Suicidi in carcere, chiunque sia impegnato nella campagna elettorale non può voltare lo sguardo di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2022 Ieri abbiamo ricevuto la lettera di un padre il cui figlio detenuto, qualche giorno fa, ha tentato il suicidio nel carcere Pagliarelli di Palermo e adesso è in stato di coma: Vi scrivo perché è giusto che si sappia che Roberto ha fatto quello che ha fatto perché, nonostante chiedesse aiuto ai medici per il suo stato di salute, veniva quotidianamente ignorato. Il caldo infernale lo ha distrutto, nonostante spendesse tutti i soldi che gli lasciavamo per comprare bottiglie di acqua per cercare sollievo e rianimarsi un po’. Alla fine è crollato dopo 15 giorni senza dormire e voglio farvi notare che è assurdo che si costringa il detenuto a comprare all’interno del carcere, dove i prezzi sono assurdi. Se vi ho scritto è perché sono un padre disperato (poliziotto in pensione), che vuole che queste cose non accadano più e che ci sia più attenzione verso questi ragazzi. Volevo anche far presente che a soccorrere e a rianimare mio figlio sono stati gli altri detenuti, mentre le guardie si sono solo disturbate a chiamare un’ambulanza. Prego Dio che salvi mio figlio e non auguro a nessuno di passare quello che io e la mia famiglia stiamo passando. Aiutatemi a far passare questo messaggio per poter aiutare chi si trova nella stessa situazione in cui si è venuto a trovare il mio figliolo. Grazie mille e prego affinché questo non accada più e che mio figlio Roberto si salvi. Un saluto da un padre distrutto. Siamo arrivati a 59 suicidi dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. Quindici nel solo mese di agosto. Numeri mai visti negli ultimi anni, che si spera aprano uno squarcio di luce sulle condizioni di vita negli istituti penitenziari. Chiunque sia impegnato nella campagna elettorale non può voltare lo sguardo. Il carcere di oggi rinchiude grandi quantità di persone con storie di solitudine, di disagio psichico, di povertà, di esclusione sociale, di dipendenze. Storie che trasudano sofferenza, abbandono e disperazione e che evidenziano quanto selettivo sia il sistema penale, teso a colpire prevalentemente chi è escluso dal welfare. G.T., morto per suicidio a 21 anni nel carcere milanese di San Vittore, era detenuto per il furto di un cellulare. Gli era stato diagnosticato un disturbo borderline della personalità e il magistrato aveva disposto il suo trasferimento - mai avvenuto - in una struttura sanitaria. Otto mesi dopo, al terzo tentativo, è riuscito a uccidersi. A.G. si è tolto la vita il giorno di Ferragosto. Aveva 24 anni, un disturbo psichiatrico e nessun precedente penale. Era di origine brasiliana, adottato da una famiglia italiana che oggi è disperata. Nessuno li aveva informati che il figlio avesse già tentato una volta di suicidarsi, prima di riuscirci alla metà di agosto. Anche il signore di 70 anni, arrestato in stato di shock e uccisosi nel carcere di Genova alla fine di giugno, aveva una diagnosi psichiatrica. F.I. aveva superato la quarantina e soffriva di anoressia. Pesava 43 chili. Si è suicidato nel reparto clinico del carcere napoletano di Poggioreale, dove era detenuto per piccoli reati. L’uomo che invece si è ucciso nel carcere di Castrovillari nel marzo scorso era dentro per aver rubato una pecora. Anche lui aveva problemi psichiatrici. Potrei continuare con questo triste elenco, che ci mette di fronte alle responsabilità dell’intera società nell’uso selettivo e ingiusto del sistema penale. Antigone ha di recente pubblicato sul proprio sito un dossier completo su questa tragica ondata di suicidi. Quando sotto i nostri post gli odiatori da tastiera commentano che “menomale che un altro delinquente si è fatto fuori”, sappiano che stanno parlando di un signore malato di mente che ha rubato una pecora. Il carcere è troppo spesso utilizzato per persone con scarse possibilità economiche e scarsi strumenti culturali, in difficoltà nel garantirsi una difesa tecnica adeguata. Persone che finiscono in galera dopo una vita trascorsa ai margini, rispetto alle quali il carcere non riesce neanche a costituire l’ultima frontiera del sostegno sociale o terapeutico. Cinquantanove suicidi, più di uno ogni mille detenuti presenti, è un numero enorme. Come se in un piccolo paese di cinquemila abitanti cinque o sei persone si togliessero la vita nel giro di otto mesi. Immediatamente verrebbe dichiarato lo stato di allarme. Tutti i media ne parlerebbero. Tutti si domanderebbero cosa stia accadendo in quel luogo. La notizia della morte in carcere interessa invece i soliti pochi, anche di fronte a questi numeri inconsueti e altissimi. Ogni suicidio va sempre trattato nella sua individualità, con cautela e rispetto per la persona morta e per il dolore dei suoi cari. Tuttavia, quando i suicidi si ripetono con troppa frequenza, non possiamo non interrogarci sulle condizioni di sistema e le possibili concause di un modello sanzionatorio inutilmente vessatorio e incapace di favorire il recupero sociale. Una delle concause è sicuramente il numero troppo esiguo degli operatori penitenziari. Nei prossimi giorni dovrebbero entrare in servizio, per un iniziale percorso di formazione, alcune decine di giovani direttori. L’ultimo concorso risaliva a circa trent’anni addietro. Ci sono regioni dove un direttore deve occuparsi di due o tre istituti, impossibilitato così a conoscere i detenuti, che resteranno a lui del tutto anonimi. Potrà solo gestire, burocraticamente, l’ordinaria amministrazione. Si colga l’occasione del concorso svolto e si assumano tutti gli oltre 100 giovani risultati idonei. Si spieghi loro che la missione costituzionale del direttore è quella di assicurare una pena umana e tendente alla risocializzazione. Il sistema penitenziario ha bisogno di risorse, ha bisogno di operatori che girino per le sezioni, che incontrino i detenuti, che li guardino in faccia. *Coordinatrice Associaz£ione Antigone Suicidi in carcere, i tre rimedi urgenti indicati dal Garante di Mauro Palma Il Manifesto, 6 settembre 2022 Ripubblichiamo per gentile concessione un articolo di Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone private della libertà, pubblicato su Questione Giustizia il 5 settembre 2022. 1. Ferragosto. Prima mattina: disteso sul letto non risponde alla chiamata come sempre un po’ trasandata e un po’ annoiata dell’agente. È proprio quest’ultimo a guardare bene all’interno: il detenuto non è reticente a rispondere per continuare il sonno; no, ha un sacchetto sulla testa ben annodato in modo da garantire il soffocamento. Si è suicidato nella notte. Siamo in una grande città, Torino, sarà riportato come il cinquantunesimo dall’inizio dell’anno. Anche in questo caso una persona molto giovane: venticinque anni ed entrata in carcere dalla libertà da meno di due settimane. Il reato riportato nella sua scheda è rapina, ma non c’è stato modo di accertare nulla tanto breve il tempo - peraltro pigramente estivo - trascorso tra il suo ingresso nel mondo della privazione della libertà e la sua uscita per decesso. La scheda dice che aveva genitori, una casa: altro non sappiamo della sua vita, ma certamente non possono essere state le condizioni detentive così aspre e spesso disattente alla dignità delle persone, ospitate e ospitanti, ad avere determinato il suo gesto, perché non le aveva ancora sperimentate nei fatti. Oggi, mentre torno a scrivere queste riflessioni - ventisettesimo giorno di agosto - ricevo la notifica del sedicesimo suicidio in questo mese e cinquantasettesimo del terribile conteggio del 2022: sono passati solo dodici giorni dalla mia nota precedente e il contatore ha avuto un incremento di sei, quasi un caso a giorni alterni. Quest’ultimo è avvenuto solo quattro ore dopo la traduzione in carcere: era un giovane adulto di trentaquattro anni, di origine tunisina e senza fissa dimora - così riporta la scheda, dove annota che la ragione del suo arresto anche in questo caso è stata una rapina. Qui il reato ha presumibilmente una sua consistenza criminale, a differenza invece del caso che lo ha preceduto, quello del giovanissimo nigeriano di venticinque anni che si è suicidato l’altro ieri e che era stato tradotto in carcere due mesi fa in attesa di giudizio per il reato di “resistenza a pubblico ufficiale” (articolo 337 c.p.). 2. Non riporto questi casi per richiamare con impressionismo la drammaticità di un sistema dove si viene ristretti con molta facilità, soprattutto se si è marginali nel contesto sociale in cui si è malamente inseriti, e dove con altrettanta facilità si viene accolti dal sistema deputato a detenere, tutelare e gradualmente reinserire, solo come ulteriore problema o al più come un fascicolo da gestire con una improvvisa collocazione in luoghi già densi di difficoltà. Non è questo il richiamo implicito nel riportare i casi, anche se non nascondo l’impellenza di interrogativi che riguardano sia l’effettiva tutela, anche legale, di persone socialmente fragili - la densità dei “senza fissa dimora” tra coloro che per pene brevissime sono ristretti in carcere è altissima - sia il frequente ricorso alla misura detentiva per reati anche minori, pur nel profluvio di affermazioni del carcere come misura estrema. E che riguardano altresì quale accoglienza, attenzione e vicinanza possa aver ricevuto una persona che, entrata in carcere in un sabato estivo, si sia suicidata soltanto poche ore dopo. Riporto piuttosto questi casi - che non sono isolati, perché molti altri hanno con essi una somiglianza strutturale - solo per sgombrare il campo da una visione deterministica che connette le decisioni estreme alla difficoltà materiale della detenzione. Troppo brevi sono state in molti casi le permanenze all’interno del carcere per supportare tale visione; troppo frequenti sono anche i casi di persone che a breve sarebbero uscite, per non capire che a volte - spesso - è l’esterno a far paura quasi e più dell’interno. È la funzione simbolica dell’essere approdati in quel luogo a costituire un fattore determinante per tali decisioni estreme: quella sensazione di essere precipitato in un ‘altrove’ esistenziale, in un mondo separato, totalmente ininfluente o duramente stigmatizzato anche nel linguaggio dei media e talvolta anche delle istituzioni, che caratterizza il luogo dove si è giunti, a essere determinante. Anche perché spesso ci si è giunti dopo vite condotte con difficoltà e lungo il bordo del precipizio che separa sempre più concretamente il percepirsi parte della collettività e il collocarsi ai suoi limiti estremi. 3. Ma proprio perché è prevalente la funzione simbolica su quella della materialità, i suicidi non interrogano solo chi ha la responsabilità diretta della detenzione - cioè chi ne determina politicamente il profilo e che conseguentemente ne amministra lo svolgersi - perché interroga tutta la collettività esterna che di quel simbolismo è produttore ed elemento consolidante. Innanzitutto, interrogano sulla sensatezza del tempo recluso, perché la sottrazione del tempo soltanto in funzione del vuoto non è accettabile ed è prodromica alla percezione del proprio annullamento. Più volte, anche recentemente, mi è capitato di sottolineare che una persona privata della libertà, qualsiasi ne sia stata la causa, diviene titolare, proprio in virtù di tale privazione, del diritto a che la finalità che ha determinato la sottrazione del bene che l’articolo 13 della Carta definisce “inviolabile” sia effettivamente perseguita e che non si lasci spazio alla mera sottrazione del tempo vitale. Questo vale per chi è ristretto in una struttura sanitaria per motivi di cura e riabilitazione, per chi lo è in un centro per il rimpatrio, per chi è in carcere per esecuzione di una pena che ha diritto a che la tendenziale finalità rieducativa sia effettivamente perseguita e anche per chi è in custodia cautelare che deve percepire la ragione del proprio tempo sottratto in funzione dell’indagine su quanto commesso o della prevenzione rispetto alla possibile nuova commissione. Questo richiamo alla motivazione da un lato rende impossibile il tempo vissuto nel nulla meramente privativo, dall’altro richiede attenzione specifica in tutte le fasi della reclusione, sia con un supporto accentuato alla fase iniziale, sia con il perseguimento della significatività del tempo sottratto, sia, infine, nell’accompagnamento al ritorno al contesto esterno. Richiede, quindi, la costruzione della capacità del dare senso al proprio tempo e di non renderlo solo espropriazione: un’azione che non può essere condotta senza risorse adeguate, preparazione professionale mirata e soprattutto senza un discorso esterno che non sia quello triviale del castigo meritato e dell’abbandono. Della chiave buttata. L’analisi dei casi di suicidi in carcere - anche limitatamente a quest’ultimo anno - conferma questa necessità di un discorso pubblico diverso sulla pena, non ristretto ai pochi da sempre presenti su questo tema e non connotato ideologicamente, ma riportato nel solco dell’utilità della funzione penale, dei suoi limiti, delle sue necessità in termini di qualità professionale e di capacità di allineamento con lo svolgersi della vita esterna. Tutto ciò ancor prima del tema, peraltro urgente, della riqualificazione materiale delle strutture. Perché, come già accennato, la loro non dignitosa fisionomia attuale è concausa di un senso di vuoto invivibile che può determinare la scelta estrema, ma non ne è la causa principale. Esaminando un campione di una quindicina di casi, per esempio, così come fatto dall’Ufficio del Garante nazionale per tentare una possibile decodifica dell’incremento recente dei suicidi, si rileva che ben nove di essi hanno riguardato giovani al di sotto dei trent’anni e altri tre tra i trenta e i quarant’anni: tutte persone che non avevano già vissuto una esperienza di lunga detenzione; al contrario, ben otto (quindi più della metà) era in attesa del giudizio di primo grado. La correlazione invece che a prima vista appare diretta è con l’essere in molti casi già stati segnalati all’interno dei cosiddetti “eventi critici”, non solo di natura autoaggressiva, molto spesso con un passato di disturbi comportamentali già manifestati. Si conferma simmetricamente la percentuale alta di coloro che, definitivi, erano prossimi al termine dell’esecuzione penale. Questo quadro tende a dare l’immagine di una difficoltà soggettiva amplificata nel rapporto improvviso non solo con la privazione della libertà, ma con la sua concretizzazione in un ambiente degradato dove alla percepita irrilevanza da parte del mondo esterno si aggiunge la specifica irrilevanza vissuta all’interno di un ambiente stressato e impersonale. 4. Per questo, il primo, ancor timido, approccio alla necessità di una diversa impostazione multidisciplinare al tema e alla sua declinazione concreta che emerge nella recente circolare emanata dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, va accolto positivamente. Occorre agire in più direzioni, partendo da un dato che nella sua crudezza numerica sintetizza l’impellenza e la drammaticità del tema: l’Italia, nel confronto con altri Paesi europei, non ha un’alta percentuale media di suicidi nell’anno, ma tale valore cresce secondo un fattore moltiplicativo di più di quindici volte quando si considera il sottoinsieme della popolazione detenuta. Più di quanto non cresca in termini relativi in altri Paesi che partono da valori esterni maggiori. La prima direzione verso cui agire è certamente quella di una immissione di figure di mediazione sociale e supporto all’interno degli Istituti, con profili differenziati così come molteplice è ormai la complessità esterna, ridefinendo, quindi, le professionalità esistenti e investendo, oltre che sul numero, sulla tipologia del loro intervento. Un intervento che sempre più deve ridurre la distanza che separa l’interno con l’esterno. Non può essere un compito affidato agli operatori di Polizia penitenziaria, il cui compito - importante per la prossimità implicita che rappresenta con chi è ristretto - deve essere recuperato nella specifica funzione di svolgimento regolare e ordinato e di sicurezza verso l’esterno. La seconda direzione va anch’essa nella riduzione della distanza con l’esterno: sia nel forte incremento delle possibilità di connessione - ovviamente in condizioni di sicurezza - con i propri affetti, sia nella loro regolata normalità e nell’utilizzo positivo di quanto offerto dalle tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Un aspetto, questo che, oltre a essere ineludibile in relazione al positivo reinserimento futuro in una società in rapida trasformazione tecnologica, può essere un chiaro indicatore del non essere precipitati in un mondo diverso, bensì in un mondo che cerca di tenere il ritmo dell’andamento temporale esterno, che non è “altro” da ciò che è oltre quei muri, ma ne è parte, quantunque complessa. Un mondo, sì limitato e recluso, ma dove è sempre chiaro che l’essenza della pena è solo nella privazione della libertà e non in altri fattori de-contestualizzanti: questo il messaggio che può aiutare a superare quell’invivibile angoscia del vuoto. Queste due direzioni hanno incidenza sull’adempimento a quella indicazione delle Regole penitenziarie europee riportata in apertura della corposa Raccomandazione del Consiglio d’Europa come principio fondamentale (il quinto dei nove principi di questo tipo): “La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”. Difficile il rispetto di tale principio - nonostante abbia avuto l’approvazione dei rappresentanti del governo di ciascuno dei Paesi del Consiglio, incluso il nostro - nel sistema detentivo italiano. Difficile, anche perché il nostro sistema tuttora non riconosce l’integrità personale, anche corporea, della persona ristretta, negandole la possibilità di rapporti intimi con propri partner e altrettanto difficile non rendere questa negazione come emblematica dell’alterità irriducibile che quei muri racchiudono. Ma questo aprirebbe a un altro tema, molte, troppe, volte rinviato. La terza direzione di un’azione preventiva di molti aspetti nefasti e anche dei suicidi è quella della riduzione dei numeri e della conseguente maggiore ed effettiva presa in carico delle persone soprattutto al loro ingresso. Una riduzione da non ricercare con soluzioni temporanee, provvisorie, destinate a essere superate dall’inevitabile ripresentarsi della difficoltà dopo un certo tempo. Occorre restringere la platea delle persone in carcere. A partire da un dato chiaro: oggi - mentre scrivo - 1301 persone sono ristrette in carcere per scontare una pena inferiore a un anno, mentre altre 2567 scontano una pensa compresa tra uno e due anni. È evidente l’impossibilità che si attui un qualsiasi progetto volto a un diverso ritorno all’esterno in tempi così brevi e che il tempo della permanenza in carcere sarà per queste quattromila persone soltanto tempo vuoto, interruzione di una vita a cui tornare forse in situazione soggettiva peggiore, certamente con maggiore difficoltà. Ma questi numeri non costituiscono soltanto un evidente indicatore di come la finalità rieducativa sia solo mera enunciazione in un sistema che tiene le persone ristrette per alcuni mesi ed evidentemente per reati di minore allarme sociale; costituiscono anche un indicatore della minorità sociale che connota queste persone che non hanno evidentemente strutture esterne di riferimento, spesso neppure una fissa dimora, certamente una scarsa assistenza legale, molte volte neppure strumenti di comprensione del senso del loro essere in carcere e delle possibilità che l’ordinamento prevede. Riandando indietro negli anni, Alessandro Margara, aveva prospettato la possibilità di strutture diverse, di responsabilità territoriale, dove tali persone, per le quali egli parlava di “detenzione sociale” potessero trovare supporto e anche controllo, ma soprattutto una presa in carico più attenta e una minore percezione del nulla a cui si era improvvisamente giunti: nell’ultimo anno il ventiquattro percento - quasi un quarto - delle persone che si sono suicidate in carcere era “senza fissa dimora”. Un progetto di responsabilità territoriale e di previsione di strutture di tipo diverso dal carcere - quello ipotizzato da Margara - che deve essere ripreso. E che interroga sul rischio di continuare a configurare altrimenti il carcere come punto di arrivo di problemi soggettivi, stili di vita non omologati, emarginazioni, che avrebbero dovuto trovare altri strumenti di composizione e regolazione. 