Boom di suicidi nelle carceri, ma i partiti stanno zitti di Astolfo Di Amato Il Riformista, 7 settembre 2022 Sono stati in 59 a togliersi la vita nelle nostre celle dall’inizio dell’anno, ma parlare di questi temi non paga in termini di consensi. Ormai si è affermata l’idea della giustizia come vendetta. Rita Bernardini è, dal 16 agosto, in sciopero della fame per chiedere alle istituzioni di intervenire per fermare l’ondata di suicidi nelle carceri italiane. Sono stati 59 dall’inizio dell’anno. Lo Stato ha preteso di limitare la libertà di queste persone, ma non è stato capace di proteggerne la vita. Si tratta, tuttavia, solo della punta di un iceberg di una più vasta e disumana sofferenza: neonati e bambini tenuti in carcere con le loro madri, persone in condizioni di salute estreme ed irreversibili ritenute contro ogni evidenza compatibili con il regime carcerario, sovraffollamento spesso da terzo mondo, ostacoli insormontabili alla conservazione dei rapporti affettivi e di quelli familiari. Le carceri italiane sono, insomma, un universo di sofferenza, che va molto al di là anche di quella funzione prevalentemente afflittiva, che molti predicano deve avere la pena, ignorando il dettato della Costituzione, che vorrebbe che la funzione principale della pena fosse, invece, la rieducazione. Eppure, nonostante la palese inaccettabilità per un paese civile di tutto questo, Rita Bernardini è costretta ad uno sciopero della fame per cercare di richiamare l’attenzione e smuovere le coscienze. A questo quadro drammatico, si deve aggiungere il silenzio di questa modestissima campagna elettorale sul tema delle carceri. Solo Silvio Berlusconi, ed è un merito di cui gli va dato pienamente atto, nella “pillola” del 3 settembre ha preso posizione su questo argomento, auspicando, tra le altre cose, un ricorso molto più ampio alle pene alternative ed una maggiore attenzione alla dignità dei detenuti. Per il resto un silenzio, che diventa colpevole, nel momento in cui riguarda problemi assolutamente noti nella loro drammaticità. Un silenzio ancora più colpevole, se possibile, per quella sinistra, che proclama di esistere per la difesa degli ultimi, ma che proprio quando si tratta degli ultimi degli ultimi gira, come fa anche con i migranti, la testa dall’altra parte. L’importante è che non facciano rumore e non disturbino. Il fatto è che l’ondata giustizialista, che a partire da Mani Pulite ha sommerso la coscienza degli italiani, ha fatto diventare il carcere una sorta di divinità pagana, alla quale bisogna sacrificare più vite umane possibile per poter ottenere il benessere e la catarsi della società. Ecco, allora, che in questa prospettiva il tema della dignità dei detenuti, della funzione rieducativa della pena, del senso di umanità verso chi soffre, crea solo un flebile e fastidioso rumore di fondo, rispetto alle grida della moltitudine che chiede “che sia buttata via la chiave”. L’incarcerazione è divenuta, ormai da tempo, una sorta di rito pagano, che vedeva, fino all’intervento della ministra Cartabia, il momento più alto e significativo della cerimonia nelle conferenze stampa dei procuratori della Repubblica dopo le “retate”. La politica, con la sola eccezione come si è detto di Berlusconi, o si è unita al coro o, comunque, si guarda bene dal dissociarsene. C’è chi lo fa per convenienza e chi per paura. Certo che la lotta all’”impunitismo”, secondo le parole usate da Enrico Letta e che sembrano pronunciate apposta per guidare il populismo giudiziario, la fa da padrona. In questo contesto, per partiti che hanno perso gran parte della loro carica ideale e che sopravvivono come strutture di potere, è troppo alto il rischio che occuparsi della questione carceraria possa implicare una perdita di consenso. Il ruolo del carcere nella società italiana non potrebbe, tuttavia, essere quello che è se non vi fosse la partecipazione della magistratura. È, questa, una prospettiva diversa, che consente di mettere in luce un altro aspetto della sacralità del carcere. Tra i diritti fondamentali dell’individuo, i primi e più significativi sono quello alla vita e quello alla libertà della persona. Il potere che può, legittimamente, negare sia il diritto alla vita, nei paesi in cui è consentito, e sia quello alla libertà personale è il potere giudiziario. Che, quindi, si viene a trovare al di sopra di quelli che sono i diritti più sacri dell’individuo. Giudicare sulla possibilità che una persona mantenga questi diritti diventa, perciò, specie in un paese democratico, caratterizzato dalla separazione dei poteri, il massimo esercizio di potere possibile. Tale potere si esercita appieno e diventa infinitamente più appariscente quando nega il diritto alla libertà o, addirittura, il diritto alla vita. È ovvio, allora, che l’esercizio di questo potere richiede un equilibrio ed una cautela, che sono assai difficili da mantenere in tempi normali. Figurarsi in un periodo come questo, nel quale la folla, spesso guidata dai leader politici, invoca a gran voce che la divinità pagana del carcere riceva più sacrifici umani possibile. Ciò, tanto più in un paese che, per storia e per tradizione, non ha la cultura della tutela delle libertà personali. In Inghilterra, sin dal 1679, con l’habeas corpus act, è stata affermata la inviolabilità della libertà personale. In Italia, si tratta di un processo lungo e faticoso, iniziato con la Carta Costituzionale del 1948, ma che è ancora largamente incompiuto. Lo si vede nelle decisioni dei giudici. Già nella fase delle indagini, la privazione della libertà personale non ha affatto carattere di eccezionalità. Di fronte, poi, ad un legislatore che chiede l’esistenza di indizi gravi, la banalizzazione, avallata anche dalla Cassazione, è ottenuta affermando che si deve comunque trattare di una valutazione “dinamica”. Il che significa che anche indizi labili, e che al più aprono dei dubbi, sono idonei a giustificare la privazione della libertà. Se, poi, intervenuta la privazione della libertà si cerca di riottenerla davanti al tribunale del riesame, il principio cambia completamente: le prove che devono essere date devono poter smontare compiutamente le tesi dell’accusa, non essendo sufficiente che introducano un dubbio. Troppo spesso tribunali della conferma più che del riesame, ed infatti non può che gravare anche su di essi la responsabilità del numero altissimo di ingiuste detenzioni, che si registra ogni anno. Ecco, allora, che i temi del carcere, della sua eccezionalità, della tutela della dignità personale dei detenuti, della funzione rieducativa della pena, sono, e rischiano di essere ancora a lungo, dei buchi neri di questo paese. Che lo rendono più vicino alle democrazie incompiute ed in evoluzione che ai paesi di grande tradizione democratica. La battaglia di Rita Bernardini, a ben vedere, va ben al di là di quella dimensione carceraria alla quale apparentemente si rivolge. È una battaglia che riguarda non già un aspetto, anche se importante, del paese, ma le fondamenta stesse del sistema democratico. I partiti che, in questa campagna elettorale, fingono di ignorarlo o, addirittura, cavalcano l’onda giustizialista, si battono affinché l’Italia non diventi una democrazia compiuta. Papa Francesco: “Troppi suicidi in carcere, prego per tutte le madri con figli detenuti” di Liana Milella La Repubblica, 7 settembre 2022 Bagno di folla in Piazza San Pietro per il pontefice che ha fatto salire sulla papamobile sei bambini. Dopo l’allarme sulle morti in cella, Francesco ha citato “la martoriata Ucraina” e ha inviato i fedeli “ad ascoltare il proprio cuore e non il telefonino o la tv quando si devono prendere delle decisioni”. Il Papa lancia un nuovo allarme sui suicidi nelle carceri. “Purtroppo - ha detto Bergoglio a braccio al termine dell’udienza generale - nelle carceri sono tante le persone che si tolgono la vita, a volte anche giovani. L’amore di una madre può preservare da questo pericolo. La Madonna consoli tutte le madri afflitte per la sofferenza dei figli”. Il Papa, arrivato in piazza San Pietro a bordo della papamobile sulla quale ha fatto salire sei bambini, ha ricordato che domani sarà celebrata “la festa della natività della Vergine Maria”. “Ha sperimentato la tenerezza di Dio come figlia, piena di grazia, per poi donare questa tenerezza come madre attraverso l’unione e la missione del figlio Gesù. Per questo oggi desidero esprimere la mia vicinanza a tutte le madri, in modo speciale alle madri che hanno figli sofferenti, malati, emarginati, figli carcerati. Una preghiera particolare per le mamme dei giovani detenuti perché non venga meno la speranza”. Il Papa ha anche citato l’Ucraina. “Non dimentico la martoriata Ucraina. Di fronte a tutti gli scenari di guerra del nostro tempo, chiedo a ciascuno di essere costruttore di pace e di pregare perché nel mondo si diffondano pensieri e progetti di concordia e di riconciliazione. Alla Vergine Maria affidiamo le vittime di ogni guerra, ogni guerra - ha ripetuto -, in modo speciale la cara popolazione ucraina”, ha aggiunto Papa Francesco. In modo più lieve, Francesco ha poi affrontato il tema del “discernimento”. “Dio lavora attraverso eventi non programmabili, e anche nei contrattempi. Il discernimento - ha spiegato il Pontefice - è l’aiuto a riconoscere i segnali con i quali il Signore si fa incontrare nelle situazioni impreviste, perfino spiacevoli”, “da esse può nascere un incontro che cambia la vita, per sempre”. Il Papa allora ha dato un consiglio ai fedeli: “State attenti alle cose inattese”, “lì ti sta parlando la vita, ti sta parlando il Signore, ti sta sta parlando il diavolo, qualcuno. Io stavo tanto tranquilla a casa e viene la suocera - ha proseguito il Papa facendo un esempio - e tu come reagisci con la suocera? È amore o hai un’altra cosa dentro?”. Alla fine un invito ad ascoltare il proprio cuore: “Occorre imparare ad ascoltare il proprio cuore. Noi ascoltiamo la televisione, la radio, il telefonino... siamo maestri dell’ascolto. Ma ti domando: tu sai ascoltare il proprio cuore? Il tuo cuore come sta? È soddisfatto? È triste? Cerca qualcosa? Per prendere delle decisioni bisogna ascoltare il proprio cuore”. Quei 10 euro per telefonare che molti detenuti non hanno. E altri non hanno chi chiamare informazioneonline.it, 7 settembre 2022 Emergenza suicidi: continua la campagna anche sui social portata avanti dal cappellano del carcere di Busto Arsizio, don David Maria Riboldi. I soldi per contattare casa offerti dai volontari. Dieci euro: una tessera telefonica per chiamare casa dal carcere. E spesso quei soldi non ce li hanno i detenuti: così li aiutano i volontari. C’è poi chi non ha nessuno da chiamare, altra faccia amara della medaglia. Don David Maria Riboldi, cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio, ha pubblicato una lista che fa male già al primo sguardo: i 10 euro consegnati al mese ai carcerati. Il sacerdote sta portando avanti in questi mesi la campagna per sensibilizzare sull’importanza vitale che può avere una telefonata per i detenuti. Sentirsi meno soli e mantenere una relazione con i propri cari è un diritto sancito in altri Paesi. Intanto, l’emergenza suicidi in Italia scorre. “Le telefonate le pagano i detenuti - spiega don David a proposito della lista mensile - Chi non ha niente… chiede 10 euro al don o ai volontari. Noi diamo 10 euro al mese a chi non ha niente, così possono chiamare casa. O per chi non ha nessuno che gli dia corda, consolarsi con un po’ di tabacco”. Un piccolo dono che può diventare tanto, di cui si fanno carico sacerdote e mondo del volontariato. Mentre prosegue appunto la campagna sul diritto a telefonare, succede anche questo: “Perché parlare delle telefonate non basta… bisogna rimboccarsi le maniche e fare quel che già si può fare. Una telefonata ti può salvare la vita”. Cronaca di un suicidio annunciato: era in galera per un furtarello ed era una persona fragile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 settembre 2022 Un uomo di 44 anni si è tolto la vita nel carcere di Caltagirone, dove era stato rinchiuso in seguito al furto di un portafoglio, subito restituito al proprietario: l’uomo aveva disturbi psichici segnalati più volte. Ufficialmente sono 59 le persone che, affidate allo Stato, si sono tolte la vita dall’inizio del 2022. L’ultimo suicidio, avvenuto cinque giorni fa, riguarda un giovane migrante pakistano ristretto al Centro di permanenza e rimpatrio di Gradisca d’Isonzo. Gli altri 58 suicidi riguardano il carcere. Oramai si è perso il conto dei decessi in carcere, tanto che il garante nazionale delle persone private della libertà, tramite un tweet, ha messo in luce questi dati, indicando che oltre a questi suicidi si aggiungono altri 10 decessi, dei quali deve ancora essere accertata la causa. Morti in cella, la strage invisibile - Tra persone che si sono tolte la vita, quelle per “causa naturale” e quelle ancora da accertare, solo in questi primi otto mesi dall’inizio dell’anno nelle Patrie galere abbiamo raggiunto più di 110 morti. “Una mattanza che impone