Note e riflessioni sui suicidi in carcere di Mauro Palma* questionegiustizia.it, 5 settembre 2022 Ricominciamo da qui, da questo tema aspro e cruciale. Uno straniero con problemi psichiatrici è la cinquantanovesima persona detenuta che si toglie la vita in carcere. È accaduto a Bologna, il primo giorno di settembre, proprio mentre ricevevamo da Mauro Palma l’articolo che presentiamo. Si tratta di una riflessione densa, capace di chiamare in causa l’esterno, la società - “ci crediamo assolti, ma siamo coinvolti”, scriveva Fabrizio De André - prima di focalizzarsi sulla configurazione e sulla fisionomia dell’interno, del carcere e sulle sue auspicabili trasformazioni. 1. Ferragosto. Prima mattina: disteso sul letto non risponde alla chiamata come sempre un po’ trasandata e un po’ annoiata dell’agente. È proprio quest’ultimo a guardare bene all’interno: il detenuto non è reticente a rispondere per continuare il sonno; no, ha un sacchetto sulla testa ben annodato in modo da garantire il soffocamento. Si è suicidato nella notte. Siamo in una grande città, Torino, sarà riportato come il cinquantunesimo dall’inizio dell’anno. Anche in questo caso una persona molto giovane: venticinque anni ed entrata in carcere dalla libertà da meno di due settimane. Il reato riportato nella sua scheda è rapina, ma non c’è stato modo di accertare nulla tanto breve il tempo - peraltro pigramente estivo - trascorso tra il suo ingresso nel mondo della privazione della libertà e la sua uscita per decesso. La scheda dice che aveva genitori, una casa: altro non sappiamo della sua vita, ma certamente non possono essere state le condizioni detentive così aspre e spesso disattente alla dignità delle persone, ospitate e ospitanti, ad avere determinato il suo gesto, perché non le aveva ancora sperimentate nei fatti. Oggi, mentre torno a scrivere queste riflessioni - ventisettesimo giorno di agosto - ricevo la notifica del sedicesimo suicidio in questo mese e cinquantasettesimo del terribile conteggio del 2022: sono passati solo dodici giorni dalla mia nota precedente e il contatore ha avuto un incremento di sei, quasi un caso a giorni alterni. Quest’ultimo è avvenuto solo quattro ore dopo la traduzione in carcere: era un giovane adulto di trentaquattro anni, di origine tunisina e senza fissa dimora - così riporta la scheda, dove annota che la ragione del suo arresto anche in questo caso è stata una rapina. Qui il reato ha presumibilmente una sua consistenza criminale, a differenza invece del caso che lo ha preceduto, quello del giovanissimo nigeriano di venticinque anni che si è suicidato l’altro ieri e che era stato tradotto in carcere due mesi fa in attesa di giudizio per il reato di “resistenza a pubblico ufficiale” (articolo 337 c.p.). 2. Non riporto questi casi per richiamare con impressionismo la drammaticità di un sistema dove si viene ristretti con molta facilità, soprattutto se si è marginali nel contesto sociale in cui si è malamente inseriti, e dove con altrettanta facilità si viene accolti dal sistema deputato a detenere, tutelare e gradualmente reinserire, solo come ulteriore problema o al più come un fascicolo da gestire con una improvvisa collocazione in luoghi già densi di difficoltà. Non è questo il richiamo implicito nel riportare i casi, anche se non nascondo l’impellenza di interrogativi che riguardano sia l’effettiva tutela, anche legale, di persone socialmente fragili - la densità dei “senza fissa dimora” tra coloro che per pene brevissime sono ristretti in carcere è altissima - sia il frequente ricorso alla misura detentiva per reati anche minori, pur nel profluvio di affermazioni del carcere come misura estrema. E che riguardano altresì quale accoglienza, attenzione e vicinanza possa aver ricevuto una persona che, entrata in carcere in un sabato estivo, si sia suicidata soltanto poche ore dopo. Riporto piuttosto questi casi - che non sono isolati, perché molti altri hanno con essi una somiglianza strutturale - solo per sgombrare il campo da una visione deterministica che connette le decisioni estreme alla difficoltà materiale della detenzione. Troppo brevi sono state in molti casi le permanenze all’interno del carcere per supportare tale visione; troppo frequenti sono anche i casi di persone che a breve sarebbero uscite, per non capire che a volte - spesso - è l’esterno a far paura quasi e più dell’interno. È la funzione simbolica dell’essere approdati in quel luogo a costituire un fattore determinante per tali decisioni estreme: quella sensazione di essere precipitato in un ‘altrove’ esistenziale, in un mondo separato, totalmente ininfluente o duramente stigmatizzato anche nel linguaggio dei media e talvolta anche delle istituzioni, che caratterizza il luogo dove si è giunti, a essere determinante. Anche perché spesso ci si è giunti dopo vite condotte con difficoltà e lungo il bordo del precipizio che separa sempre più concretamente il percepirsi parte della collettività e il collocarsi ai suoi limiti estremi. 3. Ma proprio perché è prevalente la funzione simbolica su quella della materialità, i suicidi non interrogano solo chi ha la responsabilità diretta della detenzione - cioè chi ne determina politicamente il profilo e che conseguentemente ne amministra lo svolgersi - perché interroga tutta la collettività esterna che di quel simbolismo è produttore ed elemento consolidante. Innanzitutto, interrogano sulla sensatezza del tempo recluso, perché la sottrazione del tempo soltanto in funzione del vuoto non è accettabile ed è prodromica alla percezione del proprio annullamento. Più volte, anche recentemente, mi è capitato di sottolineare che una persona privata della libertà, qualsiasi ne sia stata la causa, diviene titolare, proprio in virtù di tale privazione, del diritto a che la finalità che ha determinato la sottrazione del bene che l’articolo 13 della Carta definisce “inviolabile” sia effettivamente perseguita e che non si lasci spazio alla mera sottrazione del tempo vitale. Questo vale per chi è ristretto in una struttura sanitaria per motivi di cura e riabilitazione, per chi lo è in un centro per il rimpatrio, per chi è in carcere per esecuzione di una pena che ha diritto a che la tendenziale finalità rieducativa sia effettivamente perseguita e anche per chi è in custodia cautelare che deve percepire la ragione del proprio tempo sottratto in funzione dell’indagine su quanto commesso o della prevenzione rispetto alla possibile nuova commissione. Questo richiamo alla motivazione da un lato rende impossibile il tempo vissuto nel nulla meramente privativo, dall’altro richiede attenzione specifica in tutte le fasi della reclusione, sia con un supporto accentuato alla fase iniziale, sia con il perseguimento della significatività del tempo sottratto, sia, infine, nell’accompagnamento al ritorno al contesto esterno. Richiede, quindi, la costruzione della capacità del dare senso al proprio tempo e di non renderlo solo espropriazione: un’azione che non può essere condotta senza risorse adeguate, preparazione professionale mirata e soprattutto senza un discorso esterno che non sia quello triviale del castigo meritato e dell’abbandono. Della chiave buttata. L’analisi dei casi di suicidi in carcere - anche limitatamente a quest’ultimo anno - conferma questa necessità di un discorso pubblico diverso sulla pena, non ristretto ai pochi da sempre presenti su questo tema e non connotato ideologicamente, ma riportato nel solco dell’utilità della funzione penale, dei suoi limiti, delle sue necessità in termini di qualità professionale e di capacità di allineamento con lo svolgersi della vita esterna. Tutto ciò ancor prima del tema, peraltro urgente, della riqualificazione materiale delle strutture. Perché, come già accennato, la loro non dignitosa fisionomia attuale è concausa di un senso di vuoto invivibile che può determinare la scelta estrema, ma non ne è la causa principale. Esaminando un campione di una quindicina di casi, per esempio, così come fatto dall’Ufficio del Garante nazionale per tentare una possibile decodifica dell’incremento recente dei suicidi, si rileva che ben nove di essi hanno riguardato giovani al di sotto dei trent’anni e altri tre tra i trenta e i quarant’anni: tutte persone che non avevano già vissuto una esperienza di lunga detenzione; al contrario, ben otto (quindi più della metà) era in attesa del giudizio di primo grado. La correlazione invece che a prima vista appare diretta è con l’essere in molti casi già stati segnalati all’interno dei cosiddetti “eventi critici”, non solo di natura autoaggressiva, molto spesso con un passato di disturbi comportamentali già manifestati. Si conferma simmetricamente la percentuale alta di coloro che, definitivi, erano prossimi al termine dell’esecuzione penale. Questo quadro tende a dare l’immagine di una difficoltà soggettiva amplificata nel rapporto improvviso non solo con la privazione della libertà, ma con la sua concretizzazione in un ambiente degradato dove alla percepita irrilevanza da parte del mondo esterno si aggiunge la specifica irrilevanza vissuta all’interno di un ambiente stressato e impersonale. 4. Per questo, il primo, ancor timido, approccio alla necessità di una diversa impostazione multidisciplinare al tema e alla sua declinazione concreta che emerge nella recente circolare emanata dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, va accolto positivamente. Occorre agire in più direzioni, partendo da un dato che nella sua crudezza numerica sintetizza l’impellenza e la drammaticità del tema: l’Italia, nel confronto con altri Paesi europei, non ha un’alta percentuale media di suicidi nell’anno, ma tale valore cresce secondo un fattore moltiplicativo di più di quindici volte quando si considera il sottoinsieme della popolazione detenuta. Più di quanto non cresca in termini relativi in altri Paesi che partono da valori esterni maggiori. La prima direzione verso cui agire è certamente quella di una immissione di figure di mediazione sociale e supporto all’interno degli Istituti, con profili differenziati così come molteplice è ormai la complessità esterna, ridefinendo, quindi, le professionalità esistenti e investendo, oltre che sul numero, sulla tipologia del loro intervento. Un intervento che sempre più deve ridurre la distanza che separa l’interno con l’esterno. Non può essere un compito affidato agli operatori di Polizia penitenziaria, il cui compito - importante per la prossimità implicita che rappresenta con chi è ristretto - deve essere recuperato nella specifica funzione di svolgimento regolare e ordinato e di sicurezza verso l’esterno. La seconda direzione va anch’essa nella riduzione della distanza con l’esterno: sia nel forte incremento delle possibilità di connessione - ovviamente in condizioni di sicurezza - con i propri