5. Ritorna tuttavia la riflessione iniziale: le scelte soggettive, così drammatiche, del porre fine alla propria vita vanno anche rispettate nella loro non univoca e difficile leggibilità e forse non potrà mai aversi una situazione in cui tali esiti fatali non si verifichino. Resta però la nostra responsabilità collettiva nell’affinare gli strumenti di lettura e di prevenzione; resta altresì la responsabilità intrinseca che è in capo a chi amministra e gestisce la privazione della libertà di una persona di tutelare al massimo la sua vita e la sua integrità fisica e psichica. Resta l’obbligo di interrogarsi su ogni singolo episodio, di apprendere anche dal suo tragico esito, di evitare che esso possa essere annotato come una sorta di rischio collaterale. Così sperando di affinare la capacità di prevenzione non ricorrendo inutilmente a continue sottrazioni di possibilità - dagli indumenti al mobilio della cella, agli oggetti - bensì ad addizioni di possibilità con relazioni, contesti, contatti, vicinanza. La civiltà di un Paese si misura anche sui diritti dei detenuti di Matteo Lepore* La Repubblica, 6 settembre 2022 Seguo con estrema attenzione le criticità e il profondo stato di disagio sollevato dalle e dai detenuti della Casa Circondariale di Bologna Giuseppe Dozza, per la carenza di personale medico all’interno della struttura. In occasione della mia ultima visita alla Dozza, ho avuto modo di conoscere la professionalità di quanti quotidianamente operano all’interno del carcere, dalla direttrice, agli agenti della polizia penitenziaria e a tutto il personale e ai volontari. A loro va innanzitutto un ringraziamento per l’impegno con il quale stanno affrontando questa fase. Una situazione che sconta, da un lato, l’emergenza pandemica che ha comportato un enorme stress per tutto il sistema sanitario, sottraendo personale medico alle attività ordinarie. Dall’altro, la carenza di risorse da destinare alla Sanità dovuta ai mancati trasferimenti da parte dello Stato centrale, proprio quando ce ne sarebbe più bisogno, e che espongono anche sistemi sanitari solidi come quello della nostra regione a pericolose criticità di bilancio. Per chi è in stato di detenzione tutto questo rappresenta una emergenza nell’emergenza. La privazione della libertà non può e non deve comportare la privazione di altri diritti fondamentali come quello alla salute o a condizioni di vita dignitose, perché questo porterebbe ad amplificare condizioni di disagio fisico e psichico. Se è vero che la civiltà di una Paese si misura anche dalle condizioni delle sue carceri, non possiamo restare silenti di fronte a questa situazione; tanto più in una città come Bologna. Dobbiamo attivarci, non solo comunità e attraverso le realtà del terzo settore, che per costituzione sono dove sono le fragilità. Ma anche e soprattutto nei confronti dello Stato, che sino ad oggi ha mostrato una scarsa attenzione alla riforma della giustizia e alla riorganizzazione del sistema penitenziario. La popolazione carceraria vive molte fragilità, per la condizione intrinseca della detenzione, ma anche per problemi in questi anni diventati cronici ed in alcuni casi strutturali. A partire dal sovraffollamento e dalle difficoltà di poter svolgere attività lavorative in carcere, che rappresenterebbe uno strumento di rieducazione ed inclusione eccezionale, come ho avuto modo di constatare nella mia ultima visita alla Dozza. Queste carenze attentano in modo preoccupante alla natura rieducativa della pena che è fondamento di civiltà giuridica e di convivenza sociale, perché tesa a recuperare chi ha commesso un reato, a consentirgli di riscattarsi e adoperarsi per una nuova possibilità di vita. Per questo, come sindaco di Bologna ribadisco l’attenzione su queste difficoltà e, nell’ambito delle mie competenze, sarò parte attiva con Ausl, la Regione Emilia-Romagna e l’amministrazione penitenziaria affinché si possano al più presto individuare soluzioni alla carenza di personale medico. Figure che in un contesto come questo non garantiscono soltanto le ordinarie prestazioni sanitarie, ma rappresentano un più ampio presidio di cura, capace di riconoscere ed individuare situazioni di disagio. Vorrei, infine, rivolgere un pensiero di cordoglio e vicinanza ai familiari di chi ha perso la vita nella Casa circondariale pochi giorni fa e quanti prima di lui hanno purtroppo affrontato la stessa sorte. *Sindaco di Bologna Un filo dal mare per riannodare la vita in carcere di Lorena Crisafulli L’Osservatore Romano, 6 settembre 2022 Seppur all’interno dei confini carcerari, la rigenerazione delle vite di coloro che scontano una pena può passare anche attraverso un lavoro artigianale che li metta in contatto con il mondo esterno. Accade nelle carceri femminili di Lecce e Taranto dove, grazie al progetto “Innovazione Sartoriali” di “Fondazione Territorio Italia” e “Made in Carcere”, le detenute vengono impiegate nel processo di lavorazione del filo di scarto proveniente dalle cozze, il cosiddetto “bisso”, per creare ricami, accessori e decorazioni. “Ero una dirigente di banca e, dopo più di vent’anni, ho lasciato il mondo della finanza per occuparmi d’inclusione sociale, poiché credo nell’importanza di ridare dignità alle persone che hanno commesso degli errori e si trovano in stato di detenzione, donne che vivono in luoghi di degrado, disperazione e disagio, ai margini della società - ci spiega Luciana Delle Donne, fondatrice della cooperativa sociale “Officina Creativa” e ideatrice del brand “Made in Carcere”. Volevo dimostrare che è possibile portare colore, gli, dando loro un esempio di dignità e mostrando agli altri che hanno fatto una scelta di vita diversa - prosegue l’imprenditrice sociale -. Noi non vogliamo conoscere il tipo di reato che hanno commesso e non possiamo permetterci di giudicarle, cerchiamo solo di aiutarle a rimodellare la vita nel presente per consentire loro di voltare pagina in futuro”. Nell’ambito del progetto “Innovazioni Sartoriali”, finanziato da “Fondazione Territorio Italia” e grazie all’impegno della presidente Daniela Ducato, oltre alle sartorie sociali di periferia, sono stati realizzati alcuni corsi di green jobs con l’aiuto di Monica Saba, esperta nel recupero e nella trasformazione di scarti organici, argille, piante spontanee e tinture solari, e Ambra Mediati, decoratrice professionista che realizza gioielli, decorazioni, accessori per moda e arte sacra, a partire da scarti di frutta e verdura. Le due formatrici hanno insegnato alle detenute alcune tecniche di stampa eco-imprinting rinnovabili, attraverso le quali è possibile rilasciare effetti cromatici e impronte delle foglie e dei fiori sui tessuti, recuperando scarti boschivi e agroalimentari, senza l’utilizzo di ne prettamente tarantina, questo procedimento rappresenta un omaggio all’unica maestra mondiale della lavorazione del bisso della Pinna Nobilis, Chiara Vigo, le cui opere sono state riconosciute dall’Unesco patrimonio dell’umanità. “L’esperienza della lavorazione con il filo della cozza è stata fantastica anche da un punto di vista umano, poiché molte detenute si sono commosse e, attraverso il profumo del mare, si sono ricordate di quella sensazione di libertà che probabilmente avevano rimosso”. All’interno della casa circondariale di Lecce, oltre che di Bari, Trani, Taranto, Matera, è stata aperta la “Maison di Made in Carcere”, un laboratorio tessile in cui le detenute possono lavorare e al contempo vivere momenti di svago; oltre alle macchine da cucire e ai tavoli per gli attrezzi da lavoro, ci sono, infatti, una sala riunioni, una cucina per riscaldare il cibo, una piccola palestra e una sala lettura. “Abbiamo concepito questo spazio con piante, divani, tappeti e quadri, come fosse un mondo ideale all’interno di un mondo disperato. Nel carcere di Taranto non abbiamo ancora aperto il laboratorio, perché siamo in attesa che la burocrazia determini l’area da assegnarci, ma anche lì le detenute hanno accolto il nostro progetto con grande entusiasmo, perché c’è fame e sete di relazioni”, aggiunge Luciana Delle Donne. “Questa prima esperienza ci ha consentito di commercializzare e avviare un processo che può generare guadagni e, quindi, stipendi, per le donne recluse. Adesso l’idea è quella di realizzare una collezione da offrire sul mercato, stando attenti a rispettare la sostenibilità sociale e ambientale, ma anche quella economica, perché se il prodotto ha un prezzo elevato non trova acquirenti. A Lecce, per esempio, le detenute si sono dimostrate molto pragmatiche e ci hanno chiesto cosa fare concretamente per aiutarci a piazzare il prodotto sul mercato, consapevoli che se non si vende non è possibile pagare gli stipendi, insomma, si sono preoccupate di capire come far andare avanti la macchina produttiva. Quel che è fondamentale per noi - conclude Luciana Delle Donne - è far comprendere all’esterno che non proponiamo semplici prodotti, ma progetti di vita, poiché in ogni lavoro artigianale ci sono la fatica e le storie di coloro che l’hanno creato con sacrificio e dedizione”. La riparazione non è buonismo è la differenza tra pena e riscatto di Massimo Donini* Il Riformista, 6 settembre 2022 È diversa dalla punizione inflitta autoritativamente da uno Stato. Nasce da una iniziativa volontaria. Rappresenta una idea di giustizia alternativa alla semplice sublimazione della vendetta coltivata dal giustizialismo, che vuole un giudice al servizio delle Erinni. Democrazia penale. Che cosa è - Esistono due modi per spiegare il significato di una espressione, “democrazia penale”. Un modo la avvicina alla semplice regola politica maggioritaria. L’altro ai caratteri della democrazia costituzionale. Nel primo significato si intende che le leggi penali sono dominate da logiche maggioritarie, anche populistiche, basate soprattutto sul mero consenso, che può essere emotivo, o privo di basi scientifiche ed empiriche, e si indirizzano alla protezione di sentimenti di sicurezza collettivi o a sostegno di politiche securitarie capaci di attrarre consensi elettorali; nel secondo significato, al contrario, si intende che anche in una democrazia maggioritaria, quando si entra nella sfera dei diritti fondamentali delle persone, sia vittime e sia autori di reati, occorre che la legge parlamentare sia espressione sì di pluralismo (nessuna aristocrazia degli esperti), ma anche di garanzie, che vedono entrare in campo competenze differenziate, tecniche, scientifiche, fondate su vincoli di realtà (basi empiriche) e di razionalità (principi costituzionali e diritti sovralegislativi) rispetto a valori o scopi perseguibili. Dunque, in quella espressione c’è scolpito il conflitto tra principio maggioritario (sufficiente per la legge) e diritto dei princìpi. Democrazia maggioritaria e democrazia costituzionale non dovrebbero essere in conflitto, ma esprimono culture differenti, che i diversi partiti politici rappresentano. La prima riflette le logiche della politica massmediatica, quelle che il giornalismo quotidiano esprime così bene; la seconda quelle delle garanzie che si impongono alla gestione parlamentare della legislazione: ed è una dimensione più tecnica, da giuristi, tanto più importante quanto di minore soddisfazione massmediatica. La democrazia penale contiene in sé la sintesi della lotta per il diritto nelle forme dialettiche di legislazione e Costituzione. Legge (lex) e diritto (ius) sono dunque due poli originari del discorso sulla giustizia e anche su quella penale. Autore e vittima. Pena, riparazione e risarcimento - In questa lotta tra le due democrazie oggi non ci sono più solo lo Stato-guardiano e l’autore del reato: è presente una dialettica tripolare, perché c’è anche la vittima. Chi studia storia del diritto penale e anche della filosofia penale, dopo l’illuminismo, faticherà a trovare una tematizzazione della vittima nella tradizione del garantismo, che vedeva la vittima sostituita e protetta dallo Stato, ma neutralizzata nel processo penale, ispirato dallo scopo di impedire la vendetta, così soltanto trasformandola in giustizia. L’origine di questa idea-postulato ci riporta all’Areopago delle Eumenidi di Eschilo, quando Oreste verrà “salvato” dalla furia delle Erinni vendicatrici, per l’intervento di Atena che interrompe la spirale delle vendette solo nel nuovo contesto di un Tribunale: il quale nasce esattamente per sostituire alla vendetta la giustizia, che peraltro può anche significare, in alcuni casi, esenzione dalla pena, anche se normalmente essa suppone che si paghi un prezzo non simbolico o spirituale per il delitto. La vittima, a questo punto, non è più rappresentata dalle Erinni, ma ricollocata in un discorso di razionalità giuridica complessiva, e tradizionalmente deve essere controllata rispetto alle istanze puramente vendicatrici di cui si renda portatrice. La persona offesa nel nostro processo, e in particolar modo nel dibattimento, cioè nella fase del giudizio, esiste praticamente solo come testimone o come parte civile. Anche oggi le norme sulla persona offesa (la vittima) e i suoi diritti risaltano soprattutto nella fase delle indagini. A giudizio può chiedere di essere risarcita. Ma essere risarcita non significa ancora riparazione. Non è questa, infatti, la giustizia riparativa. La giustizia riparativa comincia quando si offre all’autore dell’illecito una alternativa tra la semplice punizione e un riscatto. È raffigurata nella scena della seconda città rappresentata nello Scudo di Achille, descritto nell’Iliade (XVIII, 497-508). “E il popolo era raccolto nella piazza: lì una lite sorgeva, e due uomini discutevano per un compenso di un uomo ucciso; l’uno scongiurava di dare tutto dichiarandolo davanti al pubblico, ma l’altro diceva di non voler prendere nulla; entrambi ricorrevano all’arbitro [‘istor’] per capire il limite [‘péirar’] della causa. Il popolo acclamava entrambi, c’erano i sostenitori dell’uno e dell’altro”. Qui la pena è posta in alternativa al riscatto da attribuire ai parenti della vittima. Non è il risarcimento, che nei sistemi giuridici moderni è una semplice voce, una prestazione parallela, di quanto il responsabile deve, tra le pretese dello Stato e quelle del danneggiato. Mentre il risarcimento non ha, almeno formalmente, a che vedere con la pena, ma si aggiunge a questa, la riparazione è una componente che originariamente fa ripensare la pena, sottrae a essa qualcosa. Quando c’è riparazione dell’offesa, non semplicemente del danno materiale o economico, la pena stessa non può essere quella che si sarebbe applicata in sua assenza. Che cosa distingue la riparazione dalla pena. Le due anime della riparazione - La riparazione non è strutturalmente una pena, una pena subìta, cioè inflitta autoritativamente dallo Stato come prezzo per il reato, o per un illecito. La pena infligge un male o una perdita di diritti sempre aggiuntivi al semplice valore del danno: contiene un quid pluris, una singolare soddisfazione che ha valore preventivo, più che retributivo: sarebbe troppo poco poter pagare, per chi può, con prestazioni economiche corrispondenti al valore del ‘danno’, o restituire il maltolto. C’è una sorta di disvalore aggiunto nella pena che viene applicato come prezzo, capace di intimidire e dissuadere dal delitto. Proporzionato fin che si vuole a livello edittale, questo disvalore risulterà comunque sproporzionato rispetto al danno originario, perché lo eccede e si applica autoritativamente. Invece la riparazione nasce volontaria, e solo in alcuni casi diventa un programma di Stato, che la favorisce, la sostiene e la affianca alla pena, sì da sottrarre a quest’ultima una parte, più o meno rilevante. La riparazione è una prestazione a favore della vittima (persona offesa), o anche della collettività nei molti reati senza vittima o a vittima indeterminata e diffusa, e comunque è una attività che neutralizza l’offesa (anche quella dei reati di pericolo) restaurando una situazione di sicurezza, di ricostituzione, di reintegrazione, o di riconoscimento e rispetto, dei beni protetti. Dove ci sia (o ci sia stata) una vittima in carne e ossa, la riparazione consiste in “un percorso interpersonale”, non