una riflessione a tutti i livelli, politici e istituzionali”, ha chiosato il Garante. Sin dall’inizio dell’anno il fenomeno ha mostrato segni di preoccupante accelerazione, fino a raggiungere l’impressionante cifra di 15 suicidi nel solo mese di agosto, uno ogni due giorni. A fronte di questo dramma, l’associazione Antigone ha deciso di realizzare un dossier dove ripercorre i numeri, i luoghi e alcune delle storie delle persone che si sono tolte la vita in carcere. E questo, tiene a sottolineare Antigone, lo si è fatto per evitare che cadano nel dimenticatoio e per rompere il silenzio attorno a questo tema. Il rapporto Antigone - Un dossier che Antigone ha messo a disposizione di giornalisti, politici, operatori del diritto, esponenti delle istituzioni, studiosi, attivisti, per costruire un senso comune diverso intorno alla pena e alle sue condizioni talvolta tragiche di esecuzione. Non sempre è facile avere informazioni sui suicidi avvenuti, sulle biografie delle persone che si sono tolte la vita. Antigone sottolinea quanto sia stata meritoria la scelta del Garante Nazionale di porsi come persona offesa in ogni caso di suicidio. Così come ringrazia la redazione di Ristretti Orizzonti che, tramite un dossier, aggiorna costantemente il numero dei decessi in carcere. Grazie al suo lavoro si è potuto fare un confronto con gli altri anni: emerge come non ci siano mai stati nei primi due terzi dell’anno tanti suicidi come nel 2022. Il numero più alto finora era quello del 2010, con 45 casi. Ma ben quattordici in meno rispetto ad oggi.I numeri di quest’anno, sottolinea Antigone nel dossier, “generano un vero e proprio allarme, non avendo precedenti negli ultimi anni. Non è facile trovare delle spiegazioni. Non è neanche facile trovare delle soluzioni. Di questo siamo consapevoli. Sappiamo anche che la vita carceraria è dura, genera sofferenza, esprime solitudini, produce desocializzazione e malattie. Va fatto tutto il possibile per modernizzarla, renderla più a misura di donna o uomo, per ridurre la distanza tra il dentro e il fuori”. In carcere, calcola Antigone, ci si uccide 16 volte in più rispetto alla società esterna. Infatti, un importante indicatore è il tasso dei suicidi dentro e fuori il carcere. Nel dossier si osserva che oltre al numero in termini assoluti, un importante indicatore dell’ampiezza del fenomeno è il cosiddetto tasso di suicidi, ossia la relazione tra il numero di decessi e le persone detenute mediamente presenti nel corso dell’anno. Nel 2020 con 61 suicidi tale tasso era pari a 11 casi ogni 10.000 persone detenute, registrando il valore più alto dell’ultimo ventennio. Nel 2021, seppur in calo rispetto all’anno precedente, il tasso è restato particolarmente alto con 10,6 suicidi ogni 10.000 persone detenute. Antigone sottolinea che “seppur bisogna attendere la fine dell’anno per scoprire il tasso del 2022, considerato il numero di decessi già avvenuti, il valore sembra destinato a crescere rispetto al biennio precedente”. A riprova della natura strutturale del fenomeno è il confronto con quanto accade fuori dagli istituti di pena. Con 0,67 casi di suicidi ogni 10.000 abitanti, l’Italia è in generale considerato un paese con un tasso di suicidi basso, uno tra i più bassi a livello europeo. Secondo l’ultimo report dell’OMS (Suicide Worldwide-2019), con dati relativi al 2019, il tasso di suicidi in Italia è pari a 0,67 ogni 10.000 persone, ben inferiore ad altre realtà europee come la Francia (1,38); la Germania (1,23); la Polonia (1,13); la Romania (0,97); la Spagna (0,77); e gli UK (0,79). Secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa, l’Italia si colloca invece al decimo posto tra i paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere. Donne in carcere - Un dato molto rilevante è la questione femminile. Su 58 suicidi in carcere, quattro erano donne. Antigone osserva che è un numero particolarmente alto se consideriamo che la percentuale della popolazione detenuta femminile rappresenta solo il 4,2 per cento del totale. Ancora più impressionante se paragonato agli anni passati. Secondo i dati pubblicati dal Garante Nazionale, sia nel 2021 che nel 2020 soltanto una donna si era tolta la vita in carcere. Nel 2019 non si era verificato invece nessun caso di suicidio femminile. Altro dato è che l’età media delle persone che si sono tolte la vita è di 37 anni. La fascia più rappresentata è infatti quella tra i 30 e i 39 anni, con 21 casi di suicidi. Segue quella dei più giovani, con 16 casi di suicidi commessi da ragazzi con età comprese tra i 20 e i 29 anni. Vi sono poi 14 decessi di persone tra i 40 e i 49 anni e 8 decessi di persone dai 50 anni in su. I più giovani in assoluto erano due ragazzi di 21 anni, detenuti nelle Case Circondariali di Milano San Vittore e Ascoli Piceno. Il più anziano era un uomo di 70 anni detenuto nella Casa Circondariale Genova Marassi. La storia di S.M, in cella per un furtarello - Il dossier di Antigone merita di essere letto per comprendere il fenomeno e scoprire che ogni storia è a sé. Ed è doloroso apprendere una storia (una delle tante che rende bene l’idea di una società che non riesce a prendersi a carico il disagio) che l’associazione ha raccolto tramite una testimonianza. Parliamo di S.M., un uomo di 44 anni, originario di Catania, che si era tolto la vita nel carcere di Caltagirone. Si trovava da pochi giorni all’interno dell’istituto per il furto di un telefonino e un portafoglio, sottratti al botteghino del Teatro Massimo Bellini e subito restituiti ai legittimi proprietari. Era un soggetto fragile, con vari disturbi mentali, aveva lo sguardo perso nel vuoto, un viso sofferente, e spesso non riusciva a comunicare in modo adeguato, ripetendo monologhi o frasi senza senso, talvolta appariva smarrito perché in stato confusionale, la sua igiene personale era inesistente e sembrava molto più grande dei suoi 44 anni. Talvolta veniva picchiato per divertimento dai bulli del quartiere, e si presentava in giro come una maschera di sangue. Tutto ciò viene testimoniato da una donna tramite una lettera inviata ad Antigone. Nella missiva, la signora racconta che a giugno scorso venne a conoscenza di un video che ancora oggi circola su tik tok, nel quale si vedeva lo stesso S.M. che dormiva in pigiama all’interno di un cassonetto dell’immondizia. Nella scuola dove la donna ha insegnato, nel cuore di S. Cristoforo, in tanti hanno segnalato la situazione. Lei stessa si è recata in questura e ha mostrato agli agenti il video, dicendo che il soggetto, che talvolta fa uso di alcool, potrebbe non svegliarsi durante la raccolta dei rifiuti, rischiando di essere schiacciato dal compattatore. Ma le è stato detto che gli stessi non potevano intervenire in quanto nel video non si configurava alcun reato. Così ha dato voce a vari amici e associazioni, ma la situazione è rimasta immutata. Poi ha appreso la tragica notizia. L’uomo si era tolto la vita in carcere. Un detenuto su cinque nelle carceri italiane è campano di Viviana Lanza Il Riformista, 7 settembre 2022 “Mica volete farci credere alle teorie di Lombroso?”. Il bilancio dei suicidi in carcere, nell’ultimo periodo, ha raggiunto numeri allarmanti. I dati che arrivano dal mondo dietro le sbarre rilevano realtà sempre più drammatiche: il 30 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio, il 40 per cento ha problemi di tossicodipendenza, circa la metà fa uso di psicofarmaci. Sono numeri che dovrebbero servire a tracciare statistiche che dovrebbero servire alla politica e alle istituzioni per intraprendere azioni mirate. Invece, restano statistiche rispetto alle quali la politica si mostra indifferente. E alla fine, quindi, i drammi diventano solo numeri. Ne parliamo con Paolo Conte, avvocato penalista e osservatore dell’associazione Antigone in Campania. Le carceri in Italia, e soprattutto in Campania, sono vecchie e inadeguate sia sotto il profilo strutturale sia sotto il profilo della gestione della popolazione detenuta... “Sì, si tratta di strutture antiche e adeguate a case circondariali ormai da molto tempo. Pensiamo al carcere di Poggioreale o al carcere femminile di Pozzuoli. Si tratta di strutture concepite per una detenzione a vocazione custodialistica, non hanno spazi per la socialità, le celle sono di dimensioni relativamente grandi ma ospitano numerosi detenuti costretti a molte ore di inattività. Di recente, un po’ a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale, si sta tornando da un regime a custodia aperta a un regime a custodia chiusa. La custodia aperta, quantomeno nei reparti di media sicurezza, quelli che ospitano detenuti comuni, prevedeva celle aperte per otto ore al giorno per cui i detenuti avevano la possibilità di andare nella stanza della socialità o spostarsi da una cella a un’altra, usufruendo degli spazi nei corridoi. Si tratta di un regime introdotto dopo la sentenza Torregiani che condannava l’Italia per gli spazi inumani riservati ai detenuti. Ora si sta tornando al regime a celle chiuse che costringe i detenuti a trascorrere quasi tutto il giorno in celle sovraffollate, senza spazio per muoversi. Parliamo di celle dove sono recluse anche dodici persone. Stanze con letti a castello a tre piani il cui ultimo piano sfiora il soffitto, stanze in cui le brande non possono essere disposte diversamente se non davanti alle finestre che quindi restano o sempre aperte o sempre chiuse, stanze in cui non c’è posto in piedi per tutti per cui si è costretti a trascorrere la maggior parte del tempo distesi sul letto. C’è poi una questione di fondi. Sono cauto nel dirlo ma per le case circondariali, qual è per esempio Poggioreale, non sono previsti gli stessi fondi previsti per le case di reclusione, questo perché in teoria nelle case circondariali dovrebbero esserci detenuti in attesa di processo e non condannati da rieducare. Nella realtà, invece, accade che detenuti in attesa di giudizio vengano reclusi in case di reclusione e detenuti con condanne nelle case circondariali”. Confusione, caos, diritti mortificati. Non c’è finalità rieducativa in un carcere che funziona così. Anzi, la sensazione è che gli istituti di pena si stiano trasformando sempre più in una sorta di lazzaretti, di manicomi... “C’è un uso molto ampio di psicofarmaci, questo chiaramente è un dato da leggere con attenzione e cautela. Esaltando la questione psichiatrica in carcere c’è il rischio di tornare a una logica di contenimento manicomiale. Sta di fatto che nelle carceri ormai anche persone che non hanno mai fatto uso di psicofarmaci, a causa della sofferenza alla quale il carcere induce, sono portati a fare uso di “farmaci al bisogno” come si dice così nel gergo carcerario, cioè ad assumere gocce per dormire e antidepressivi”. Sono spie dei drammi a cui stiamo assistendo. Cinquantanove suicidi dall’inizio dell’anno, centinaia di atti di autolesionismo... “A ciò aggiungiamo che c’è stata una trasformazione della popolazione detenuta negli ultimi decenni. Attualmente abbiamo una popolazione detenuta che in percentuali sempre più alte (40 per cento) è tossicodipendente, proviene da situazioni di estrema marginalità e soffre di disagi psichici. La tossicodipendenza si accompagna spesso a problemi di disagio psichico e lo vediamo anche dalle visite che facciamo come osservatori di Antigone, c’è una percezione immediata e forte del disagio psichico che c’è all’interno degli istituti di pena. Non vorrei che fossero parole troppo forti, ma davvero quando si entra in carcere oggi sembra di entrare in dei lazzaretti, si ha la percezione forte del disagio che c’è. Ma questo è un aspetto che non va frainteso: non vuol dire che bisogna spostare i detenuti dalle carceri alle Rems, si rischierebbe un ritorno alle logiche manicomiali. Il dato dovrebbe servire invece ad adottare iniziative per potenziare i servizi territoriali di salute mentale, con percorsi di assistenza mirati e in grado di seguire il detenuto sul territorio. Si eviterebbero tanti di quei suicidi a cui abbiamo assistito quest’anno”. I detenuti in carcere sono anche troppi come numero. Il sovraffollamento è un problema da sempre… “Basti pensare che, secondo dati del Ministero dell’Interno, i numeri assoluti dei reati sono in diminuzione ma il numero di detenuti è in aumento. Inoltre, è cambiata la tipologia di reati per cui si va in carcere: la categoria più ampia è quella dei detenuti per reati contro il patrimonio, e negli ultimi decenni anche quella dei detenuti per reati legati alla detenzione o al traffico di stupefacenti”. La Campania ha i numeri più elevati... “È la regione più rappresentata nelle carceri italiane, copre circa il 19 per cento della popolazione detenuta a livello nazionale. Abbiamo talmente tanti detenuti che li esportiamo: nelle carceri campane circa l’80 per cento dei reclusi è autoctono ed è campano circa il 10 per cento dei detenuti reclusi nelle strutture di altre regioni”. Un altro dato che dovrebbe far riflettere la politica… “Sì perché, a voler essere più realisti delle teorie di Lombroso, le ragioni di questa