affetti, sia nella loro regolata normalità e nell’utilizzo positivo di quanto offerto dalle tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Un aspetto, questo che, oltre a essere ineludibile in relazione al positivo reinserimento futuro in una società in rapida trasformazione tecnologica, può essere un chiaro indicatore del non essere precipitati in un mondo diverso, bensì in un mondo che cerca di tenere il ritmo dell’andamento temporale esterno, che non è “altro” da ciò che è oltre quei muri, ma ne è parte, quantunque complessa. Un mondo, sì limitato e recluso, ma dove è sempre chiaro che l’essenza della pena è solo nella privazione della libertà e non in altri fattori de-contestualizzanti: questo il messaggio che può aiutare a superare quell’invivibile angoscia del vuoto. Queste due direzioni hanno incidenza sull’adempimento a quella indicazione delle Regole penitenziarie europee riportata in apertura della corposa Raccomandazione del Consiglio d’Europa come principio fondamentale (il quinto dei nove principi di questo tipo): “La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”. Difficile il rispetto di tale principio - nonostante abbia avuto l’approvazione dei rappresentanti del governo di ciascuno dei Paesi del Consiglio, incluso il nostro - nel sistema detentivo italiano. Difficile, anche perché il nostro sistema tuttora non riconosce l’integrità personale, anche corporea, della persona ristretta, negandole la possibilità di rapporti intimi con propri partner e altrettanto difficile non rendere questa negazione come emblematica dell’alterità irriducibile che quei muri racchiudono. Ma questo aprirebbe a un altro tema, molte, troppe, volte rinviato. La terza direzione di un’azione preventiva di molti aspetti nefasti e anche dei suicidi è quella della riduzione dei numeri e della conseguente maggiore ed effettiva presa in carico delle persone soprattutto al loro ingresso. Una riduzione da non ricercare con soluzioni temporanee, provvisorie, destinate a essere superate dall’inevitabile ripresentarsi della difficoltà dopo un certo tempo. Occorre restringere la platea delle persone in carcere. A partire da un dato chiaro: oggi - mentre scrivo - 1301 persone sono ristrette in carcere per scontare una pena inferiore a un anno, mentre altre 2567 scontano una pensa compresa tra uno e due anni. È evidente l’impossibilità che si attui un qualsiasi progetto volto a un diverso ritorno all’esterno in tempi così brevi e che il tempo della permanenza in carcere sarà per queste quattromila persone soltanto tempo vuoto, interruzione di una vita a cui tornare forse in situazione soggettiva peggiore, certamente con maggiore difficoltà. Ma questi numeri non costituiscono soltanto un evidente indicatore di come la finalità rieducativa sia solo mera enunciazione in un sistema che tiene le persone ristrette per alcuni mesi ed evidentemente per reati di minore allarme sociale; costituiscono anche un indicatore della minorità sociale che connota queste persone che non hanno evidentemente strutture esterne di riferimento, spesso neppure una fissa dimora, certamente una scarsa assistenza legale, molte volte neppure strumenti di comprensione del senso del loro essere in carcere e delle possibilità che l’ordinamento prevede. Riandando indietro negli anni, Alessandro Margara, aveva prospettato la possibilità di strutture diverse, di responsabilità territoriale, dove tali persone, per le quali egli parlava di “detenzione sociale” potessero trovare supporto e anche controllo, ma soprattutto una presa in carico più attenta e una minore percezione del nulla a cui si era improvvisamente giunti: nell’ultimo anno il ventiquattro percento - quasi un quarto - delle persone che si sono suicidate in carcere era “senza fissa dimora”. Un progetto di responsabilità territoriale e di previsione di strutture di tipo diverso dal carcere - quello ipotizzato da Margara - che deve essere ripreso. E che interroga sul rischio di continuare a configurare altrimenti il carcere come punto di arrivo di problemi soggettivi, stili di vita non omologati, emarginazioni, che avrebbero dovuto trovare altri strumenti di composizione e regolazione. 5. Ritorna tuttavia la riflessione iniziale: le scelte soggettive, così drammatiche, del porre fine alla propria vita vanno anche rispettate nella loro non univoca e difficile leggibilità e forse non potrà mai aversi una situazione in cui tali esiti fatali non si verifichino. Resta però la nostra responsabilità collettiva nell’affinare gli strumenti di lettura e di prevenzione; resta altresì la responsabilità intrinseca che è in capo a chi amministra e gestisce la privazione della libertà di una persona di tutelare al massimo la sua vita e la sua integrità fisica e psichica. Resta l’obbligo di interrogarsi su ogni singolo episodio, di apprendere anche dal suo tragico esito, di evitare che esso possa essere annotato come una sorta di rischio collaterale. Così sperando di affinare la capacità di prevenzione non ricorrendo inutilmente a continue sottrazioni di possibilità - dagli indumenti al mobilio della cella, agli oggetti - bensì ad addizioni di possibilità con relazioni, contesti, contatti, vicinanza. *Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale “Più telefonate e liberazioni anticipate speciali”: la soluzione all’emergenza suicidi in carcere di Paolo Comi Il Riformista, 5 settembre 2022 Il tema del carcere e della detenzione in generale è il grande assente di questa campagna elettorale. Lo si è visto ieri mattina in occasione della manifestazione organizzata a Roma sotto il Ministero della giustizia a sostegno dello sciopero della fame da parte della presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, contro i suicidi nelle carceri. Tranne Roberto Giachetti, deputato di Italia viva con un passato da radicale come Bernardini, nessun politico ha infatti trovato il tempo per testimoniare vicinanza all’iniziativa non violenta della presidente di Ntc. Eppure i numeri dei suicidi fra le mura degli istituti di pena del Paese sono drammatici: 59 dall’inizio dell’anno, a cui devono aggiungersi 19 decessi al momento “per cause da accertare”. Pur a fronte di un calo complessivo della popolazione carceraria, attualmente di circa 55mila detenuti, i suicidi hanno invece fatto registrare negli ultimi mesi un aumento esponenziale. Le spiegazioni possono essere diverse. Come ricordato dalla stessa Bernardini, sono sempre di più i detenuti con gravi problemi psichiatrici, incompatibili con il regime carcerario, e che dovrebbero scontare la pena nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Purtroppo tali strutture, nate proprio per accogliere gli autori di reati affetti da disturbi mentali, non hanno un numero di posti sufficienti con la conseguenza che questi soggetti continuano a espiare la propria pena in carcere dove è impossibile qualsiasi terapia e cura specifica. Ai tanti detenuti malati psichiatrici si devono poi aggiungere coloro che sono affetti da tossicodipendenze, circa il 30 per cento dell’intera popolazione carceraria. Anche per costoro è incompatibile la detenzione carceraria dove difficilmente possono essere sottoposti a un programma di disintossicazione. Per Rita Bernardini, al diciottesimo giorno di sciopero della fame, ci sarebbero comunque due soluzioni in grado di dare un certo sollievo a chi sta scontando la pena in carcere. La prima si tratta di una ‘banale’ circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e riguarda le telefonate che possono essere effettuate dai detenuti, oggi incredibilmente limitate a solo dieci minuti alla settimana. Un aumento del minutaggio complessivo autorizzato dal Dap potrebbe certamente alleviare i momenti di solitudine e sconforto, spesso causa dei suicidi. Molto poche, poi, sono le strutture dove i detenuti possono inviare una mail. Pur a fronte dello sviluppo della rete, nella maggior parte degli istituti di pena si comunica ancora con la lettera inviata in busta con il francobollo. Un sistema ottocentesco che non garantisce neppure tempistiche accettabili: fra l’inoltro, la ricezione e la risposta può trascorrere anche un mese. La seconda soluzione riguarda il ricorso alla liberazione anticipata speciale, l’aumento dei giorni da scontare per i meritevoli. Per questo provvedimento, però, serve il via libera del Parlamento. Secondo il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, serve allora “un deciso cambio di rotta” da parte di tutti i partiti politici “che metta da parte lo scontro ideologico e ragionando in termini di utilità e funzionalità, nel quadro delineato dalla nostra Costituzione”. Una effettiva riabilitazione passa dalla possibilità di un concreto reinserimento nella società. E anche su questo fronte i numeri sono impietosi: sui 55mila detenuti, ce ne sono 1.200 che frequentano l’università ma anche 900 analfabeti, solo fra gli italiani, senza considerare gli stranieri. Il dato che deve, comunque, far riflettere riguarda chi si trova oggi in carcere. 1.301 persone hanno avuto una pena inferiore a un anno mentre altre 2.567 hanno una condanna compresa tra uno e due anni. “Quasi 4 mila persone per cui il carcere non può far nulla: è troppo poco tempo per poter costruire un reale percorso di conoscenza e di riabilitazione, ma è abbastanza per cucire addosso alla persona detenuta uno stigma che ne pregiudica spesso un effettivo reinserimento sociale”, ricorda il Garante, secondo cui “in questi casi il rischio è che il carcere sia inutile in partenza e aggravante in uscita”. Ma, come da più parti ricordato, “il tema del carcere porta pochi voti e scarsi consensi”. Si muore in carcere, ma ai partiti non importa di David Allegranti publicpolicy.it, 5 settembre 2022 Uno dei grandi temi assenti di questa campagna elettorale è il carcere. Ai partiti non interessa parlarne, salvo sporadiche eccezioni. Eppure secondo un dossier di Antigone, nei primi otto mesi del 2022, 59 ristretti si sono tolti la vita. Più di una persona ogni quattro giorni. “Sin dall’inizio dell’anno il fenomeno ha mostrato segni di preoccupante accelerazione, fino a raggiungere l’impressionante cifra di 15 suicidi nel solo mese di agosto, uno ogni due giorni. A due terzi dell’anno in corso, è già stato superato il totale dei casi del 2021, pari a 57 decessi”, osserva Antigone. I numeri di quest’anno “generano un vero e proprio allarme, non avendo precedenti negli ultimi anni. Non è facile trovare delle spiegazioni. Non è neanche facile trovare delle soluzioni. Di questo ne siamo consapevoli. Sappiamo anche che la vita carceraria è dura, genera sofferenza, esprime solitudini, produce desocializzazione e malattie. Va fatto tutto il possibile per modernizzarla, renderla più a misura di donna o uomo, per ridurre la distanza tra il dentro e il fuori”. In