in una semplice “prestazione” oggettivata: quel percorso, condotto attraverso l’ausilio di una persona terza, che non è parte del processo, si chiama mediazione, e riguarda la vittima reale o anche un soggetto vicario che la rappresenta, e può sfociare in un esito positivo di tipo concreto (risarcimento, prestazioni varie) o anche più simbolico. È una prassi che nasce al di fuori dello Stato e che l’ordinamento può regolare e promuovere, ma si applica comunque a un numero circoscritto di processi, e senza l’intervento del difensore, che ne risulta estromesso (anche se vigile dall’esterno), al pari del giudice o del pubblico ministero, perché è un percorso extraprocessuale. Oggi si parla di giustizia riparativa soprattutto in rapporto alla mediazione, ma questa è una visione parziale del fenomeno della riparazione, che è molto più ampio, perché spazia dalle ricostruzioni della sicurezza nell’impresa, a quelle ambientali, al pagamento dei debiti tributari, alle sanatorie edilizie, alle collaborazioni processuali, ai lavori di pubblica utilità nelle forme della messa alla prova, alla bancarotta riparata, alle numerose ipotesi riparative disseminate nelle leggi speciali e non solo nel codice. Anche la confisca per equivalente è una forma di riparazione, ma in tal caso coatta, imposta dallo Stato, che può restituire il profitto del reato alla persona offesa, invece di incassarlo inopinatamente. Entrambe queste forme di riparazione, interpersonale e prestazionale, compongono i percorsi dell’idea riparativa. Una nuova concezione della pena. La pena subìta e la pena agìta - La riparazione non è di classe, perché non coincide col risarcimento, che solo chi ha i mezzi può attuare; non è contraria alla presunzione di innocenza, perché non ha effetti negativi sul giudizio finale, che può essere di non colpevolezza, o di insussistenza del fatto in senso tecnico o storico; è espressione del consenso dell’autore dell’offesa e ha bisogno di essere regolata perché risulti più determinata nel tipo di prestazioni che possono produrre benefici anche importanti nel carico sanzionatorio, ma con la contropartita di un riscatto, di una condotta attiva reale a favore della persona offesa. È questa una cultura della pena diversa, perché introduce l’idea di una pena agìta; di una pena che promuove comportamenti attivi, i soli che consentono, anche nell’esecuzione carceraria, una sorta di rieducazione-risocializzazione, mettendo in gioco comportamenti successivi al reato che da sempre sono da valutare positivamente nella commisurazione della pena, e che sottraendo a questa una sua parte, divengono pena agìta, ne ridefiniscono il concetto. La pena subìta tradizionale è dunque un istituto che può rimanere primario per chi non intenda farsi parte attiva di percorsi riparativi, ma strutturalmente è ciò che residua dopo che si sia, se lo si intende fare, operato a favore della vittima o della collettività, per ricostruire la situazione dell’offesa cagionata. Non c’è pena che non sia condizionata da percorsi riparativi, diventando così post-riparatoria la sua parte di prezzo aggiunto. Oggi è interesse dello Stato, ma anche delle vittime, promuovere una strategia sanzionatoria che contenga fin da subito, nei programmi, percorsi utili, che rendano finalmente il diritto penale non più semplicemente un mezzo che sanziona senza aggiustare nulla, una lex minus quam perfecta, che infligge un male aggiuntivo a quello commesso (un “raddoppio del male”), senza preoccuparsi di ricostruire la situazione sociale, la frattura prodotta, senza output positivo. La pena agìta, perciò, rappresenta un esito dal valore politico trasversale: non è “cattolica” (anche se la mediazione è molto sostenuta dai giuristi di quell’area), non è “buonista”, non è “debole”. Certo è una visione alternativa a quella sublimazione della vendetta che il giustizialismo coltiva regredendo a prima della invenzione dell’Areopago, perché vorrebbe che il giudice, ascoltando le Erinni, fosse soprattutto un distributore di pene subìte. È proprio la funzione della giustizia che cambia, e con essa anche il ruolo e l’immagine sociale del giudicante. *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Roma “La Sapienza” Giustizia riparativa, un binario parallelo che non contamina il processo penale di Valentina Bonini* Il Dubbio, 6 settembre 2022 La giustizia riparativa, nella sua dirompente innovatività, sollecita sovente dibattiti serrati. Non stupisce, quindi, il fiorire di prese di posizione che, di fronte alla possibile introduzione di una “disciplina organica” della giustizia riparativa, censurano le interazioni tra restorative justice e rito penale. Così, nel dibattito sono già emersi dubbi di violazione di garanzie fondamentali, paventando il rischio di un sostanzialismo etico e di una giustizia che incarna un paternalistico modello di postdiritto (Mazza). Le critiche si concentrano sul futuro articolo 129- bis c. p. p. ove si prevede che “in ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria può disporre, anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima del reato al Centro per la giustizia riparativa, per l’avvio di un programma di giustizia riparativa”. È stato osservato che il potere officioso di introdurre la restorative justice darebbe legittimazione a un giudice che anticipa il suo convincimento senza divenire incompatibile al successivo giudizio, mettendo a repentaglio la presunzione di innocenza e il diritto di difesa dell’imputato che sia recalcitrante alle soluzioni riparative (Mazza). La previsione - come altri incisi normativi che affidano all’autorità procedente il ruolo di ente propulsore di meccanismi volontari- è forse una nota stonata, che stride con la sinfonia (già seriamente compromessa) del processo penale, ma, letta alla luce delle peculiarità della restorative justice, non produce frizioni garantistiche. In primo luogo, l’invio previsto dall’art. 129- bis c. p. p. non segna l’avvio del percorso riparativo, piuttosto rappresentando una precondizione, affinché gli operatori della giustizia riparativa ne valutino la fattibilità, anche alla luce del consenso dei partecipanti reso dopo l’illustrazione del significato del programma e dei possibili esiti. Lungi dal “costringere” l’imputato ad intraprendere un programma di giustizia riparativa (Mazza), si spoglia il giudice della questione, dicendo che non gli spetta raccogliere la volontà dell’accusato e degli altri eventuali partecipanti, che invece dovranno essere sondate dagli operatori (art. 54), chiamati a verificare che il consenso sia “personale, libero, consapevole, informato ed espresso in forma scritta nonché sempre revocabile” (art. 48). Si è osservato, però, con l’occhio disincantato di chi conosce la distanza tra law in the book e law in action, come simili previsioni siano costantemente esposte al rischio di distorsione, che può realizzarsi quando il giudice “punisca” l’imputato che non abbia prestato il proprio “consenso” alla soluzione più gradita all’autorità (Zilletti). Insomma, proprio l’art. 129- bis c. p. p. esporrebbe il pilastro della libera volontà ad una insidiosa erosione, inducendo l’imputato a tenere comportamenti in linea con la sollecitazione giudiziale. A nulla varrebbe la previsione per cui “la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento di un esito riparativo non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa” (art. 58), ridotta ad un mero “wishful thinking”, che il giudice potrebbe ignorare di fronte all’oltraggio del rifiuto dell’imputato ad imboccare la via della riparazione. L’argomento, forse, prova troppo, nel far assurgere a difetto del costrutto normativo quella che sarebbe una chiara elusione della legge; ma, soprattutto, il wishful thinking si trasforma in una safe bet, quando si tenga conto di un altro principio cardine della giustizia riparativa: la confidenzialità. Tutto quanto accade nella “conca della mediazione” (Di Chiara) non può filtrare nel procedimento penale: la diversità di paradigma, di principi, di obiettivi e di oggetto si traduce in una separatezza che limita la comunicazione verso il procedimento penale ai dati essenziali. Il mancato avvio o l’interruzione del programma non produrrà effetti sfavorevoli, perché il mediatore si limita a comunicare la mancata effettuazione tout court, senza indicare se l’impedimento è riconducibile al dissenso dell’accusato, al diniego dell’offeso o ad una valutazione dei servizi che ritengono non praticabile la mediazione. Insomma, tanto in caso di esito negativo quanto in caso di mancato avvio, si ha una “impermeabilizzazione” tra luogo giudiziario e spazio riparativo che inibisce in radice l’impiego in malam partem di quanto avvenuto di fronte al mediatore: l’art. 58 non è un artificio normativo, piuttosto inscrivendosi nella cornice dei principi base della giustizia riparativa, che in questa sua “separatezza” trova spazi di azione sconosciuti (e non conoscibili) al processo penale. Allora, perché i dubbi non si trasformino in apodittiche resistenze, per “leggere” le norme in tema di giustizia riparativa è utile accogliere l’invito sempre valido e decisamente attuale che Howard Zehr fece nel 1990 col suo Changing Lenses. *Associata di Diritto processuale penale Università di Pisa Quel “price-cap” non dichiarato sulla giustizia di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 6 settembre 2022 Fatica a uscire dalla ristretta cerchia giudiziaria il preavviso di collasso dovuto al “tetto” di fatto dei processi già deciso a Roma. Price-cap a chi? Mentre tutti discutono (giustamente) del tetto al prezzo del gas, fatica invece a uscire dalla ristretta cerchia giudiziaria il preavviso di collasso di un altro tipo di “tetto” insito nella decisione (pubblicata a Ferragosto da Ilaria Sacchettoni sul Corriere) con la quale il presidente del Tribunale di Roma, lamentando vuoti di organico incompatibili con l’arretrato, ha sospeso per 6 mesi dal 15 ottobre la fissazione di ulteriori processi collegiali. Iniziativa-choc che, al netto della discutibile unilateralità, esplicita peraltro un tetto praticato di fatto, pur senza dichiararlo, da altri Tribunali o Corti d’Appello che esasperano sdrucciolevoli criteri di priorità (dunque lasciando in coda i processi che non vi rientrino); o che ai pm chiedono di trattenere negli armadi i fascicoli pronti ma eccedenti il numero smaltibile dai giudicanti in affanno; o che, senza nulla fare, lasciano che a funzionare da “tetto” occulto e iniquo siano sinora la prescrizione e in futuro la improcedibilità in Appello, quando sarà a regime questa discutibile scelta legislativa. In compenso sulla giustizia la campagna elettorale sembra avere corde vocali soltanto per stantìe riproposizioni di ben altre forme di “price-cap”: il “tetto” al costo delle intercettazioni, dimenticando che anche sotto il profilo squisitamente economico questo strumento da 200 milioni l’anno contribuisce alla maggior parte dei sequestri che oggi vedono il Fondo Unico Giustizia amministrare 5,2 miliardi; il “tetto” all’eguaglianza tra cittadini rispetto ai reati comuni, con il ventilato riallargamento dell’immunità parlamentare ben oltre l’attuale scudo da arresti e intercettazioni; persino il supposto “tetto” alle recidive di violenze sessuali con la castrazione chimica, di cui (al di là dell’orrore morale) tutti gli studi mostrano invece l’inefficacia. Eppure ci sarebbero un posto giusto (il Parlamento) e un momento giusto (il parere delle commissioni parlamentari sulla delega esercitata dal governo Draghi-Cartabia per modificare il processo penale) affinché i partiti indicassero con chiarezza condivisioni o correttivi sui nodi veri. Anche se non entrano, e anzi proprio perché non entrano, in una pillola di TikTok o in una intervista ballon d’essai. Consulta, ultima udienza per Amato: a succedergli potrebbe essere una donna di Liana Milella La Repubblica, 6 settembre 2022 Il 13 settembre ultima uscita per il presidente che lascia il 18. Il Quirinale deve nominare il nuovo giudice. Se fosse una donna, su 15 giudici, la componente femminile salirebbe a un terzo. Sarà di nuovo una donna, dopo Marta Cartabia, la prossima presidente della Consulta? Una neo presidente potrà dire che è caduto di nuovo “il tetto di cristallo” come disse Cartabia l’11 dicembre 2019? Tra due settimane la partita si chiude. Lunedì 19 sarà eletto il nuovo presidente. Giuliano Amato farà udienza, per l’ultima volta, il 13 settembre. Il 18 sarà il suo ultimo giorno da giudice costituzionale. Prima di quella data - quindi la prossima settimana - Sergio Mattarella dovrà scegliere il nuovo giudice, perché Amato fu nominato da Napolitano nel 2014. Se fosse una donna questo porterebbe la componente femminile a conquistare un terzo della Corte, 5 giudici donna su 15. Nell’ordine di nomina, Silvana Sciarra, Daria de Pretis, Emanuela Navarretta, Maria Rosaria San Giorgio. Il loro voto sarà determinante nella scelta del prossimo presidente. Un voto che per la prima volta vede tre candidati in lizza che hanno giurato tutti nello stesso giorno, l’11 novembre 2014. Due donne e un uomo. La giuslavorista Silvana Sciarra, la più anziana anagraficamente. Daria de Pretis, esperta di diritto amministrativo, e il costituzionalista Nicolò Zanon. Sciarra fu votata dal Parlamento il 6 novembre 2014. Napolitano aveva indicato de Pretis e Zanon il 18 ottobre, proprio in polemica con le Camere per via delle continue fumate nere. Ma tutti e tre i giudici poi giurarono assieme. Quindi, da questo punto di vista, hanno la stessa “anzianità” di nomina. Mentre Sciarra, con i suoi 74 anni anni batte de Pretis che ne ha 66 e Zanon che ne ha 61. Al Quirinale, come sempre, le bocche sono cucite. L’unica cosa certa è che la nomina avverrà qualche giorno prima della scadenza, quindi a metà della prossima settimana. Nessuna indiscrezione veramente attendibile sul nome viene fuori dalle stanze di Mattarella. I potenziali aspiranti, sia uomini che donne, sono molti, com’è ovvio per una carica di grande prestigio e che dura nove anni. Potrebbe avere chance l’attuale avvocata generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli. E in corsa potrebbe esserci anche l’amministrativista Maria Alessandra Sandulli, figlia dell’ex presidente della Consulta Aldo Sandulli. Stesso cognome perché la Palmieri ha sposato Andrea, fratello di Maria Alessandra. Un posto di giudice molto ambito in una Corte che ha via via aumentato sempre di più il suo prestigio anche grazie a presidenze autorevoli e a un buon lavoro di squadra, e che ha dimostrato di saper mettere in mora il Parlamento con decisioni, come quella sul caso Cappato e sul fine vita, che tuttora le Camere non sono riuscite a superare. Né è andata meglio con l’ergastolo ostativo, un anno al Parlamento per fare una nuova legge, sei ulteriori mesi di proroga decisi a maggio, che scadono però l’8 novembre. E tutto lascia ipotizzare che anche stavolta la Corte finirà per dover decidere da sola. Una Corte che, dalla presidenza di Paolo Grossi, e poi ancora con Giorgio Lattanzi, Cartabia, Rosario Morelli, Giancarlo Coraggio e Amato, si è aperta all’esterno, non solo con udienze pubbliche in cui il contraddittorio è diventato una realtà, ma anche con iniziative, dai viaggi nelle scuole e nelle carceri, al concerto per l’Ucraina del maestro Piovani in piazza del Quirinale il 22 luglio, che hanno creato un dialogo diretto tra le corte e i cittadini. Chiunque dei tre contendenti farà il presidente - Sciarra, de Pretis, Zanon - resterà in carica per un anno, fino all’11 novembre 2023. Quando lo stesso Mattarella dovrà scegliere altri due giudici per sostituire de Pretis e Zanon, e il Parlamento un giudice al posto di Sciarra. Poi la politica dovrà aspettare un altro anno ancora, il 21 dicembre 2024, per scegliere tre nuovi giudici al posto di Franco Modugno, Augusto Barbera e Giulio Prosperetti. Oltre Nordio. Delmastro ci spiega le proposte di FdI sulla giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 6 settembre 2022 Separazione delle carriere, sorteggio per il Csm, più garanzie per gli imputati, ma maggiore certezza della pena. Il responsabile giustizia di Fratelli d’Italia: “Noi siamo garantisti nel processo, ma giustizialisti nell’esecuzione della pena”. “La prima riforma da realizzare in tema di giustizia penale è quella della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante, per arrivare a un giudice veramente terzo che garantisca la parità processuale delle parti”. Intervistato dal Foglio, il deputato e responsabile giustizia di Fratelli d’Italia, Andrea Delmastro Delle Vedove (ora candidato alla Camera nel collegio uninominale di Biella e Vercelli), illustra le proposte in materia di giustizia del partito guidato da Giorgia Meloni. Proposte che in parte coincidono, ma in parte no, con gli annunci ultra-garantisti avanzati nelle ultime settimane dal candidato “indipendente” di FdI, Carlo Nordio. Per Delmastro, dopo la separazione delle carriere “bisogna intervenire sulla prescrizione: siamo l’unico paese al mondo che ha una prescrizione sostanziale che si interrompe dopo il primo grado di giudizio e una prescrizione processuale che scatta dall’appello. Dopo l’infausta parentesi bonafediana era necessario ripristinare la prescrizione come diritto sostanziale a tutela del cittadino”. Non è tutto, per il deputato di FdI “è necessario anche dare più garanzie all’indagato e all’imputato, occorre dare veramente corpo alla presunzione di innocenza: incredibilmente in Italia quando sei indagato sei già un condannato esposto alla condanna sommaria dei giornali”. Musica per le orecchie di un garantista, che però si interrompe immediatamente: “Quando però poi eventualmente vieni condannato in via definitiva - prosegue Delmastro - allora si aprono le porte delle misure alternative al carcere, ampliate dalla ministra Cartabia. Noi riteniamo che queste misure erodano la certezza della pena e siano state adottate soprattutto per affrontare il sovraffollamento carcerario piuttosto che per reali esigenze di politica criminale”. E’ qui che emerge il giustizialismo securitario proprio di Fratelli d’Italia. Delmastro lo ammette con grande chiarezza: “Noi siamo garantisti nella fase delle indagini e del processo, ma giustizialisti nell’esecuzione della pena”. Eppure, facciamo notare al responsabile giustizia