realtà sono da ricercarsi in un tasso di disoccupazione che in Campania e al Sud è doppio o triplo rispetto a regioni come la Lombardia, in un reddito procapite che è meno della metà di quello delle regioni del Nord”. Tutte ragioni, dunque, che riguardano la gestione sociale ed economica del territorio. Politica, se ci sei, batti un colpo! I magistrati tributari scioperano contro la riforma Cartabia di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 settembre 2022 Dal 19 al 21 settembre i giudici tributari si asterranno dal lavoro per protestare contro la riforma della giustizia tributaria, approvata il 9 agosto. Le ragioni della protesta spiegate al Foglio da Gobbi (Amt) e Leone (Cpgt). Dal 19 al 21 settembre i magistrati tributari sciopereranno per protestare contro la riforma della giustizia tributaria, approvata in fretta e furia dal Parlamento il 9 agosto dopo la caduta del governo Draghi, con la sola astensione di Fratelli d’Italia. Tre gli elementi principali alla base della protesta dei giudici tributari, come spiega al Foglio Daniela Gobbi, presidente dell’Associazione magistrati tributari: “Innanzitutto la permanenza del rapporto con il ministero dell’Economia e delle Finanze, nel quale saranno incardinati i giudici professionali. E’ evidente come questa scelta del legislatore appanni l’immagine di autonomia e indipendenza del giudice. La riforma accentua il rapporto di dipendenza dei giudici tributari dal Mef, titolare dell’interesse oggetto delle controversie tributarie, in contrasto con i principi costituzionalmente garantiti dell’indipendenza e dell’imparzialità dei giudici e in chiaro contrasto con l’interesse dei contribuenti”. La riforma voluta dalla ministra Marta Cartabia, infatti, pur prevedendo - in maniera innovativa - l’istituzione di una magistratura specializzata, non solo non recide i legami di dipendenza già esistenti tra giudici tributari e Mef, ma attribuisce a quest’ultimo anche funzioni in materia di status giuridico ed economico dei magistrati tributari e il reclutamento dei nuovi giudici. “Al pari della giustizia amministrativa e contabile - prosegue Gobbi - avevamo chiesto che la giurisdizione tributaria fosse incardinata presso la presidenza del Consiglio dei ministri. La scelta del legislatore, oltre a presentare dei seri dubbi di costituzionalità, non potrà non rafforzare la preoccupazione dei contribuenti italiani e degli investitori stranieri”. Il secondo problema fondamentale riguarda le scoperture di organico dovute alla professionalizzazione della magistratura, dunque l’efficienza stessa del sistema tributario: “La riduzione dell’età prevista per la cessazione dell’incarico dei giudici tributari, anche se in modo graduale, comporterà una grave e irrimediabile compromissione delle funzionalità degli organi della giustizia tributaria, determinando contestualmente un altrettanto grave depauperamento delle professionalità esistenti nella giustizia tributaria”, afferma Gobbi. Qualche numero: “Dal 2022 al 2027 usciranno dalla giurisdizione tributaria 1.238 giudici su un organico di circa 2.500, tra i quali numerosi presidenti dei collegi giudicanti, non sostituibili in tempi brevi a causa dei tempi necessari per le procedure concorsuali, certamente non inferiore a quattro anni. Il risultato sarà l’allungamento dei tempi di definizione delle controversie in contrasto con l’esigenza di rapida definizione dei processi particolarmente avvertita dal cittadino contribuente”. Terzo punto critico: la mediazione. “Finalizzato a garantire il principio di leale collaborazione tra stato e cittadini, rimane un istituto non obiettivo e non imparziale gestito e organizzato dalla stessa amministrazione finanziaria che emette avvisi di accertamento e cartelle di pagamento, mentre - al contrario - sarebbe necessario che la mediazione fosse svolta dinanzi a un organo che appaia e sia terzo e imparziale”, dichiara la presidente dell’Amt. Fortemente critico sulla riforma anche Antonio Leone, presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria (Cpgt), quello che dovrebbe rappresentare il “Csm” della giustizia tributaria: “In sede di audizione - dichiara Leone al Foglio - avevamo segnalato l’assoluta necessità di dotare l’organo di autogoverno di un ruolo autonomo del personale e invece si è ribadita la dipendenza al Mef, il quale gestisce anche lo status giuridico dei funzionari delle Agenzie fiscali, che è la principale parte del processo tributario. Credo si tratti di un bel ‘conflitto d’interessi’ che non ha precedenti in alcun paese europeo”. “Non sono contrario alle riforme, ci mancherebbe altro, ma queste vanno fatte per bene, non di fretta e principalmente non con le Camere sciolte e sotto una presunta spinta dell’Europa. Allora è meglio non fare nulla ed evitare danni. Sto aspettando ancora qualcuno che mi dica in base a quali informazioni è stato previsto che circa 600 giudici professionali siano sufficienti per gestire l’intero contenzioso tributario, scrivendo in media, per giudice, 380 sentenze l’anno. Insomma, tra commissioni ministeriali e task force la montagna ha partorito il classico topolino”, conclude Leone. Rileggete le parole di Moroni: sono passati 30 anni e non abbiamo imparato nulla di Biagio Marzo Il Riformista, 7 settembre 2022 Indagato dal pool di Mani pulite, si sparò un colpo di fucile in bocca. La lettera che lasciò, indirizzata all’allora presidente della Camera Napolitano, è di grande attualità e profetica. Moroni si sparò, con il fucile da caccia in bocca, lasciando una lettera indirizzata all’allora Presidente della Camera, Giorgio Napolitano, che la lesse in un’Aula ammutolita e incapace di prendere posizione davanti alla slavina giudiziaria populista che avanzava. Nella lettera, c’è la riflessione del personaggio figlio della politica di quell’epoca in cui si militava in un partito e per il partito. In parole povere, ammise l’appartenenza al sistema partitocratico, ma lungi da lui di averne tratto profitto, cioè di essersi arricchito con la politica. Moroni fu indagato dal pool Mani pulite per finanziamento illegale dei partiti e la sua morte fu una morte politica e non fu l’unico caso. A pensarci, espresse efficacemente il suo il peso del suo atto estremo: “Quando la parola è flebile, non resta che il gesto”. Non è tutto. C’è nella lettera spedita a Napolitano, un passaggio di un politico dalla vista lunga: “Al centro sta la crisi dei partiti (di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure non è giusto che avvenga attraverso un processo sommario e violento…”. Ancora. “Né mi estranea la convinzione che forze oscure coltivano disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la ‘pulizia’. Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e il loro sistemi di finanziamento”. Nel settembre del 1992, l’avviso di garanzia, al contrario di ciò che recita il Codice penale, era il reato più infamante che potesse colpire un politico. Con lo strombazzamento del circo giudiziario mediatico. Uno dei due “direttori d’orchestra”, il vice procuratore, Gerardo D’Ambrosio, così commentò: “Noi ci siamo limitati a perseguire, reati. Poi c’è qualcuno che si vergogna e si suicida”. Di seguito, l’immancabile Piercamillo Davigo: “Le conseguenze dei reati devono ricadere su chi li ha commessi e non su chi li ha scoperti”. La nemesi ha detto la sua poi su chi voleva rivoltare l’Italia come un calzino Il concerto fu eseguito da orchestrali che suonarono contro Moroni, tra questi ricordiamo alcuni: Giorgio Bocca, Vittorio Feltri e Massimo Fini. Quest’ultimi due scrivevano sull’Indipendente - direttore Feltri- il quotidiano che più degli altri si contraddistinse a favore di Mani Pulite e dell’antipolitica. Insomma gettarono le basi del populismo giudiziario che, in verità, vive e vegeta, anche oggi, con arresti di massa. A ben vedere, non fu l’unico organo di stampa a combattere la politica e la Prima repubblica soprattutto, ma ebbe compagni d’avventura in tutti i mezzi di informazione scritti e parlati. Chi non ricorda i telegiornali di Berlusconi, per esempio, quello condotto su Rete 4 dal telecronista giudiziario, Paolo Brosio, che “alloggiava” sotto il palazzo di giustizia di Milano, per informare i telespettatori degli arresti eccellenti. Moroni nella missiva dice la sua su questo argomento: “Né mi pare giusto che una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive a cui è consentito di distruggere l’immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste il diritto di informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie. A ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino, dimenticando di essere stati per molti versi di un sistema rispetto al quale, si ergono censori. Non credo che questo paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da “progrom” nei confronti della classe politica, i cui limiti sono noti, ma pure ha fatto dell’Italia uno dei Paesi più liberi dove i cittadini hanno potuto non solo esprimere le proprie idee, ma operare per realizzare positivamente le proprie capacità e competenze”. E, comunque, la lettera è di grande attualità e, alla luce dei fatti profetica, per gli avvenimenti che si sono succeduti dal 1992 al 2022. Il passato che non passa. La morte di Moroni - anzi le morti per mano giudiziaria - è segnata dalla verità di Mani pulite; verità che non è rivoluzionaria, più delle volte è menzognera. Di fatto, come la guerra dei trent’anni di Mani pulite. Sassari. Detenuto condannato all’ergastolo muore in carcere. “Stroncato da un infarto” di Paolo Rapeanu castedduonline.it, 7 settembre 2022 Un’altra croce nelle carceri dell’Isola, l’uomo aveva poco più di 40 anni. Il Sappe getta delle ombre: “Troppe croci, il detenuto aveva più volte inalato il gas della bomboletta utilizzata per cucinare”. È un detenuto italiano di Sassari, ergastolano, ristretto nel carcere di Bancali l’ennesimo morto in un carcere italiano. A dare la notizia è il sindacato autonomo della Polizia penitenziaria del Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri. “L’uomo è morto ieri di infarto. Non sono note le cause, ma era stato sorpreso in più occasioni ad inalare in cella il gas della bomboletta che legittimamente i detenuti posseggono per cucinarsi e riscaldarsi cibi e bevande. Non è ancora chiaro, dunque, se si tratta di suicidio o le conseguenze, ma certo inquieta il fatto che da alcuni giorni, un carcere nel quale non ci sono né un direttore né un comandante di reparto titolari come quello di Bancali, continuano ad accadere gravi eventi critici”, denuncia Antonio Cannas, delegato nazionale per la Sardegna del Sappe “Certo è che l’uomo, che pure aveva qualche problema di natura psichiatrica ed aveva già tentato il suicidio, è morto e questo è un fatto triste e grave. Sconforta che le autorità penitenziarie ministeriali e regionali, pur in presenza di inquietanti eventi critici, non assumano adeguati ed urgenti provvedimenti”, conclude. Per il segretario generale Donato Capece: “è ora che al posto delle pericolosissime bombolette a gas, a volte trasformate anche in bombe contro il personale, si dotino le carceri di piastre elettriche per riscaldare il cibo dei detenuti. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. E il fatto che sia morto inalando il gas dalla bomboletta che tutti i reclusi legittimamente detengono per cucinarsi e riscaldarsi cibi e bevande, come prevede il regolamento penitenziario, deve fare seriamente riflettere sulle modalità di utilizzo e di possesso di questi oggetti nelle celle. Ogni detenuto può disporre di queste bombolette di gas, che però spesso servono o come oggetto atto ad offendere contro i poliziotti, come ‘sballo’ inalandone il gas o come veicolo suicidario. Già da tempo, il Sappe, ha sollecitato i vertici per rivedere il regolamento penitenziario, al fine di organizzare diversamente l’uso e il possesso delle bombolette di gas”. Ma il Sappe sottolinea le criticità operative del personale di polizia in relazione alla alta concentrazione di detenuti psichiatrici, come a Bancali: “È grave che la recrudescenza degli eventi critici in carcere si è concretizzata quando sempre più carceri hanno introdotto la vigilanza dinamica ed il regime penitenziario ‘aperto’, ossia con i detenuti più ore al giorno liberi di girare per le Sezioni detentive con controlli sporadici ed occasionali della polizia penitenziaria. Anche la consistente presenza di detenuti con problemi psichiatrici è causa da tempo di gravi criticità per quanto attiene l’ordine e la sicurezza delle carceri del Paese. Il personale è stremato dai logoranti ritmi di lavoro a causa delle violente e continue aggressioni. Ed è grave che, pur essendo a conoscenza delle problematiche connesse alla folta presenza di detenuti psichiatrici, le Autorità competenti non siano ancora state in grado di trovare una soluzione. Se il Capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi non è in grado di trovare soluzioni alla gravissima situazione delle carceri sarde ed italiane ed alla tutela degli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria deve avere la dignità di dimettersi”. Terni. Ha un nome il detenuto marocchino che si è tolto la vita in cella, ora l’autopsia di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 7 settembre 2022 Due settimane in obitorio in attesa di un’identità. Due settimane fa si è tolto la vita nella cella del carcere di Sabbione dove stava scontando una condanna definitiva ed è ancora all’obitorio dell’ospedale di Terni. E questo perché dopo il decesso del detenuto nordafricano, 49 anni, è emerso che l’uomo, che aveva detto di essere algerino, aveva utilizzato un alias e non era possibile dargli con certezza un’identità che consentisse di poter procedere all’autopsia e poi al rimpatrio nel suo Paese. Sono stati giorni di grande lavoro e di riscontri per la polizia penitenziaria del carcere di Sabbione, che ha avuto anche il supporto dell’Imam, Mimoun El Hacmi. Solo in queste ore è stato possibile dare un nome certo al detenuto che si era procurato, lo scorso 23 agosto, gravissime lesioni con una lametta. Il decesso il giorno seguente, all’ospedale “Santa Maria”. Si tratta di un marocchino che, da quanto emerge, negli anni passati ha fornito diversi alias nelle città in cui era stato arrestato. Una pratica molto frequente quella dell’uso degli alias da parte degli extracomunitari, che poi vengono identificati grazie ai rilievi dattiloscopici fatti al momento dell’ingresso in Italia. Il giallo si è risolto grazie al numero seriale con cui le forze di polizia lo inserirono in banca dati dopo il suo arrivo in Italia, che risale agli anni novanta. A Sabbione il 49enne marocchino era arrivato a maggio dal carcere di Perugia. Era uno dei detenuti che, per motivi di ordine e sicurezza, erano costretti a frequenti spostamenti tra un penitenziario e l’altro. Lui, che a Terni non voleva stare e che aveva perso i contatti con i parenti, più volte aveva protestato per chiedere di essere trasferito altrove. Il fine pena per il detenuto, deceduto al “Santa Maria dopo le gravissime lesioni che si era procurato in cella, sarebbe arrivato tra un anno. In carcere, dove stava scontando una condanna definitiva, aveva dichiarato di essere algerino ma dopo il decesso è emerso che quella non era la sua vera identità. I rilievi dattiloscopici, il punto fermo per tutti gli extracomunitari arrivati in Italia, hanno consentito di conoscere il vero nome del 49enne e il paese di provenienza. “In questi giorni del caso si sta occupando il console marocchino - conferma Mimoun El Hacmi - sono state inviate anche le sue foto in Marocco ai parenti. La vicenda - aggiunge l’Imam - dovrebbe risolversi nel giro di qualche giorno”. Sulla vicenda il sostituto procuratore, Raffaele Pesiri, ha aperto un fascicolo, delegando le indagini alla polizia penitenziaria. Nei prossimi giorni ci sarà l’autopsia e successivamente saranno perfezionate le pratiche per il rimpatrio del detenuto nel suo paese d’origine. “Il tema dei suicidi in carcere - ha detto l’avvocato Giuseppe Caforio, garante regionale dei diritti dei detenuti - è diventato il principale argomento della conferenza dei garanti italiani. E’ stato predisposto un documento, con richiesta di intervento urgentissimo del dap di tutte strutture carcerarie, perché il fenomeno ha assunto una rilevanza quantitativa oramai preoccupante, con dati mai visti nella storia delle carceri italiane. Lecce. “I problemi delle carceri ignorate in questa campagna elettorale” agenparl.eu, 7 settembre 2022 Appello della Garante dei detenuti Maria Mancarella. La Garante, preso atto dell’andamento della campagna elettorale 2022, nella quale il carcere con le sue tante difficoltà è il grande assente, fa suo l’invito che il Garante nazionale Mauro Palma rivolge a tutti i partiti per un deciso cambio di rotta, che porti all’inserimento del tema carcere nel contesto più ampio delle risposte da dare alle difficoltà del nostro ambito sociale e alle lacerazioni che in esso si sviluppano. La lunga lista di suicidi in carcere, 59 dall’inizio dell’anno, mai così tanti, racchiude storie di solitudine, di disagio psichico, di povertà, esclusione sociale e dipendenze; su queste storie, su queste vite tragicamente interrotte il silenzio della politica è pressoché assoluto. Le carceri italiane sono diventate invivibili: nelle carceri italiane, anche a Lecce, non c’è solo il sovraffollamento, che ha raggiunto negli ultimi mesi livelli intollerabili, vi è carenza di personale, soprattutto sanitario che si trasforma in carenza di cura nei confronti dei più fragili. Gli operatori dell’area psicopedagogica sono pochi e non riescono a far fronte alle tante richieste e ai complessi bisogni dei/lle detenuti/e; i medici e gli psichiatri sono pochi, i bandi spesso vanno deserti; l’estate poi rende più difficile tutto, anche il normale approvvigionamento di medicinali. Mentre molte situazioni peggiorano, in alcune sezione le detenute non usufruiscono della sorveglianza dinamica e trascorrono la maggior parte del loro tempo chiuse nelle celle, mentre i lavori di ristrutturazione di alcune aree vanno a rilento e costringono i detenuti a vivere in tre in una cella, mentre il disagio psichico aumenta pericolosamente, il carcere di Lecce “torna alla normalità pre-pandemica” diminuendo, per i detenuti e le detenute di alta sicurezza, il numero e la durata delle telefonate e delle video chiamate, unico grande risultato positivo ottenuto per effetto dell’emergenza Covid. Nel frattempo nessuno dei candidati e delle candidate locali alle elezioni sembra volersi occupare di tanta sofferenza. Per questo la Garante di Lecce fa suo l’appello del Garante Nazionale e invita le forze politiche e i/le candidati/e a mettere al centro dei loro programmi il tema dell’esecuzione penale, non per proporre facili e talvolta vuoti slogan di bandiera ma per affrontare concretamente i problemi. Alcune criticità del sistema possono, infatti, trovare risposte efficaci se si guarda il problema al di là delle diversità ideologiche. Risposte e proposte che possono e devono trovare spazio nel dibattito preelettorale, nei programmi e nelle proposte e negli impegni dei partiti e delle coalizioni. A tal fine ribadisce i punti essenziali che caratterizzano l’Appello. 1) Più strutture e interventi capaci di intercettare contraddizioni e difficoltà, la cui soluzione viene affidata all’ambito penale. Quasi un terzo della popolazione carcerarie, a Lecce come in Italia, ha una condanna compresa tra uno e due anni: sono persone per le quali il carcere non può far poco o nulla; “è troppo poco tempo per poter costruire un reale percorso di conoscenza e di riabilitazione, ma è abbastanza per cucire addosso alla persona detenuto uno stigma che ne pregiudica spesso un effettivo reinserimento sociale. Istituire delle strutture di controllo e di accoglienza rivolte ai detenuti con pene brevi e scarsissime risorse e che, per il tipo di reati lievi commessi, non rappresentano certo un elemento di pericolosità è un modo per ridurre i pesanti livelli dell’attuale sovraffollamento e contenere una presenza che parla di povertà e di carenza sul territorio di strutture e interventi a sostegno delle persone più fragili. 2) Rafforzare gli investimenti sull’istruzione e la formazione all’interno degli istituti carcerari significa rispondere al bisogno espresso da molti detenuti di uscire dal carcere almeno con uno strumento più efficace e certificato che li aiuti a migliorare la vita durante la detenzione, a comprendere il presente e a riprendere in mano responsabilmente la propria vita. Lecce è da circa due anni sede di un Polo Universitario, la cui istituzione abbiamo tutti salutato con gioia e speranza ma che ancora stenta a decollare, nonostante il grande impegno profuso da tutti gli operatori coinvolti. “La cultura e la formazione - scrive il Garante nazionale - svolgono all’interno delle carceri un ruolo centrale nel favorire il percorso di responsabilizzazione e reinserimento delle persone detenute. Sono lo strumento potente di promozione della persona, un veicolo per un ritorno positivo alla collettività, una premessa per un possibile inserimento lavorativo successivo al periodo di forzata distanza dal contesto sociale”. Investire in cultura e formazione migliora la vita delle persone detenute e di tutta la società. 3) Una maggiore presenza in carcere di operatori sociali, un più efficace adeguamento dei loro profili professionale alle esigenze della vita carceraria e alle sue connotazioni attuali rappresentano un modo per rendere i percorsi di riconnessione con la vita esterna più efficaci e utili. Più professionisti dell’area educativa, più psicologi, più mediatori culturali significa dotare il carcere di personale competente, chiamato una serie di compiti essenziali di sostegno, contenimento e rielaborazione delle difficoltà che oggi vengono a volte lasciati alla buona volontà e disponibilità della Polizia penitenziaria che, oltre al ruolo di sorveglianza, finisce per farsi carico di altri tipi di problemi per i quali non può essere preparata e su cui ricade una incongrua responsabilità. È un investimento necessario, uno strumento efficace per consentire un ritorno alla realtà sociale diverso da quello che si è lasciato entrando. Implementare le piante organica, spesso numericamente obsolete, rappresenta la condicio sine qua non per rendere operative le proposte presenti nella circolare, firmata dal capo Dap Carlo Renoldi, con l’obiettivo di rinnovare, con il coinvolgimento delle Autorità sanitarie locali, gli strumenti di intervento e le modalità per prevenire il drammatico fenomeno dei suicidi. Napoli. Carcere di Poggioreale, giovedì visita dei candidati alle politiche anteprima24.it, 7 settembre 2022 È in programma per giovedì 8 settembre, alle ore 14, la visita nel carcere di Poggioreale di una delegazione di parlamentari e consiglieri regionali, candidati alle politiche nazionali 2022, che sarà accompagnata dal Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello. “Ho fatto un invito ai partiti e ai candidati ad occuparsi del carcere e a visitare gli istituti di pena per un deciso cambio di rotta e per ottenere risposte aderenti ai principi dettati dalla nostra Costituzione e dalle Convenzioni europee. Alcuni di loro hanno risposto, accogliendo il mio invito”. Il prossimo giovedì, dopo pranzo, alle ore 15:30, all’uscita dalla Casa circondariale di Poggioreale, i candidati prenderanno parte ad un presidio fuori dall’Istituto e qui avrà luogo una conferenza stampa. Continua il Garante campano: “Le problematiche dei detenuti, degli agenti di polizia penitenziaria, la mancanza di figure sociali e di professionisti nelle carceri, l’assenza di programmi concreti di inclusione sociale, l’inesistenza di adeguate strutture di accoglienza per detenuti con doppia diagnosi di tossicodipendenza e disturbi psichici e per i detenuti senza fissa dimora, sono questioni non più rinviabili. Le istituzioni, a vari livelli, devono impegnarsi per un cambiamento, che deve poggiare le fondamenta su temi quali la sanità, la formazione, l’istruzione. Il tema della privazione della libertà intramuraria è assente nell’agenda politica, ma è evidente che il Governo deve pensare ad un provvedimento di ristoro per i detenuti”. Oggetto dell’incontro di giovedì sarà la questione più dibattuta negli ultimi anni: il carcere tra indifferenza e diritti, focalizzando l’attenzione soprattutto sul problema delle strutture penitenziarie con carenza di personale di polizia penitenziaria, educatori, psicologi e psichiatri, nonché del sovraffollamento. Conclude Ciambriello: “Nelle carceri ci sono ancora troppe vittime e nessun segnale di speranza. Allora, chiedo che a questa iniziativa fuori Poggioreale presenzino le associazioni di volontariato, gli operatori del terzo settore, l’avvocatura, i volontari del mondo cattolico e i familiari dei ristretti. Ritengo fondamentale la loro presenza per accendere i riflettori sul carcere: chi ha sbagliato è giusto che paghi, ma non al prezzo della vita, chi è detenuto ha diritto alla salute e a ricevere cure sanitarie; il carcere non deve restare separato dal mondo esterno e merita di essere salvato da una spinta riformatrice che non conosce limiti e barriere”. Maria Tinto torna in libreria con “Il sole a strisce. Storie di emozioni dietro le sbarre” di Manuela Rauso edizionecaserta.net, 7 settembre 2022 Maria Tinto, psicologa e scrittrice di Sant’Arpino, torna in libreria con “Il sole a strisce. Storie di emozioni dietro le sbarre”, edito da Santelli editore. “Parlare di sofferenza non è mai semplice - spiega l’autrice - ma, in questo caso, è stata questa la spinta motivazionale, vissuta personalmente, nell’indurmi a riportare la matrice esistenziale che si cela dietro la storia di ognuno dei detenuti protagonisti. “Il sole a strisce” è un libro che ha l’intento di portare “fuori” dalle mura di una casa circondariale quei vissuti che stanno alla radice di tante storie, sfatando pregiudizi e stereotipi legati a detenuti e tossicodipendenti. Essi, con l’aiuto di una