carcere, calcola Antigone, ci si uccide 16 volte in più rispetto alla società esterna. Poche settimane fa a Verona c’è stato il caso di Donatella, 27 anni, che per andarsene ha usato il gas del fornello. “Se in carcere muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente…”. Le parole, contenute in una lettera letta durante il funerale, sono del magistrato di Sorveglianza Vincenzo Semeraro. Ma, appunto, a pochissimi interessa la vita dei ristretti: non portano voti e non portano consenso. A occuparsene sono i Radicali e qualche associazione che svolge un lavoro meritorio, da Antigone all’Altro diritto. “Il Terzo Polo ha inserito nel programma la riforma del sistema penitenziario. Oggi le carceri sono luoghi dove ‘trascorrere’ la pena. Chi lavora lo fa quasi solo per l’amministrazione, senza apprendere attività utili quando uscirà. Inoltre 30% dei detenuti è in custodia cautelare”, ricorda il deputato di Azione Enrico Costa. “I temi della pena e del carcere dovrebbero essere molto vicini al cuore e alla vita delle persone perché attengono al più critico dei rapporti fra stato e individui: la privazione della libertà personale. Una politica accorta dovrebbe occuparsene, un corpo elettorale accorto dovrebbe chiederne conto”, dice la filosofa del diritto Sofia Ciuffoletti, direttrice di Altro diritto e Garante dei diritti delle persone private di libertà personale del carcere del San Gimignano. Gli operatori e i volontari chiedono di allargare il diritto alle telefonate. “Dieci minuti a settimana di telefonate forse andavano bene nel 1975, ma oggi non bastano”, dice Antigone. Proprio la settimana scorsa il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha denunciato il grande assente della campagna elettorale. Il carcere, appunto. “Che il carcere non sia un tema da campagna elettorale non è certo una novità. E non solo perché porta pochi voti e scarsi consensi, ma anche perché richiede uno sguardo ampio e prospettico capace di superare la tendenza di gran parte dell’attuale dibattito politico a guardare solo all’immediato. E soprattutto perché il tema del carcere è diventato ormai un terreno di scontro ideologico, tra chi è letto come ansioso di portare tutti fuori e chi è visto come desideroso di buttare via la chiave per sempre. Il carcere è diventato il simbolo di una battaglia disancorata dalla realtà fattuale, che si combatte in termini di slogan. Una bandiera da sventolare in nome della ‘durezza’ o della ‘compassione’”. Il Garante nazionale invita i partiti a “un deciso cambio di rotta, liberando la riflessione dall’enfasi dello scontro ideologico e ragionando in termini di utilità e funzionalità, nel quadro delineato dalla nostra Costituzione. Soprattutto invita a inserire il tema nel contesto più ampio di come rispondere alle difficoltà del nostro ambito sociale e alle lacerazioni che in esso si sviluppano: se il diritto penale non è visto come strumento sussidiario insieme ad altri sistemi di regolazione sociale e se non riesce a costruire anche percorsi di positività, allora diventa inutile”. Articolo 27, appunto: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Cartabia: “Buona giustizia essenziale per pace e benessere sociale” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 5 settembre 2022 “Indipendenza, qualità ed efficienza del sistema giudiziario” così la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, durante il suo intervento alla 48^ edizione del Forum Ambrosetti, ha ricordato i tre criteri spesso evocati dal Commissario Didier Reynders, assieme a lei sul palco di Cernobbio, per l’incontro dal titolo ‘Lo stato di diritto nell’Unione europea”, moderato dal senatore a vita Mario Monti, presidente dell’Università Bocconi. Durante il suo intervento Marta Cartabia ha mostrato sullo schermo alcune immagini tratte dal ciclo di affreschi del Buon Governo, opera di Ambrogio Lorenzetti, conservati nel Comune di Siena, recentemente restaurati. L’allegoria del dipinto indica nella figura della Giustizia il punto di partenza di tutti i governi, e che una giustizia ‘bilanciata’ crea Concordia. Sulla parete opposta il Lorenzetti, invertendo completamente lo scenario, mostra ciò che accadrebbe in assenza di un buon governo: la Giustizia legata ai piedi della Tirannide: “Vorrei sottolineare con queste immagini… - ha spiegato Cartabia - che c’é un effetto diretto, immediato, conseguenziale tra lo stato di salute del sistema giustizia e lo stato di salute generale della nostra vita sociale”. La ‘spinta gentile’ dell’Unione europea è quella che la Ministra ha apprezzato e che ha determinato, assieme ad altri decisivi fattori, “il completamento delle milestones” che il governo Draghi si era prefissato per la riforma della giustizia: “Concluderemo tutti gli impegni che abbiamo con la giustizia, prima di lasciare questa esperienza di governo” ha confermato Cartabia. La Guardasigilli, nel ricordo dei “tantissimi che servono la giustizia” ha rivolto - nel 40° anniversario dall’attentato mafioso - un pensiero al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che il 3 settembre 1982 a Palermo, in via Carini, perse la vita assieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta, Domenico Russo. “Lungo l’elenco di tutti i provvedimenti che il governo Draghi ha assunto nel campo della giustizia” ha concluso la Ministra, confermando però che la “grande soddisfazione ha proprio a che vedere con il metodo adottato per una trasformazione così importante del settore della giustizia in Italia: intese condivise da tutti dopo decennali contrapposizioni”. La meraviglia di una campagna elettorale senza pm in carica candidati di Claudio Cerasa Il Foglio, 5 settembre 2022 C’entra la legge Cartabia. C’entra l’appannamento dell’immagine della magistratura per colpa di qualche pm ideologizzato, ma non solo. Non sarà che anche i partiti più giustizialisti stanno rottamando il giustizialismo? C’è una novità interessante nella campagna elettorale in corso ed è una novità che riguarda un’assenza sorprendente che si nota curiosando tra le liste dei partiti. Ci avrete fatto caso anche voi, forse, ma per la prima volta da molti anni a questa parte i leader politici che si candidano a guidare l’Italia hanno scelto di rinunciare a una prassi che sembrava ormai consolidata, scolpita nella roccia del codice moralistico del nostro paese: scommettere sui magistrati, alle elezioni, per mettere in risalto la castità delle proprie liste, la purezza delle proprie idee e la limpidezza dei propri programmi. Nel passato, l’Italia ha osservato e sopportato di tutto e nessun partito ha mai avuto particolare imbarazzo nell’alimentare uno spaventoso obbrobrio culturale definito in modo fin troppo neutrale con la famosa formula delle “porte girevoli”. C’è stato Antonio Di Pietro, ovviamente, che da magistrato ha tentato di moralizzare l’Italia con le sue manette dei valori, e insieme con lui, anche se a volte con profili diversi, ci sono stati altri casi, molto spesso a sinistra, di magistrati schierati con la doppia maglia. Da Gianrico Carofiglio a Felice Casson. Da Gerardo D’Ambrosio a Silvia Della Monica. Da Anna Finocchiaro ad Alberto Maritati. Da Stefano Dambruoso a Donatella Ferranti. Da Michele Emiliano a Luigi De Magistris. Da Pietro Grasso ad Antonio Ingroia fino a Franco Roberti. E anche a destra, spesso, storie simili, come dimostrano i casi di Alfredo Mantovano e Nitto Palma (e a livello comunale anche i casi di Catello Maresca, candidato dal centrodestra a Napoli, e Simonetta Matone, candidata dal centrodestra a Roma a fianco di Enrico Michetti). Storie diverse, profili diversi, garantismi diversi ma messaggi in fondo simili: una politica che vuole presentarsi agli elettori con un volto più puro non può rinunciare ad avere tra le proprie file i più puri tra i puri. Ovvero i magistrati. Questa volta, però, le cose sono andate in maniera diversa e la novità è questa: nelle liste elettorali non c’è un solo magistrato di ruolo. Nessuno. Ci sono alcuni ex, come Federico Cafiero De Raho (M5s), come Roberto Scarpinato (M5s), come Antonio Ingroia (candidato con Italia sovrana popolare), come Carlo Nordio (Fratelli d’Italia). Ma nessuno in carica (a parte Cosimo Ferri, candidato con Azione e Italia viva, magistrato formalmente ancora attivo ma fuori ruolo da anni). La conferma arriva anche dal Csm, che lo scorso 19 agosto, prima della presentazione ufficiale delle liste, ha organizzato una riunione per valutare eventuali autorizzazioni o nulla osta necessari per consentire ai magistrati di candidarsi e la sorpresa è stata questa: zeru casi. C’entra, in questa novità, l’immagine per così dire ammaccata della magistratura italiana, che a causa dell’attivismo giustizialista di alcuni pm ideologizzati e politicizzati vive una stagione di credibilità ridotta ai minimi termini. C’entra, in questa novità, la presenza di numerosi partiti, nel panorama politico italiano, che hanno sperimentato sulla propria pelle, in questi anni, cosa significhi alimentare un mostro chiamato circo mediatico-giudiziario e non è un caso se nessun partito abbia finora utilizzato la clava del giustizialismo per provare a conquistare voti: scommettere sulle manette dei valori, oggi, più che permetterti di conquistare voti promette di farteli perdere. C’è tutto questo ovviamente ma c’è anche altro e c’è da considerare anche l’effetto positivo prodotto da una legge approvata dal governo Draghi, su proposta del ministro Marta Cartabia, che ha scoraggiato non poco le candidature: la legge contro le porte girevoli della magistratura. Chi si candida, con le nuove regole, non può più rientrare in magistratura, e quella che il partito delle manette ha descritto a lungo come una legge liberticida in realtà altro non ha fatto che tutelare l’indipendenza e la terzietà della magistratura (più i magistrati di ruolo stanno lontani dalla politica e più l’indipendenza della magistratura sarà tutelata). Non basta naturalmente una legge sulle porte girevoli per evitare che la magistratura sia tentata dall’esercitare un potere di supplenza sulla politica ma la presenza di una campagna elettorale poco manettara, senza toghe nelle liste, dove persino i partiti più populisti tentano di travestirsi da garantisti è una notizia gustosa, che ci porta in modo forse irresponsabile a porci una domanda molto ottimistica: e se la novità più interessante di questa campagna elettorale fosse proprio la rottamazione del giustizialismo anche da parte dei partiti più giustizialisti? Esagerare con l’ottimismo è rischioso, lo sappiamo, ma se il giustizialismo, nella stagione in cui tutti i partiti si dichiarano antipopulisti, fosse improvvisamente diventato sinonimo di populismo, beh, ci sarebbero buone ragioni per osservare questa pazza campagna elettorale con uno sguardo diverso. E chissà, persino