di FdI, l’articolo 27 della Costituzione prevede che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato. “Da avvocato penalista non sono contro il concetto di rieducazione del condannato - replica Delmastro - qualcuno però ha voluto attribuire a questo concetto un valore tirannico rispetto ad altre esigenze. Ad esempio, noi siamo stufi di sentire che il detenuto consegue 45 giorni di liberazione anticipata ogni sei mesi se non sputa in faccia al secondino, se non brucia il materasso o se non accoltella qualcuno in cella. Mi pare il minimo del comportamento da tenere in carcere. Dov’è la dimostrazione della rieducazione? Il tema vero è che ci vogliono più investimenti per la rieducazione, sia in carcere che fuori per le misure alternative. Se non fai investimenti il risultato finale è un tana libera tutti. Si erode la funzione social-preventiva della pena”. Ma non è che, in fondo, Fratelli d’Italia ha una visione carcerocentrica della pena? “Comprendo la critica ma la respingo - risponde Delmastro - Come è possibile pensare di rieducare un sexual offender con la detenzione domiciliare o con l’affidamento in prova ai servizi sociali, dove sostanzialmente non fa niente? Occorrono investimenti seri nella rieducazione, altrimenti il detenuto stia in carcere”. Insomma nessun passo indietro sulla certezza della pena. Anche sull’ergastolo ostativo (a dispetto di quanto prefigurato dal collega di partito Carlo Nordio): “È uno strumento necessario a fronteggiare la criminalità organizzata. Non si può prescindere da una reale collaborazione con l’autorità giudiziaria, che è la prova più evidente del fatto che una persona voglia farsi rieducare”. Giustizia penale a parte, per Delmastro bisogna anche pensare ad accelerare la giustizia civile, “la cui lentezza è quella che ci dà più danni sotto il profilo del Pil”, e a riformare la giustizia tributaria: “Com’è possibile che il giudice sia nominato dal Mef, cioè dalla mia controparte, e che io sia pure sottoposto all’inversione dell’onere della prova? È facile capire perché un investitore estero quando sente queste cose decida di non venire più nel nostro paese”. Sul Csm la proposta è netta: “Introduzione del sorteggio temperato, già consentito dalla nostra Costituzione. È l’unico modo - conclude Delmastro - per tagliare le unghie alla cancrena correntizia che ha tanto disonorato la magistratura e che tiene sotto scacco gli stessi magistrati”. Quando l’indagine sui politici scatta per pura “coincidenza” a ridosso del voto di Simona Musco Il Dubbio, 6 settembre 2022 Da De Luca a Fontana, da Comi a Morisi: storie di campagne elettorali giudiziarie. Qualcuno la chiama “campagna elettorale a mezzo procura”. Si tratta degli avvisi di garanzia piombati sulla testa di candidati più o meno quotati a ridosso degli appuntamenti con le urne. Qualunque sia il livello della contesa - dalle Comunali alle Regionali, fino alle Politiche e alle Europee - nessuna competizione, in Italia, è stata risparmiata dalle entrate a gamba tesa delle procure. Che in alcuni casi, chiuse le urne con l’indagato di turno magari rimasto a casa perché ritenuto “impresentabile”, hanno poi fatto clamorosi passi indietro. Anche l’attuale campagna elettorale, che vede Giorgia Meloni lanciatissima verso Palazzo Chigi, si è aperta con un’inchiesta, da subito definita dai membri di Fratelli d’Italia “giustizia ad orologeria” . È il caso dello tsunami giudiziario che a luglio ha decapitato la giunta di Terracina, facendo finire ai domiciliari la sindaca di FdI Roberta Tintari, accusata di reati di turbata libertà degli incanti e falso nella gestione dell’arenile comunale, poi tornata in libertà ad agosto in quanto la misura sarebbe stata “illegittima”. Si tratterebbe di un piccolo assaggio, secondo chi si rifiuta di vedere nelle iniziative delle procure delle semplici coincidenze, di quello che potrebbe accadere nelle prossime settimane. Anche perché la richiesta dei pm al gip era stata presentata il 23 febbraio del 2021, con la preghiera di applicare in via “urgente” le “misure cautelari coercitive” per “interrompere le condotte criminose”. Ma gli arresti sono arrivati due anni dopo, due giorni prima della caduta del governo Draghi. “Il modello Terracina evocato più volte da Giorgia Meloni come esempio di riscatto ed efficienza è stato infangato mentre il partito è in testa ai sondaggi, l’obiettivo era quello di sporcare un simbolo e di sporcare anche me, che in passato sono stato portavoce della leader di Fratelli d’Italia. È un’inchiesta ad orologeria? Le prove non le avremo mai, ma i fatti parlano chiaro”, aveva commentato Nicola Procaccini, eurodeputato di Fratelli d’Italia coinvolto nella stessa inchiesta. I casi sono tanti e molti anche eclatanti. E poco importa se il nome del personaggio destinatario di un avviso di garanzia - a volte a mezzo stampa, prima che per mano di un ufficiale giudiziario - sia o meno presente nelle liste dei candidati. Basta anche un fedelissimo, come Luca Morisi, creatore della “bestia” social che ha fatto la fortuna del leader della Lega Matteo Salvini, all’epoca affaccendatissimo con le Amministrative. Il guru della comunicazione del Carroccio era infatti finito nel mirino della Procura di Verona a settembre dello scorso anno, a pochi giorni dall’appuntamento alle urne, con l’accusa di cessione di stupefacenti. L’indagine finì con un’archiviazione “per particolare tenuità del fatto”, ma quella tornata elettorale fu una stangata per la Lega, secondo cui il caso Morisi, reso pubblico dalla stampa, fu un modo per affondare Salvini. “È una vicenda meschina, attaccano lui per attaccare me”, tuonò il leader del Carroccio. Fu più fortunato Vincenzo De Luca, governatore della Campania riconfermato alla guida della Regione a febbraio 2021. La grana, casualmente, era scoppiata a due settimane dal voto, in programma a settembre 2020, un’elezione che i sondaggisti davano già in mano allo stesso De Luca, superfavorito con più di 10 punti di vantaggio sullo sfidante di centrodestra, Stefano Caldoro. La procura di Napoli gli contestava l’ipotesi di abuso d’ufficio, falsità ideologica e truffa, ipotesi che, a pochi mesi dalla rivelazione di Repubblica - nonostante la notizia fosse ancora coperta da segreto -, venne archiviata. L’indagine era in corso da tre anni ma “lo straordinario scoop giornalistico”, ironizzò il governatore su Facebook, venne reso pubblico solo a pochi giorni dal voto. “Nel frattempo si comunica che l’organizzazione dell’Ufficio di segreteria della Presidenza attuale, rispetto a quella precedente, ha comportato un risparmio di 84.000 euro l’anno - aveva evidenziato il governatore col solito piglio -. Buon lavoro a tutti. E per il resto, non perdere tempo e non farsi distrarre”. A giugno scorso a finire nei guai era stato un altro candidato di centrodestra, in lizza come consigliere comunale a Palermo: si tratta di Francesco Lombardo, accusato di scambio elettorale politico- mafioso, arrestato a pochi giorni dalle elezioni per aver chiesto appoggio a Vincenzo Vella, boss di Brancaccio, già condannato tre volte per associazione mafiosa. L’arresto fu annullato pochi giorni dopo e l’accusa derubricata a corruzione elettorale, ma Meloni non perse tempo a scaricarlo: “Ha fatto una cosa che per me è intollerabile in campagna elettorale - aveva commentato - per cui è giusto intanto che sia stata arrestato e poi ovviamente è giusto che noi lo sappiamo. Ci stiamo già costituendo come parte lesa perché chiaramente impatta molto su di noi l’ultimo giorno di campagna elettorale”. A maggio 2019 era toccato invece a Lara Comi, candidata di Forza Italia alle Europee e accusata di finanziamento illecito, accusa poi archiviata. “Su di lei un grande equivoco”, la difese Silvio Berlusconi. Ma l’inchiesta aveva colpito anche altri esponenti del partito dell’ex presidente del Consiglio, come Pietro Tatarella, vicecoordinatore regionale lombardo di Forza Italia e candidato alle elezioni europee. A venti giorni dal voto, toccò anche il governatore leghista Attilio Fontana, accusato di abuso d’ufficio per un incarico al socio di studio Luca Marsico, rimasto senza posto in consiglio regionale. “Vergognosi attacchi all’uomo, all’avvocato, a un sindaco e a un governatore la cui onestà e trasparenza non sono mai state messe in discussione in tanti anni, né mai potranno esserlo oggi o in futuro”, aveva tuonato Salvini. E anche nel caso del governatore l’inchiesta si chiuse con un’archiviazione, arrivata a marzo del 2020. L’elenco è lunghissimo. E a volte la magistratura è intervenuta anche in momenti delicati per le compagini governative: è quanto accaduto nel 2021 con l’indagine su Lorenzo Cesa, all’epoca dei fatti segretario nazionale dell’Udc, accusa dalla procura di Catanzaro di aver favorito le cosche di ‘ndrangheta. L’inchiesta si abbatté sulle trattative allora in corso per salvare il governo guidato da Giuseppe Conte. Il M5S, all’epoca, era a caccia dei cosiddetti “responsabili”, tentando di fare entrare in maggioranza anche i colleghi dell’Udc per non far naufragare l’esecutivo del capo politico grillino. L’allora presidente del Consiglio, per sopperire all’uscita dalla maggioranza dei renziani di Italia viva, aveva trovato un accordo con i tre senatori democristiani Antonio De Poli, Antonio Saccone e Paola Binetti, con il benestare del segretario Cesa. Che una volta ricevuto l’avviso di garanzia si ritirò da qualsiasi trattativa, facendo naufragare quel tentativo e spianando la strada al governo Draghi. “Ho ricevuto un avviso di garanzia su fatti risalenti al 2017 - disse Cesa -. Data la particolare fase in cui vive il nostro Paese rassegno le mie dimissioni da segretario nazionale con effetto immediato”. Mesi dopo, l’accusa finì nel cestino, su richiesta della stessa procura, e Cesa fu scagionato. Ma ormai tutto era cambiato. La regola Usa dei 60 giorni: vietato indagare i politici in campagna elettorale di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 6 settembre 2022 Oltreoceano la chiamano 60-day rule, “regola dei sessanta giorni”; non è una legge scritta ma una consuetudine che invita i magistrati americani a sospendere indagini e procedimenti penali nei confronti di personalità politiche negli ultimi due mesi di campagna elettorale. Una specie di “bimestre bianco” per evitare che i tribunali influenzino le scelte degli elettori in modo improprio e per tenere in equilibrio la separazione dei poteri nel passaggio più delicato della vita democratica. Così, a nove settimane dal voto di mid term, il Dipartimento di giustizia, in ossequio al principio del 60- day rule, sta valutando se congelare le inchieste che riguardano l’ex presidente Donald Trump: tecnicamente il tycoon non è candidato per un seggio al Congresso ma è da anni il leader incontrastato del partito repubblicano nonché la principale figura di opposizione all’amministrazione democratica guidata da Joe Biden. E salvo colpi di scena, sarà lui il candidato del Gop alle presidenziali del 2024. L’intero dossier è ora nelle mani del procuratore generale Merrick B. Garland : il suo dipartimento sta infatti conducendo due indagini separate che coinvolgono l’ex inquilino della Casa Bianca. La prima per accertare il suo ruolo nell’assalto al Capitol Hill di Washington del 6 gennaio 2021 che costò la vita a sei persone. La seconda, più recente, lo vede accusato di aver sottratto documenti governativi top secret e di averli nascosti nella sua villa di Mar a Lago in Florida. Il mese scorso gli agenti del Fbi sono piombati nella residenza sequestrando decine di chili di faldoni e scatenando la rabbiosa reazione di Trump che ancora ieri attaccava a testa bassa il Bureau “mostro feroce controllato dai democratici e dai media progressisti”. Cosa fare, dunque? Come spiega al New York Times il giurista Jack Goldsmith, insegnante all’università di Harvard e consulente del Dipartimento di giustizia il caso pone non pochi dilemmi: “Quella dei 60 giorni è una norma implicita ma di portata incerta, quindi non è affatto chiaro se si applichi all’adozione di misure investigative contro un ex presidente non candidato ma che è comunque intimamente coinvolto nelle elezioni di novembre, come non è chiaro se riguardi le inchieste in sé o soltanto la loro divulgazione pubblica”. Il dipartimento ha in tal senso un manuale per stabilire le tempistiche dei provvedimenti giudiziari in modo da non alterare i risultati elettorali danneggiando questo o quel candidato o partito ma si tratta di linee guida non di obblighi istituzionali. Le stesse che Garland ha ereditato dal precedente procuratore generale William P. Barr che suggeriscono ai tribunali di congelare le inchieste. Non è però precisato se Poi, però, esiste anche la volontà politica e gli interessi di parte che a volte scavalcano i principi. Come fu nel caso di Hillary Clinton che nel 2016, a due settimane dal voto, è stata messa sotto accusa dall’ex direttore del Fbi James B. Comey che riferì al Congresso i dettagli dell’emailgate (per la cronaca, Clinton poi venne prosciolta). Secondo i principali osservatori della politica statunitense sarà comunque improbabile che Trump riceva un’incriminazione ufficiale prima delle elezioni di novembre. Questione di opportunità per non incendiare il clima già arroventato dalle bellicose dichiarazioni del tycoon. Ma potrebbe venire colpito in modo “laterale” specialmente per l’inchiesta sui documenti riservati che avrebbe trafugato dagli archivi della Casa Bianca. Nell’obiettivo dei magistrati ci sono infatti anche due avvocati di Trump accusati di aver rilasciato dichiarazioni false e di ostruzione alla giustizia. staremo a vedere. Quelle leggi speciali sulla mafia non sono una cambiale in bianco di Alberto Cisterna Il Riformista, 6 settembre 2022 6 settembre 1982, tre giorni dopo l’omicidio Dalla Chiesa il governo fece un decreto in fretta e furia. Nel tempo intorno al 416-bis si sono agglutinati interessi politici, ambizioni carrieristiche, operazioni mediatiche, polemiche, processi di grande importanza, ma anche indagini zoppicanti. Sono trascorsi 40 anni da quando, il 6 settembre 1982, il reato di associazione mafiosa ha trovato ingresso nel codice penale italiano e, con esso, si è prevista la possibilità della confisca per i patrimoni dei sospettati di far parte delle organizzazioni mafiose. Erano trascorsi solo tre giorni dall’uccisione del prefetto Dalla Chiesa a Palermo e la reazione della pubblica opinione rendeva indifferibile dar corso alla proposta di legge Rognoni - La Torre in gestazione da qualche tempo in Parlamento; il governo adottò un decreto legge in fretta e furia. L’Italia è stata, e resta, l’unico paese al mondo che ha previsto uno specifico reato associativo per una determinata tipologia di realtà criminali (la mafia, la camorra e dal 2010 la ndrangheta). Nel tempo il 416-bis ha manifestato una eccezionale capacità espansiva nelle maglie dell’ordinamento italiano. Si sono modificate altre norme del codice, si sono inserite specifiche aggravanti, si sono modellate norme processuali ad hoc (il cosiddetto doppio binario), si sono previsti regimi penitenziari speciali, si sono costruite apposite agenzie investigative, si sono modificate le competenze delle procure della Repubblica e finanche dei giudici con l’accentramento in sede distrettuale dell’intera fase delle indagini e la costituzione dell’unica procura nazionale. Protocolli e congegni che hanno mostrato una straordinaria capacità performante e sono stati talmente efficaci da attrarre in questo perimetro d’eccezione altri reati (per tutti il terrorismo). Oggi l’Italia può dirsi, con ogni probabilità, l’unico paese al mondo che dispone di uno statuto speciale per la mafia che spazia in ogni settore dal processo alle pene, dalle intercettazioni al regime carcerario, dalle carriere dei magistrati ai rapporti con la stampa, dalla prescrizione alla carcerazione preventiva, dagli appalti alle candidature ivi incluso lo scioglimento dei consigli elettivi locali. Una gigantesca macchina intorno alla quale si sono agglutinati interessi politici, ambizioni carrieristiche, operazioni mediatiche di successo, esasperate polemiche, processi di grande importanza, ma anche indagini zoppicanti quando non naufragate. Dozzine di libri e migliaia di pubblicazioni hanno scandagliato in tutti i versanti questo composito e variegato mondo. Talvolta esaltandone l’efficacia, talaltra rimproverando errori ed eccessi. Basti pensare che si attende ancora un nuovo assetto che modifichi il cosiddetto ergastolo ostativo e che il governo Draghi ha dovuto rapidamente, a fine del 2021, mitigare le norme sulle interdittive antimafia per non paralizzare i cantieri del Pnrr. In 40 anni il paese è profondamente modificato e sarebbe insensato immaginare che le mafie siano rimaste quelle dei tempi dell’eccidio del generale Dalla Chiesa. Dire cosa siano oggi è, in realtà, un’operazione non agevole. Circolano stereotipi, si propagandano ipotesi fumose e suggestive, si lanciano moniti, si denunciano “cali di tensione”, si giustificano candidature con l’esigenza di dar voce al mondo composito e complesso che si è compattato - non senza un tornaconto personale - intorno alla lotta alle mafie in questi decenni. Certo sorprende che dopo 40 anni di applicazione della norma nessuno sia disponibile a rendere un bilancio realistico sulla effettiva condizione di quelle realtà criminali; quanto meno per dire al paese se l’enorme sacrificio delle libertà personali che quella legislazione quotidianamente comporta, se gli enormi costi che vi sono associati (si pensi solo alle intercettazioni) e i gravi danni collaterali che ha prodotto abbiano comunque dato un risultato apprezzabile. Alla ricorrenza del 3 settembre solo Nando Dalla Chiesa ha, con grande onestà intellettuale, riconosciuto la distanza abissale che separa il 1982 dal 2022. Eppure è sotto gli occhi di tutti l’incommensurabile deserto che lo Stato e la società italiana nel suo insieme hanno attraversato da quel 1982 e, soprattutto, dopo il 1992 e le stragi di Falcone e Borsellino. E’ vero le organizzazioni mafiose sembrano ancora possenti; difficile dire quanto effettivamente capaci di condizionare la vita pubblica della nazione, ma certo ancora radicate nei territori. Può darsi che siano diventate la Spectre, ma insomma le analisi e le denunce sul punto hanno lo