psicologa, cercheranno di venirne fuori. La psicologa, attraverso ascolto e “strategie” di comunicazione appropriate, cercherà di aiutare queste persone ad approcciarsi in modo sano alla vita che li attende “fuori” da quelle porte reboanti “simili a lamiere battute dal vento” “. Maria Tinto è Psicologa Clinica e Psicoterapeuta a indirizzo Breve Strategico Giorgio Nardone model’s. Laureata con lode, è iscritta all’albo degli Psicologi del Lazio. Specializzata nei disturbi della Sessualità presso l’Università di Pisa ed esperta in Psicologia del trauma, si occupa di ricerca nell’ambito delle dinamiche disfunzionali, sia della famiglia che della coppia. Nel corso degli anni ha organizzato eventi e convegni sul contrasto alla violenza di genere e alla violenza assistita da parte dei minori. Appassionata di scrittura e di poesia. Pubblica due libri di poesie, nel 1989 “Come un volo di gabbiani”, nel 2006 “Emozioni intumescenti”. Poeta e saggista, nel 2017 vince il Premio letterario Autori Italiani con il saggio “I bambini non nascono cattivi”, opera sull’infanzia e le difficoltà dei genitori con i figli minori. Nel 2020 scrive il manuale “Coronavirus: strategie per fronteggiare le insidie psicologiche” Edizione Ale.Mar e pubblica l’opera “Il genitore strategico - Vincere le sfide con i figli senza combattere” CSA Editrice - 2020, saggio sull’adolescenza e le problematiche evolutive riferite al periodo della vita adolescenziale. Nel 2021 dà alle stampe il suo primo romanzo Vulìa. Ora è il momento de “Il sole a strisce. Storie di emozioni dietro le sbarre”, un libro che ha tantissimi spunti di riflessione, con un punto di osservazione ampio rispetto alla famiglia e alle difficoltà relazionali. Sottolinea l’importanza dei rapporti affettivi dei bambini e degli adolescenti all’interno della realtà familiare e le conseguenze distruttive che si verificano quando manca la relazione di accoglienza e affettuosità genitoriale. In sintesi: una psicologa, chiamata a svolgere la sua attività in una casa circondariale, si ritrova a confrontarsi con i suoi “pazienti” scoprendone le fragilità. Emergerà un nuovo tipo di “dipendenza”, fino a quel momento non considerato e peraltro paradossale, come quello del “carcere”. Le storie narrate esprimono per lo più un vissuto doloroso d’infanzia e adolescenza infelice, sconvolto dalla presenza di genitori violenti, ma anche assenti e noncuranti dei figli, e da un ambiente sociale respingente, di cui i protagonisti ne avvertono ancora la minaccia. Riuscirà la nostra psicologa a innescare il tanto agognato cambiamento? E soprattutto, riusciranno loro stessi a mettere la parola fine a tutto quello che finora non ha funzionato e ricominciare una nuova vita, per godersi finalmente un sole non più a strisce? Lo scopriremo solo leggendo questo interessante lavoro che occorre necessariamente acquistare e custodire gelosamente nella libreria di casa. Julian Assange “sbarca” al Lido di Venezia di Vincenzo Vita Il Manifesto, 7 settembre 2022 Libertà d’informazione. Nel pomeriggio dello scorso lunedì, nel corso della Biennale cinema, il presidente dell’ordine nazionale dei giornalisti Carlo Bartoli ha consegnato la tessera professionale al giornalista fondatore di WikiLeaks. Nel pomeriggio dello scorso lunedì, alla Casa degli autori al Lido di Venezia, nel corso della Biennale cinema, si è tenuto un evento di straordinaria importanza per la libertà di Julian Assange. Infatti, il presidente dell’ordine nazionale dei giornalisti Carlo Bartoli - accompagnato dalla segretaria generale Paola Spadari, insieme a Maurizio Paglialunga, Gianluca Amadori e Giuliano Gargano - ha consegnato la tessera professionale al giornalista fondatore di WikiLeaks impropriamente considerato dagli accusatori non appartenente alla categoria. Si è sanato un vulnus, ancorché fosse noto che una organizzazione ordinistica non esiste in molti paesi, tanto meno nell’Australia dove nacque Assange. Ha ritirato virtualmente la tessera, solo in collegamento online, Stefania Maurizi cui si deve gran parte dell’opera di sensibilizzazione sull’argomento e autrice del prezioso volume “Il potere segreto” (2021), che ricostruisce meticolosamente una terribile vicenda giudiziaria iniziata nel 2010. Dreyfus docet. Ora siamo alla fase più delicata, quella che nelle prossime settimane la darà vinta o meno alla richiesta di estradizione negli Stati Uniti, intenzionati a condannare alla pena di 175 anni per spionaggio un eroe sfortunato dei nostri tempi. Le accuse andrebbero ribaltate su chi le muove con cinica determinazione. Buoni e cattivi, come in un film di Tarantino, rovesciano i loro ruoli. Chi ha innescato guerre come in Iraq e in Afghanistan e ha perpetrato le torture medioevali di Guantanamo è l’accusatore. Una personalità straordinaria, che ha scardinato l’ordine del segreto e pubblicato l’indicibile secondo una regola fondamentale della deontologia, rischia di fatto la condanna a morte. Ecco perché l’iniziativa presa a Venezia dall’associazione Articolo21 con l’Ordine nazionale, la federazione della stampa, il sindacato dei giornalisti veneti, l’organizzazione degli autori cinematografici e l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico ha un valore enorme. Ne hanno parlato con nettezza Andrea Purgatori, la rappresentante di Amnesty International Tina Marinari, Manuela Piovano per l’Anac, Federica De Luca dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Monica Andolfatto per il Veneto. Erano presenti Ottavia Piccolo e la direttora de il manifesto Norma Rangeri, la presidente del sindacato dei giornalisti cinematografici Laura Delli Colli e il cortese delegato delle Giornate degli autori Giorgio Gosetti. L’iniziativa è stata conclusa da Giuseppe Giulietti, che ha invitato a proseguire l’attività di sostegno ad Assange. Non è un caso singolo, bensì la tragica metafora della torsione autoritaria in corso, tesa a cancellare autonomia e indipendenza dell’informazione. La cronaca, soprattutto quando ficca il naso nei meandri nauseabondi dei poteri, dà fastidio. Quante e quanti giornalisti, spesso precari e sottopagati, vengono uccisi o intimiditi dalle varie forme della criminalità. In colletti neri ma pure bianchi. Tardano misure minime per alleviare la crisi occupazionale e la norma promessa da anni contro il ricorso alle cosiddette querele temerarie sta in una lunga lista di attesa. Ora più che mai, dunque, Assange diviene l’emblema di una lotta esemplare, di una vertenza incessante per tutelare il bene comune della conoscenza. Ci si vuole ignoranti e ignorati, irretiti dall’omologazione culturale e dal pensiero unico. Ma da Venezia si è alzato un grido fortissimo e amaro: no all’estradizione di Assange. Erano presenti anche diversi comitati nati negli ultimi anni con Donatella Mandollo e Marinella Diaz. Numerose iniziative si terranno in autunno e a Roma un gruppo coordinato dalla docente Grazia Tuzi con Laura Morante e varie qualificate presenze sta raccogliendo testimonianze video di sostegno alla campagna. Proprio Manuela Piovano, che con Giuseppe Gaudino cura l’apertura di una pagina You Tube, ha descritto tale significativa attività. Decine di contributi arrivati testimoniano che la partita è aperta. Se si intende colpirne uno per educarne cento, si sappia che gli altri 99 non staranno a guardare. Riconoscersi, contro gli egoismi di Stefano Zamagni e Paolo Venturi* Corriere della Sera, 7 settembre 2022 L’unica strada per uscire da una posizione meramente difensiva e formulare un nuovo ideale di futuro, è quella di scommettere su un agire corale caratterizzato da alleanze, collaborazioni e sperimentazioni inedite. L’inizio del “dopo”, postula infatti il riconoscimento del legame con l’altro. Allearsi e collaborare diventa possibile infatti solo quando riconosciamo di essere legati (non solo collegati), coscienti che “il mio futuro è legato al tuo”. L’individualismo di chi si propone come soluzione e la crescente solitudine di chi ha bisogno amplificano le disuguaglianze e allontanano le persone dalle comunità e dalle istituzioni. Per troppo tempo ci si è concentrati sui “contratti” (es. Pnrr) senza curare “i patti” ossia quelle alleanze capaci di promuovere cambiamenti e orientare comportamenti sulla base di norme sociali e scopi condivisi. Possiamo riscrivere e rispettare i contratti, solo rifondando i patti attraverso un rinnovato riconoscimento. Una prospettiva che nei confronti del Terzo settore, per troppo tempo si è tradotta in una mera dichiarazione strumentale: un principio incapace di concretizzarsi in azioni riguardanti il welfare, lo sviluppo e dell’innovazione. Per non rendere questo riconoscimento, un processo meramente retorico, è necessario tradurlo in azioni concrete capaci di modificare le strutture di potere che alimentano le decisioni e le scelte economiche, rendendole più aperte, inclusive e sussidiarie. Riconoscersi non implica solo un rinnovato investimento nell’instancabile protagonismo di imprese sociali, cooperative, associazioni e fondazioni, ma anche un profondo ripensamento del loro significato in termini di creazione del valore e non solo in termini di riparazione o redistribuzione. Un protagonismo che non va appena rivendicato, ma che deve aprirsi alla creazione di nuove intelligenze, nuove economie e nuove forme di governance da tradurre in amministrazione condivisa. Un processo di aggregazione della domanda e di intraprendenza collettiva quanto mai indispensabile oggi poiché le transizioni che stiamo attraversando possono portare ad un effettivo miglioramento delle condizioni di vita di molte persone, così come peggiorare ulteriormente le criticità sociali e alimentare le disuguaglianze già in essere. Nel 1962 Gunter Anders pubblica “L’uomo è antiquato”, un saggio che ci riguarda molto da vicino. L’idea (anticipatrice dei tempi) che vi si trova è che l’essere umano è tale soltanto se qualcuno lo chiama in causa, se si cura di lui. Diversamente dal cartesiano “cogito, ergo sum”, quel che si rende necessario oggi è affermare: “cogitor, ergo sum” (mi si pensa, dunque sono). Una prospettiva radicalmente diversa che richiede una visione antropologica ed una tensione inclusiva nel delineare le soluzioni buone per il futuro evitando di caricare ulteriori disuguaglianze sulle generazioni future. Su questo fronte il principio del mutuo riconoscimento trova tre principali ambiti di sperimentazione per connotare le trasformazioni in atto. Il primo riguarda la necessità di rilanciare l’adozione del modello democratico e deliberativo per la presa delle decisioni. Democraticità che costituisce non solo una rivendicazione etica in risposta alla logica del conflitto e al sentimento di intolleranza che matura in seno alle “comunità rancorose”, ma che rilancia l’originalità dei soggetti dell’Economia Civile come espressione di una intraprendenza capace di tenere insieme la partecipazione e la solidarietà con la competitività e l’innovazione. Il secondo ambito riguarda la necessità di includere il Terzo settore nell’allestimento di contesti abilitanti, costruendo così infrastrutture sociali ed economie secondo uno spirito neo-mutualistico. Il terzo infine è l’estrema urgenza di ridare al lavoro il proprio ruolo di attività volta alla piena realizzazione della persona rendendolo così allo stesso tempo giusto (cioè capace di offrire il potere d’acquisto necessario per provvedere alle proprie necessità) e decente (cioè capace di portare a piena fioritura umana). Quando il lavoro non è più espressione della persona, perché non ne comprende più il senso, diventa schiavitù. Tre priorità su cui misurare concretamente e presto la reale motivazione della politica e delle istituzioni nel costruire orizzonti di bene comune. Una strada in cui non sarà possibile cooperare (condividendo mezzi e fini) senza riconoscersi e alimentare impatto e prosperità senza la consapevolezza che la comune “vulnerabilità” è superabile solo attraverso un rinnovato patto fra politica, economia e società civile. Una prospettiva questa, che trova nella sussidiarietà circolare il metodo più adeguato per declinare l’azione pubblica: un’azione non solo promossa attraverso il contributo della comunità, ma insieme ad essa. Mettere questi temi al centro della XXII edizione delle Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile di Aiccon (14-15 ottobre) vuole essere, come sempre, un’occasione per costruire visione e cultura e per incoraggiare il cambiamento delle istituzioni, politiche e modelli di sviluppo. *Economisti Fra crisi e rilancio della democrazia, un appuntamento di Grazia Zuffa Il Manifesto, 7 settembre 2022 In piena campagna elettorale, si fa fatica a interessarsi al dibattito fra i contendenti, per lo più imperniato sulla gara a chi meglio interpreta i supposti “interessi degli Italiani”. Nessuno (o quasi) sembra preoccuparsi di come si è inceppata la comunicazione della principale istituzione democratica, il parlamento, con “gli Italiani”, così come si evince dal sempre più grave problema della astensione dal voto. Peraltro, non