con un sorriso. Caos Giudice di pace, cambia il piano di udienze: avvocati in rivolta di Viviana Lanza Il Riformista, 5 settembre 2022 Caos Tribunali. La pausa feriale sta per terminare e l’attività giudiziaria sta per riprendere a pieno regime. Almeno dovrebbe. Le criticità, come al solito, non mancano. Una riguarda le udienze presso l’Ufficio del giudice di pace di Napoli. Un’altra la situazione dei Tribunali nelle isole. Due gocce in un oceano di problemi che il sistema giustizia deve affrontare. Partiamo dalle udienze dinanzi al giudice di pace. C’è stata una variazione nelle tabelle di udienze che rischia di creare malcontento tra avvocati e cancellieri. Il problema lo hanno sollevato gli avvocati Giacomo lacomino, Ilaria Imparato, Eugenio Pappa Monteforte, Sabrina Sifo, Carmine Foreste ed Immacolata Troianiello evidenziando, che “l’approvazione e la messa in esecuzione della variazione tabellare che prevede, presso l’Ufficio del giudice di pace di Napoli, lo svolgimento delle udienze nei giorni dal lunedì al venerdì crea enormi disagi sia alla classe forense sia ai cancellieri”. Agli avvocati perché il contemporaneo svolgimento di udienze presso altri uffici giudiziari, anche di diversi circondari, rende impossibile poter presenziare a tutti i procedimenti “e ciò, per di più, in un momento di grave congiuntura economica negativa che non consente una diversa organizzazione degli studi legali e quindi un allargamento dell’organico”. Ai cancellieri perché si prevedono difficoltà anche nella loro organizzazione dei tempi di lavoro trovandosi impegnati, senza soluzione di continuità, sia nell’attività di supporto ai giudici, sia nell’attività che comporta contatti con il pubblico. Di qui la richiesta di un’assemblea straordinaria del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Napoli per discutere di questa criticità e per affrontare il problema sezioni distaccate delle isole. Da tempo, infatti, si parla delle sorti di sezioni distaccate come quella di Ischia messe in bilico da una serie di disfunzioni, udienze rinviate, personale ridotto l’osso. La possibilità di chiudere queste sedi distaccate è sempre dietro l’angolo. Una soluzione che gli avvocati non vogliono, che metterebbe in affanno la giustizia più di quanto non lo sia già. Di qui l’appello alla politica degli avvocati napoletani “affinché vengano mantenute permanentemente le attuali sezioni distaccate dei Tribunali sulle isole di Ischia, Lipari ed Elba. La loro chiusura - si sottolinea - comporterebbe ulteriori disagi e metterebbe a rischio l’accessibilità al servizio giustizia dei cittadini di quelle comunità”. Calabria. L’unica regione a non aver eletto il Garante dei detenuti corrieredellacalabria.it, 5 settembre 2022 “La Calabria è l’unica regione d’Italia che ancora non ha eletto il Garante dei detenuti”. È quanto scrive in una nota il Psi di Cosenza a firma di Chiara Penna, Antonello Costanzo, Antonio Andrea Golluscio e Raffaele Fuorivia. “Sono mesi che anche l’osservatorio carcere pone la questione senza esito si legge nel comunicato - e in questi giorni è intervenuto addirittura il Garante della Regione Campania per evidenziare la triste anomalia. A fronte dei disordini avvenuti nel carcere di Vibo a seguito dell’ultima operazione della Dda di Catanzaro, è emerso in tutta la sua tragicità come i detenuti nelle carceri calabresi siano completamente dimenticati da chi guida la nostra regione”. “Il Garante regionale - prosegue la nota - è un figura indispensabile perché è un’Autorità di garanzia indipendente con il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà e non c’è scusa che tenga alla sua mancata nomina, visto che il mandato del dottor Siviglia si è concluso a novembre 2021, dunque un anno fa”. “Forse - incalzano quelli del Ps - le condizioni delle carceri non sono di interesse primario, o peggio ancora è argomento impopolare. Eppure tutela della legalità nel nostro territorio vuol dire anche (e soprattutto) rispetto delle norme che regolano il processo penale, della funzione delle parti processuali, della difesa, della presunzione di innocenza e del diritto di ogni detenuto di vivere in condizioni umane che gli consentano di essere reinserito”. “Senza contare - aggiunge la nota - che i nostri istituti accolgono centinaia di imputati in attesa di giudizio e che proprio l’ultima operazione ha colto le strutture impreparate, visto che si è arrivanti a stipare fino a 12 persone in una cella. Ci auguriamo, dunque, che non solo vengano immediatamente adottate tutte le misure volte a ristabilire la serenità nel carcere di Vibo Valentia, ma che soprattutto la Regione si decida a garantire ai detenuti un organo di garanzia, che si occupi delle loro problematiche quotidiane e si coordini in tal senso con il Garante Nazione e il Dap”. “Ricordiamo al presidente Occhiuto - conclude la nota che il grado di civiltà di un Paese si misura osservando le condizioni delle proprie carceri”. Bologna. Suicidio in carcere: la Procura indaga. I detenuti: abbiamo un solo medico di Luca Muleo Corriere di Bologna, 5 settembre 2022 I pm al lavoro per accertare se ci possono essere state eventuali responsabilità. “Una grave situazione sanitaria all’interno dell’istituto”. Dove “da diverso tempo, la normalità è un unico medico per tutto il carcere” invece dei cinque di prima. Lo denunciano i detenuti della Dozza, che la lettera, scritta dopo il suicidio di mercoledì scorso di un 53enne di origine serba con problemi psichiatrici, l’hanno inviata al sindaco Matteo Lepore, al magistrato di Sorveglianza e ai garanti comunale e regionale dei detenuti. “Quando qualcuno sta male - si legge ancora - l’unica cosa che viene data è un antidolorifico senza che sia visitato, e in alcuni casi sono state date medicine non idonee o con dosaggi sbagliati. Le visite ormai non ci sono più, se un detenuto sta male la risposta più frequente che gli viene data è che i medici non ci sono, il che provoca continue proteste e tensioni. L’unico medico presente interviene solo nei casi di autolesionismo e di ferite gravi, se non si vede sangue non si vede nessuno”. Quindi, concludono “il diritto alla salute dei detenuti non è garantito”, e dopo l’aggravamento portato dalla pandemia “non si vede nessun cambiamento. L’unica risposta che ci è stata data è “non dipende da noi”“. L’allarme sulle carenze - Un allarme, sulle carenze dei medici alla Dozza, condiviso dal garante di Bologna, Antonio Ianniello. “Le lamentele dei detenuti sono legittime - dice - prima del Covid c’erano più medici presenti quotidianamente nelle sezioni, ora vanno una o due volte a settimana”. E pur riconoscendo che “l’Ausl ha fatto molti sforzi” per coprire tutti i turni, sostiene che “la situazione deve essere costantemente monitorata e va fatto tutto il possibile per aumentare l’organico dei medici”. L’ultimo suicida era serbo d’origine ma in Italia da diversi anni. Aveva commesso piccoli reati, gli veniva contestato anche un tentativo di evasione per il quale era indagato. Comunque a fine anno sarebbe uscito. Invece ha scelto una via tragica ed estrema, togliendosi la vita nell’infermeria della Dozza, impiccandosi con i pantaloni della tuta. “Andava seguito in maniera costante - dice Roberto Petrosino, il legale che l’assisteva negli ultimi tempi - hanno ragione la Camera penale e il Garante dei detenuti quando sostengono si tratti di situazioni da monitorare in modo costante, e che ci vogliano più medici e sanitari. Non solo nelle strutture carcerarie ma anche in quelle dedicate a soggetti fragili, bisognosi di terapie, e che magari vedono uno specialista una volta al mese”. La Procura ha aperto un fascicolo per capire se si possano ravvisare responsabilità. Da valutare la collocazione, l’assistenza data e la gestione delle condizioni del 53enne. Su questa morte si erano espressi duramente i sindacati di polizia penitenziaria e ancora di più la Camera penale, che in una nota firmata dal presidente Roberto d’Errico, lamentando il disinteresse delle istituzioni sulla insostenibile situazione carceraria, ha annunciato esposti in Procura e al Ministero. Verranno depositati nella prossima settimana e con questi si chiederà di fare luce su quello che è accaduto. L’invito - Insieme all’invito indirizzato alla magistratura di Sorveglianza per verificare cosa accada all’interno degli istituti e per valutare la compatibilità della detenzione con le patologie di cui sono affette le persone ristrette. Il 53enne serbo era tornato in cella a inizio agosto, dopo la revoca di una misura alternativa. “L’avevo incontrato in carcere e mi era sembrato sereno, non me lo sarei aspettato” è di nuovo l’avvocato Petrosino. “Mi aveva detto che la preghiera lo aiutava molto, io l’avevo tranquillizzato dicendo che l’avrei seguito sul piano penale”. Qualcosa però in lui deve essere scattato. Era in cura da tempo e, aveva spiegato il garante, aveva mostrato “accentuate difficoltà di adattamento alla condizione di detenzione anche nel corso delle precedenti carcerazioni”. “La giustizia è un atto di guarigione”, ci dice il regista Santiago Mitre in concorso a Venezia di Giuseppe Fantasia Il Foglio, 5 settembre 2022 La storia dei procuratori che hanno indagato sul genocidio della argentina è al centro del documentario presentato al Festival del cinema. “Il paese è sotto choc per l’attentato a Kirchner. Pensavamo che da quello storico Nunca Mas non si tornasse più indietro”. Venezia. Realtà e finzione e una finzione che nasce e si basa proprio su quella realtà. Due giorni fa, un uomo è stato arrestato a Buenos Aires dopo aver puntato una pistola contro la vicepresidente Cristina Kirchner mentre scendeva dall’auto davanti alla sua casa, nel quartiere della Recoleta. La testimonianza è anche in un video, mandato in onda sulla principale tv argentina, in cui si vede la mano dell’aggressore che impugna la pistola e spara. “Kirchner è viva solo perché la pistola che aveva 5 proiettili in canna non ha sparato”, ha spiegato il presidente dell’Argentina, Alberto Fernandez, condannando l’atto come “l’evento più grave dal ritorno della democrazia nel paese”. A migliaia di chilometri di distanza, in un contesto completamente diverso come può essere la 79esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia tutt’ora in corso, l’attentato diventa tema del giorno perché qui è arrivato il regista Santiago Mitre con buona parte del cast del suo film - Argentina 1985, in concorso ufficiale - che ricostruisce gli eventi del processo alla giunta militare Argentina, primo e unico caso di processo da parte di un paese democratico contro un regime dittatoriale. “Quello accaduto a Kirchner - ci spiega - è un fatto terribile, non pensavamo minimamente che il nostro film potesse essere ancora di attualità. È stato un forte choc per tutti noi