59 suicidi, l’allarme inascoltato dell’estate tragica di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 4 settembre 2022 “Hanno tolto il disturbo 57 detenuti, 57 persone, tutti principini e onesti italiani, hanno tolto il disturbo… finalmente una buona notizia… porca mad... dal Friuli che non è Italia”. Questo è il contenuto di una mail che abbiamo ricevuto qualche giorno fa, a commento del nostro racconto di una tragica estate carceraria italiana. Il bestemmiatore (per rispetto nei confronti di chi si potrebbe sentire offeso ho tagliato la sua espressione) è felice per i 57 detenuti morti. Forse lo sarebbe ancora di più oggi visto che il numero delle persone che si è tolta la vita in galera è salito a 59. Un numero mai così alto negli ultimi decenni, segno di una disperazione che da individuale è diventata collettiva. Nel solo mese di agosto ogni due giorni si è suicidata una persona in carcere. Una percentuale che, se proiettata nella società libera, farebbe tremare i polsi, facendo pensare a forme prossime al suicidio di massa. Non è facile dare una spiegazione unitaria a gesti compiuti nella solitudine individuale. Sarebbe quasi irriguardoso delle loro vite, purtroppo oramai spente. Possiamo solo dire che quella disperazione individuale non è stata intercettata al punto da evitare che il suicidio fosse portato a compimento. Il signore friulano che, nel nome degli italiani onesti, gioisce di fronte all’altrui morte dovrebbe sapere che il suo odio verso i detenuti non migliora la qualità della sua vita, che la sua violenza verbale non è meno grave e offensiva del furto di 180 euro o di una pecora che avevano portato in prigione due delle persone che hanno deciso di farla finita. La sua gioia è lo specchio di una parte di Italia incattivita, senz’anima, indifferente al dolore e alle pene altrui, che è stata alimentata a pane e odio da opinionisti social e politici. Alla sua gioia si contrappone il dolore infinito di mamme, fratelli, compagne, figli, amiche, conoscenti lasciati soli nel gestire le scarne notizie sul suicidio della persona loro cara. Nel nome di questa sofferenza, e per rispondere alla gioia del bestemmiatore dal Friuli, tutti dovrebbero dire una parola di rispetto per chi è in carcere e di gratitudine per chi lavora negli istituti penitenziari per assicurare dignità e speranze di riscatto. Siamo alla fine della legislatura e non ha più senso chiedere l’adozione di provvedimenti che avrebbero dovuto essere assunti negli scorsi mesi. Ha senso, però, chiedere a tutti coloro che sono coinvolti da protagonisti nella campagna elettorale di impegnarsi per dare un senso alla pena, per renderla meno afflittiva, per ridurre la pressione data del sovraffollamento che riduce gli esseri umani da persone a numeri di matricola. Non denunciamo il gaudente signore friulano perché contro il suo odio vorremmo una reazione culturale, sociale, politica e non meramente giudiziaria. Usiamo la sua cattiveria affinchè lui e tutti gli odiatori, alimentati da retoriche populiste, siano sommersi da prese di posizione, parole, gesti che vadano nella direzione opposta. Affido le conclusioni di questo articolo a Cosimo Rega, ex ergastolano, attore, poeta, che ci ha lasciato qualche giorno fa, a pochi giorni dalla libertà conquistata: “Quando ho chiesto la mano ho trovato la disponibilità di alcune persone. Il percorso è stato difficile, come direbbe Dante”. Lui ce l’ha fatta a riscattarsi, a concludere la sua esistenza da uomo di teatro. Non tutti trovano la stessa disponibilità, non tutti hanno una Gelsomina che li aspetta. Nessuno dovrebbe essere lasciato solo con la sua pena. Una comunità forte è quella che non genera senso di abbandono e disperazione. Uno Stato è forte quando isola coloro che gioiscono di fronte all’altrui morte. *L’autore è presidente di Antigone Le carceri e il dovere del rieducare di Natalino Irti Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2022 “Anche agosto, anche agosto, andato è per sempre!” Così canta in strofa alcionia il poeta della terra d’Abruzzi. Giunge il pallido settembre con sue trepidezze e malinconie. Lo sguardo dello spettatore si fa più prensile e desto. Incalzano eventi politici, gridio di promesse, unirsi e dividersi di fazioni. Ingannevoli “programmi” tengono luogo delle idee: non si ascolta parola, che segni la direzione comune e indichi il “verso dove”. L’animo se ne distoglie deluso, e dentro gli preme un fatto doloroso della fuggente estate. Una giovane donna che in carcere decreta la propria fine; la nobile e scavata lettera d’un giudice. Si avverte come una disperata indignazione, un fremito amaro della coscienza, un dubitare intorno alle ragioni stesse del nostro convivere. Perché convivere è rompere la solitudine, spezzare il duro confine tra privato e pubblico, e dunque far proprie le cadute e debolezze e angosce dell’esistenza individuale. E soprattutto non rinserrarsi entro la crudele superbia del giudizio. C’è nella nostra Carta una norma, che ha la perentoria severità d’un monito religioso: alt 27, nel secondo comma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È chiusa per noi l’antica disputa sulla funzione della pena, ormai destinata, per vincolo costituzionale, al fine pedagogico. “Rieducazione del condannato”: sì, condannato, e dunque oggetto di giudizio secondo le leggi dello Stato; ma condannato al fine della rieducazione. La quale è parola di profonda serietà; e tutto ispira, o dovrebbe, il cammino della giustizia penale. In essa non c’è tratto di violenza pedagogica (come pur si conosce in pagine oscure del Novecento europeo), ma di restituzione alla consapevole e interiore libertà. Il condannato scelse tra le possibilità della vita; ed a codesta radice di libertà è ora da ricondurlo, e quasi ricollocarlo nel suo tempo. La storia del suo delitto è storia della sua libertà, del suo inerme trovarsi dinanzi a scelte e alternative di vita. Se vi fosse vincolo deterministico, naturale necessità di ciò che accade o viene compiuto, egli non sarebbe né colpevole né responsabile. E neppure si concepirebbe giudizio, ma soltanto un ricostruire scientifico di connessioni causali e derivazioni genetiche. La libertà è insieme fondamento del delitto, del giudizio, della pena. Il fine supremo della rieducazione, se impone alla pena detentiva una misura che permetta di adempiere così arduo dovere, più ammonisce a ridurre e circoscrivere i reati colpiti con perdita della libertà personale. Onde ne sorge il terribile interrogativo: come rieducare, ossia restituire alla coscienza della libertà, l’uomo che ha perduto la stessa disponibilità del proprio corpo? non è forse la coercizione fisica intimamente avversa alla rieducazione dello spirito? Questo è il dilemma, che emerge da quella lettera sconsolata; e va oltre il caso singolo fino a innalzarsi a essenziale problema del nostro stare insieme, del comune riconoscerci in un principio costitutivo. Vi vibra un’ansia di unità, che non separa il colpevole dal mondo, ma piuttosto ve lo riconduce mostrando che stava nella sua libertà di diversamente volere. In una storia del diritto penale, dettata, negli anni Trenta del secolo scorso, da un acutissimo filosofo di scuola gentiliana, si leggono parole di stringente profondità: “Quando il giudice giudica e punisce, non si volge propriamente all’altro da sé, ma a se stesso, e giudica e punisce se stesso in quanto umanità. Perché possa parlarsi veramente di pena, il giudice non deve essere estraneo al delinquente, né questo a quello: è l’uomo che in essi pecca e si redime”. Nulla va aggiunto alla strenua lucidezza di Ugo Spirito. Il rieducare esige, come sempre, l’unità interiore tra i soggetti, sicché l’uno si riconosca nell’altro, e insieme trovino le aspre vie della libertà. Sia lecito allo spettatore di dar notizia che due enti di rilievo - la società “Sport e salute”, guidata da Vito Cozzoli, e la “Fondazione Nicola Irti per le opere di carità e di cultura” - hanno stipulato un’intesa collaborativa per promuovere nelle carceri minorili il “rieducare” attraverso lo sport; e che su questo tema si fermò l’intensa prolusione accompagnatoria del prof. Gabrio Forti. Cartabia: chiuse entro ottobre tutte le riforme della giustizia di Emilia Patta Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2022 L’attuazione del Pnrr. “Abbiamo accelerato i decreti attuativi della riforma civile e penale per dare alle Camere i 60 giorni necessari e consentire al governo la finale approvazione di questi testi”. Un efficace sistema di giustizia è strettamente connesso con il benessere collettivo della vita sociale. E in particolare, come ha sottolineato nella 46esima edizione del suo rapporto 2020 proprio il Forum Ambrosetti, esiste una stretta correlazione tra certezza e tempi della giustizia e ambiente favorevole agli operatori economici. La ministra della Giustizia Marta Cartabia nel suo intervento a Cernobbio parte proprio dalle attese del mondo economico per illustrare l’importanza dell’insieme di riforme messe in campo dal governo Draghi - con la commissione Ue come “partner decisivo, discreto ma vigile e incisivo” - nell’ambito del Pnrr, riforme non a caso considerate da Bruxelles abilitanti. E per illustrare la centralità della giustizia per il benessere collettivo si serve anche dell’arte, con tanto di proiezioni di immagini: si tratta del ciclo di affreschi Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti realizzati nel Salone della Pace del palazzo pubblico si Siena e appena restaurati. “Una buona amministrazione della giustizia è prerequisito per il mantenimento di un ambiente fecondo per la vita dei cittadini, per la prosperità sociale, per il buon andamento dell’economia a vantaggio di tutti dove del processo civile e penale per dare modo alle Commissioni parlamentari competenti di avere tutto il tempo, i 60 giorni previsti per legge, per esprimere i loro pareri. A inizio ottobre, scaduti i 60 giorni, il Consiglio dei ministri potrà esprimersi per il passaggio finale. Sarà compito del nuovo governo, invece, attuare la delega sull’ordinamento