stesso gradiente di conferme che si può trovare in un libro di Ian Fleming. Il nemico appare sconosciuto, se ne sono persi i contorni e l’identità. Da tempo ormai non sembra più “agganciato” investigativamente; alle prove si sono sostituite le denunce e gli allarmi. Soprattutto chi avrebbe il dovere di individuarne le nuove morfologie e le nuove strutture, si abbandona a cogitazioni probabilistiche e a mere deduzioni sui massimi sistemi senza mai addurre una conferma obiettiva. Borse, industrie, apparati finanziari, mercati, istituzioni vengono additati come infiltrati e condizionati, ma mancano prove certe di tutto ciò. Al massimo si invoca qualche raro e marginale episodio, qualche brandello di intercettazione rimasto privo di conferme nei processi, per giunta. È una questione grave. La scelta del 1982 era stata lungimirante, profetica, micidiale per i clan. Dopo 40 anni ci sono in questo paese più commemorazioni che processi, più libri e convegni che indagini. La nazione dopo tanti morti e tanti sacrifici ha diritto di pretendere report attendibili, stime realistiche, valutazioni ponderate. Anche perché il paese è devastato da reati ben più evidenti e parimenti gravi - corruzione ed evasione fiscale per primi - che rischiano di metterlo in ginocchio in questi tempi oscuri. Leggi speciali e connessi apparati speciali, come quelli italiani, non hanno quartiere in nessuna democrazia. Sono un costo cui ci siamo rassegnati 40 anni or sono per colpa della ferocia mafiosa, ma non sono una cambiale in bianco rilasciata in favore di qualcuno. “Dai Regeni ai Paciolla, il mio mestiere è riparare torti” di Giuliano Foschini La Repubblica, 6 settembre 2022 Alessandra Ballerini: “Il G8 di Genova è stato un trauma che mi ha cambiato la vita: ho difeso quasi tutti gli stranieri espulsi dopo quelle ignobili torture”. Se vedete un’ingiustizia. Se capitate nei pressi di un torto enorme, di un dolore che la legge non riesce a sanare, anzi che contribuisce ad acuire. Ecco, in un angolo, è possibile che da quelle parti troviate Alessandra Ballerini, avvocato, meglio avvocata, anzi meglio ancora: manovale del diritto. “Il mio mestiere è tentare di riparare torti. Purtroppo non è possibile riuscirci sempre ma è importante anzi direi inevitabile non smettere di provarci e di crederci mai. Io ho la fortuna di difendere famiglie che sono partigiane di giustizia. La loro forza è corale, inarrestabile, contagiosa. Come i diritti”. Alessandra Ballerini è genovese. Ha poco più di cinquant’anni, porta spesso dei lunghi vestiti colorati, ed è abbronzata. Pur andando troppo poco al mare. “Sono un’avvocata di strada”, scrive di sé sul curriculum. Ed è vero. Nel senso che è sempre nei posti più scomodi, difficili, senza paura e con molto coraggio. È l’avvocato della famiglia Regeni di cui in questi anni è diventata quasi parte: con la forza, la delicatezza e la competenza del suo lavoro. È l’avvocato dei genitori di Mario Paciolla, il cooperante napoletano ucciso in circostanze ancora misteriose in Colombia. Ha la difesa dei genitori di Andy Rocchelli, il giornalista e fotografo ammazzato in Donbass dalla guardia nazionale e dall’esercito ucraino mentre documentava i torti subiti dalle popolazioni. Il suo numero è sulle rubriche di migliaia di migranti: li ha aiutati a ottenere i permessi di soggiorno che spettavano loro, dopo viaggi disperati e disperanti. Il suo volto è accanto a quelli di chi un volto non ce l’ha più, nel fondo del Mediterraneo, come i 268, 60 dei quali erano bambini, morti in una nave tra Malta e Italia nel 2013 e per la cui giustizia ancora combatte. Avvocata Ballerini, com’è cominciata? “Per educazione e casualità. Finite le scuole superiori dovevo decidere a che facoltà iscrivermi. Ho scartato tutte quelle in cui c’erano i numeri. Mi sono rimaste giurisprudenza e filosofia. Le mie amiche facevano legge e le ho seguite. In più non ho mai sopportato le ingiustizie”. Il primo cliente... “Carlos, un signore ecuadoriano che viveva da anni in Italia e che a un certo punto ha ricevuto un decreto di espulsione. È arrivato da me disperato, avevamo 12 ore per presentare ricorso. Ci ho messo tutto quello che avevo, abbiamo citato di tutto nel ricorso dalla Bibbia a Topolino. Abbiamo vinto. Il giorno dopo avevo lo studio pieno di sudamericani che mi chiedevano di assisterli: ho scoperto che una comunità importantissima di italiani in Ecuador è composta da genovesi, emigrati a inizio secolo. E ora, a Genova, la comunità ecuadoregna è la più grande di Europa. “Ci avete restituito il favore”, mi hanno detto i miei clienti”. Genova, parlando di diritti e di diritto, significa G8... “È il trauma che mi ha cambiato la vita, come a molti di noi. Il punto di separazione: c’è un prima e c’è un dopo G8. Io ero fuori dalla Diaz mentre avveniva la macelleria messicana. Ho difeso quasi tutti gli stranieri che sono stati espulsi dopo aver subito quelle ignobili torture: abbiamo visto di cosa è capace uno Stato quando rinnega i valori e calpesta i diritti sui quali dovrebbe fondarsi. I miei clienti sudamericani, torno a loro, mi dicevano: attenzione, da noi le dittature sono cominciate così. Per fortuna in Italia non è accaduto. Gli anticorpi, in parte, hanno funzionato. Ma scoprire che noi non eravamo immuni, che eravamo vulnerabili è stata una ferita non risanabile con costi per le vittime intollerabili. Ma anche, parlo per me, una presa di coscienza”. Poi sono arrivati i genitori di Giulio Regeni... “Mi hanno contatto tramite un’amica quando Giulio era scomparso. E non sapevamo ancora dove fosse, anzi speravamo tutti che fosse vivo. Quello che è successo dopo, purtroppo lo sappiamo. Ma ora ci dobbiamo occupare e preoccupare di quello che sta accadendo in questi mesi: non permettono che si tenga un processo. Come dice Carlo Lucarelli, ci devono fare paura i processi che non si fanno. E a me uno Stato che non crede e che anzi ostacola la giustizia mi fa paura. Giulio rappresenta la violazione di tutti i diritti e, in primis, quello della intangibilità dei corpi. E direi anche delle anime. Ma Giulio rappresenta anche la lotta corale per ottenere giustizia. Giulio fa cose, è il titolo del libro che abbiamo scritto con Paola e Claudio. E così è: anche oggi, quando tutto sembra nero, c’è un sempre più nutrito gruppo di persone che si mobilita per Giulio e per tutti i Giuli del mondo. Paola e Claudio dicono che sul corpo di Giulio hanno visto tutto il male del mondo. Ma oggi, grazie alla reazione, al “popolo giallo”, come lo chiamiamo noi, sta prendendo forma in qualche modo anche tutto il bene del mondo”. Che fa quando non lavora? “Mi piace la natura e leggere. E mi piace scrivere. Mi scarica. E amo stare con i miei amici. Mi piace quando mi chiedono: “Come stai?”. O se mi dicono “Ti voglio bene” perché abitualmente sono io che mi occupo degli altri...”. Quanto le costa convivere con tutto questo male? “Alle volte sale. Toglie il respiro. Ed è faticoso. Pensi di non potercela fare. Ma poi passano 12 ore, arriva la telefonata di un profugo appena sbarcato che merita giustizia e protezione, e torni rimboccarti le maniche. Giulio Regeni, Andy Rocchelli, Mario Paciolla, Nadia De Munari, Michele Colosio (e ne potrei citare altri), non sono solo dei giovani morti all’estero in circostanze orrende. Sono italiani andati nel mondo, pieni di competenze, talenti e ideali. Sono frutto della nostra Italia migliore, figli di famiglie straordinarie. Ecco, io cerco, insieme a molti altri, di affiancarli nella loro pretesa di giustizia. Prendersi cura di loro, e soprattutto dei loro diritti, significa occuparsi di noi”. Permessi umanitari, apertura della Cassazione: basta intenzione di seria integrazione Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2022 Per la Suprema Corte, ordinanza n.26098 depositata oggi, va considerato che anche per gli italiani è difficile trovare una occupazione. La Cassazione apre alla concessione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari in favore dei migranti che hanno la “seria intenzione” di integrarsi nel nostro Paese, attestata dallo studio dell’italiano e dallo svolgimento di lavoro anche non stabile. La Suprema Corte ha infatti accolto il ricorso di un cittadino nigeriano al quale la Corte di Appello di Cagliari aveva negato il permesso ritenendo che la frequenza di corsi per imparare la nostra lingua e il contratto di lavoro a tempo determinato non fossero elementi che attestavano il radicamento di Patrick W. in Italia. Ad avviso degli ‘ermellini’, inoltre, occorre tenere presente che anche per gli stessi cittadini italiani è difficile trovare un lavoro con contratto a tempo determinato e dunque più che guardare a risultati concretamente raggiunti, quando si tratta di decidere se consentire a un migrante di rimanere nel nostro Paese, occorre guardare al percorso effettivamente intrapreso dalla persona che richiede il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Per la Suprema Corte “la seria intenzione di integrazione sociale, desumibile da una pluralità di attività, può rilevare ai fini della protezione umanitaria, quantunque essa - sottolinea il verdetto 26089 della Prima sezione civile, depositato oggi - non si sia ancora concretizzata in una attività lavorativa a tempo indeterminato, specie se si consideri che tale obiettivo presenta difficoltà non irrilevanti anche per i cittadini del Paese ospitante”. Patrick W., il migrante nigeriano che ha fatto ricorso in Cassazione difeso dall’avvocato Stefano Mannironi del foro di Nuoro ha fatto valere, davanti ai supremi giudici, a riprova del suo cammino di ‘integrazione’ in Italia, la circostanza di svolgere un lavoro anche se a tempo determinato “con prosecuzione ininterrotta dal 2018” come risulta dall’allegato contratto e il fatto di aver frequentato corsi di italiano come certificato dalla “produzione di certificati scolastici attestanti una buona padronanza della lingua italiana”. Adesso la Corte di Appello di Cagliari deve porre rimedio al diniego del permesso e attenersi ai principi dettati dai supremi giudici in favore di Patrick e dei casi simili al suo. Lo stalking contro l’ex coniuge non assurge a maltrattamenti in famiglia se c’è figlio minorenne di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2022 Lo spartiacque è costituito dalla sentenza di divorzio e la condivisa responsabilità genitoriale non costituisce vincolo familiare di fatto. La presenza di un figlio minore non determina l’esistenza di un vincolo familiare di fatto tra i due ex coniugi ormai divorziati. Per cui le condotte persecutorie di uno degli ex coniugi a danno dell’altro non fa scattare l’imputazione per il più grave reato di maltrattamenti in famiglia. Semmai determina l’aggravante del reato di stalking in quanto commesso in danno del coniuge divorziato come prevede l’articolo 612 bis del Codice penale. La Cassazione - con la sentenza n. 32575/2022 - ha annullato la decisione di merito che aveva adottato l’orientamento, opposto a quello privilegiato dagli ermellini, rispetto alla rilevanza o meno dell’avvenuto divorzio. Lo scioglimento del vincolo coniugale esclude la sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia in ordine a condotte realizzate dopo la sentenza che ha dichiarato lo scioglimento del vincolo matrimoniale. La Cassazione cioè non aderisce al ragionamento dei giudici di merito che avevano ravvisato nella presenza di prole minorenne della coppia la permanenza di un vincolo familiare difatto tra i due ex. Vincolo familiare che è il presupposto per l’impubilità del reato di maltrattamenti in famiglia previsto dall’articolo 572 del Codice penale. La Cassazione aderisce, infatti, all’interpretazione secondo cuoi la dichiarazione di divorzio costituisce il momento di scioglimento del nucleo familiare composto dai coniugi, ormai ex. E tale effetto annullatorio, determinato dal divorzio, della relazione familiare tra i due ex coniugi sussiste, anche in caso vi siano figli minori che comportano congiunti quanto reciproci doveri di assistenza e cura da parte di entrambi i genitori divorziati. La sentenza lascia in piedi invece la condanna per stalking dell’ex marito che è aggravata con corrispondente aumento di pena se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato. Stupro di gruppo, commette il reato anche chi è presente alla violenza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2022 La Cassazione, sentenza n. 32503 depositata oggi, ha confermato la misura cautelare nei confronti di una ragazza che afferma: “Troppo forte raga quell’altro gli sta facendo pure il video”. La Cassazione, sentenza n. 32503 depositata oggi, ha confermato la misura cautelare (obbligo di firma) emessa dal Gip del Tribunale di Lamezia Terme in seguito alla imputazione per concorso in violenza sessuale di gruppo ai danni di un ragazzo disabile, nei confronti di una 23enne di Lametia Terme che era presente a uno degli episodi ripreso con il cellulare e diffuso in rete. La ragazza pur non essendo direttamente coinvolta nelle violenze avrebbe però affermato: “Troppo forte raga quell’altro gli sta facendo pure il video”. Il legale dell’imputata ha proposto ricorso contestando la configurabilità stessa del reato nei confronti della sua assistita in quanto la condotta esecutiva era stata realizzata da un terzo. Inoltre, la presenza dell’indagata sul luogo del fatto non era provata. Infine, il Tribunale avrebbe erroneamente ravvisato un “contributo morale” nella frase attribuita alla giovane, in quanto essa sarebbe successiva alla realizzazione del fatto. Di conseguenza, si sarebbe in presenza di una mera adesione morale a un progetto criminoso altrui, come tale penalmente irrilevante. Per la Suprema corte però il ricorso è inammissibile. Per prima cosa i giudici precisano che “l’indagata è chiamata a rispondere non di concorso in violenza sessuale di gruppo, ma di violenza sessuale di gruppo”. “Sin dall’introduzione dell’art. 609-octies nel codice penale - spiega la decisione -, questa Corte ha costantemente predicato che il delitto di violenza sessuale di gruppo - il quale, per espresso dettato normativo, “consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’articolo 609-bis” rappresenta una fattispecie autonoma di reato, a carattere necessariamente plurisoggettivo proprio, e richiede per la sua integrazione, oltre all’accordo delle volontà dei compartecipi al delitto, anche la simultanea effettiva presenza di costoro nel luogo e nel momento di consumazione dell’illecito, in un rapporto causale inequivocabile, senza che, peraltro, ciò comporti anche la necessità che ciascun compartecipe ponga in essere un’attività tipica di violenza sessuale, né che realizzi l’intera fattispecie nel concorso contestuale dell’altro o degli altri correi, potendo il singolo realizzare soltanto una frazione del fatto tipico ed essendo sufficiente che la violenza o la minaccia provenga anche da uno solo degli agenti”. La giurisprudenza coerentemente ha precisato, prosegue la decisione, che il concorso eventuale di persone nel reato di violenza sessuale “è divenuto configurabile solo nelle forme dell’istigazione, del consiglio, dell’aiuto o dell’agevolazione da parte di chi non partecipi materialmente all’esecuzione del reato stesso, alla condizione che il correo non sia presente sul luogo del delitto, configurandosi invece, in tal caso, un contributo al delitto di violenza sessuale di gruppo”. “In altri termini - spiega il verdetto della Terza sezione penale del “Palazzaccio” - la realizzazione di un contributo “morale”, da parte del concorrente nel reato che non realizza l’azione tipica”, ossia la violenza vera e propria, e che si trova “sul luogo e nel momento del fatto” costituisce “una condotta di ‘partecipazione’ punita direttamente ai sensi dell’art. 609 octies del codice penale”. Quanto alla presunta assenza della ragazza - per gli “ermellini’ si tratta solo di una “diversa valutazione dei dati probatori” non consentita in Cassazione e “confezionata” dalla difesa. Per la Suprema Corte pronunciando quella frase, la giovane “non solo non si è dissociata dalla condotta realizzata” da uno del “branco”, “condotta che era ancora in corso posto che in quel momento si stava registrando il video”, “ma ha rafforzato nei confronti di costui, l’intento di usare violenza alla persona offesa peraltro portatore di deficit cognitivo”. Sono stati i familiari della vittima ad accorgersi del video che girava in rete e a rivolgersi ai Carabinieri. In tutto sono state emesse una decina di misure cautelari. Bologna. Carcere della Dozza, si indaga per istigazione al suicidio Corriere di Bologna, 6 settembre 2022 È con l’ipotesi di istigazione al suicidio che è stato aperto il fascicolo a carico di ignoti dalla Procura di Bologna, per fare luce sul gesto estremo, e sulle circostanze in cui è maturato, che ha portato alla morte un 53enne detenuto di origine serba nel carcere della Dozza la scorsa settimana. Con l’apertura del fascicolo sarà possibile effettuare l’autopsia sul corpo dell’uomo, in cura per problemi psichiatrici -come aveva riferito il Garante comunale dei detenuti, Antonio Ianniello - e che a fine anno avrebbe comunque finito di scontare la sua pena. L’incarico per l’accertamento medico legale è già stato conferito. “Si è in attesa - si legge nella nota del procuratore capo Giuseppe Amato - di una prima ricostruzione della vicenda da parte degli organi di polizia giudiziaria, al fine di eventualmente delegare ulteriori approfondimenti per il chiarimento di quanto accaduto. La Procura riafferma il proprio impegno e la propria attenzione per le vicende accadute in ambito penitenziario”. Sul caso si erano levate le proteste delle associazioni sindacali, la durissima presa di posizione della Camera penale e del suo presidente Roberto D’Errico, che in settimana presenterà esposti in Procura e al ministero chiedendo un’ispezione, e degli stessi detenuti che in una lettera indirizzata anche al sindaco Matteo Lepore hanno evidenziato il problema della gestione sanitaria all’interno del penitenziario bolognese. D’altronde i numeri dei decessi per suicidio in carcere devono far riflettere: questo è stato il sesto in Emilia Romagna nel 2022, mentre 59 è il dato nazionale dall’inizio dell’anno. Tra i problemi evidenziati da più parti il sovraffollamento rispetto alle capienze originali previste, la