apprendere quello che è successo”. “L’Argentina è sotto choc e tutti noi lo siamo”, aggiunge. “Eravamo in aereo e l’abbiamo saputo quando siamo atterrati. Siamo a dir poco terrorizzati, credevamo che il processo del 1985 significasse chiudere con la violenza come possibilità politica. La violenza non può essere la soluzione per risolvere un conflitto politico. Pensavamo che da quello storico Nunca Mas non si tornasse più indietro”. Per capire: il film da lui diretto, è ispirato alla storia dei procuratori Julio Strassera e Luis Moreno Ocampo che nel 1985 indagarono i responsabili della fase più sanguinosa della dittatura militare. “Nunca Mas/Mai più, sono le parole con cui finiva l’arringa del pubblico ministero Strassera in quello storico primo processo di quell’anno a Jorge Rafael Videla e ai militari della feroce dittatura argentina. Nel film di Mitre - voluto da Amazon Studios come primo film ‘Original’ prodotto in Argentina - sono affidate a Ricardo Darin, l’attore che lo ha interpretato, in odor di Coppa Volpi. In quell’anno indimenticabile per l’Argentina, i procuratori Julio Strassera e Luis Moreno Ocampo (Peter Lanzani), indagarono su quello che poi fu definito un genocidio. Il dibattimento durò quasi quattro mesi con 833 testimoni oculari e sopravvissuti della rete di centri di detenzione e tortura clandestini a ricordare la sorte degli oltre 30mila desaparecidos. Tra le testimonianze, ce n’è una usata poi anche nel film, tra le più atroci. Una donna sta per partorire, ma viene rinchiusa in un’auto e incappucciata. Il bimbo nasce sui sedili, ma i militari lo prendono e non permettono alla madre di vederlo, cosa che potrà fare solo dopo aver pulito, senza vestiti, il pavimento di un edificio. “Rabbia e brividi”, commenta il regista che nel 2011 aveva osservato la democrazia, parlando della crisi del potere e l’abitudine a negoziare e ottenere consensi da parte dei politici nel suo film El Estudiante, senza dimenticare Il presidente, di qualche anno prima, in cui raccontava la storia del presidente argentino Hernán Blanco coinvolto in un caso di corruzione. “Ricordo ancora il giorno in cui Strassera formulò l’atto di accusa, il boato dell’aula del tribunale, l’emozione dei miei genitori, le strade finalmente in grado di festeggiare qualcosa che non fosse una partita di calcio, l’idea di giustizia come un atto di guarigione. Ne sono convinto oggi più che mai: la giustizia è un atto di guarigione”. “Il processo del 1985 - aggiunge - permise alla giustizia argentina di riconoscere e rivendicare un diritto a lungo negato e da parte mia, prima di iniziare a girare questo film, ho fatto molte ricerche che mi hanno fatto scoprire anche diversi aspetti sconosciuti della vicenda, come il retroterra dei procuratori, il giovane team senza esperienza, la regione ancora sotto la dittatura. Questa storia mi ha toccato profondamente, accendendo in me il desiderio di fare un film sulla giustizia e di approfondire le ricerche cinematografiche e politiche come non avevo mai fatto nei miei film precedenti”. Il film, accolto con ovazioni alla fine della proiezione riservata alla stampa, aveva ricevuto già gli elogi dal direttore Il critico Alberto Barbera ha definito lo sceneggiatore e regista quarantaduenne tra i “più interessanti del momento nel suo paese”, “autore di un film che andava fatto e che nessuno aveva ancora osato fare”. Un film necessario che Mitre ha girato negli stessi luoghi in cui si svolsero le vicende e con cui - come ci dice prima di salutarci - cerca di aiutare, ancora una volta, la propria generazione e non solo, a “tornare a credere”. Una sperimentazione collettiva nell’emergenza energetica di Mauro Magatti Corriere della Sera, 5 settembre 2022 Per affrontare la crisi dobbiamo partecipare attivamente alla realizzazione del valore condiviso che permette di rispondere prima e più in fretta alla sfida. Nel piano di risparmio energetico presentato dal ministro Cingolani si prevede la riduzione del riscaldamento di 2 ore al giorno e l’accorciamento di due settimane del periodo di accensione dei caloriferi. L’obiettivo è quello di risparmiare il 3% dei consumi energetici annuali. Una strada che molti pensano debba essere percorsa con ancora più decisione. Secondo l’Enea, con altri accorgimenti si potrebbe arrivare a un risparmio di 7 miliardi di metri cubi, un decimo del fabbisogno nazionale. Dunque, per gestire una situazione che rischia di causare gravi danni a imprese e famiglie, oltre ai necessari interventi dei governi, si richiedono comportamenti virtuosi per limitare i consumi energetici. Ma la domanda è: possiamo contarci? Lo avevamo già visto col Covid: esiste una stretta relazione tra la regolazione statale e la responsabilità individuale. Una relazione che nell’emergenza sanitaria (uso corretto della mascherina, osservanza della quarantena, rispetto del metro di distanza, adesione alla campagna vaccinale etc.) ha suscitato fortissime polemiche, sfociate poi nelle tensioni registrate con i no vax. Oggi di fronte al caro energia si ripete lo stesso copione: il programma del ministro sarà applicato ? Chi ne controllerà l’esecuzione? Quale sarà la partecipazione popolare? Il punto è tutt’altro che banale. Per gestire la complessità dei problemi della supersocietà, il cittadino - inteso come persona libera, intelligente e responsabile - è chiamato a dare il proprio contributo per affrontare questioni che nessuno - né lo Stato né il mercato - da solo è in grado di risolvere. Il problema è che questo passaggio è tutt’altro che automatico: nel corso del tempo l’idea che il cittadino possa essere chiamato a metterci del suo per risolvere i problemi collettivi si è persa per strada. Ridotto a consumatore, portatore di istanze sui diritti individuali e di bisogni di assistenza statale, il cittadino contemporaneo è per lo più un richiedente. E certo non si pensa come qualcuno a cui spetta una parte delle cose da fare. Nel raggiungere i necessari obiettivi di risparmio energetico, occorre non sottovalutare il cambio di indirizzo culturale che ciò richiede. Per andare in questa direzione - comunque difficile - occorrono almeno tre condizioni. La prima riguarda il piano della comunicazione. È necessario fornire indicazioni chiare e coerenti su quello che è utile fare per raggiungere gli obiettivi comuni. Nel breve e nel lungo termine. Nei giorni della pandemia non sempre questo è successo, e spesso sconcerto e confusione hanno prevalso. Sarebbe auspicabile evitare lo stesso errore nelle settimane che ci aspettano. È infatti molto importante chiarire bene quali sono le pratiche che possono realmente permettere di risparmiare energia e fare in modo che l’informazione arrivi a tutti. E al tempo stesso quali sono gli investimenti più opportuni per ridurre i consumi energetici e per favorire la diffusione delle comunità energetiche. La potenza degli strumenti di comunicazione di cui disponiamo dovrebbe rendere raggiungibile un tale obiettivo. La seconda condizione è di ordine politico. Il contributo individuale ha senso - e dunque si rafforza - se si colloca nel quadro di uno sforzo collettivo che viene verificato e misurato. Non basta indicare gli obiettivi da raggiungere insieme, occorre anche verificare che siano effettivamente perseguiti. Inoltre, prima di moltiplicare gli obblighi - strada che espone a tutta una serie di problemi - vale la pena pensare di introdurre delle premialità per chi aderisce alla campagna del risparmio energetico. Da questo punto di vista vanno benissimo i sussidi e gli aiuti ai più deboli. Ma a condizione che non si alimenti l’idea che alla fine il problema si risolva semplicemente scaricando i costi sulle spalle dello Stato. Infine, il contributo di ciascuno va iscritto in una cornice di giustizia. A muoversi nella direzione auspicata devono essere dunque prima di tutto le istituzioni pubbliche (la scuola, le amministrazioni statali e locali, etc), coloro che hanno responsabilità politiche o amministrative, i grandi soggetti economici. Come diceva don Milani, “non è giusto dividere in parti uguali tra disuguali”. Non va certo in questa direzione il fatto che la tassazione sugli extra profitti sia stata fino ad oggi così inefficace. Difficile che si accetti di fare sacrifici quando si vede che i più forti si rifiutano di fare la loro parte. Il difficile è dunque affrontare l’emergenza energetica in una prospettiva non solo “emergenziale”. Spesso ci si chiede quali possano essere i nuovi soggetti sociali in grado di sostenere le tante transizioni che il nostro tempo richiede. La figura del “cittadino contributore” è un pezzo della risposta: noi non siamo solo “contribuenti” quando paghiamo le tasse, ma siamo anche “contributori” quando partecipiamo attivamente alla realizzazione di quel valore condiviso (una volta di chiamava bene comune) che permette di rispondere prima e più in fretta alle sfide delle emergenze che ci troviamo a dover affrontare. Un contributo che va riconosciuto e valorizzato. La complessità dei problemi che abbiamo davanti esige la revisione della relazione individuo-collettività: prezzi di mercato e obblighi di legge - strumenti comunque indispensabili - sono insufficienti per risolvere le questioni della supersocietà. Siamo all’inizio di una nuova stagione di sperimentazione collettiva: dopo quella sanitaria, usiamo quella energetica per far emergere la figura del “cittadino contributore”, via per trasformare le difficoltà in occasione di innovazione e sviluppo. Se per il consenso si truccano anche i numeri dei migranti di Francesca Paci La Stampa, 5 settembre 2022 E poi a un certo punto, sincronizzata puntualmente col disagio economico, salta fuori l’invasione dei migranti. Salta fuori nella retorica securitaria dei partiti di centro-destra, ma torna anche, sempre più spesso, nel discorso degli altri, i progressisti, i teorici della società aperta, quelli che, più o meno loro malgrado, finiscono, per accodarsi alla narrativa mainstream. Succede così che in questi giorni di previsioni funeste per l’autunno in agguato due quotidiani illuminati come il francese “Le Monde” e lo spagnolo “El Pais” dedichino il titolo di apertura e le pagine a seguire alla quintessenza della paura sociale, “L’Europe face à un retour massif des migrants” e “La migración irregular a Europa crece al mayor ritmo desde 2016”. D’impatto, non c’è che dire, tanto le foto quanto la grafica dei flussi a tenaglia tra la Sicilia e Trieste. Peccato che, ancora una volta, i conti non tornino. Non tornavano neppure all’inizio di luglio, quando l’ancora in sella premier Mario Draghi confidava al “dittatore necessario” Recep Tayyip Erdogan come l’Italia, “paese aperto”, avesse raggiunto il limite dell’accoglienza. E oggi, al termine di quella bella stagione che tanto si presta all’attraversamento