la vita. Un ruolo che, però, non avrebbe mai voluto. Il pakistano, che non parla italiano ma solo la lingua urdu, ha portato avanti per settimane uno sciopero della fame e della sete: sarebbe in uno stato di prostrazione e sofferenza psicologica acuito dalla rigidità dell’alta sicurezza, con l’impossibilità di comunicare con facilità all’interno del carcere e il divieto di telefonate con l’esterno. “Un grave lutto familiare in Pakistan l’ha ulteriormente destabilizzato - spiega la sua avvocata, Nadia Di Brita - lui ha avuto una fase più acuta dove le visite con lo psichiatra erano più serrate, poi, a quanto mi hanno riferito, l’allarme è un po’ rientrato, ma resta un soggetto a rischio”. La garante non ha potuto incontrarlo ma è rimasta colpita dalla particolarità della situazione descritta da Buono, assistito dall’avvocato Gianluca Vitale. “Ho chiesto chiarimenti scrivendo alla direzione del carcere - spiega Alice Bonivardo - anche perché il forte stress a cui era sottoposto quel detenuto mi preoccupava. Nei giorni scorsi ho ricevuto risposta: la situazione è migliorata in quanto il compagno di cella sarebbe stato spostato in infermeria. L’alta sicurezza ha regole molto particolari - aggiunge la garante - Quella di Alessandria ha problemi perché è una piccola sezione, con schermature alle finestre: gli affacci sono sui collaboratori di giustizia, ci sono passeggi con dimensioni ristrette coperte da griglie metalliche”. Proprio sotto quel padiglione, composto da 7 celle, c’è l’infermeria. “Il problema dei detenuti che manifestano disagi psichiatrici viene spesso gestito all’interno - continua la garante - In questo caso la difficoltà è ulteriore perché si tratta di un recluso sottoposto all’alta sicurezza: un trasferimento all’esterno sarebbe difficile, ma l’infermeria, per quanto più consona alla sua situazione, dovrebbe essere un luogo di cure solo passeggere”. Non è così insolito che i detenuti abbiano il compito di controllare la condizione dei compagni di cella . “In genere si tratta di una scelta volontaria, si diventa cioè peer supporter la cui attività però viene appositamente pagata” spiega Rita Russo, provveditrice per Piemonte e Valle d’Aosta del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Per un misantropo come Buono, però, il ruolo di “piantone” sarebbe stato un compito ingrato, una responsabilità che non voleva affatto avere. Brescia. In una lettera lo sfogo dei detenuti del carcere di Canton Mombello di Salvatore Montillo Giornale di Brescia, 8 settembre 2022 “Che mezzi ci restano per chiedere aiuto?”. Se lo domandano, in una lunga lettera indirizzata alla cittadinanza, i detenuti del carcere Canton Mombello di Brescia, quegli oltre 300 uomini di varie nazionalità che tra le mura del Nerio Fischione (la capienza regolamentare è di 189) vivono una condizione di sovraffollamento ormai insostenibile. La denuncia arriva dalla Garante per i diritti dei detenuti, Luisa Ravagnani, e dal presidente del Consiglio comunale, Roberto Cammarata, che hanno raccolto lo sfogo dei carcerati e deciso di diffonderlo. Sciopero del carrello, battitura o sciopero della fame sono le forme di protesta più utilizzate dai carcerati, che hanno però delle conseguenze che gli stessi detenuti vogliono evitare. Lo sciopero del carrello comporta “uno spreco enorme di cibo”, visto che “da qui dentro non siamo in grado di donare”. La battitura tre volte al giorno sulle sbarre per farsi sentire comporta il rischio di “incrinare i difficili equilibri che a fatica in carcere si riescono a mantenere”. E lo sciopero della fame necessita di “un’attivazione massiccia dell’area sanitaria”. I detenuti hanno quindi deciso di sperimentare una nuova forma di protesta che hanno chiamato Mir (Manifestiamo insieme responsabilmente): “Non faremo nulla di irresponsabile qui dentro ma chiediamo fortemente di essere ascoltati e considerati”. Per che cosa? Lo scrivono nella lunga lettera, denunciando i problemi che il grave il sovraffollamento delle carceri italiane comporta. “I detenuti hanno dimostrato una grande responsabilità decidendo di adottare questa forma di protesta pacifica - ha