presenza insufficiente del personale medico nelle strutture carcerarie e la mancata verifica in alcuni casi della compatibilità tra il regime carcerario e le patologie di cu sono affetti alcuni ristretti. Brescia. Sciopero della fame e “battitura”: protesta nel carcere sovraffollato Il Giorno, 6 settembre 2022 Al Nerio Fischione 309 reclusi a fronte di una capienza fissata a 189, i detenuti in una lettera al ministero chiedono educatori, assistenti e telefonate più lunghe. Da giovedì scatta lo stato, pacifico, di agitazione. Detenuti del Nerio Fischione pronti alla protesta non violenta contro il sovraffollamento. Dall’8 settembre, nel carcere bresciano prenderà il via lo sciopero della fame e battitura per tre volte al giorno fino a data da destinarsi. Ad annunciarlo, gli stessi detenuti, che hanno scritto una lettera alla direzione del Nerio Fischione, al Tribunale di Sorveglianza, al Provveditorato regionale, al dipartimento di amministrazione penitenziaria, al ministero di Grazia e Giustizia e ai garanti nazionale e provinciale dei detenuti. I numeri - Nella struttura, secondo l’aggiornamento al 31 agosto, sono presenti 309 persone a fronte di una capienza regolamentare di 189. Sovraffollamento, vetustà dell’immobile, risorse non sufficienti sono i problemi cronici della casa circondariale bresciana, dove le condizioni di vita sono molto difficili ed è complicato portare a termine quella che dovrebbe essere la funzione rieducativa del carcere. Nella lettera, la popolazione carceraria fa delle richieste ben precise. Le richieste - Ai ministeri di Economia e Giustizia, si chiede l’aumento degli addetti dell’area trattamentale, educatori, assistenti sociali, psicologi, nel numero conforme ad espletare le esigenze burocratiche per il conseguimento delle misure alternative al carcere; aumento del contingente dei magistrati e del personale da assegnare a ciascun ufficio di sorveglianza. Si chiede inoltre,” l’abrogazione del tetto massimo dei dieci minuti per ciascuna telefonata, in quanto la normativa stessa, in termini di trattamento rieducativo recita, tra le altre cose, l’agevolazione di opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”. Al ministero della Giustizia, si chiede inoltre l’istituzione di un consiglio di aiuto sociale per attività di aiuto sociale per l’assistenza penitenziaria e post-penitenziaria.”Chiediamo inoltre al futuro governo, nella figura del legislatore, un provvedimento di grazia, previsto nei termini di legge, che faccia fronte in tempi ragionevoli all’emergenza del sovraffollamento, così come era previsto nella precedente proposta della ministra Cartabia”. Torino. Presidio in sostegno alle detenute in sciopero della fame lindipendente.online, 6 settembre 2022 Nel pomeriggio di domenica 4 settembre si è svolto un presidio all’esterno del carcere Lorusso e Cutugno di Torino: i comitati presenti, tra i quali Mamme in Piazza per la Libertà di Dissenso, Anpi, No Tav ed altri, intendevano mostrare solidarietà alle detenute della sezione femminile, le quali il 24 agosto hanno iniziato uno sciopero della fame “a staffetta” di un mese che durerà fino al giorno delle elezioni volto a riportare l’attenzione della politica e delle istituzioni sul tema dei suicidi in carcere e dell’inadeguatezza dell’intero sistema carcerario. La criticità delle condizioni del sistema penitenziario è un tema sorprendentemente del tutto assente dall’attuale campagna elettorale. Eppure il dato sui suicidi nelle carceri - “omicidi di Stato”, come vengono definiti nel corso del presidio - parla di una situazione sull’orlo del collasso. L’ultimo è avvenuto il due settembre scorso: un uomo di 53 anni, originario dell’est Europa, si è tolto la vita a meno di un mese dall’ingresso nel carcere di Bologna, struttura caratterizzata da una “permanente condizione di sovraffollamento, carenze di organico, precaria qualità della condizioni detentive, complesse e difficili condizioni di lavoro”. Si tratta del cinquantanovesimo suicidio di un detenuto ad appena otto mesi dall’inizio dell’anno: sono stati 15 solamente nel mese di agosto, uno ogni due giorni. Numeri che non hanno precedenti nella storia recente delle carceri italiane, secondo quanto riferito dall’associazione Antigone. “Ognuna di noi vuole esprimere solidarietà per tutti coloro che sono morti suicidi, soli dentro una cella bollente… Ognuna di noi vuole esprimere lo sdegno ed il dissenso per il menefreghismo di una certa politica e delle istituzioni”: così scrivono le “ragazze di Torino”, detenute della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, in una lettera nella quale comunicano l’inizio dello sciopero. “Mentre voi non ci nominate, noi vi accompagnamo fino al giorno delle elezioni” aggiungono, denunciando il disinteresse di una classe politica che, scrivono, nega “una riforma da anni”. Le detenute hanno anche scritto una lettera indirizzata al presidente Mattarella, nella quale sottolineano come “la campagna elettorale tace su temi come la giustizia; l’equità; il rispetto delle garanzie di tutti”, che rappresentano invece “temi centrali per uno Stato che si definisca di diritto”. “L’attuale governo, che è stato definito il governo dei migliori al tempo del suo insediamento, nulla ha fatto di concreto per chi vive e lavora in carcere […] nonostante le troppe morti; il sovraffollamento; il caldo torrido; la scarsa igiene; la carenza d’acqua… l’inesistenza di cure sanitarie e di personale adeguato in ogni settore, non ci considera persone e non attua nessun decreto. Non siamo parte degli affari correnti?”. Padova. Un nuovo reparto per accogliere in ospedale i carcerati: approvato il protocollo operativo padovaoggi.it, 6 settembre 2022 Firmato l’accordo fra l’amministrazione penitenziaria e l’Azienda Ospedale Università Padova, che regola l’uso del nuovo reparto sanitario destinato all’accoglienza dei carcerati. Unire le competenze sanitarie con le competenze sui temi della sicurezza e della prevenzione: sono questi gli obiettivi dell’accordo firmato oggi, lunedì 5 settembre, fra l’Amministrazione Penitenziaria e l’Azienda Ospedale Università Padova. Un documento che accompagna l’apertura del nuovo Reparto di Medicina Protetta, la struttura realizzata all’ospedale di Padova per accogliere i detenuti che necessitano di assistenza per la cura di patologie che non possono essere affrontate in ambiente penitenziario. Reparto - Un reparto realizzato secondo le linee di indirizzo sull’organizzazione della Sanità Penitenziaria emanate dalla Regione Veneto con la DGR 2337/2011; norme che indentificano i requisiti organizzativi, le prestazioni erogate, la dotazione del personale. Nella struttura dell’ospedale padovano dedicata ai carcerati trovano spazio due stanze di degenza (ciascuna da tre posti letto, con bagno in camera), una guardiola ed un locale attrezzato per il personale di Polizia Penitenziaria, un locale sanitario (dedicato al personale d’assistenza) e un locale dove poteranno esser svolti i colloqui delle persone detenute. La struttura è stata realizzata per la sua parte edile nel 2019 - l’utilizzo è stato poi sospeso a causa della pandemia di Covid - ma nelle ultime settimane ha ricevuto una serie di ulteriori interventi e finiture, anche tecnologiche, realizzate dopo una serie di scambi informativi e confronti fra i medici dell’Azienda e i dirigenti dell’Amministrazione Penitenziaria prima dell’entrata in servizio. Afferma in merito Maria Milano Franco d’Aragona, che dirige il Prap - Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Veneto: “È proprio l’intensa collaborazione fra due realtà apparentemente diverse, ma pronte a lavorare in sinergia, che ha permesso la realizzazione di questo reparto particolare, che porta con sé standard davvero alti di cura, accoglienza, sicurezza. Vogliamo esaltare le competenze umane coniugando al meglio di aspetti di cura delle persone detenute, in strutture moderne ed efficienti, con il lavoro dei nostri uomini della Polizia Penitenziaria, che hanno il compito di garantire la sicurezza”. Aggiunge Giuseppe Dal Ben, direttore generale dell’Azienda Ospedaliera: “Abbiamo voluto pensare e realizzare questo reparto fornendo il meglio delle tecnologie e puntando a un’accoglienza di qualità per i carcerati che si trovano ad affrontare anche le ulteriori difficoltà di un ricovero presso l’ospedale. Per la gestione del reparto abbiamo provveduto a stilare, assieme all’Amministrazione Penitenziaria, questo specifico protocollo operativo che facilità la sinergia, detta le linee guida dell’assistenza, aiuta anche i nostri sanitari nelle procedure di accesso e governance di questo particolare spazio del nostro ospedale”. Regione - Soddisfazione dopo la firma del protocollo d’intesa firmato oggi a Padova è espressa anche dalla Regione Veneto, che sulla tematica degli istituti penitenziari ha svolto un intenso lavoro sociale, normativo e sanitario. “La tematica delle carceri - tiene a comunicare il Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia - è per noi importante. Non si tratta di meri luoghi di esecuzione della pena, ma di ambiti ben più complessi, dove il riscatto umano e sociale deve passare anche per il riconoscimento di dignità e valori che concretamente devono diventare strumenti per rendere più strutturato ed efficace il percorso di reinserimento”. Nei giorni scorsi era stato siglato un ampio accordo di collaborazione tra la Regione del Veneto e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il rafforzamento, negli istituti penitenziari del Veneto, delle capacità gestionali, tecniche e specialistiche, con percorsi di inclusione a favore dei detenuti e risorse ad hoc stanziate dalla Regione. Conclude Manuela Lanzarin, assessore alla sanità e ai servizi sociali della Regione Veneto: “Con la firma odierna abbiamo completato un iter importante, dove anche l’assistenza sanitaria ha fatto un ulteriore passo avanti, mettendo sempre più al centro la dignità delle persone recluse, ma anche dei tanti professionisti che lavorano quotidianamente nell’ambito della detenzione, del reinserimento dei detenuti, della sicurezza delle nostre comunità”. Catanzaro. Angela Paravati lascia la direzione del carcere dopo 12 anni di Francesco Iuliano La Nuova Calabria, 6 settembre 2022 “Sono stati 12 anni lunghissimi, a tratti complessi, perché molte modifiche sono state registrate nel carcere di Catanzaro: l’apertura di un nuovo padiglione, la chiusura degli Opg che ha, ovviamente, creato il problema della gestione dei detenuti psichiatrici in carcere. Molte, però, sono state anche le attività positive: abbiamo aperto al territorio grazie anche alla stampa che ci ha sempre dato uno spazio per far conoscere le iniziative positive che sono state poste in essere, quindi i laboratori, le varie attività, l’università, le scuole, l’apertura alla città. A questo proposito oggi ho voluto vicino a me le autorità cittadine perché sono riusciti a far sentire il carcere parte integrante del territorio. Senza tutta questa collaborazione, questa rete che è stata messa in piedi, nessun risultato sarebbe stato possibile raggiungere”. C’è commozione mista a soddisfazione nelle parole della direttrice della Casa circondariale di Catanzaro, Angela Paravati, in occasione della cerimonia di commiato allestita negli spazi esterni dell’Istituto. Una cerimonia alla quale hanno partecipato i rappresentanti delle istituzioni locali, della magistratura, della Chiesa, militari, delle Forze di polizia e della politica. Erano presenti, tra gli altri, la senatrice Silvia Vono, la deputata Wanda Ferro, il senatore Giuseppe Auddino, monsignore Claudio Maniago, il presidente del Tribunale di Catanzaro Rodolfo Palermo, i magistrati di sorveglianza Angela Cerra ed Antonella Galati. Nel ripercorrere quanto è stato fatto in più di un decennio di direzione del Carcere, Angela Paravati ha ricordato anche quello che non si è riusciti a realizzare. “Abbiamo fatto davvero tanto in questi anni - ha aggiunto - ma consideriamo che siamo stati fermi per circa tre anni a causa dell’emergenza Covid. Tre anni che siamo rimasti fermi nel voler realizzare quelli che erano le nostre progettualità che, comunque, mi auguro che vengano riprese. Penso, per esempio, alla nostra pasticceria - già operativa con le commesse all’esterno - ma che è stata rallentata a causa della pandemia E mi sarebbe piaciuto lasciare l’Istituto adeguato, in tutta la sua totalità, con quanto disposto dal Decreto del presidente della repubblica, numero 230 del 2000, che prevede servizi igienici adeguati, comprese le docce, in tutte le celle”. Tanti gli obiettivi raggiunti, dunque, ma anche qualcuno che è rimasto indietro. Ma, al di là delle cose fatte e non fatte, ad Angela Paravati, della sua esperienza da direttrice della Casa circondariale, rimane qualcosa che non potrà condividere con gli altri. “Di questi 12 anni, mi porto dietro un carico di umanità sia da parte dei detenuti che del personale. Ho voluto salutare i detenuti personalmente. Ho scelto di farlo ed ho ricevuto la loro approvazione con un applauso, che non è un gesto affatto scontato da parte dei detenuti. Con loro c’è sempre stato un dialogo aperto che, in alcuni casi, è servito anche per evitare che alcune situazioni degenerassero”. L’ultimo pensiero della direttrice va per il personale della Polizia penitenziaria e per gli educatori. “Due figure importanti, che hanno sofferto e soffrono del problema della mancanza di personale, mai che nonostante questo, hanno sempre saputo ascoltare i bisogni dei detenuti, soprattutto nei momenti di maggiore criticità. AMi auguro che il il nuovo direttore - ma di questo ne sono convinta - riuscirà a dare ascolto a tutte le istanze che io, per distrazione o per mancanza di tempo, non ho fatto”. Piantare alberi che daranno frutti quando saremo vecchi. Ecco la politica di Antonella Soldo Il Riformista, 6 settembre 2022 “Spatriati” è un libro politico. È un conforto che in tanti andranno a votare dopo averlo letto. Tra gli spiriti guida del vincitore dello Strega c’è Mariateresa Di Lascia, anche lei guardava lontano. Ci sono le elezioni, lo so. Siamo nel pieno della campagna elettorale, lo so. E quando si avvicinano queste scadenze e c’è così poco tempo bisogna tirar dritto e non indugiare. Bisogna scegliere se stare con la Nato o con Putin, se fare il rigassificatore a Piombino, se i soldi del Pnrr vanno al sud oppure no. Eppure. Eppure penso che oltre il racconto dei leader dei partiti, dei cronisti politici, dei sondaggisti e di tutto il resto, la politica in fondo è nient’altro che una domanda sull’uomo. E che per rispondere a questa domanda bisogna chiedere aiuto a chi ha occhi per guardare e parole per spiegare. Bisogna chiedere aiuto alla letteratura. Ho sbirciato la classifica dei libri più letti quest’estate in Italia e ho visto che Spatriati di Mario Desiati è stato tra i primi. Non c’entra nulla con il dibattito elettorale, e Desiati è quel tipo di persona che non si candiderebbe mai nemmeno a rappresentante del condominio, ma pensare che moltissime persone andranno a votare avendo ancora in testa quelle parole, almeno un po’ mi conforta. Perché quel libro è politico, politicissimo. Non nel senso della letteratura impegnata, se ancora ce n’è in giro. No. Ma nel senso lieve, appunto, della domanda sull’uomo. E sulla donna. Mentre la discussione si fa più dura, e i cingolati delle argomentazioni si schierano già contro i “devianti” contro gli immigrati contro i fragili, contrapposti a ideali di cittadini più sani, forti “sportivi”. Ecco mentre tutto questo già è diventato assordante penso a questa figura dello spatriato. Dell’incerto. Di quello che non ha più un posto preciso nell’ordine prestabilito dalla successione delle cose. È una figura classica per sentimenti, passioni, errori quanto un personaggio di Dostoevskij, eppure è attualissima. Circoscritta. Perfettamente aderente a raccontare questa generazione di circa quarantenni nati una regione, la Puglia, che è diventata moderna, instagrammabile, a una generazione che ha pensato che la Puglia potesse essere “come la California” ed ha lasciato master a Bruxelles per aprire librerie coi fondi stanziati dalla giunta di Nichi Vendola. Una generazione che si è sbilanciata tra il mondo di sempre e l’Europa: Roma, Milano, Berlino, Londra. Che è cresciuta contaminata dalla migrazione albanese che a questa crescita ha fatto in qualche modo da traino. Portando l’elemento del nuovo, del diverso. Mentre rimettevo a posto la mia libreria mi sono accorta di aver messo “Spatriati” accanto a “Patria” di Fernando Aramburu. Per un attimo li ho pensati insieme: da una parte la storia di giovani separatisti baschi che per difendere un’idea di Patria e di identità restringono così tanto i confini da non riconoscere più nemmeno i vicini di casa. E diventano violenti contro gli altri e condannano sé stessi e i propri cari a un ergastolo di dolore. Dall’altra la storia di giovani che riescono - non senza attraversare sofferenze a rendere la propria identità aperta. Ad accogliere il diverso degli altri e pure quello - all’inizio spaventoso- in sé stessi. A scalfire la diffidenza. Perché “con la diffidenza - che è l’incapacità di percepire la diversità degli altri - si chiude la porta a tutto ciò che è umano”, scrive Desiati. Ecco che questa figura fragile dello spatriato può essere la risposta più forte alla domanda su una rivendicazione di identità senza violenza. Quando Desiati ha vinto lo Strega ha chiamato sul palco a condividere il premio i suoi spiriti guida. Gli scrittori pugliesi, a cominciare da Mariateresa Di Lascia e da Alessandro Leogrande. La Di Lascia ha vinto il premio Strega con “Passaggio in Ombra” nel 1995. Ma non andò a ritirarlo perché pochi mesi prima un tumore se l’era portata via. A quarant’anni. Era giovane e al mondo della critica letteraria apparve come una cometa. Un grande sbalordimento, una scia luminosa, tanta curiosità per questa esordiente. E il grande dispiacere di non poterne sapere di più dalla diretta interessata. Per tutta la vita si era dedicata alla politica. All’inizio pensava di fare il medico in qualche missione umanitaria e per questo si era iscritta a Medicina a Napoli. Poi lì incontrò i radicali. Per caso. Una volta andò a un comizio a cui c’era Gianfranco Spadaccia. “Non ricordo che cosa disse, ma ricordo di