del Mediterraneo, tornano ancora meno. Dati ufficiali alla mano infatti, a quattro mesi dalla fine del 2022 risultano sbarcate sulle nostre coste 56.210 persone, meno di un terzo delle 181.436 del 2016 e la metà esatta rispetto al 2017. Poi certo, c’è in mezzo il 2019 di quota 11.471, ma, con buona pace dell’allora ministro dell’interno Matteo Salvini, quel risultato dipese assai più dalla tragica guerra in Libia e dall’impossibilità di fuggire via mare superando i mille check point dei miliziani che dai pur durissimi decreti sicurezza varati dal suo Viminale. Non c’è insomma “nessuna emergenza numerica”, come ripete il portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), Flavio Di Giacomo, rimarcando quanto “oltre l’80% dei migranti africani resti in Africa”. Non c’è in Europa, dove e per fortuna all’indomani dell’invasione russa sono stati accolti senza colpo ferire oltre 9 milioni di profughi ucraini, né tantomeno in Italia, dove esiste invece, concretissima, una grave emergenza umanitaria nell’hotspot di Lampedusa, angusto collo di bottiglia organizzativo che, nel Mediterraneo precluso ormai quasi del tutto al soccorso delle ong, ha assorbito finora il 40% degli sbarchi, al netto di 14.157 migranti intercettati in sei mesi dalla guardia costiera libica e riportati a terra. Eppure, con la guerra del gas a minacciare la tenuta dell’economia europea ma anche dei suoi valori fondanti, salta fuori, capro espiatori senza eguali, l’invasione dei migranti. La presunta invasione dei migranti. Salta fuori in Italia, dove i sondaggi di una campagna elettorale molto polarizzata gonfiano il vento in poppa alla destra, e salta fuori in Francia, in Spagna, in quelle democrazie del vecchio continente in cui la politica non riesce più a governare i processi sociali con ricette nazionali e cede alla retorica semplicistica dei populismi, lasciando loro l’iniziativa e riconoscendone di fatto la nuova egemonia culturale. C’è una sola vera teoria pseudo-matematica nell’intero corpus delle scienze sociologiche e si chiama “il teorema di Thomas”, dice che “se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse saranno reali nelle loro conseguenze”, dice cioè che la percezione di un pericolo produce conseguenze reali indipendentemente da quanto reale sia quel pericolo. Ecco perché l’invasione dei migranti salta fuori regolarmente allo scoccare di ogni crisi economica e all’approssimarsi di un voto. Una squadra butta la palla in tribuna e detta i tempi all’altra. Anche se i conti non tornano. L’istruzione negata di Francesca Mannocchi La Stampa, 5 settembre 2022 Dall’Africa subsahariana all’Asia per 250 milioni di bambini nel mondo non ci sarà alcun rientro in classe. Nell’Ucraina devastata dalla guerra rifugi anti-aerei solo in 4 istituti su 10 così si distrugge il futuro di generazioni. “Il mondo delude tutti i bambini che non riesce ad aiutare”. Così il 19 luglio scorso la direttrice esecutiva dell’Unicef Catherine Russel si è rivolta al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite intervenendo nel corso di un incontro sulla condizione dei minori che vivono nelle zone di conflitto. “Ogni bambino ha il diritto di essere protetto - in tempo di guerra e in tempo di pace. - ha concluso Russel -. L’adempimento di questo diritto non è un’opzione, è un dovere sacro, che riflette il nostro dovere più profondamente umano di salvaguardare la prossima generazione”. Il diritto all’istruzione è parte di questo dovere sacro e violato. È settembre, dovrebbe essere la stagione del rientro in classe per tutti, ma le disuguaglianze nell’accesso all’istruzione tengono fuori dalla scuola 250 milioni di bambini nel mondo, secondo i dati pubblicati recentemente dall’Unesco. La regione più colpita è l’Africa subsahariana, sono 98 milioni, lì, i bambini privati del diritto all’istruzione, l’unica regione in cui i numeri sono in costante aumento. La seconda area più colpita è l’Asia centrale con 85 milioni di bambini che non si sono mai seduti su un banco di scuola. Il primo settembre è stato il primo giorno di scuola dell’Ucraina dopo l’invasione, sono circa tremila le scuole ad avere riaperto ma nella gran parte del Paese il quadro rimane incerto, nelle zone trasformate in fronte di guerra i quartieri residenziali e le scuole continuano a essere colpite, e i bambini continuano a morire. La ministra dell’Istruzione di Kiev, Anna Novosad, attraversa il Paese per mappare i danni. I mesi di guerra, secondo le istituzioni di Kiev, hanno danneggiato 2.400 scuole, 269 delle quali andate completamente distrutte, ad oggi meno del 60% delle scuole è sicuro e idoneo alla riapertura. La ministra Novosad, il primo giorno di scuola, ha citato alcuni esempi di attacchi intenzionali: la città di Zhytomyr, dove l’esercito russo ha colpito solo una scuola, o Chernihiv, al confine con la Russia, dove i missili hanno danneggiato o distrutto ventisette delle trentaquattro scuole. O ancora il piccolo insediamento urbano di Katiuzhanka, alle porte di Kiev, dove l’esercito russo ha occupato la scuola, rimuovendo le immagini di personaggi storici ucraini come Taras Shevchenko e sostituendole con le immagini di Lenin e il distretto di Brovariy, un piccolo villaggio con 500 bambini vicino Kiev, dove l’esercito russo ha bruciato l’unico asilo e l’unica scuola. Ad agosto il governo ucraino ha stabilito che per ora possono tornare a fare lezione solo gli istituti dotati di un rifugio antiaereo ma il ministero dell’Interno ha rilevato che solo il 41% dispone dei rifugi antiaerei o delle strutture protettive necessarie per garantire il rientro in aula. Per costruirli (o ricostruirli) spesso mancano i soldi, perché al momento, secondo la legge marziale in vigore in Ucraina da marzo, i fondi dei governi locali devono prioritariamente essere destinati alle esigenze militari. Ad essere colpiti saranno principalmente i bambini che vivono nelle zone di confine con la Russia e la Bielorussia ancora troppo esposte al pericolo di essere colpite. Se un missile parte dalla Bielorussia atterra in tre, quattro minuti. Perciò, per non colpire chi è scappato via, i cancelli delle scuole continueranno a essere chiusi. I bambini ucraini che stanno tornando a scuola non sanno se ad aspettarli ci saranno tutti i compagni di un tempo - sono quasi mille i bambini confermati feriti o uccisi durante il conflitto, secondo i dati di Unicef - o quanti dei loro amici siano stati costretti alla fuga - due terzi dei minori ucraini hanno lasciato la loro casa in fuga dai combattimenti. Ecco perché il ministero dell’Istruzione di Kiev sta cercando fondi per la ricostruzione degli edifici e la costruzione dei bunker, perché sa che più scuole vengono riaperte, più persone saranno motivate a tornare a casa. L’Ucraina non è, naturalmente, un caso isolato. L’istruzione è sotto attacco in tutto il mondo e gli atti violenti, gli attacchi contro strutture scolastiche, alunni e insegnanti è in costante aumento. Nel biennio 2020-2021, secondo i dati della Global Coalition to Protect Education from Attack, ogni giorno nel mondo si è verificata una media di sei attacchi a infrastrutture scolastiche, in tutto cinquemila attacchi diretti o scuole e università che hanno ferito o ucciso oltre nove mila tra studenti e insegnanti. Non ci sono solo le scuole distrutte nelle statistiche, ci sono anche quelle usate come basi militari, aule diventate caserme e campi di addestramento. Per contrastare la violazione degli edifici scolastici e proteggere il diritto allo studio, nel 2015, a Oslo, era stata inaugurata la Safe Schools Declaration, la Dichiarazione sulle scuole sicure, un impegno politico intergovernativo per proteggere studenti, insegnanti, scuole e università durante i conflitti armati, a sostenere il proseguimento dell’istruzione durante la guerra e a adottare misure concrete per scoraggiare l’uso militare delle scuole. A oggi, 111 Stati hanno approvato la Dichiarazione. L’Ucraina l’ha firmata nel 2019, la Russia non l’ha mai approvata. “I russi sanno cosa stanno facendo. Stanno deliberatamente prendendo di mira le scuole”, ha affermato la ministra Novosad il 1° settembre, il primo giorno di scuola “colpiscono le scuole non perché il nostro esercito possa usarle come base per difenderci, ma perché capiscono quanto sia cruciale per il futuro. Anche distruggere le nostre infrastrutture scolastiche è parte della strategia, russa parte della loro ideologia”, ha detto Novosad. A confermare questa tesi le notizie che arrivano dai territori occupati, secondo le autorità ucraine i russi hanno già modificato i programmi scolastici, sostituito i libri di testo e costretto gli insegnanti a collaborare e i genitori a far frequentare le scuole ai figli per non essere multati. Attaccare le scuole significa colpire non solo il presente ma il futuro, la capacità di ricostruzione di un Paese e di una comunità. È una delle sfide più grandi dell’Ucraina oggi che, con una guerra ancora in corso, deve fare già i conti con le sue conseguenze e gli effetti a lungo termine. Riparare, ricostruire gli istituti richiederà tempo e risorse, significherà razionare i mezzi, dividere gli spazi, diminuire le lezioni e dunque l’apprendimento. Significherà cioè infragilire un’intera generazione, privandola degli strumenti necessari a emanciparla dalla violenza che a oggi è costretta a vivere. Nelle aree colpite dai conflitti i bambini hanno il doppio delle probabilità di lasciare la scuola, rispetto agli altri, lo sanno le organizzazioni umanitarie e le Agenzie delle Nazioni Unite che continuano a gridarlo, spesso inascoltate. L’istruzione era e resta cronicamente sottofinanziata nella risposta umanitaria. Distruggere le scuole non equivale solo a sconvolgere il processo di apprendimento ma mina la ricostruzione post-bellica, mina il tessuto sociale e quello economico. I bambini senza scuole, senza libri, sono adulti del futuro senza competenze per contribuire alla ricostruzione del Paese, e sono soprattutto bambini e bambine che possono diventare oggi bersaglio di abusi e sfruttamento, e domani terreno fertile di propaganda e dunque di reclutamento. Esposti al consenso facile per gruppi estremisti. Ecco perché ricostruire la scuola è un passaggio fondamentale per interrompere il ciclo della violenza. Perché mentre l’istruzione può salvare la vita, tutelando il futuro, l’ignoranza è un moltiplicatore d’odio. Lo sa bene chi attacca, lo subisce chi è invaso. Carri armati sulla Luna di Claudio Cerasa Il Foglio, 5 settembre 2022 Non solo Artemis. A Londra si discute di militarizzazione dello spazio. Secondo tentativo. Dopo il problema al motore della scorsa settimana che aveva costretto a un rinvio, la Nasa ci riprova: potrebbe partire oggi la missione Artemis, cioè il ritorno sulla Luna dell’America e delle agenzie spaziali