spiegato la garante Luisa Ravagnani. C’è però una forte richiesta di aiuto e di ascolto perché non è più possibile continuare con questi numeri sia dei detenuti, sia degli operatori penitenziari e dell’area trattamentale e di chi in carcere ci entra per lavorare e attuare l’obiettivo di rieducazione che la pena dovrebbe avere”. Bologna. Pratello Bologna, con i ragazzi tra le mura del carcere di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 8 settembre 2022 Il direttore dell’Istituto minorile Paggiarino: “L’obiettivo è aiutare questi giovani, ma servono più forze” Turni raddoppiati per il medico e i poliziotti della penitenziaria. “Riapriamo le carceri chiuse in altre città”. Nell’orto chiuso da alte mura del ‘400 fiorisce la malva. Le stanze dei ragazzi, protette da grate, affacciano su questo angolo verde nascosto nel cuore di Bologna, in quella via che, con ironia del tempo, i più vecchi ricordano come la “strada dei ladri”. Se ogni porta non fosse chiusa a chiave, se a ogni cancello non ci fosse un agente, questo antico convento sembrerebbe un collegio. I quaranta ragazzi che ospita, però, non sono studenti. Sono autori di reati violenti, anche gravissimi. Una decina di loro ha commesso omicidi. Ma a vederli, mentre giocano a basket, frequentano corsi di cucina, parlano con il medico o gli educatori, sembra compiersi il senso di quell’articolo 27 della Costituzione, che guida, da “39 anni di servizio nella giustizia minorile”, Alfonso Paggiarino: “La pena deve tendere all’educazione”, dice il direttore del Pratello. All’Istituto penale minorile si tende a questo obiettivo ogni giorno con impegno. E, da un anno, anche con fatica crescente. “Dopo i lavori al secondo piano - spiega il direttore -, dal primo ottobre 2021 il Pratello è passato da una capienza massima di 20 ragazzi a 44, tra minorenni, al primo piano, e giovani adulti fino a 25 anni, al secondo. La divisione per età reputo sia una buona cosa, ma numeri così importanti richiederebbero un aumento dell’organico di polizia penitenziaria, educatori, amministrativi”. Il dottor Mir Jafar Jemnani, medico dell’istituto, è un esempio di questo sforzo: prima era presente per tre ore al giorno, dal lunedì al sabato. Ora le ore sono diventate sei. Gli agenti in servizio al Pratello, invece, sono 49, “quasi tutti laureati in Giurisprudenza e selezionati attentamente. Oggi ne servirebbero una decina in più per far fronte ai nuovi numeri”, spiega Paggiarino. Numeri che dimostrano un disagio crescente tra i ragazzi, un aumento di criminalità minorile, l’esistenza effettiva delle cosiddette baby gang che si traduce, tra queste mura, in posti letto in più occupati. L’80% dei detenuti è di origine straniera, del Magreb o dell’Est Europa, e sono tutti maschi. Alcuni hanno disagi psichiatrici. “Quest’estate siamo arrivati a un massimo di 47 ragazzi”, dice ancora il direttore. Con lui, il commissario Federico Telesca, comandante della peniteziaria, ipotizza una soluzione: “C’è un’esigenza di spazi: riaprire istituti piccoli, come quello di Pesaro chiuso anni fa, darebbe respiro”. E “consentirebbe di seguire meglio ogni ragazzo: prima c’era un operatore ogni quattro, adesso ogni 15. Non è la stessa cosa”, spiegano. Ed è vero. Nel breve giro tra le stanze comuni del Pratello i ragazzi chiamano di continuo il direttore. Chiedono attenzione, un colloquio anche breve. “Sono come il preside di una scuola. E ho preso una laurea in pazienza”, scherza Paggiarino. Che, “al netto di comuni problemi”, come spiega, è soddisfatto: “Le cose al Pratello vanno bene. Anche quando ci sono state rivolte nelle altre carceri, qui non è successo nulla. Ovviamente, possono capitare piccole risse, disordini. Che portano conseguenze a chi li compie, sia chiaro. Ma non è la quotidianità, anzi”. Per reprimere il pericoloso ‘vizio’ di alcuni di incendiare i letti per protesta, Paggiarino ha avuto un’idea: “Ho proposto ai maggiorenni di fumare sigarette elettroniche. Molti hanno accettato. Via gli accendini, via parte del pericolo. E comunque i materassi sono ignifughi”. Il fatto è che qui i ragazzi non hanno il tempo di combinare troppi