essere andata via da lì con una sensazione di felicità”. Votò radicali, poi si unì all’associazione napoletana, e da lì nel 1981 arrivò a Roma dopo essere stata eletta vicesegretaria in un congresso in cui prese la parola per criticare la linea di Marco Pannella. Lui la apprezzò e la volle come vice. Da quel momento la sua vita fu quella del partito. I referendum gli scioperi le battaglie per le carceri, l’impegno contro lo sterminio per fame, e per le vittime della guerra nella ex Jugoslavia. Fu, per un breve periodo parlamentare. “La politica come la facciamo noi è anche il nostro vivere. Non c’è niente a cui diamo forza se non ci carichiamo delle virtù”. Tantissima attività ma anche riflessione: conferenze, seminari e tanti articoli su argomenti come la nonviolenza, la scienza le donne. Prima del romanzo qualche racconto: anche qui niente letteratura impegnata. Piuttosto un appello all’arte come tentativo di “ricomposizione dell’atomizzazione della realtà” come diceva Elsa Morante. Leggete Veglia la preghiera di una madre per il suo figlio assassino e troverete una delle più belle definizioni di giustizia. Ogni volta, insomma, lo sforzo di andare un pochino più a fondo nelle proprie convinzioni, anche per scoprirne le crepe. Con Sergio d’Elia nel 1992 fonda Nessuno Tocchi Caino, un’organizzazione che si pone come obiettivo l’abolizione della pena di morte nel mondo. Nel 2007 l’Onu approva una moratoria universale sulle esecuzioni capitali, in questi oltre vent’anni anni molti paesi del mondo hanno cancellato la pena di morte dai propri ordinamenti e questo si deve anche a Mariateresa Di Lascia, che ha saputo guardare lontano. In Spatriati uno dei due protagonisti a un certo punto torna a occuparsi dell’oliveto dei nonni, e pianta degli alberi di ogliarole che daranno i primi frutti dopo vent’anni e le prime olive le raccoglierà la sua figlioccia. “È folle piantare degli alberi che faranno frutti quando sarò vecchio. O forse la pazienza è solo una forma di umanità, quella dei miei antenati quando piantarono le ogliarole tra lo Ionio e l’Adriatico”. È la cosa più potentemente politica che mi è capitato di sentire negli ultimi tempi. Chissà quante delle proposte di questa campagna elettorale guardano a quanto saranno valide tra almeno vent’anni. Il 27 agosto a Rocchetta Sant’Antonio è stato inaugurato un percorso di arte pubblica ispirato a Passaggio in Ombra a cura dell’artista Alessandro Tricarico. L’ingresso è libero e il percorso rimarrà visitabile nelle vie del centro storico. Di Lascia vinse il premio Strega nel 1995, un tumore se l’era portata via pochi mesi prima. Nel 1992 aveva fondato con Sergio D’Elia, Nessuno tocchi Caino per l’abolizione della pena di morte. Nel 2007 l’Onu ha approvato la moratoria delle esecuzioni capitali. Altro che Tangentopoli, lo scontro tra giustizia e politica cominciò con Nenni di Giulia Merlo Il Domani, 6 settembre 2022 Nel saggio “Testimoni di un Secolo”, dell’ex direttore dell’Avanti!, Ugo Intini, si ritrovano i ritratti di 48 protagonisti del Secolo breve, conosciuti dall’autore nella sua lunga carriera. Il libro è una miniera di aneddoti per gli appassionati di politica, ma anche un’inedita testimonianza sulle vite, gli odi e le simpatie di personaggi come Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Pietro Nenni, che hanno costruito la storia italiana e la sua struttura istituzionale. Inediti gli spaccati soprattutto sulla giustizia: fu Nenni, nel 1963, a imporre la creazione del Csm in adempimento al dettato costituzionale, ma anche a pentirsene immediatamente. Il Novecento non è ancora del tutto storia, ma è ancora quasi presente in un’Italia che non ha ancora davvero fatto i conti con le proprie ideologie e con le vicende ancora oscure che ne hanno macchiato alcuni decenni. Proprio questa storia non ancora storicizzata è al centro del saggio Testimoni di un Secolo, edito da Baldini+Castoldi e scritto da Ugo Intini, che nelle quasi settecento pagine riversa ciò che ha di più prezioso: i suoi ricordi di cronista e testimone degli eventi che hanno trasformato l’Italia. Socialista, giornalista e direttore del quotidiano l’Avanti!, Intini sceglie di ricordare 48 tra i protagonisti e i comprimari della storia politica italiana: da Giulio Andreotti a Giancarlo Pajetta, rispettivamente la “quintessenza” del democristiano e del comunista, ai mostri sacri del socialismo come Pietro Nenni, che apre il libro, e Sandro Pertini, fino a Bettino Craxi, che invece lo chiude. Non mancano i grandi giornalisti che hanno fatto la storia del giornalismo italiano, primo tra tutti Walter Tobagi, assassinato nel 1980 dal gruppo terroristico di estrema sinistra Brigata XVIII Maggio, e che iniziò da ragazzo di bottega proprio nella redazione dell’Avanti!, sotto la guida dell’allora caporedattore Intini. I ritratti sono dei piccoli racconti a sè stanti, che letti insieme offrono un affresco inedito non solo dei fatti, ma soprattutto degli intrecci. Lo scontro tra politica e giustizia - Il più inatteso di questi intrecci riguarda la giustizia e soprattutto il senso che ne ebbero i socialisti. Scorrendo i capitoli del libro, emerge come i semi della stagione presente, segnata dagli scandali che sembrano aver svelato verità nascoste sul potere giudiziario e i suoi macchiavellismi, siano stati gettati molto prima di quanto comunemente si ritiene. L’aneddoto più interessante riguarda Pietro Nenni, il cui ritratto apre il libro e che viene definito “un mito per Craxi che lo chiamava con solennità “il vecchio”“ e per la generazione di giovani socialisti di cui Intini faceva parte. Lui, che “sapeva guardare lontano forse anche perchè veniva da lontano”, aveva inquadrato i mali della magistratura solo un anno dopo la creazione del Consiglio superiore. Era stato proprio Nenni a imporne la creazione, nel 1963, come parte essenziale del primo governo di centro sinistra guidato da Aldo Moro, in attuazione del dettato costituzionale. Già nel 1964 scriveva che “l’indipendenza della magistratura va assumendo forme che fanno di quest’ultima il solo vero potere, un potere insindacabile e, a volte, irresponsabile. C’è da battere le mani se finalmente qualcuno affronta la mafia del malcostume. Ma c’è anche da chiedersi chi controlla i controllori”. Proprio questo dubbio su come il Csm svolgeva il suo ruolo sembra farsi certezza nel 1974, quando della magistratura e soprattutto di quella associata scrive che “l’abbiamo voluta indipendente e ha finito per abusare del potere che esercita. Per di più, è divisa in gruppi e gruppetti peggio dei partiti”. Difficile non cogliere gli stessi echi nelle parole dei molti candidati indipendenti che proprio in queste settimane sono impegnati nella campagna per l’elezione dei 20 consiglieri togati del Csm. Più che uno scontro di visioni, infatti, quello che sta prendendo forma in queste settimane è l’opposizione tra chi si fa forte del suo essere esterno ai gruppi associativi, nei quali riconosce mali simili a quelli su cui si interrogava Nenni, e chi invece continua a credere che il gruppo associativo sia necessario alla democrazia interna delle toghe proprio perché esplicita i riferimenti culturali a cui il candidato risponde. La riforma Vassalli - Alla luce di queste convinzioni di Nenni, paradosso storico vuole che la più importante riforma della giustizia post-fascista porti il nome proprio di un socialista come Giuliano Vassalli. Vassalli, eroe della resistenza a capo delle brigate Matteotti di Roma, liberò dalla cattura delle SS ben due presidenti della Repubblica: Sandro Pertini e Giuseppe Saragat. Nel 1978, Bettino Craxi aveva provato a portarlo proprio al Quirinale, ma gli accordi politici fecero prevalere il nome di Pertini. A penalizzarlo, racconta Intini, fu però l’ostilità del Pci, dovuta al suo essere stato socialdemocratico ma soprattutto al “suo ruolo di poche settimane prima nel tentativo di salvare Moro trattando con le Br”. Vassalli, infatti, era alla guida del team di consiglieri che gestiva la crisi per i socialisti e tentò fino all’ultimo di costruire le condizioni perchè lo Stato negoziasse per far liberare lo statista democristiano. Craxi, infine, riuscì a portare Vassalli a via Arenula: dal 1987 al 1991 fu ministro della Giustizia e “come Nenni pensava che una indipendenza male intesa aveva trasformato la magistratura in un potere insindacabile, incontrollabile e a volte irresponsabile”. Per questo i socialisti promossero insieme ai radicali il referendum del 1987 che approvò la responsabilità civile dei magistrati “ma i risultati pratici furono vicini a zero, perchè si dovette mediare con Dc e Pci e perchè le leggi devono essere applicate e ad applicarle sono appunto i magistrati stessi”. Proprio Vassalli, insieme al repubblicano Giandomenico Pisapia varò l’attuale codice di procedura penale, ancora noto come “codice Vassalli” e ultima riforma sistematica della giustizia, che trasformò il processo da inquisitorio ad accusatorio. Craxi e Mani Pulite - Merito del racconto di Intini è fermare su carta le opinioni personali che molti leader gli hanno affidato, conversando con lui. Nell’imponente mole di aneddoti che nel libro si ritrovano su Bettino Craxi, vale la pena di ricordarne uno in particolare, che oggi suona attuale in modo quasi beffardo. Intini racconta di un suo colloquio con il segretario socialista, proprio negli anni in cui Vassalli era ministro della Giustizia ed erano entrambi preoccupati per la lunghezza interminabile dei processi che i magistrati dell’epoca - come anche quelli di oggi - attribuivano alla mancanza di personale. ““Ma cosa sarà mai”, diesse Craxi, “assumerne mille in più?”. Ottenne gli stanziamenti e chiamò festante l’Associazione di categoria per annunciarli. “Ma sai cosa ho capito?”, mi disse, “fanno un sacco di storie, non vogliono aumentare di numero, perchè meno sono e più potere hanno”“. Il picconatore e le toghe - Del conflittuale rapporto tra giustizia e politica, però, forse il più significativo rappresentante è un democristiano. Intini fa il ritratto del presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che non a caso fu anche docente di Diritto costituzionale, e ne ricorda le “semplificazioni crude” soprattutto in materia di giustizia, ma che acutamente coglievano nel segno. Le parole che Intini attribuisce al capo dello Stato hanno echi che non possono non richiamare il difficile presente del Csm: ““Sono io il presidente del Csm”, diceva, “il presidente è il capo dello Stato che è una autorità innanzitutto politica. E non per caso. Perchè la magistratura non può diventare un contropotere rispetto alla politica. I guai sono cominciati quando prima i presidenti della Repubblica stessi e poi tutti quanti si sono dimenticati chi è il presidente del Consiglio superiore della magistratura”. Sono sprazzi di conversazioni che chiariscono episodi di storia già noti - come la minaccia di Cossiga di mandare i carabinieri a palazzo dei Marescialli - mostrando un dietro le quinte rivelatore di caratteri, prima ancora che di idee politiche. Questo è il merito di Intini: offrire al lettore, che sappia seguirlo nelle curve tortuose della storia del Novecento, più di qualche risposta inedita alle tante questioni ancora aperte sul secolo breve. Volontariato, 6 richieste ai partiti in corsa: “Maggiore inclusione” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 6 settembre 2022 Completare la Riforma del Terzo settore e dotare i Csv di risorse tra le sei richieste della Chiara Tommasini, nella lettera inviata ai leader dei partiti, perché si impegnino a sostenere il volontariato. “Nel dibattito elettorale mancano idee e proposte strategiche per potenziare il Terzo settore e valorizzare l’impegno del volontariato per un Paese più inclusivo, solidale e sostenibile. Occorre sostenere un pacchetto di interventi e per questo ci appelliamo ai leader delle forze politiche perché lo recepiscano e lo sostengano”. Chiara Tommasini, presidente di CSVnet, l’associazione nazionale che riunisce quarantotto Centri di servizio per il volontariato, lancia l’allarme a nome di un mondo che unisce, direttamente e indirettamente, circa 30mila organizzazioni di Terzo settore e supporta quasi 50mila organizzazioni non profit, coinvolgendo più di 100mila volontari. Con una lettera indirizzata ai leader delle principali forze politiche in campo per la campagna elettorale, CSVnet chiede l’assunzione di impegni precisi per sostenere il terzo settore e i volontari che in questi anni hanno tenuto unito un Paese indebolito da crisi e pandemia. La lettera è stata inviata lunedì ai leader del Partito Democratico Enrico Letta, del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, di Italia Viva Matteo Renzi, di Azione Carlo Calenda, di Forza Italia Silvio Berlusconi, di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, della Lega Matteo Salvini, dell’alleanza Verdi e Sinistra Nicola Fratoianni, di + Europa Emma Bonino e di Noi con l’Italia Maurizio Lupi. Sei le richieste che CSVnet rivolge ai leader per vincere altrettante sfide strategiche di un mondo che garantisce il 5% del Pil nazionale e mobilita più di 6 milioni di volontari: completare il processo di attuazione della riforma del terzo settore; dotare i Csv delle risorse adeguate per sostenere il volontariato; semplificare le procedure amministrative per la costituzione di accordi di co-programmazione e co-progettazione tra gli enti pubblici e le organizzazioni del terzo settore; riconoscere il ruolo formativo del volontariato e del servizio civile; agevolare il ricambio generazionale dei volontari; valorizzare le pari opportunità ed il ruolo nelle donne nel terzo settore. Tra le istanze anche l’attivazione di un tavolo interministeriale di interlocuzione per affrontare le questioni che riguardano il non profit. “Le istituzioni nazionali svolgono un ruolo determinante - spiega Tommasini - per attuare politiche che vadano incontro a queste richieste ed è giunto il momento che le forze di governo assumano impegni precisi per aiutare concretamente chi ha tenuto in piedi il nostro Paese in questi anni. Auspichiamo di poter incontrare i partiti delle principali coalizioni, come richiesto nella nostra lettera, per confrontarci sulle proposte politiche per sostenere la solidarietà che sono imprescindibili per una ripresa equa e sostenibile dell’Italia”. La lettera su: https://csvnet.it/images/phocadownload/Lettera_CSVnet_ai_leader_politici_per_elezioni_def.pdf Carlo Maria Martini, dieci anni dopo: ripartire (sempre) dai poveri di don Virginio Colmegna* Corriere della Sera, 6 settembre 2022 L’attualità del pensiero del cardinale Carlo Maria Martini a dieci anni dalla scomparsa, qui ricordata attraverso il suo discorso sui poveri: “La povertà non è essere senza denari ma piuttosto essere senza potere, senza ascolto, senza confidenza”. Carlo Maria Martini appariva austero, ma chi, come me, l’ha conosciuto e ha collaborato con lui da vicino, sa bene quanto fosse un uomo capace di appassionarsi. Come quando parlava di ospitalità, di carità, di povertà. Sui poveri, per esempio, ho sentito da lui una definizione sempre attuale: “Poveri siamo un po’ tutti, perché la povertà è soprattutto non contare niente. Non è tanto essere senza denari, ma piuttosto essere senza potere, senza ascolto, senza confidenza”. Ecco perché aggiungeva: “Ciascuno deve tirar fuori con coraggio la sua povertà e saper guardare agli altri a partire da questo punto di osservazione”. Sono parole che mi hanno accompagnato nell’ormai ventennale cammino della Casa della Carità. Mi hanno consolato di fronte alle difficoltà, consapevole di quella fatica dell’ospitalità che Martini aveva sinterizzato nelle due radici semantiche della parola stessa: hospes, come amicizia e hostis come inimicizia, cioè come fatica. Oggi più che mai, in una realtà sempre più interconnessa, ma che troppo spesso lascia indietro i più deboli considerandoli “uno scarto”, come ha scritto Papa Francesco, mi pare decisivo essere capaci di ripartire dai poveri, dai più fragili, estraendo ricchezza culturale dalle diversità. Come? Diceva sempre Martini: “Facciamo in modo che si moltiplichino i piccoli luoghi di conoscenza, condivisione, ascolto e a un certo punto, da questi tanti piccoli luoghi, nascerà una città”. *Presidente Casa della Carità Il coraggio del cambiamento di Dacia Maraini Corriere della Sera, 6 settembre 2022 Non è un caso che tutta la letteratura mondiale si stia concentrando sulle difficoltà della famiglia. Persa quella contadina coi suoi valori e gerarchie, come creare una nuova unità che sia coerente con le conquiste, o per lo meno con quelle che alcuni considerano conquiste di libertà e altri invece considerano perversioni e perdita di valori antichi? La famiglia è il grosso problema del tempo che stiamo vivendo. Messa in crisi la sua struttura verticale e l’autorità del Pater familias, il nucleo affettivo perde sicurezza e fiducia nel futuro. L’emancipazione femminile, la legittimazione della omosessualità, i nuovi diritti civili, hanno mandato per aria i tradizionali valori familiari. Alcuni uomini, e ripeto solo alcuni perché non è una questione di genere ma di cultura, insomma coloro che identificano la propria virilità con il possesso, non riescono a tollerare queste alterazioni. Di fronte al no della donna che credevano di possedere e controllare, sprofondano in una crisi talmente violenta che preferiscono uccidere piuttosto che cedere. Naturalmente in quell’uccisione c’è dentro anche la propria morte. Infatti spesso si suicidano. Non è un caso che tutta la letteratura mondiale si stia concentrando sulle difficoltà della famiglia. Persa quella contadina coi suoi valori e gerarchie, come creare una nuova unità che sia coerente con le conquiste, o per lo meno con quelle che alcuni considerano conquiste di libertà e altri invece considerano perversioni e perdita di valori antichi? Gli scrittori sentono la crisi e cercano di entrare nel cuore della piccola comunità degli affetti raccontando i timori, i rifiuti, la violenza di alcuni, controbilanciata dalla serena accettazione di altri che comprendono e condividono la necessità delle innovazioni. È chiaro che ogni diritto nuovo distrugge un antico privilegio. Ma sta proprio nella cultura democratica e riformatrice insegnare ad affrontare queste privazioni con intelligenza e