alleate, dal Canada all’Esa europea. La nuova Corsa allo spazio, la competizione tra la coalizione occidentale e quella delle autocrazie, Cina e Russia, non è partita benissimo e per le stesse ragioni di qualche decennio fa: mentre Pechino e Mosca evitano di pubblicizzare gli impedimenti, i passi falsi o gli errori, a Washington è tutto il contrario. Dal punto di vista scientifico potrebbe perfino essere trascurabile: “Hai il razzo che hai progettato, e poi hai il razzo che hai effettivamente costruito. E serve un po’ di tempo per capire come funziona davvero il secondo”, ha scritto su Twitter dopo il primo rinvio della missione Artemis l’astrofisico Jonathan McDowell. Il problema è più che altro politico: fare le cose in fretta per arrivare primi aumenta il rischio di missioni fallimentari, che potrebbero essere un danno d’immagine per la Difesa, non solo americana ma internazionale. Non è un caso se il giorno prima del nuovo tentativo di lancio il governo di Londra ha reso pubblico un documento sulla “dottrina militare del Regno Unito nello spazio”. Una nuova dottrina militare a cui si ispira per le sue politiche spaziali e il messaggio di fondo è essenzialmente uno: lo spazio è di dominio globale e le attività spaziali militari, civili e commerciali sono interconnesse. Per questo di fondamentale importanza è la capacità di creare alleanze, rafforzare quella già in essere con l’America, e trovare nuovi strumenti per mettere in sicurezza i propri progressi tecnologici. Nel documento si citano chiaramente tutte le possibilità di uso dello spazio in modo aggressivo - dal “controllo” coercitivo all’attacco nucleare - e le potenziali risposte della Difesa spaziale inglese. Al di là di Artemis, si sta formando di fatto un’altra dimensione della guerra, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che ci avvicina sempre di più a una militarizzazione dello spazio. Stati Uniti. Mezzo dollaro per ogni ora di lavoro: i nuovi schiavi sono i detenuti di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni L’Espresso, 5 settembre 2022 Occupazione obbligatoria, punizioni per chi si sottrae. E una paga da fame. Mentre i penitenziari si auto-sostengono e macinano profitti, i reclusi reclamano il diritto a un salario e le famiglie si indebitano per sostenerli. Ore di fatica e solo un mucchio di monetine a fine giornata. Per il lavoro che svolgono dentro e fuori le carceri, i detenuti americani guadagnano spiccioli, nonostante producano miliardi di dollari in beni e servizi. E spiccioli non è un eufemismo: la media va dai 13 ai 52 centesimi all’ora. Meno di cinque dollari al giorno. Alcuni Stati - Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Mississippi, Carolina del Sud, Texas - addirittura non prevedono retribuzione per i reclusi. Sono gli schiavi dell’era contemporanea, denunciano gli attivisti che da tempo si battono per una riforma del sistema. “Gli Stati Uniti spesso puntano il dito contro le condizioni di lavoro in altri Paesi, come la Cina, ad esempio, senza tener conto di quello che succede nelle prigioni di casa nostra”, dice Jennifer Turner, autrice di uno studio recente, per conto dell’Aclu (American civil liberties union), che ricostruisce la realtà dello “sfruttamento dei lavoratori incarcerati”. Nulla di illegale. Nonostante la schiavitù sia stata abolita centocinquantasette anni fa, il tredicesimo emendamento della Costituzione - che nel 1865 sancì la fine della pratica - prevede un’eccezione per chi sia dietro le sbarre a scontare un crimine. “Noi ci battiamo perché i carcerati vengano trattati come lavoratori a tutti gli effetti. Chiediamo che il lavoro sia volontario, con lo stesso salario minimo di chi è libero (in Usa, a livello federale è di 7,25 dollari all’ora, ndr) e le stesse garanzie di sicurezza. È una questione di dignità, non di colpa”, continua Turner. La paga, irrisoria, è stagnante da oltre vent’anni. “Detratte le spese legali, con i pochi soldi che restano, i detenuti devono comprare beni di prima necessità come carta igienica, sapone o cibo da integrare a quelli insufficienti passati dalle istituzioni”, spiega Jacalyn Goldzweig, attivista della Legal aid society di New York, l’organizzazione più antica degli Usa che fornisce servizio legale gratuito. “Questi beni vengono venduti a prezzo di mercato o spesso maggiorato. Una famiglia su tre si indebita per aiutare il parente in cella”, continua. I detenuti lavorano praticamente gratis, ma producono, secondo Aclu, 11 miliardi di dollari: due riguardano la produzione di beni, gli altri nove i servizi di manutenzione delle carceri. In una popolazione di circa 1,2 milioni di persone dietro le sbarre delle prigioni statali e federali, 800mila hanno un impiego. L’80 per cento si occupa delle strutture: pulizie, bucato, ma anche cucinare, smistare la posta, aggiustare le tubature o ristrutturare parti dell’edificio. Tanti altri, però, lavorano anche all’esterno; sono impegnati come vigili del fuoco a spegnere gli incendi in California, ad esempio, o a ripulire le strade dopo il passaggio di un uragano, come successo in Florida. Molti lavorano negli stabilimenti che producono le targhe delle macchine o le sedie e i banchi usati dagli studenti in aula. Le attività non sono state sospese nemmeno durante la pandemia. I reclusi lavavano la biancheria degli ospedali, operavano nelle camere mortuarie, producevano mascherine e igienizzanti. “Noi però non potevamo usarli”, ricorda Wilfredo Laracuente, originario di New York. È uscito dal carcere il 19 luglio 2021, dopo esserci entrato 20 anni fa, quando aveva 25 anni, con una condanna per omicidio e spaccio di droga. “Per otto mesi, non ci è stato permesso di indossare la mascherina per ragioni di sicurezza, ma intanto noi rischiavamo la vita”. Oggi, fa parte di 13th Forward, una coalizione impegnata per promuovere la fine del lavoro forzato nelle prigioni. “Inizialmente, ero stato assegnato a Corcraft (le industrie statali presenti in quasi tutti i penitenziari del Paese, ndr). Imbottivamo sedie; non ho mai avuto una protezione, inalavo le esalazioni dei liquidi chimici, non c’era ventilazione adeguata. Tutto veniva venduto a prezzo pieno, mentre io guadagnavo 15 centesimi all’ora. Era il 2002. Dopo sette anni, sono riuscito a raggiungere 45 centesimi. Il loro profitto era immenso, noi invece non riuscivamo a comprare neanche uno snack. Pagavo 33 centesimi per poter inviare un’email”. Dopo la fabbrica, un periodo come assistente amministrativo per un’organizzazione non governativa, mentre studiava per laurearsi. “Guadagnavo 28 dollari al mese per un lavoro che a una persona libera ne avrebbe fruttati 40mila all’anno”. Esperienza simile, quella di Kathy Heinzel, originaria del Minnesota e arrestata dopo un tragico incidente automobilistico in California per guida in stato di ebbrezza e omicidio colposo: “Ho scontato la pena nel 2020, dopo cinque anni e mezzo dietro le sbarre. Nel periodo finale, ero nel corpo dei vigili del fuoco. L’addestramento non era sufficiente, rischiavamo la vita per un dollaro all’ora e qualche sconto di pena. Impossibile mettere da parte risparmi per il dopo carcere, dove ti aspetta lo stigma. Nonostante la mia esperienza, ho trovato lavoro solo nei magazzini di Amazon. È durata poco, avevo 61 anni e non reggevo. Per fortuna mi ha assunta un amico come segretaria”. Molti, però, non ce la fanno e spesso rientrano nella spirale del crimine. Non servono statistiche per capire che con qualche dollaro in più sul conto, potrebbe essere più facile comprare un po’ di tempo per provare a reintegrarsi nella società. “Durante le ricerche per l’Aclu, mi ha scioccato vedere quanto le amministrazioni pubbliche si affidino ai detenuti per svolgere lavori vitali. Vengono generati miliardi, gli Stati e il sistema dei penitenziari sono i primi beneficiari. Potrebbero assolutamente permettersi una paga dignitosa”, riprende Jennifer Turner. “Loro guadagnano, noi viviamo da indigenti”, sintetizza polemico Martin Garcia, ex recluso e oggi membro del Marshall project, organizzazione giornalistica no-profit che si occupa del sistema di giustizia penale: “Anche per le famiglie è difficile. Prima dell’arresto per aggressione di primo grado, ero quello che portava i soldi a casa. Da quel momento sono diventato una spesa. Molti penitenziari prevedono solo due pasti, alle nove e alle cinque. Spesso non basta e hai bisogno di acquistare altro cibo e tutto costa caro. Per un periodo sono stato costretto a comprare l’acqua, perché per via di un batterio, si ammalava chiunque bevesse quella del rubinetto. Lavoravo per un po’ d’acqua”, ricorda commosso. Garcia porta alla luce un altro problema fondamentale delle carceri americane, quello del lavoro forzato. “Si agisce sotto minaccia di punizione. Ero assistente insegnante, c’erano giorni in cui proprio non riuscivo ad alzarmi dalla branda. Avevo due figli piccoli a casa, capitava che mi assalisse la tristezza. Se salti il turno, a meno di gravi problemi di salute, ti mandano in isolamento. Perdi tutti i privilegi: non puoi chiamare i tuoi cari, ricevere posta, fare la spesa”. In Italia il lavoro dei detenuti non è obbligatorio; quei pochi che riescono a svolgerne uno, sono remunerati, hanno diritto a malattia retribuita e a contributi pensionistici. In Usa, non solo è obbligatorio lavorare, non puoi neanche scegliere la mansione. E non si tratta di essere schizzinosi. “Quando ti assegnano i compiti non badano alla costituzione fisica, all’età”, racconta Jane Dorotik, arrestata ingiustamente in California e scagionata dopo 20 anni grazie all’impegno dell’associazione Loyola law school project for the innocent: “Ho visto una donna ramazzare in carrozzella. Se stai male e lo comunichi, capita che ti rispondano dopo 48 ore”. Jane Dorotik era assegnata al giardinaggio, tra i lavori meno pagati. Colorado, Utah, Nebraska sono stati i primi ad abolire il lavoro forzato. “Hanno cambiato la loro Costituzione. Stiamo vivendo una presa di coscienza generale”, sostiene ancora Jacalyn Goldzweig della Legal aid society: “Alle prossime elezioni di metà mandato, anche in Oregon, Vermont, Alabama e Tennessee, gli elettori saranno chiamati a decidere se abolire questa pratica”. Alla moderna schiavitù è intrecciato il filo rosso del razzismo. Gli Stati Uniti sono il Paese con il numero più alto di detenuti al mondo. Gli afroamericani hanno un tasso di incarcerazione cinque volte più alto dei bianchi nelle prigioni statali. In dodici Stati, costituiscono più della metà, nonostante non raggiungano il 13 per cento della popolazione nazionale. “In Arkansas, a un afroamericano era stata assegnata la raccolta del cotone in una piantagione in cui un tempo lavoravano gli schiavi”, ricorda ancora l’autrice dello studio, Jennifer Turner: “Si è rifiutato, avrebbe fatto qualsiasi