guai, essendo impegnati in tante attività: in primis la scuola, con corsi che vanno dall’alfabetizzazione elementare dei minori non accompagnati alle superiori, con le lezioni in presenza dell’Alberghiero Scappi. “Abbiamo tre ragazzi iscritti all’università: a Storia, a Filosofia, a Scienze della formazione. E con ottimi voti”. La ristorazione è però il fiore all’occhiello tra le attività dell’Istituto, tradotta nell’esperienza dell’Osteria del Pratello, un vero ristorante aperto al pubblico (su prenotazione) dove sei ragazzi dell’Ipm si occupano di cucina e sala: “Abbiamo dovuto interrompere per il Covid - racconta il direttore - ma ci auguriamo di poter ripartire a ottobre. Abbiamo già 1.600 prenotazioni, la capienza dell’osteria è di 50 posti, per cene una volta a settimana. I ragazzi non vedono l’ora”. Il Terzo settore ai partiti: la solidarietà prima di tutto di Nicola Pini Avvenire, 8 settembre 2022 Le priorità per il Paese in un documento in sei punti. Serve un modello sociale innovativo basato sulla sussidiarietà. E l’Europa deve puntare sulla pace. “Mettete in agenda la solidarietà”. E l’appello lanciato dal Forum del Terzo settore alle forze politiche in vista delle elezioni politiche. In un documento in sei punti di cui si è discusso questa mattina a Roma con i rappresentanti di tutti i partiti, il Forum declina le priorità per il Paese. “Il Terzo settore è pioniere di innovazione, di un modello diverso di economia e di relazioni sociali”, ha spiegato la portavoce Vanessa Pallucchi, nel quale “la solidarietà non deve essere solo una richiesta e un bisogno ma invece una leva del processo di cambiamento e di sviluppo”. In questa visione, le fragilità sociali “non vanno considerate una tassa da pagare ma come leve su cui costruire discontinuità”, ha spiegato. Il documento presentato sottolinea l’aggravarsi delle disuguaglianze in Italia e rileva come solo lo 0,7% del Pil sia investito nei servizi sociali territoriali (la media Ue è al 2,5%) e appena lo 0,28% in cooperazione allo sviluppo mentre si prevede di aumentare al 2% la spesa militare. Se il Paese non cambierà strada “subirà gli aspetti negativi dei processi economici globali e dello stravolgimento socio-ambientale che ne comprometterà le prospettive future”. Serve pertanto un nuovo modello che ha come chiave di volta un sussidiarietà più trasversale e diffusa, dove il terzo settore lavori in condivisione con il pubblico e non in sua sostituzione, con una nuova governance di intervento nel sociale che abbia l’obiettivo di dare risposte più puntuali ai bisogni dei cittadini e capace di di sviluppare nuova occupazione incentrata su “innovazione, cultura, prevenzione ambientale e cura della persona”. Sei le direttrici di lavoro indicate dal Forum al mondo politico. Il contrasto delle povertà e delle disuguaglianze, che passa da una riforma che rafforzi il Reddito di cittadinanza, dal sostegno dei salari e di un’occupazione non precaria. Con un netto no all’autonomia regionale differenziata in nome di un federalismo solidale. Una Economia sociale, che significa Benessere equo e sostenibile e giusta transizione ecologica e digitale. Un Welfare che assicuri davvero il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni sociali. La promozione della pace in una Europa del dialogo e dell’accoglienza. L’Europa deve “recuperare il proprio ruolo e i propri valori, puntando sulla pace, la diplomazia e il multilateralismo”, con l’obiettivo di un “immediato cessate il fuoco in Ucraina” e la ricerca di una soluzione diplomatica , ha affermato la portavoce. Occorre inoltre “Promuovere cittadinanza e partecipazione”, anche attraverso una legge per i minori di origine straniera, con l’impegno costante verso l’integrazione dei cittadini. “Siamo un Paese a bassissima natalità ma facciamo politiche che invece di includere in una prospettiva di cittadinanza globale pongono barriere anche di tipo ideologico”, ha osservato Pallucchi. L’ultimo punto riguarda appunto un maggiore investimento nel Terzo settore con una spinta all’amministrazione condivisa e alla co-progettazione dei servizi, rafforzando nel contempo le