c’è da meravigliarsi di tanta indifferenza nei confronti di questa crisi della democrazia rappresentativa: è la stessa manifestata da pressoché tutte le forze politiche, quando si sono trovate d’accordo nel tagliare il numero dei parlamentari: senza alcuna riflessione sulle conseguenze negative nel (necessariamente ridotto) rapporto fra elettore ed eletto, senza avvertire l’urgenza di cambiare la legge elettorale per salvaguardare quel delicato rapporto nel nuovo parlamento. Vero è che il come rappresentare al meglio la volontà popolare niente ha a che fare con il “dagli alla casta”, che ha portato al drastico taglio ai parlamentari: utile esempio del baratro che divide il populismo con i suoi feticci (la “casta” in testa), dalla democrazia. Un baratro in cui risuona sinistra la fanfara del “presidenzialismo” (cara al centro-destra); che - guarda caso - promette di ri-accentrare il potere in alto, incurante della crisi di legittimazione democratica in basso. Eppure, in molti avvertiamo il bisogno di una riflessione complessiva sulla crisi degli strumenti della democrazia rappresentativa, della democrazia diretta e più in generale della partecipazione politica. Da qui l’iniziativa della Società della Ragione, insieme ad altre associazioni unite nella collaborazione politica (il Centro Riforma dello Stato - Crs e l’Associazione Luca Coscioni): promuovere un seminario di approfondimento, dal 16 al 18 settembre, a Treppo Carnico dal titolo: Dentro la krisis: referendum, parlamento, partiti e partecipazione politica. Sul parlamento e la sua impasse, già si è accennato. Circa gli strumenti di democrazia diretta e il rapporto con le prerogative del parlamento, la recente vicenda dei referendum offre molti spunti. Le campagne promosse nell’estate 2021 non hanno sortito alcun esito normativo. I quesiti “eutanasia legale” e “cannabis legale”, che avevano ottenuto una adesione popolare straordinaria nella raccolta delle firme, non hanno superato il giudizio di ammissibilità della Corte Costituzionale. Pensando anche alla bocciatura della stessa Corte del quesito abrogativo più trainante dei sei proposti in tema di “giustizia giusta” (la responsabilità civile dei magistrati), è legittimo interrogarsi sulla reale agibilità politica di questo strumento di democrazia diretta; e su come la ripetuta preclusione al voto possa compromettere la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Tanto più che lo sbarramento al referendum rimanda alla pronta iniziativa del parlamento: che però, proprio sulle questioni su cui “gli Italiani” si sono dimostrati più interessati a dire la loro, appare paralizzato. Come si vede, se un pilastro istituzionale vacilla, ne risentono tutti gli altri e in ultimo la stabilità dell’edificio. Perciò va riesaminato fin dalle fondamenta: dal senso e dagli strumenti del “fare politica”, a fronte del declino dei partiti politici e dei movimenti. La krísis, etimologicamente, può significare declino, ma anche trasformazione e occasione di cambiamento. Ripensare gli strumenti della democrazia per rilanciare le battaglie che più ci stanno a cuore: sulla giustizia, sulle carceri, sui diritti, per dare voce ai soggetti, specie i più ignorati e le meno ascoltate: è questa, per riassumere, la sfida dell’appuntamento di Treppo. Suicida a 13 anni, la fragilità degli adolescenti e l’incapacità degli adulti di capirli di Matteo Lancini* La Stampa, 7 settembre 2022 L’episodio di Gragnano costituisce l’occasione per riflettere ancora una volta sulla fragilità di preadolescenti e adolescenti: in particolare il tema riguarda l’educazione al fallimento, all’inciampo e alle difficoltà. Oggi la fine del rapporto di coppia costituisce per molti ragazzi e ragazze un avvenimento che non rappresenta solo la fine della relazione ma il crollo del valore di sé. Se quanto è accaduto verrà poi confermato dalla giustizia, ci troviamo di fronte a un episodio in cui la sofferenza determinata dalla fine della relazione toglie senso identitario e porta alcuni ragazzi e ragazzi ad attaccare se stessi fino al pensiero e al gesto suicidale; altri ad esprimere la propria fragilità e disperazione attraverso azioni e parole distruttive e violente che annientino colui che ha sancito la fine della relazione. Dobbiamo impegnarci in nuove forme di attività educative e preventive che mettano al centro la fine della relazione di coppia che, come è noto, soprattutto in adolescenza, può essere vissuta drammaticamente. Troppo spesso ci focalizziamo sull’idea che il rapporto termini nel momento in cui ci si lascia, mentre dobbiamo lavorare nella scuola per aiutare i ragazzi a fare manutenzione non solo della coppia ma anche della fine della relazione che fa ancora parte del progetto di coppia e va affrontata cercando di dare senso e significato ai motivi dell’interruzione. Cercare di comprendere cosa suscita in noi e nell’altro questa rottura è un nuovo compito che negli interventi educativi e psicologici non era mai stato preso in considerazione e si rivela quanto mai attuale. C’è un’idea dell’amore che non è più romantico ma narcisista e quindi quando non vivi più nella mente dell’altro è come se la vita perdesse senso e significato a favore del prevalere di aspetti distruttivi che vengono riversati, a seconda delle caratteristiche delle personalità e di contesto, verso di sé o verso l’altro. Internet e i social costituiscono le nuove vie attraverso le quali mettere in atto progetti suicidali o vendicativi; la pervasività della rete poi e la capacità di raggiungere un pubblico ampio, potenzialmente infinito, rende questo mezzo particolarmente adatto per la messa in scena di queste dinamiche, con ricadute drammatiche per chi ne è vittima. Oggi il potere orientativo dei coetanei, per la diffusione del web e anche per altri motivi, è aumentato a dismisura fino a risultare determinante, marginalizzando gli adulti che non riescono a essere percepiti come interlocutori capaci di sostenere un giovane nella difficoltà e di affrontare il dolore sperimentato. Anche il fatto che inizialmente questi episodi vengano derubricati velocemente come “incidenti”, quando poi si rivelano sempre più spesso tentativi di suicidio o suicidi, dimostra la difficoltà degli adulti di farsi carico delle nuove modalità di soffrire degli adolescenti. Il dolore rischia così di rimanere muto e diventare gesto, azione conclamata, attacco al sé o all’altro. Questo episodio può essere un’occasione per trattare il tema del suicidio a scuola o in famiglia, troppo spesso rimosso dietro l’ipotesi del tutto non vera e inappropriata che parlare di suicidio istigherebbe le giovani menti a metterlo in atto: è vero esattamente il contrario. Dare possibilità di parlare del suicidio rappresenta una riduzione del fattore di rischio del gesto suicidale di uno o di una adolescente. *Psicoterapeuta e presidente Fondazione Minotauro Davvero mafie e galere sono colpa della cannabis? di Marco Perduca huffingtonpost.it, 7 settembre 2022 Bisognerebbe avere il coraggio di dire che un controllo legale di tutte le sostanze psicoattive contenute nelle Convenzioni delle Nazioni unite avrebbe enormi ripercussioni positive sulla qualità della vita delle persone, in termini di tranquillità, di salute e di pratica di scelte personali. Timidamente da parte di chi dice di esser a favore della regolamentazione della cannabis, ed energeticamente da parte di chi dice “la droga è morte”, la pianta proibita ogni tanto fa capolino nella campagna elettorale. Il problema è che molto spesso, tanto in un campo quanto nell’altro, si riciclano banali affermazioni apodittiche che potevano avere appeal qualche anno fa ma che poco hanno a che fare oggi con la realtà e, forse ancora meno, con la necessità di un cambiamento radicale dello status quo per quanto riguarda (almeno) la cannabis. Stime del Centro Europeo di Lisbona che monitora la presenza delle sostanze psicoattive proibite nel nostro continente ci dicono che in Italia circa sei milioni di persone sono consumatori abituali di cannabis e che quasi 20 milioni l’hanno provata almeno una volta nella vita. Se questi numeri enormi non fossero troppo distanti dalla realtà, e probabilmente non lo sono, una qualsiasi organizzazione criminale - da sola o in regime di cartello o di violenta competizione - dovrebbe trarre da queste entrate una percentuale non solo straordinaria ma anche strutturalmente fondamentale per il proprio bilancio. E invece gli studiosi nazionali e internazionali delle mafie italiane e la Direzione Nazionale Antimafia ritengono che si tratti di una cifra che rappresenta si e no il 10% del fatturato delle mafie nazionali. Negli anni le mafie hanno molto diversificato, oltre alle “droghe” trafficano in armi, esseri umani, rifiuti, arte, petrolio, continuano con racket, usura e sono sempre più interessate a corruzione per appalti pubblici e potentissime nel riclaggio di danaro a livello globale. Se questi numeri esigui non fossero troppo distanti dalla realtà, e probabilmente non lo sono, perché allora affermare con tanta convinzione che la legalizzazione della cannabis andrebbe a colpire le narco-mafie? Tanto il Centro di Lisbona, quanto le relazioni che annualmente il governo presenta (cioè fa finta di presentare) al parlamento ci dicono che il grosso delle entrate per traffico e vendita di droghe illegali le mafie lo traggono dal commercio di eroina e cocaina - che in Italia vengono consumate una quasi un milione e mezzo di persone - ne conseguirebbe che per privare le mafie di quella parte importante di entroiti andrebbero legalizzate tutte le sostanze proibite e non solo quella che con crescente frequenza viene coltivata anche domesticamente o in gruppo o comunque fuori dai circuiti criminali. Sarebbe “bello”, e facile, se il problema dell’illegalità degli istituti penitenziari italiani dipendesse solo, o sopratutto, dalla legge sulla droga; purtroppo non è così. È vero che l’attuale normativa sulle sostanze stupefacenti mantiene pressoché intatto l’impianto punizionista costruito al momento della sua prima adozione nel 1990 ma, vista la diffusione delle condotte relative alle sostanze che essa vuole controllare, si può dire che o la legge non viene applicata perché non una priorità oppure perché è inapplicabile al 100% perché non pensare per contenere i presunti problemi alla salute e l’ordine pubblico. Certo, ci sono state impennate di arresti all’indomani dell’adozione della cosiddetta legge Fini-Giovanardi nel 2006, ma va sempre tenuto conto che essa seguì di poco l’approvazione della legge cosiddetta ex-Cirielli che interveniva pesantemente su chi reiterava anche reati per cui non erano previste pene significative. È vero che ancora oggi oltre il 33% dei detenuti in italiani è in carcere per reati droga-correlati (circa 16.000) e che si arrivo a quasi 30.000 nel 2009 ma non è detto che: 1 siano con sentenza definitiva, 2 abbiano violato solo la 309/90, 3 la abbiano violata coltivando, vendendo, trafficando o usando cannabis. Ma anche se fossero tutti dentro per motivi di marijuana, farli uscire tutti dalla mattina alla sera renderebbe meno sovraffollate le carceri ma niente più. Anche se negli anni la raccolta dati da parte del Ministero della Giustizia è leggermente migliorata, quello che da alcuni viene chiamato “pianeta carcere” continua a esser sconosciuto anche a chi ci vive. Non si sa quali istituti siano del tutto agibili, quanti operino nel pieno rispetto di tutte le leggi che li interessano, ivi comprese le norme sanitarie, quanti abbiano consolidato definitivamente il passaggio alle ASL, quanti prevedevano servizi socio-sanitari specializzati, offerta scolastica o specializzazioni professionali, lavoro dentro e fuori le mura, oppure la presenza di personale esterno volontario per assistenza a chi è indigente o ha necessità complesse o non capisce bene l’italiano o il burocratichese. Non si sa neanche quale sia il numero esatto di letti disponibili per Regione mentre la superficie quadrata delle celle viene calcolata con medie nazionali che poco dicono rispetto ai parlamentari europei previsti per “camere” e “camerate”. Chi sa quante celle hanno il bagno separato dal resto dello spazio? E la doccia prevista per legge dov’è? Acqua calda o solo acqua fredda? Muri scrostati e muffe? Oppure quando sono stati smontanti i letti a castello e a quanti piani erano o sono? Oppure quanto sono ampie e/o apribili le finestre? Vogliamo poi parlare dell’impatto della del proibizionismo sulla cannabis su conventi di tre secoli fa trasformati in carceri? Oppure quanto persi il Testo Unico sulle droghe sulla qualità architettonica di quella trovata tutta italica delle cosiddette “carceri d’oro”, per non parlare della convivenza con topi o piccioni? E dei prezzi degli spacci interni? O della carenza di personale di polizia penitenziaria o di direzione degli istituti? Certo legalizzare le droghe “leggere” e “pesanti” in Italia andrebbe incontro a scelte, spesso molto consapevoli anche se non necessariamente del tutto libere, di oltre otto milioni di