fattività. Purtroppo in questo momento lo sgomento sta diventando contagioso e i votanti preferiscono volgere gli occhi a un passato tradizionale piuttosto che a un futuro difficile da armonizzare. Ma è come mettere un cerotto su una piaga. I cambiamenti si affrontano con coraggio cercando di trarne il meglio, non mettendo la testa sotto la sabbia. Alla lunga non può che vincere chi si adatta ai cambiamenti, che non sono dovuti a malvagità o perversione, ma ai grandi mutamenti della storia: il raddoppio della durata della vita, le conquiste della scienza, la facilità della mobilità e dei rapporti, l’accesso delle donne alle professioni tradizionalmente maschili, il desiderio di libertà contro ogni dogma repressivo, fanno lievitare nuove paure viscerali difficili da interpretare e regolare. Droghe. Basta criminalizzare chi va in overdose, ora una legge ad hoc di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 settembre 2022 Mercoledì scorso c’è stata la giornata mondiale per la sensibilizzazione sull’overdose e a rilanciare la battaglia per la riduzione del danno e, nel contempo, politiche che vertono su soluzioni non carcerocentriche, sono Cgil, Forum Droghe, Cnca, ITARdD, ItanPud, la Società della Ragione, Isola di Arran e A Buon Diritto. “Tutti possono essere salvati dall’overdose: è quindi l’occasione per riprendere e rilanciare tutto il nostro impegno su droghe, servizi, politiche per le dipendenze, nella direzione che abbiamo affermato anche nella recente Conferenza di Genova”, hanno dichiarato con forza. Le associazioni, da sempre in prima fila sulle politiche non repressive, hanno affermato che “vanno sostenute le politiche di Riduzione del Danno e Limitazione dei Rischi, le campagne per contrastare e prevenire le morti correlate all’uso di sostanze, con il coinvolgimento degli operatori, delle organizzazioni della società civile e dei consumatori”, sottolineando che in questo senso è da “valorizzare il ruolo delle municipalità per la sperimentazione di modelli d’intervento innovativi finalizzati a mettere in sicurezza i contesti nei quali si realizza il consumo di droghe, come più volte sollecitato anche dalle raccomandazioni stilate a livello europeo, a partire dal consolidamento e dalla diffusione su tutto il territorio nazionale dei servizi di drug checking e delle stanze del consumo sicuro”. Non solo. Per le associazioni “va sostenuta e garantita la distribuzione gratuita del Naloxone (anche nelle forme che permettono somministrazione facilitata), un farmaco salvavita in grado di prevenire esiti letali dovuti all’overdose di oppiacei, non solo negli interventi di riduzione del danno, ma garantendone la disponibilità nei servizi di primo soccorso, negli istituti penali, e mettendolo a disposizione delle Forze dell’Ordine che spesso sono le prime a intervenire in caso di emergenza. Tra le proposte da sostenere anche la presenza nelle farmacie di prodotti che siano sempre disponibili a base di naloxone, non soggetti a prescrizione e di libera vendita”. Le associazioni, quindi, chiedono a tutte le forze politiche, oggi più che mai, in vista delle prossime elezioni, di impegnarsi per rendere effettiva, anche con adeguati finanziamenti, la Riduzione del Danno, che fa parte dei Livelli Essenziali di Assistenza fin dal 2017. “Ma che - hanno osservato - ad oggi, non trova ancora corretta e compiuta applicazione in tutti i territori. Insieme a questo, l’approvazione di una norma (la “Legge del Buon Samaritano”) che non esponga, nonostante quanto previsto dal Codice Penale, a indagini e conseguenze giuridiche chi assiste una persona in overdose e chiama i soccorsi”. La riduzione del danno si riferisce a politiche, programmi e prassi che mirano a ridurre i danni correlati all’uso di sostanze psicoattive in persone che non sono in grado o che non vogliono smettere di assumere droga. Sua caratteristica peculiare è il focus sui danni causati dall’uso di sostanze stupefacenti e sulle persone che continuano ad usare droghe, piuttosto che sulla prevenzione dall’uso. Al livello mondiale si è iniziato a discutere spesso di riduzione del danno dopo la scoperta della minaccia rappresentata dalla diffusione dell’HIV. Ma perché è così importante la Riduzione del Danno? Nel nostro Paese la persona che consuma droghe, soprattutto se per via iniettiva, è considerata dalla pubblica opinione come qualcuno che conduce una vita ‘ non degna di essere vissuta’. La sua possibilità di tornare a far parte della società passa attraverso l’uscita dal ‘tunnel della droga’, e il raggiungimento di una stabile disintossicazione. Questo approccio conservatore e le conseguenti scelte hanno da sempre ostacolato la promozione delle politiche di Riduzione del Danno. Le politiche repressive nei confronti nelle persone che usano sostanze hanno innescato meccanismi di emarginazione, clandestinità e criminalizzazione. Gli interventi di Riduzione del Danno partono dalla constatazione che, spesso, le persone che usano droghe non esprimono alcuna richiesta di aiuto nelle forme tradizionali. In un’ottica di salute pubblica, è fondamentale, infatti, sottolineare che la “guarigione’ non deve essere l’unico obiettivo dell’operatore o del servizio per le dipendenze. Questi hanno il dovere di ‘ prendersi cura’ della persona nella situazione specifica; la disintossicazione non può e non deve essere la pregiudiziale dell’intervento dell’operatore e di una relazione di aiuto. Riduzione del Danno significa attivare tutte le forme possibili di contatto e di accompagnamento affinché siano garantite le condizioni cliniche, psicologiche e sociali per permettere alla persona, evitata ogni irreversibile compromissione, di compiere liberamente le proprie scelte. La Riduzione del Danno viene praticata in Italia da quasi 25 anni, ma senza un approccio ufficiale da parte dello Stato. Tale pratica è entrata a far parte dal 2017 dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) che le Regioni sono tenute a garantire allo Stato nell’ambito del Servizio sanitario nazionale. Tempo pochi mesi e sarebbero entrati in vigore garantendo prevenzione e cura. Si fissava anche una data limite: il 2018. Eppure, anche qui, manca un passaggio: scarseggia il finanziamento di alcuni punti, tra i quali proprio quelli per quanto riguarda la Riduzione del Danno. Ad oggi, solo la Regione Piemonte ha dettagliato in norma le prestazioni da considerarsi tali, con la D. G. R. 12 aprile 2019, n. 42- 8767. Ma, a causa di alcune scelte adottate dal nuovo assessorato, anche questa regione rischia di tornare indietro rispetto alle recenti conquiste. Di fatto, in assenza di finanziamenti adeguati e consolidamento in tutto il territorio italiano, la riduzione del danno fissato dai Lea del 2017, rimane un diritto mancato. Nella maggior parte delle regioni italiane le attività di Riduzione del Danno risultano demandate, oltre che ai sert, a ‘ servizi di salute mentale, strutture residenziali (comunità terapeutiche e/ o strutture ospedaliere)’, persino alle farmacie. In altre parole, nel nostro Paese sono ancora merce rara gli operatori professionali che incontrano i consumatori per fare orientamento, fornire generi di prima necessità, materiali sterili, informazioni sulle sostanze o accompagnamenti in comunità, attraverso le unità di strada che intervengono direttamente nei luoghi del divertimento o che operano nei drop-in (la loro versione stanziale). In questi cinque anni nessun atto governativo e ministeriale è intervenuto a garantirne l’implementazione. La denuncia rilanciata dalle associazioni evidenza che è tuttora in corso una latitanza istituzionale: non solo perché non attua quanto previsto per legge, ma perché nega un diritto fondamentale, quello alla salute, e la concreta attuazione di una politica che ha dimostrato, in più di 25 anni di esperienza, di essere efficace nel limitare i costi umani e sociali di un fenomeno certamente complesso. Se l’Iran fa impiccare due attiviste Lgbt di Karima Moual La Stampa, 6 settembre 2022 Se c’è una cosa che tutti noi dobbiamo tenere bene a mente, è che sui diritti non bisogna mai abbassare la guardia, perché un diritto acquisito non lo è mai per sempre ed è per questo che va difeso e tutelato perché possa durare a lungo per altre generazioni a venire. Fatta questa premessa, proviamo ad allungare lo sguardo lontano, e precisamente in Iran, dove ci arriva notizia della condanna a morte per due lesbiche e attiviste Lgbtq. Sono accusate di promuovere l’omosessualità, hanno riferito gli attivisti lunedì, esortando la comunità internazionale a fermare l’esecuzione. Si chiamano Zahra Sedighi Hamedani, 31 anni, ed Elham Chubdar, 24 anni. Ci sono foto che le ritraggono spensierate nonostante portino avanti una lunga battaglia e nel luogo più pericoloso dove affrontarla. “È la prima volta che una donna viene condannata a morte in Iran a causa del suo orientamento sessuale”, assicura l’Ong iraniana per la difesa dei diritti delle persone Lgbtq “6Rang”. Ecco, se purtroppo c’è sempre una prima volta, è anche vero che il rischio di tornare indietro sui diritti è sempre concreto ancor più se ci si trova ad avere forze politiche e culturali conservatrici al potere, impostate su ideologie con verità escatologiche che non possono essere messe in discussione. Succede in Iran come in Arabia Saudita e con varie sfumature in tutti quei Paesi dove vi è una lettura conservatrice e letterale del dogma religioso, perché in tutte le tre religioni monoteiste, l’omosessualità non è certo accolta a braccia aperte. Se nel mondo cattolico grazie alla laicità - e attenzione non certo alla fede - gli omosessuali sono riusciti a conquistarsi qualche diritto, nel mondo islamico dove la laicità fa fatica a trovare spazi il proprio orientamento sessuale se considerato “deviato”, lo si può pagare ancora con la vita. In Iran essere omosessuali può essere estremamente pericoloso. E paradossalmente lo è oggi di più che in passato quando all’epoca dello Scià era parzialmente accettata. Oggi, per gli omosessuali è prevista la pena di morte, la reclusione o la fustigazione. Non sono né riconosciuti né tutelati. Unica attenzione è quella verso le persone transgender, che hanno ottenuto il diritto di cambiare anagraficamente sesso nel 1987. Sui social la storia delle due ragazze iraniane con richiesta di liberarle è diventata virale, ma colpisce l’accusa riportata sui media iraniani. Sono colpevoli di “diffusione della corruzione sulla Terra”. È l’accusa più grave del codice penale iraniano. Quanta paura può fare ancora la “diversità”? Che la “diversità” sia una caratteristica dell’umanità è un fatto assodato, eppure questa diversità in tutte le sue sfumature continua a essere utilizzata come arma contro altri compromettendo la convivenza tra persone. E l’omosessualità è uno dei segmenti che continua a costare caro a molte persone nel mondo, per culture, usanze, tradizioni e leggi. Pensiamo all’Iran, e a come sensibilizzare il mondo per la liberazione di Zahra Sedighi Hamedani e Elham Chubdar, ma anche ai molti altri paesi che se non hanno la condanna a morte verso gli omosessuali, comunque provano a condannarli da vivi ad una quotidianità infelice, con discriminazioni, pregiudizi e quei diritti centellinati, sempre per quel dannato sentimento di superiorità e conservatorismo allergico ad aprirsi all’altro e attento a tutelare solo se stesso. Perché è facile fare i paternalisti come lo fanno i partiti di destra italiani contro l’estremismo islamico, ma la verità è che i diritti e la libertà sono una grande prova di generosità verso l’umanità, alla quale sono chiamati tutti a risponderne. Un sentimento che non tutti sono disposti ad offrire. Basti pensare, tornando al nostro Paese, all’ultima performance di Giorgia Meloni con un attivista per i diritti Lgbt, e quel suo: hai già le unioni civili. I diritti non sono mai pienamente acquisiti, vanno difesi e tutelati ovunque, perché il rischio di fare un passo indietro esiste sempre. Un sentimento di egoismo si mimetizza nelle vesti di chi si presenta bonariamente per la difesa dei bei valori della famiglia, figli e via discorrendo, e poi stranamente sono buoni e belli solo quelli propri. Proprio come quando a chi nel nostro Paese chiede più diritti. Russia. Alexei Navalny querela il carcere: condannato all’isolamento per un abito sbottonato di Nicolò Guelfi La Stampa, 6 settembre 2022 L’attivista russo si è rivolto al tribunale per ottenere giustizia, ma le sue condizioni a due anni dall’avvelenamento sono sempre peggiori. Il leader dell’opposizione russa Alexei Navalny chiede giustizia contro i propri giustizieri. L’attivista, incarcerato per le sue posizioni apertamente contrarie al regime di Vladimir Putin, ha sporto denuncia al tribunale contro carcere di massima sicurezza di Melekhovola, struttura nella quale è detenuto. La motivazione: l’uomo è stato punito con tre giorni di cella d’isolamento per aver indossato un abito “sbottonato”. A riferirlo è la testata indipendente Meduza, una delle poche a non aver ancora subito la censura di stato, che ha citato un comunicato dell’ufficio stampa del tribunale di Kovrov: “L’attore amministrativo ritiene che la violazione da lui commessa nella sua gravità e natura non corrisponda alla sanzione comminata, che l’amministrazione dell’istituto penitenziario non abbia tenuto conto delle circostanze della violazione, della personalità del condannato e del suo comportamento” La testata ricorda inoltre che il politico e attivista ad agosto è stato mandato in una cella di punizione tre volte in due settimane, rispettivamente per tre, cinque e sette giorni. Questo dopo aver annunciato la creazione di un sindacato per detenuti e dipendenti dei centri di reclusione. Alexei Navalny è stato arrestato nel gennaio del 2021 e incarcerato con accuse ritenute palesemente politiche da tutti gli organi terzi e le associazioni umanitarie per i diritti. Non appena rientrato a Mosca dalla Germania, dove era stato curato per un avvelenamento, (risultatogli quasi fatale) causato dalla neurotossina Novi?ok, attualmente in dotazione solo ai servizi segreti russi, l’oppositore è stato immediatamente messo in stato di fermo con l’accusa di aver violato l’obbligo di firma che gli era stato precedentemente comminato. A fine maggio, il tribunale di Mosca ha confermato in appello la condanna a nove anni inflitta a marzo a Navalny in base alla quale l’oppositore è stato trasferito in un centro detentivo a “regime severo”, cosa che preoccupa molto i suoi sostenitori. La condizioni di salute dell’attivista risultano infatti precarie, l’uomo risulta dimagrito e indebolito dalla prigionia e le persone a lui vicine costantemente per la sua vita. Il Cremlino oggi sta inasprendo sempre più la repressione contro l’opposizione: sia la rete degli uffici regionali di Navalny sia la Fondazione Anticorruzione da lui fondata sono state dichiarate “estremiste” in Russia. L’inizio del conflitto con l’Ucraina non ha fatto altro che rendere la figura di Navalny ancora più pericolosa per il regime, ma chiedere giustizia ai tribunali che lo hanno condannato risulta drammaticamente privo di speranze. Israele. “Molto probabilmente abbiamo ucciso la reporter Shireen Abu Akleh” di Francesca Mannocchi La Stampa, 6 settembre 2022 È molto probabile che sia stato l’esercito israeliano a colpire la reporter di al Jazeera “ma non si può determinarlo con certezza”. La morte di Shireen Abu Akleh - la reporter di al Jazeera uccisa lo scorso 11 maggio a Jenin, in Cisgiordania, durante scontri tra i soldati e miliziani palestinesi armati - resta dunque senza una risposta definitiva sulle responsabilità, almeno secondo l’inchiesta ufficiale condotta dall’esercito israeliano (Idf), che ha ribadito una tesi già largamente anticipata subito dopo i fatti. Ma le conclusioni sono state respinte dai palestinesi, che ancora una volta hanno addossato “il crimine” a Israele. C’è “un’alta possibilità”, ha stabilito l’indagine, che la giornalista sia “stata colpita accidentalmente” da spari dall’esercito, anche se “non è possibile determinare in modo inequivoco la fonte” dei colpi. E resta “rilevante” la possibilità, ha proseguito l’esercito, che Abu Akleh “sia stata colpita da pallottole sparate dai palestinesi armati”. Per questo la Procura militare israeliana non aprirà un’indagine penale contro soldati visto che “non c’è alcun sospetto che sia avvenuto un atto criminale” tale da giustificarla. L’Idf ha ricordato inoltre che “va enfatizzato e chiarito che durante l’intero incidente, il fuoco dei soldati era indirizzato con l’intento di neutralizzare i terroristi che sparavano ai militari, anche dall’area dove si trovava Shireen Abu Akleh”. L’indagine - sollecitata anche a livello internazionale e dagli Usa, visto che la reporter aveva anche la cittadinanza americana - ha avuto inizio nei mesi scorsi ed è avvenuta con la revisione “delle circostanze” della morte della giornalista attraverso una task force, anche tecnica, designata dal capo di Stato maggiore Aviv Kochavi. L’inchiesta ha ascoltato “i soldati coinvolti nell’incidente” (si parla di un’unita del battaglione Dudvedan), la cronologia degli eventi, i rumori sul posto, dall’area dell’incidente e in particolare da quella dello sparo. Oltre ad esaminare vari risultati forensi e balistici e materiale dei media stranieri, video ed audio. Parte importante, ha ricordato ancora l’esercito, è stata data all’esame della pallottola che ha ucciso la giornalista palestinese. Pallottola data in consegna dall’Anp agli Usa e poi ad Israele. Ad inizio luglio si è svolto un esame balistico in un laboratorio forense alla presenza di rappresentanti tecnici degli Usa e della stessa Anp. Ma “le cattive condizioni del proiettile” hanno reso “difficile - ha sottolineato l’Idf -l’identificazione della fonte da cui è stato sparato”, ovvero se “sia stato sparato o meno da un fucile” in dotazione all’esercito israeliano. Le conclusioni sono state rigettate da Ramallah, la cui Procura Generale subito dopo i fatti accusò Israele. Ed oggi Nabil Rudeinah, portavoce del presidente palestinese Abu Mazen, è tornato all’attacco: “Un nuovo tentativo di Israele di evadere la propria responsabilità per l’omicidio di Shireen Abu Akleh. Tutte le prove, i fatti e le indagini condotti finora - ha denunciato - provano che Israele è responsabile di questo crimine”.