competenze nelle pubbliche amministrazioni. Papa Francesco: la terza guerra mondiale va fermata subito e in ogni modo di Luca Kocci Il Manifesto, 8 settembre 2022 Il Vaticano vuole evitare che il Papa sia “arruolato”. Non ci sarà la tappa in Ucraina, auspicata a gran voce da Kiev e dallo stesso presidente Zelensky, ma rinviata ad altra data dalla Santa sede. “Non dimentico la martoriata Ucraina”, ma bisogna fermare la “guerra mondiale” in corso. Papa Francesco, nella consueta udienza generale del mercoledì - ieri svolta non al chiuso, in aula Paolo VI, ma in una piazza San Pietro particolarmente affollata - è tornato a parlare del conflitto in Ucraina, ribadendo la propria posizione, espressa anche nelle due precedenti udienze: condanna per l’aggressione della Russia a Kiev, senza però giustificare la guerra - la “terza guerra mondiale”, l’aveva chiamata mercoledì scorso rivolgendosi ai fedeli polacchi, nell’anniversario dell’invasione di Hitler nel 1939 - che anzi va fermata subito e in ogni modo. L’intervento non era previsto nel testo ufficiale del discorso, e lo spunto è arrivato da alcune bandiere ucraine che sventolavano in piazza. “Di fronte a tutti gli scenari di guerra del nostro tempo, chiedo a ciascuno di essere costruttore di pace e di pregare perché nel mondo si diffondano pensieri e progetti di concordia e di riconciliazione”, ha detto il pontefice a braccio. E ha aggiunto: “Oggi stiamo vivendo una guerra mondiale, fermiamoci per favore!”. Concludendo poi con una preghiera per “le vittime di ogni guerra, in modo speciale la cara popolazione ucraina”. Martedì prossimo Bergoglio partirà per Nur-Sultan, capitale del Kazakhstan, dove si svolgerà il settimo congresso dei capi delle religioni tradizionali mondiali, che si concluderà, il 15 settembre, con la firma di una Dichiarazione comune presso il palazzo della pace e della riconciliazione. Non ci sarà l’atteso incontro con il patriarca ortodosso russo Kirill, per la rinuncia di quest’ultimo. “Il colloquio non può svolgersi a margine del meeting, ma deve diventare un evento indipendente, preparato con la massima cura e con un comunicato congiunto concordato in anticipo”, ha spiegato il “ministro degli esteri” del Patriarcato di Mosca, il metropolita Antonij di Volokolamsk. Sono troppe le divergenze sul conflitto, definito dal papa un’”aggressione” e invece ritenuto una sorta di “guerra santa” da Kirill, a sua volta etichettato da Francesco come il “chierichetto di Putin”. E non ci sarà nemmeno la tappa in Ucraina, auspicata a gran voce da Kiev e dallo stesso presidente Zelensky ma rinviata ad altra data dalla Santa sede, che evidentemente, saltato l’incontro con Kirill, non vuole rischiare che il pontefice venga “arruolato” da una delle due parti, indebolendo così la linea di ferma e assoluta condanna della guerra. Intanto da alcune realtà cattoliche di base è stato lanciato un appello in vista delle prossime elezioni politiche: non dare il voto a chi ha sostenuto l’aumento delle spese militari fino al due per cento del Pil, come chiesto anche dalla Nato, che sta rifornendo di armi l’Ucraina. “Questo vuol dire preparare la guerra, non la pace. Vuol dire sovvertire il progetto della Costituzione che ripudia la guerra, gettare al vento il sacrificio di chi è morto nella Resistenza”, si legge nell’appello lanciato, fra gli altri, dalla Comunità di base delle Piagge di Firenze (animata da don Alessandro Santoro), da don Andrea Bigalli (parroco in provincia di Firenze e referente per la Toscana di Libera), da padre Bernardo Gianni (abate della comunità monastica di San Miniato) e da Sandra Gesualdi (vicepresidente della Fondazione don Milani), che chiedono “di non votare per nessuno che abbia votato per l’aumento delle spese militari” né per chi “non si impegni esplicitamente a invertire la rotta, riducendo quella spesa scellerata”. Mense, palestre e tempo pieno, così la scuola non lascia indietro nessuno Corriere della Sera, 8 settembre 2022 La proposta di Save the Children. Che cosa serve alla scuola del Dopo-Dad? L’analisi dell’associazione che denuncia: troppi studenti a rischio di lasciare la