persone, ma di per sé toglierebbe un po’ di cash alle mafie e farebbe un po’ di spazio a chi resterebbe costretto a passare oltre metà della propria giornata rinchiuso in luoghi bui e puzzolenti. Dopo 60 anni di acqua calda o fredda (a seconda dei gusti) bisognerebbe avere il coraggio di dire che un controllo legale di tutte le sostanze psicoattive contenute nelle Convenzioni delle Nazioni unite avrebbe enormi ripercussioni positive sulla qualità della vita delle persone, in termini di tranquillità, di salute e di pratica di scelte personali. Se non ci sono voluti riuscire governi o maggioranze a trazione centro-sinistra mi par difficile che ci possa anche solo pensare una Legislatura con una forte maggioranza a destra, forse affrontare la questione conoscendola potrebbe far fare alla politica quel salto di qualità necessario per metterla al passo coi comportamenti della società che, anche in questo ambito, è molto più ragionevole di chi la governa. Per difendere i diritti abbiamo bisogno del racconto del mondo di Riccardo Noury Il Domani, 7 settembre 2022 “Raccontare il mondo, difendere i diritti”. La denominazione del premio in onore di Inge Schönthal Feltrinelli tiene insieme due azioni, una culturale e l’altra politica, di enorme importanza. Nell’esperienza di Amnesty International, senza il racconto del mondo, la difesa dei diritti umani sarebbe compromessa. Senza la difesa dei diritti, il racconto del mondo sarebbe più povero. La storia di Patrick Zaki, che tra 20 giorni torna nell’aula di un tribunale antiterrorismo del Cairo, è esemplare. È la storia di un ragazzo venuto a Bologna per il desiderio di apprendere come raccontare il mondo, per poter meglio difendere i suoi diritti. Se non ci fosse stato il racconto di Patrick, avremmo potuto difendere i suoi diritti in un modo così potente? La risposta, temo, sia negativa. Se Domani non avesse raccontato giorno per giorno, nell’estate 2021, la storia di Ikram Nazih (la studentessa italo-marocchina condannata a tre anni per aver condiviso su Facebook un’immagine considerata blasfema), il nostro governo sarebbe stato così sollecito nel chiedere a quello del Marocco la sua scarcerazione? No. In definitiva, quanta parte del mondo rimarrebbe oscurata se non ci fosse il racconto scritto o per immagini, se non ci fosse quel rumore che è la migliore arma per squarciare il silenzio che impongono i regimi autoritari? Quasi tutta. Il falso imposto come vero - Ecco perché raccontare il mondo è fondamentale per difendere i diritti. Certo, non è facile e spesso porta a subire gravi conseguenze. I 61 anni di campagne di Amnesty International in difesa dei diritti umani sono pieni di storie di giornaliste e giornalisti, scrittori e scrittrici, artisti e artiste, disegnatori e disegnatrici, registi e registe che hanno trascorso anni in carcere o che sono scomparsi nel nulla o sono stati assassinati. Raccontare la verità, per i regimi autoritari, è “propaganda” e “notizie false”. Il vero è obbligato per legge a diventare falso perché il falso possa essere imposto come vero. Per raccontare il mondo, dunque, occorre coraggio ma serve anche la curiosità. Dote che apparteneva certamente a Inge Schönthal Feltrinelli e ad altre persone che hanno viaggiato per conoscere o - per citare Gabriel García Márquez - hanno vissuto per raccontare. Apparteneva anche a persone come Antonio Russo, Ilaria Alpi, Milan Hrovatin, Enzo Baldoni, Andrea Rocchelli, Andrei Mironov, trucidati non perché si fossero trovati “nel posto sbagliato” ma, al contrario, esattamente perché si trovavano nel posto giusto, dove accadono i fatti, per raccontarli. Scegliere il potere - Naturalmente si possono fare scelte diverse, più comode e rassicuranti: mettersi al servizio dei poteri, scegliere l’oblio, ricorrere all’autocensura. E mentre la persecuzione “novecentesca” nei confronti di scrittori, giornalisti e artisti non è in diminuzione, ciò che sta aumentando in modo spaventoso è il controllo del dissenso online. I regimi repressivi, sin dalla nascita della rete, stanno destinando enormi risorse economiche alla sorveglianza dei profili e degli strumenti di chi racconta il mondo sulle piattaforme social. Nelle ultime settimane i tribunali antiterrorismo (una definizione “orwelliana” poiché si tratta di corti che giudicano le opinioni) dell’Arabia Saudita hanno emesso due condanne, rispettivamente a 34 e 45 anni di carcere, nei confronti di due donne che avevano pubblicato o ripubblicato contenuti “lesivi del tessuto sociale” o “contro la sicurezza dello stato”. Questo scenario, di una rete che diventa una rete a strascico a pesca di dissidenti, lo aveva preconizzato Jamal Khashoggi, il giornalista e dissidente saudita trucidato il 2 ottobre 2018 all’interno del consolato saudita di Istanbul. Torno alla domanda iniziale: se non ci fosse stato il racconto di Patrick, avremmo potuto difendere i diritti di Patrick? E come potremmo difendere i diritti di un gruppo di attivisti tra i più romantici di questi anni, i “partigiani delle ferrovie” della Bielorussia, se non raccontassimo le loro azioni? I “partigiani delle ferrovie” sono capistazione, macchinisti, addetti agli scambi e al carico dei vagoni che cercano d’impedire l’afflusso di armi, veicoli blindati e personale militare russo in Ucraina attraverso le ferrovie dello stato alleato. Per il governo bielorusso sono “terroristi” e per loro è prevista la pena di morte. A me sembrano, a proposito di locomotive, “eroi tutti giovani e belli”. Sono storie come queste che vorrei partecipassero al premio “Raccontare il mondo, difendere i diritti” in onore di Inge Schönthal Feltrinelli. Un premio che, già dal titolo, dimostra di essere estremamente necessario. *Amnesty International Grecia. Un affronto alla dignità umana. Il Consiglio d’Europa denuncia le condizioni carcerarie di Isabella Piro Avvenire, 7 settembre 2022 Sono tanti, anzi sono troppi, in Grecia, i detenuti che vivono in condizioni che rappresentano “un affronto alla loro dignità umana”: l’allarme arriva dal Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) del Consiglio d’Europa ed è contenuto in un rapporto diffuso il 2 settembre scorso. Lo studio è il risultato delle visite che l’organismo ha compiuto in cinque carceri greche tra il 22 novembre e il 12 dicembre 2021. Le prigioni ispezionate sono state quella di Korydallos, la più grande del Paese, situata alla periferia di Atene, insieme a quelle di Nigrita e delle isole di Kos, Chios e Corfù. A finire nell’occhio del ciclone sono state, principalmente, “le situazioni di sovraffollamento, le cattive condizioni di detenzione, le violenze tra detenuti, la grave carenza di personale e l’inadeguatezza dell’assistenza sanitaria” negli istituti penitenziari. Al momento della visita infatti - si legge nel rapporto, “la popolazione carceraria era di 11.182 persone a fronte di una capacità di 10.175 posti, il che equivale a un tasso di occupazione del ‘io per cento”. Inoltre, su 34 carceri, 24 erano sovraffollate, mentre 15 presentavano un tasso di occupazione superiore al 130 per cento. Una percentuale che, nel caso della prigione maschile di Korydallos, arrivava al 152 per cento, con i detenuti immersi in situazioni di “pericolo e povertà”, tra “scarafaggi e cimici”, senza poter svolgere neanche una qualche attività utile che permettesse loro di “prepararsi al reinserimento nella comunità al momento del rilascio”. Il Cpt, inoltre, lancia l’allarme anche per l’ospedale psichiatrico per i detenuti, sempre situato a Korydallos: si tratta di “un istituto talmente trascurato da non essere in grado di fornire cure adeguate ai propri pazienti”, né di compiere “indagini autoptiche approfondite sui decessi in carcere”. L’organismo europeo si dice “molto critico” anche sulle modalità con cui i carcerati vengono trasportati dalla polizia ellenica in tutto il Paese: ad esempio, nel carcere di Corfù il Comitato ha avuto notizia di maltrattamenti fisici, tra cui pugni e calci inferti dagli agenti ai prigionieri. Episodi di punizioni corporali, inoltre, sarebbero avvenuti sia in cella che in un’ala in disuso dell’istituto di pena. Di fronte a tutti questi dati, il Cpt chiede alle autorità di Atene di porre fine “con urgenza” al sovraffollamento carcerario, investendo su misure alternative alla custodia cautelare, nonché alla detenzione stessa, e “adottando iniziative per facilitare il reinserimento nella società delle persone private della libertà”. Infine, il Consiglio d’Europa esorta la Grecia a “una distribuzione più uniforme della popolazione dei detenuti all’interno delle carceri, anche tenendo conto della vicinanza alla famiglia o alla residenza del prigioniero”. In riposta al rapporto, il governo greco ha pubblicato un’ampia e dettagliata documentazione ín cui sottolinea di accogliere le raccomandazioni del Cpt e di impegnarsi a combattere il sovraffollamento carcerario. Nello specifico di Korydallos, l’esecutivo segnala che “nel trimestre marzo-maggio 2022, 144 detenuti sono stati trasferiti in un altro carcere, mentre le riunioni del Comitato centrale di trasferimento continuano ininterrottamente con l’obiettivo di decongestionare gradualmente l’istituto penale”. Presso la struttura, inoltre, “nel prossimo futuro, il numero di programmi e attività (teatrali, musicali, artigianali, ecc.) per i detenuti aumenterà, in quanto sarà più facile realizzarli grazie alla revoca delle restrizioni contro il covid-19”. Le autorità assicurano anche di aver effettuato interventi di disinfestazione e di manutenzione, soprattutto per quanto riguarda gli impianti idrici ed elettrici di Korydallos. Da segnalare che, secondo il rapporto Space 2021 (Statistiques pénales annuelles du Conseil de l’Europe), al 31 gennaio 2021 gli istituti penitenziari negli Stati membri del Consiglio d’Europa risultavano ospitare 1.414372 persone. Ciò significa che, nelle carceri europee, su too.000 abitanti, 102 erano privati della libertà personale. Quanto alla durata media della detenzione nel Vecchio Continente, nel 2020 era pari a 8,9 mesi. Infine, riguardo al tasso di densità della popolazione carceraria, le carceri in condizioni di sovraffollamento risultavano essere dieci: in testa la Romania con 119,3 detenuti ogni cento posti disponibili, seguita da San Marino (112,5) e Grecia (111,4); settima l’Italia (1o5,5) e decima l’Ungheria (100,5). Ultime in classifica - ma è in questo caso è un bene - le prigioni del Principato di Monaco con una densità di 13,4 detenuti ogni cento posti disponibili. In questa strana guerra il gas è usato come un’arma di Paolo Valentino Corriere della Sera, 7 settembre 2022 Né Mosca né Kiev appaiono al momento sensibili a qualche iniziativa negoziale e l’impressione è che siamo sempre più di fronte a uno scontro che durerà a lungo. Ora che il Cremlino, con il blocco definitivo delle forniture all’Europa, ha ufficialmente integrato il gas nel suo arsenale, usandolo per la prima volta in modo esplicito come arma politica, la guerra in Ucraina fa un nuovo salto. L’obiettivo strategico a medio termine dei dirigenti di Mosca è infatti mostrare all’Europa che senza energia russa i governi dell’Ue non saranno in grado di assicurare gli approvvigionamenti, proteggere i loro consumatori dal rialzo dei prezzi, tanto meno rispettare le loro ambiziose agende climatiche. È una strategia di destabilizzazione economica, che accompagna l’azione di guerra russa sul terreno e punta anche a limitare le capacità e minare la determinazione del cosiddetto “Occidente collettivo” di sostenere lo sforzo militare dell’Ucraina. Ancora una volta, come ai tempi del generale Kutuzov contro le armate napoleoniche, il Cremlino sembra scommettere sul “generale inverno”, sperando questa volta che il fronte europeo si frammenti sotto la pressione delle opinioni pubbliche colpite dall’inflazione e stremate dal freddo della stagione che incombe. Quello che Vladimir Putin non sa e non può dire è cosa farà del gas invenduto, che vista la scarsa capacità di stoccaggio e l’impossibilità di dirottarlo verso altri mercati come il petrolio, al momento viene bruciato su vasta scala con gravi conseguenze ambientali, proprio mentre la crisi comincia a mordere la Russia. Secondo un rapporto interno, reso noto da Bloomberg, sotto il martello delle sanzioni occidentali l’economia della Russia si sta deteriorando più rapidamente del previsto. Di più, anche il complesso militar-industriale russo appare in difficoltà. Ieri Politico ha rivelato l’esistenza di liste della spesa di tecnologia militare compilate a Mosca, di cui l’industria e l’esercito avrebbero disperatamente bisogno: microchips, semiconduttori, trasformatori, isolanti, transistor. Ma c’è un altro salto da registrare nel conflitto, questo sul terreno. L’offensiva ucraina lanciata una settimana fa a Kherson, sul fronte meridionale, di cui bisogna subito dire che si sa poco, ne ha infatti quantomeno cambiato la psicologia. È significativo che le autorità filorusse abbiano annunciato il rinvio del previsto referendum per l’annessione della zona alla Federazione