altra cosa. Invece, ogni anno, durante la raccolta viene mandato in isolamento. È un esempio del perché ci battiamo per la fine del lavoro obbligatorio”. Cassare la schiavitù per la seconda volta è possibile, sperano i militanti abolizionisti. “Basterebbe che il Congresso si decidesse ad agire”, dice determinata Lisa Zucker, che segue gli aspetti legali della New York civil liberties union. “Questo tema è molto difficile da sostenere per due ragioni: i detenuti sono invisibili, non sono una priorità. Inoltre, viviamo in un’epoca in cui si avverte l’incremento della delinquenza e per questo è politicamente pericoloso difendere le istanze dei carcerati. Ma i crimini che una persona ha commesso, non c’entrano: c’è già una punizione. Si tratta della dignità dell’essere umano. Abbiamo bisogno di legislatori coraggiosi, capaci di chiedere a voce alta come sia possibile vivere in un Paese che si definisce la terra della libertà, mentre permette ancora che esistano persone in schiavitù”. Nuove leggi, arresti, condanne: la Russia contro il dissenso interno di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 settembre 2022 Mentre prosegue la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina, la Russia è impegnata anche in un “conflitto interno” con coloro che criticano la guerra e i crimini commessi dalle forze russe in Ucraina. Dal 24 febbraio 2022 decine di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare pacificamente contro l’invasione dell’Ucraina e moltissime hanno preso la parola sui social media. La risposta delle autorità russe è stata spietata: oltre 16.000 manifestanti sono stati arrestati per violazione delle draconiane norme sui raduni pubblici; i pochi organi d’informazione indipendenti ancora aperti sono stati ridotti al silenzio; ulteriori organizzazioni non governative sono state etichettate come “indesiderabili” o “agenti stranieri” e lo stesso ufficio di Amnesty International a Mosca è stato chiuso. A questi primi provvedimenti è seguita l’adozione di nuove norme repressive. A marzo, ad esempio, è entrato in vigore l’articolo 207.3 del codice penale: nella sua prima formulazione puniva la “diffusione di informazioni consapevolmente false sull’uso delle Forze armate”, nella seconda è stato aggiunto “ogni altro organismo statale russo agente all’estero”. Oltre 200 persone - studenti, avvocati, artisti, politici e altri ancora - rischiano condanne da cinque a dieci anni (in alcuni casi, anche a 15) solo per aver esercitato il loro diritto alla libertà d’espressione: 80 di esse solo per violazione del suddetto articolo. Amnesty International ha raccolto le storie di dieci persone finite in carcere per essersi opposte alla guerra in Ucraina. Aleksey Gorinov, avvocato, esponente del movimento di opposizione “Solidarietà” e consigliere del municipio di Krasnoselsky, a Mosca. È stato arrestato il 26 aprile per aver dichiarato, nel corso del consiglio municipale del 15 marzo, che il conflitto era un atto di aggressione e una guerra che causava ogni giorno la morte di bambini. L’8 luglio è stato condannato a sette anni di carcere. Ilya Yashin, attivista politico e noto YouTuber, a sua volta esponente del movimento di opposizione “Solidarietà” e consigliere del municipio di Krasnoselsky. È stato arrestato il 27 giugno per aver denunciato la disinformazione del Cremlino sui crimini commessi dalle forze russe a Bucha. È tuttora in detenzione preventiva. Marina Ovsyannikova, ex impiegata della tv di stato Canale 1, diventata famosa per aver interrotto il telegiornale della sera del 14 marzo esibendo un cartello contro la guerra. Dopo aver perso il lavoro e aver trascorso un periodo di tempo in Germania, è tornata in Russia. Il 15 luglio ha svolto una protesta solitaria nei pressi del Cremlino sollevando un cartello in cui c’era scritto che Vladimir Putin era un assassino e che in Ucraina erano stati uccisi, fino ad allora, 352 bambini. È stata arrestata il 10 agosto e il giorno dopo è stata posta agli arresti domiciliari, dove rimane tuttora. Viktoria Petrova, dirigente d’azienda di San Pietroburgo. Dal 24 febbraio ha iniziato a postare sul suo account Vkontakte video sulla guerra provenienti da più fonti, invitando gli utenti a non credere alla versione ufficiale e a protestare contro la guerra. Arrestata due volte mentre stava partecipando a proteste pacifiche, ha trascorso dieci giorni in detenzione amministrativa per poi essere definitivamente arrestata il 6 maggio. Da allora è in detenzione preventiva. Maria Ponomarenko, giornalista del portale RusNews, arrestata il 24 aprile a San Pietroburgo per aver dato conto del bombardamento russo contro il Teatro d’arte drammatica di Mariupol. In seguito, è stata trasferita nella città di Barnaul, dove ha trascorso alcune settimane in un ospedale psichiatrico. Ha denunciato che le sono stati somministrati, contro la sua volontà, farmaci sconosciuti. Si trova tuttora in detenzione preventiva. Dmitry Ivanov, studente di Scienze informatiche ed esponente del Gruppo d’iniziativa dell’università di Mosca, un movimento di studenti per i diritti umani. Per aver diffuso sul canale Telegram del movimento appelli in favore delle proteste pacifiche - già di per sé un reato - è stato arrestato tre volte, l’ultima delle quali il 2 giugno ma questa volta per violazione dell’articolo 207.3. Si trova in detenzione preventiva in attesa dell’inizio del processo, previsto il 21 settembre. Ioann Kurmoyarov, prete della chiesa ortodossa russa, scomunicato il 1° aprile e poi arrestato il 7 giugno per aver denunciato l’aggressione russa dell’Ucraina sul suo canale YouTube e sul suo profilo Vkontakte. È in detenzione preventiva. Aleksandra Skochilenko, artista di San Pietroburgo, arrestata l’11 aprile dopo che era entrata nei supermercati della città sostituendo i cartellini dei prezzi con informazioni sulla guerra in Ucraina. Da allora è in detenzione preventiva e, nonostante sia celiaca, le viene negata una dieta priva di glutine. A giugno è stata trasferita in un ospedale psichiatrico per una valutazione delle sue condizioni di salute mentale. Vladimir Kara-Murza, attivista e giornalista noto per il sostegno alla “Lista Magnitsky” (un elenco di cittadini russi sottoposti a sanzioni per aver violato i diritti umani). È sopravvissuto a due tentativi di avvelenamento, mai indagati. È stato arrestato il 12 aprile, di ritorno dagli Usa dopo un suo intervento alla Camera dei deputati dell’Arizona in cui aveva condannato l’uso delle bombe a grappolo da parte delle forze russe e i loro attacchi contro scuole e ospedali. Da allora è in detenzione preventiva. Dmitry Talantov, avvocato e presidente dell’Ordine degli avvocati della Repubblica di Odmurtia. È stato arrestato il 28 giugno per aver criticato su Facebook l’invasione dell’Ucraina. È stato posto in detenzione preventiva. Per molte notti è stato privato di un letto ed è stato costretto a dormire su un tavolo. Amnesty International chiede la liberazione immediata e incondizionata di questi prigionieri di coscienza: l’abrogazione dell’articolo 207.3 del codice penale e di tutte le altre norme che limitano indebitamente il diritto alla libertà di espressione, tra le quali quelle che puniscono gli “appelli ad adottare sanzioni”, il “discredito nei confronti di organi dello stato”, le “offese ai sentimenti religiosi” e la “partecipazione ad attività di un’organizzazione indesiderabile”, in modo che chiunque possa esprimere liberamente le sue opinioni sulla guerra in Ucraina; la fine dei procedimenti giudiziari in corso per tali reati; e, infine, la cessazione dell’uso punitivo della psichiatria e dei trattamenti psichiatrici senza consenso. La Russia imbavaglia la stampa: revocata la licenza a Novaya Gazeta Il Dubbio, 5 settembre 2022 Il giornale, diretto dal Premio Nobel per la pace, Dmitry Muratov, aveva comunque sospeso le pubblicazioni da marzo, denunciando pressioni delle autorità russe circa le critiche espresse contro la guerra in Ucraina. Una Corte a Mosca ha revocato la licenza di pubblicazione per il giornale indipendente Novaya Gazeta, diretto dal Premio Nobel per la pace Dmitry Muratov. Lo riferisce l’agenzia Ria Novosti. La decisione è stata presa su richiesta dell’ente statale per il controllo sui media, Roscomnadzor. Novaya Gazeta aveva comunque sospeso le pubblicazioni per decisione autonoma fin da marzo denunciando pressioni delle autorità per la sua posizione critica contro la cosiddetta operazione militare speciale in Ucraina. Una decisione, quella della Corte russa, che non lascia indifferenti, visto che si tratta di un bavaglio alla stampa, che non si è piegata al regime di Vladimir Putin. Il Cile boccia il referendum sulla Costituzione: rimane vigente il testo di Pinochet Il Dubbio, 5 settembre 2022 Il Servizio elettorale (Servel) cileno ha confermato che sulla base dello scrutinio dei voti del 88,8% dei seggi, il no ha raccolto 6.944.426 suffragi (62,00%), mentre il sì si è fermato a quota 4.256.165 (38,00%). La bozza di Costituzione messa a punto in Cile in un anno di lavoro da una Assemblea costituente formata da 155 membri, e segnalata dagli analisti come “la più avanzata del mondo”, ha ricevuto una sonora bocciatura nel referendum a cui ha partecipato, essendo il voto obbligatorio, una gran parte dei 15 milioni di aventi diritto. Il Servizio elettorale (Servel) cileno, infatti, ha confermato che sulla base dello scrutinio dei voti del 88,8% dei seggi, il no (rechazo) per la bozza di nuova Costituzione ha raccolto 6.944.426 suffragi (62,00%), mentre il sì (apruebo) si è fermato a quota 4.256.165 (38,00%). I sondaggi di alcune settimane fa avevano già fatto suonare un campanello d’allarme, prospettando una più che probabile vittoria del fronte del no di centro-destra. Ma la realtà delle cifre ufficiali ha superato ogni possibile previsione. Il risultato, oltre le più rosee previsioni, è stato celebrato dal Comitato del no come un “gesto di saggezza da parte ei cileni” e come “una sonora lezione per l’ala più radicale di sinistra e comunista” che ha sostenuto la nuova Costituzione. Poco dopo la chiusura dei seggi, e quando ancora non erano stati diffusi risultati, il presidente Gabriel Boric, disponendo sicuramente di anticipazioni sul risultato avverso, ha inviato una lettera ai leader di tutti i partiti cileni, convocandoli per il pomeriggio di oggi alla Moneda. Il capo dello Stato aveva ripetutamente dichiarato in passato che il suo programma di riforme sociali ed economiche era “perfettamente compatibile” anche con l’attuale Costituzione. Se avesse vinto l’opzione apruebo, la nuova Costituzione sarebbe entrata in vigore nel giro di dieci-15 giorni, mentre ora l’unica certezza è che è il testo concepito durante la dittatura di Augusto Pinochet nel 1980, e più volte emendato, a restare vigente.