scuola. Servono investimenti nelle aree a rischio e al Sud. Già prima del conflitto in Ucraina, nel 2021, la povertà assoluta riguardava 1 milione e 382mila minori nel nostro Paese, il 14,2%, in crescita rispetto al 2020 (13,5%). Le conseguenze della crisi energetica e dell’impennata dell’inflazione sono una grave minaccia. L’impoverimento educativo sconta ancora gli effetti di Covid e DAD, soprattutto tra i minori già in svantaggio socioeconomico. Il 9,7% degli studenti con un diploma superiore nel 2022 si ritrova in condizioni di dispersione “implicita”, cioè con il diploma ma senza le competenze minime necessarie (secondo gli standard INVALSI) per entrare nel mondo del lavoro o dell’Università, mentre il 12,7% dei minori non arriva neanche al diploma delle superiori, perché abbandona precocemente gli studi . Anche in questo caso, il confronto con l’Europa è pesante, visto che l’incidenza della dispersione scolastica, nonostante i progressi compiuti, in Italia resta tra le più elevate in assoluto dopo quella della Romania (15,3%) e della Spagna (13,3%), ed è ben lontana dall’obiettivo del 9% entro il 2030 stabilito dalla Ue. Il numero dei NEET nel nostro Paese, i 15-29enni che si trovano in un limbo fuori da ogni percorso di lavoro, istruzione o formazione, raggiunge il 23,1% ed è addirittura il più alto rispetto ai paesi UE (media 13,1%), segnando quasi 10 punti in più rispetto a Spagna (14,1%) e Polonia (13,4%), e più del doppio se si considerano Germania e Francia (9,2%). Il rapporto - Queste sono alcune delle evidenze emerse nel nuovo rapporto “Alla ricerca del tempo perduto - Un’analisi delle disuguaglianze nell’offerta di tempi e spazi educativi nella scuola italiana” elaborato da Save the Children, l’Organizzazione internazionale da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine e i bambini in pericolo e per garantire loro un futuro. Si tratta di un’analisi di alcuni deficit strutturali del sistema scolastico a livello nazionale e locale, in termini di spazi, servizi e tempi educativi, come mensa e tempo pieno, palestra e agibilità delle scuole. Mettendo in luce la relazione effettiva tra disuguaglianze di offerta sui territori e esiti scolastici, ma anche quella tra la qualità dell’offerta, dove c’è, e la resilienza nell’apprendimento dei minori in svantaggio socioeconomico. La scuola non è uguale per tutti - Le disuguaglianze territoriali si configurano come un fil rouge in negativo che attraversa le diverse dimensioni della povertà educativa. Guardando in dettaglio i dati sulla dispersione “implicita” emerge infatti una forte disparità geografica. Nelle regioni meridionali infatti, nonostante una riduzione consistente avvenuta nell’ultimo anno in particolare in Puglia (-4,3%) e in Calabria (-3,8%), permangono percentuali di ‘dispersi’ alla fine del percorso di istruzione più elevate rispetto alla media nazionale, con una punta del 19,8% in Campania. Se guardiamo poi alle competenze nelle singole materie, in Campania, Calabria e Sicilia più del 60% degli studenti non raggiungono il livello base delle competenze in italiano, mentre quelle in matematica sono disattese dal 70% degli studenti in Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna . Nel caso della dispersione esplicita, l’abbandono scolastico nella maggior parte delle regioni del Sud va ben oltre la media nazionale (12,7%), con le punte di Sicilia (21,1%) e Puglia (17,6%), e valori decisamente più alti rispetto a Centro e Nord anche in Campania (16,4%) e Calabria (14%). Anche prendendo in esame la percentuale dei Neet, che in Italia è del 23,1%, in regioni come Sicilia, Campania, Calabria e Puglia i 15-29enni nel limbo hanno addirittura superato i coetanei che lavorano (3 giovani Neet ogni 2 giovani occupati). Le due Italie - Entrando ancor più nel merito della realtà territoriale della scuola, il rapporto prende in considerazione alcuni indicatori “strutturali” su tempi, spazi e servizi educativi, come la presenza di mensa scolastica e tempo pieno, palestra e certificato di agibilità, mettendo in luce la correlazione positiva tra la qualità dell’offerta in termini di strutture