russa, decisione legata alla situazione della sicurezza. Se non è il segnale di un chiaro successo ucraino, è un indizio che l’assalto sta avendo i suoi effetti, costringendo i russi sulla difensiva. Più in generale, è il segnale che l’aiuto occidentale, le armi, l’addestramento e l’intelligence stiano facendo una differenza in favore di Kiev. Significa questo che si stanno ribaltando le sorti del conflitto? No. L’impressione è piuttosto che siamo sempre più di fronte a una guerra di logoramento, destinata a durare a lungo, forse anni. Nonostante la grande disparità dei due dispositivi militari e la soverchiante superiorità numerica e strategica della Russia, nessuna delle due parti appare infatti in grado di infliggere una sconfitta militare all’altra nel breve o medio periodo. E anche per questo, né Mosca né Kiev appaiono al momento sensibili a qualche iniziativa negoziale, nonostante i cauti ottimismi provocati in estate dagli accordi sul grano. Le guerre prima o poi finiscono, ma non necessariamente con la vittoria sul campo di uno dei contendenti. Cessano anche per implosione interna di uno dei duellanti, come fu il caso della Germania nella I Guerra Mondiale. La cosa decisiva in una guerra di attrito è quale delle due parti sia in grado di resistere più a lungo. E qui torniamo all’impatto delle sanzioni e alla coesione occidentale. Putin, nonostante le gravi perdite, può ancora disporre di un potente arsenale, è solidamente in controllo di tutte le leve del potere e la maggioranza dei russi ancora appoggia la guerra. Ma come abbiamo visto potrebbe non reggere la prova del frigorifero vuoto e della de-industrializzazione. Di più, lo Zar potrebbe presto essere costretto a una scelta lacerante tra continuare con la finzione dell’operazione speciale, che non turba la vita quotidiana dei russi ma non gli permette di chiudere la partita sul terreno, ovvero lanciare una mobilitazione di guerra generale che lo esporrebbe al pericolo di rivolte interne. Per l’Ucraina e Zelensky, il dilemma è quanto tempo ancora l’Occidente garantirà il suo sostegno. L’arma del gas impiegata dal Cremlino mira a frammentare il fronte europeo. Mosca spera che un inverno dello scontento, tra inflazione, freddo e blocco del sistema produttivo convinca le opinioni pubbliche dell’Ue che non è il caso di “morire per Kiev”. Le elezioni italiane sono il primo giro di boa: i consiglieri del Cremlino non fanno mistero di puntare sul successo di quei partiti, la Lega in testa, che secondo loro vogliono “accomodare” la Russia. Certo, l’aiuto americano continuerebbe, ma tutto sarebbe più difficile con un’Europa divisa. In più, se all’orizzonte del 2024 sulla Casa Bianca dovesse nuovamente allungarsi l’ombra di Donald Trump, allora anche il sostegno degli Usa a Kiev potrebbe declinare. È quello che forse spera Putin. L’unica certezza è che la guerra continuerà. L’accordo per spedire i richiedenti asilo in Ruanda all’esame dell’Alta corte britannica di Stefano Mauro Il Manifesto, 7 settembre 2022 Accettato il ricorso delle associazioni. Dopo la cancellazione del primo volo di espulsione il governo di Johnson non si era arreso. E anche la nuova premier Liz Truss sostiene l’intesa con Kigali, dove l’“esternalizzazione dell’asilo” è sempre più una specialità della casa. Il controverso piano del governo britannico di “inviare” i richiedenti asilo in Ruanda è in questi giorni oggetto di un ricorso legale davanti all’Alta Corte di Giustizia britannica. Lunedì la magistratura ha preso in considerazione gli appelli dei diversi gruppi per i diritti degli immigrati, in particolare Care4Calais e Detention Action, nonché del sindacato dei servizi pubblici e commerciali, che rappresenta il personale di frontiera che dovrà far rispettare la legge. I querelanti ritengono che il provvedimento dell’ex premier Johnson sia “illegale e immorale” e attivando una serie di azioni legali hanno costretto il governo inglese ad annullare il primo volo di espulsione, programmato per il Ruanda il 14 giugno. Ad aprile Londra aveva annunciato un accordo con il Ruanda in base al quale “qualsiasi migrante entrato illegalmente in Gran Bretagna è passibile di essere mandato in Ruanda, indipendentemente dal suo background e dalla sua nazionalità per attivare la richiesta di asilo”. In cambio del servizio, Londra aveva firmato con Kigali un grosso assegno da 140 milioni di euro. Cifra consistente per un paese dove, secondo la Banca mondiale, la quota di popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è poco meno del 40%. Il Ruanda si è posizionato da diversi anni nella nicchia del subappalto di rifugiati per i paesi occidentali: quello che le ong chiamano “l’esternalizzazione dell’asilo”. Una tendenza in crescita, con un possibile accordo anche con il governo danese: in cambio di consistenti finanziamenti, Kigali promette “di integrare i richiedenti asilo nel suo sistema educativo e di offrire loro lavoro e un nuovo futuro”. Secondo le associazioni umanitarie e la società civile inglese sono numerosi i dubbi riguardo “alla legalità del provvedimento e alla successiva sorte degli immigrati inviati in Ruanda”, visto che già nel 2013 un accordo simile con Israele è stato rapidamente archiviato quando si è saputo che “i rifugiati erano stati detenuti, altri picchiati in prigione” e, secondo Human Rights Watch, molti “avevano pagato i trafficanti per lasciare il Ruanda”. Nei giorni scorsi la stampa inglese ha riportato testimonianze di migranti terrorizzati. Il quotidiano The Guardian fa riferimento al rapporto dell’associazione dei medici Medical Justice che indica come la minaccia di espulsione in Ruanda abbia “aumentato il rischio di suicidio per i richiedenti asilo”, con almeno 4 casi confermati in questi mesi. Il rapporto del 2022 del British Foreign Office - che fornisce il punto di vista del Regno Unito sui diritti umani in altri paesi - accusa Kigali di “reclutare rifugiati per le sue operazioni armate nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (Rdc)”. Rapporto che, secondo il Guardian, non è stato ancora pubblicato “a causa delle pressioni del governo britannico”. Dopo la cancellazione del primo volo di espulsione - grazie anche alle pressioni della Corte europea dei Diritti umani - il ministro dell’Interno Priti Patel ha affermato che il governo vuole “rispettare l’accordo con il Ruanda e che i voli sono stati semplicemente sospesi in attesa delle richieste individuali di revisione”. Un primo banco di prova per la nuova premier Liz Truss, che ha in passato sostenuto l’accordo perché “mira a dissuadere potenziali richiedenti asilo dall’attraversare illegalmente la Manica”. Russia. Chiusa Novaya Gazeta, Martynov: “Putin vuole distruggerci per sempre” di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 7 settembre 2022 Il direttore dell’edizione europea del giornale: “Il 52% della popolazione russa spera che il conflitto si fermi, vuole tornare a vivere”. “Putin vuole zittirci per sempre e distruggerci”. È sconcertato ma non sorpreso Kirill Martynov, vice del Nobel Dmitry Muratov alla direzione di Novaya Gazeta, il giornale dove scriveva Anna Politkovskaya, che dal 1993 ha raccontato le guerre cecene, la corruzione, le violazioni dei diritti umani. “A fine marzo, dopo l’invasione dell’Ucraina, avevamo deciso di sospendere le pubblicazioni per motivi di sicurezza ma anche per assicurarci la possibilità di riprenderle in futuro. Abbiamo ancora degli uffici a Mosca e dei colleghi pronti a tornare al lavoro, ma ora la revoca della licenza colpisce a morte il nostro giornale”. Martynov, 41 anni, risponde da Riga, in Lettonia, dove si è rifugiato la primavera scorsa per cercare di garantire un futuro alla sua testata e anche alla Libera Università di Mosca, che lui - ex professore di filosofia - ha contribuito a fondare. Da qui dirige l’edizione europea del giornale, Novaya Gazeta Europe: nata lo scorso maggio e subito bloccata in Russia, continua a portare avanti un giornalismo indipendente, con 50 giornalisti, aggirando la censura di Mosca. Cosa sanno e cosa pensano oggi i russi della guerra in Ucraina? “L’ultimo sondaggio, del primo settembre, mostra che una fetta crescente di popolazione è stufa della guerra. Ora il 52% vorrebbe la pace e i favorevoli all’azione militare sono diventati la minoranza, per quanto ancora nutrita, il 48%. Una tendenza importante e al tempo stesso un segnale che comunque la propaganda del Cremlino funziona ancora bene: del resto con i media indipendenti imbavagliati, la gente guarda la tv di stato. Il vero problema è che i russi vogliono credere alla propaganda. Se la metti in dubbio la tua vita è distrutta, tutto il tuo mondo si sgretola”. Il fondatore del suo giornale, Michail Gorbaciov, se n’è andato nel momento più alto di conflittualità Est-Ovest dai tempi della Guerra Fredda. Con lui sembra svanita anche la sua eredità... “Gorbaciov non è stato un leader popolare in Russia, eppure un fiume di gente si è radunato nel centro di Mosca per dargli l’ultimo saluto. Non si vedevano così tante persone riunite da mesi: è stata una manifestazione politica. Certo resta l’azione di una minoranza, ma è comunque un gesto importante da parte di chi capisce la distinzione tra Gorbaciov, l’uomo della “perestroika” e Putin, l’uomo della “distroika”, l’uomo che ha distrutto l’eredità di Gorbaciov. Ancora oggi la maggior parte dei russi non ama Gorbaciov perché è un politico insolito in una società in cui l’ideale di uomo politico è rappresentato da Stalin. Gorbaciov è considerato un leader debole, mentre si crede che per guidare un Paese così ci voglia un leader forte a cui delegare pressoché tutto. E’ la malattia della Russia: la maggior parte della gente non vuole prendersi responsabilità, ha una concezione quasi mistica del potere, come qualcosa di lontano, distante, di cui aver paura”. Che impatto stanno avendo le sanzioni sulla popolazione? “I russi hanno perso il loro stile di vita: non si possono più permettere di viaggiare all’estero, di comprare abiti da H&M, di fare transazioni dai propri conti correnti in dollari o in euro. Cresce l’insofferenza, vogliamo tornare a vivere come prima, dicono”. Il tetto al prezzo del petrolio deciso dal G7 segnerà una svolta nella guerra? “Credo di sì. Se l’Europa resisterà a un duro inverno, Putin si ritroverà davanti a un altro errore di calcolo come quello che gli faceva pensare di poter conquistare Kiev in pochi giorni. L’esito del conflitto dipende anche dalla linea del fronte: se la controffensiva ucraina proseguirà a lungo, diventerà più difficile per la propaganda russa giustificare questa guerra”. Alcuni russi come lei sono scappati all’estero per poter continuare a lavorare e vivere. La Ue però sta discutendo se abolire i visti turistici agevolati per i russi. “Quell’accordo è stato fatto in un periodo di pace. Ora occorrono però nuove soluzioni per garantire un riparo ai russi perseguitati dal regime che si rifugiano in Europa”. È preoccupato per Navalny? “Molto, è dentro a una macchina carceraria infernale, anche se lui si mostra forte viene torturato continuamente. Ma credo che abbiamo bisogno di lui vivo, per uno scambio di prigionieri. Almeno lo spero”. Stati Uniti. Celle rosa nelle carceri calmano i bollenti spiriti degli ubriachi di James Hansen Italia Oggi, 7 settembre 2022 Che i colori possano avere un impatto emotivo su chi li percepisce è un’evidente verità. Il problema è: quale colore e quale impatto? All’inizio del secolo una strana e per certi versi improbabile “moda” ha preso piede nelle carceri, prima in Nord America e poi in Europa: quella di dipingere di rosa le celle. È difficile trovare dati precisi sul fenomeno, ma emerge che nel 2014 una cella su cinque negli istituti di pena e nelle stazioni di polizia della Svizzera risultava essere tinteggiata con il colore rosa. L’abitudine di dipingere le celle in quella maniera è ancora più fortemente radicata negli Stati Uniti, dove la precisa tonalità, piuttosto accesa, del colore è nota colloquialmente come “drunk tank pink”. Il “drunk tank” è, nel gergo dei poliziotti americani, la cella che viene riservata alla detenzione delle persone ubriache che devono farsi passare la sbornia. Il nome formale è invece “Baker-Miller Pink”, colore che ha l’effetto di calmare i prigionieri violenti nelle carceri. Ad ogni modo, la pratica di utilizzare le celle rosa per far calmare i detenuti fuori di testa nasce da una ricerca fatta negli Anni Settanta che suggeriva come la presenza del colore potesse avere un effetto “tranquillizzante” sulle persone agitate. Ci sono voluti oltre vent’anni perché la scoperta venisse applicata negli istituti di pena, forse in quanto i loro direttori non sono sempre portati a leggere le riviste scientifiche. La cosa interessante è però che, tentando dopo oltre tre decenni di replicare gli studi originali, non si è più riusciti a confermare i risultati iniziali. A occhio e croce, ci vorranno almeno altri venti-trent’anni prima che le celle possano ritornare al primitivo colore simile a un grigio sporco.