e tempo scuola e il livello di apprendimento conseguito da studentesse e studenti. Mettendo a confronto le 10 province italiane con l’indice di dispersione “implicita” più bassa e più alta , si rileva come nelle province dove l’indice è più basso, le scuole primarie hanno assicurato ai bambini maggior offerta di tempo pieno (frequentato dal 31,5% degli studenti contro il 24,9% nelle province ad alta dispersione), maggior numero di mense (il 25,9% delle scuole contro il 18,8%), di palestre (42,4% contro 29%) e sono inoltre dotate di certificato di agibilità (47,9% contro 25,3%). Questa correlazione appare ancora più rilevante se si considerano i minori svantaggiati dal punto di vista socioeconomico. Prendendo infatti in considerazione le province italiane che hanno la percentuale maggiore di studenti nel quintile socioeconomico più basso , la dispersione “implicita” risulta significativamente inferiore in quelle province dove almeno la metà degli alunni della scuola primaria frequentano il tempo pieno e almeno la metà delle scuole ha la mensa (10 punti percentuali in meno di dispersione rispetto alle province dove meno di 1 alunno su 4 frequenta il tempo pieno alla primaria o dove meno di 1 scuola primaria su 4 ha la mensa). La stessa correlazione in positivo si evidenzia anche sulla presenza della palestra (5,5 punti percentuali in meno di dispersione implicita nelle province dove almeno il 50% delle scuole primarie ne è dotata, rispetto alle province dove la palestra è presente in meno di un quarto delle scuole) o del certificato di agibilità (12 punti percentuali in meno). “Intervenire subito” - Nelle zone più deprivate, dove operiamo con Save the Children, tocchiamo con mano gli effetti sui bambini e gli adolescenti dell’onda lunga della crisi prodotta dalla pandemia e di una povertà che colpisce, con l’aumento dell’inflazione, in primo luogo le famiglie con bambini. Sono quartieri nei quali la scuola rappresenta un presidio fondamentale per tutta la comunità. Per questo chiediamo al nuovo governo che si formerà un investimento straordinario che parta dalla attivazione di “aree ad alta densità educativa” nei territori più deprivati, in modo da assicurare asili nido, servizi per la prima infanzia, scuole primarie a tempo pieno con mense, spazi per lo sport e il movimento, ambienti scolastici sicuri, sostenibili e digitali. All’apertura di questo nuovo anno scolastico, chiediamo inoltre alle Regioni e agli Uffici scolastici regionali la massima vigilanza nel rispetto di quelle norme che dovrebbero tutelare le famiglie più in difficoltà: a partire dal tetto di spesa per i libri di testo e dal divieto di imporre alle famiglie contributi “volontari”; chiediamo infine interventi straordinari per assicurare la gratuità dei servizi di mensa per i bambini e le bambine la cui situazione economica è peggiorata in questa fase”, spiega Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children. I dati - In Italia, le classi a tempo pieno (40 ore) nella scuola primaria superano di poco il 50% solo in Lazio (55,7%), Toscana (52,8%), Basilicata (52,4%) e Lombardia (52,3%), ma sono una rarità in Molise (7,5%), Sicilia (11,5%), Puglia (18,7%), Campania (18,8%) e Abruzzo (19,6%), mentre la media nazionale è del 37,3%. Secondo le stime del rapporto, l’investimento annuo necessario a garantire il tempo pieno in tutte le classi della scuola primaria statale ammonterebbe a 1 miliardo e 445 milioni di euro circa, destinato all’adeguamento dell’organico per riorganizzare ed estendere gli orari di lezione, al netto delle spese aggiuntive per riorganizzare e/o aumentare gli spazi necessari (es. per la mensa, presente oggi solo nella metà circa delle scuole) e per la formazione specifica degli insegnanti. Il numero di classi della primaria da trasformare in tempo pieno e il relativo investimento necessario è molto variabile da regione in regione, e si va dalle 11.587 classi e i quasi 205 milioni di euro della Campania, alle 637 della Basilicata con una spesa stimata in 11 milioni circa. Complessivamente, a livello nazionale, le classi da trasformare in tempo pieno sarebbero 81.639.