giudiziario”. Un warning, quest’ultimo, a chi prenderà il suo posto a Via Arenula: le riforme previste dal Pnnr, come ha ricordato ieri anche il Capo dello Stato Sergio Mattarella, vanno attuate. Indipendente dalle eventuali ulteriori riforme che il prossimo governo vorrà mettere in campo (nel programma del centrodestra, ad esempio, c’è la separazione delle carriere tra giudici e Pm e una stretta maggiore di quanto già non prevede la riforma Cartabia sulle cosiddette porte girevoli tra magistratura e politica). Il memento ai futuri governanti è condiviso anche dal commissario Ue alla Giustizia Didier Reynders, presente al Forum di Cernobbio: “L’Italia continui a portare avanti il processo di riforma della giustizia, con attenzione anche alla lotta alla corruzione. Per quanto riguarda la digitalizzazione, sono felice di vedere che tra i progetti del Pnrr ce ne sono vari legati alla digitalizzazione della giustizia, utili per rendere il sistema più efficiente”. Cartabia: “Riforma della giustizia, impegni mantenuti” di Davide Varì Il Dubbio, 4 settembre 2022 La ministra ha dialogato con il Commissario europeo per la giustizia, Didier Reynders in una tavola rotonda al Forum Ambrosetti di Cernobbio. “La pressione, la spinta gentile che l’Unione europea ha condotto sugli Stati membri attraverso i vari strumenti in campo, tra cui il Pnrr, hanno rappresentato un fattore decisivo per arrivare a completare entro la fine dell’esperienza di governo tutti gli impegni di riforma della giustizia che avevamo assunto”. Lo ha sottolineato la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, intervenendo ad una tavola rotonda al Forum Ambrosetti di Cernobbio con il commissario europeo alla Giustizia, Didier Reynders. “All’interno della maggioranza - ha ricordato la guardasigilli - c’erano difficoltà e diversità di vedute sul tema: c’è soddisfazione per il metodo seguito, che ci ha portato ad accompagnare una trasformazione così importante attraverso intese condivise dopo decenni di contrapposizioni, ed anche di dissidi, nel nostro Paese. C’è stato un bilanciamento degli interessi e delle visioni di riforma proposte, una ricomposizione della concordia su un terreno sul quale questo obiettivo non era affatto scontato”. “L’infrastruttura giustizia è essenziale per ogni democrazia”. Lo ha ribadito la guardasigilli. “Come mai - ha premesso Cartabia - l’Unione europea dimostra un’attenzione crescente al corretto funzionamento della giustizia, su cui non ha competenza diretta e la cui responsabilità è dei singoli Stati membri? Perché chiede standard comuni che siano rispettai da tutti? La risposta è che esiste un nesso molto più stretto di quanto si pensi, una vera e propria correlazione, tra il benessere economico e sociale dei cittadini e il funzionamento del sistema giudiziario. Non esiste “Buon Governo” - ha proseguito la ministra, facendo proiettare alcune immagini del ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti a Siena - senza Giustizia”. La ministra Cartabia ha espresso infine “riconoscenza ai tantissimi che servono la giustizia, e ai tanti che l’hanno servita lottando contro la prevaricazione mafiosa fino als acrificio della loro vita come il generale Dalla Chiesa, ucciso 40 anni fa con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. L’ultima di B.: “Arrestati subito fuori su cauzione” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2022 L’ex premier lancia il modello Usa per “ridurre il carcere preventivo”. Ma così ladri e assassini (ricchi) eviterebbero la cella. Tornato in campo, pure con il debutto su TikTok, Silvio Berlusconi ieri ha lanciato una proposta per la solita giustizia da ricchi, gli unici che possono permettersi, come lui, costosi avvocati. Vorrebbe introdurre in Italia la cauzione per evitare la carcerazione preventiva prevista nel nostro Paese solo in caso di pericolo di fuga, reiterazione del reato e inquinamento probatorio. E subito vengono in mente gli Usa - dove ovviamente vige un sistema giudiziario molto diverso da quello italiano - patria della cauzione che, di fatto, è nella maggior parte dei casi per milionari. Un esempio recente per tutti: quello di Harvey Weinstein, l’ex più potente produttore cinematografico di Hollywood, denunciato da diverse donne per violenza sessuale, arrestato il 25 maggio 2018 e poche ore dopo scarcerato, con al polso il braccialetto elettronico, dietro cauzione di un milione di dollari, in attesa del processo. Dal 2020 si trova in carcere per una condanna a 23 anni. Nell’agosto 2019, dal carcere Regina Coeli di Roma, ha evocato il suo paese, gli Usa, Gabriel Natale Hjorth, accusato insieme a Finnegan Lee Elder di concorso in omicidio del vice brigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega: “In America c’è un sistema diverso e probabilmente sarei uscito su cauzione”, confidò ai suoi avvocati. Possibile. Se si pensa che, per esempio, nel 2012, George Zimmerman, un vigilante di quartiere che uccise in Florida Trayvon Martin, un ragazzo nero disarmato, è uscito dal carcere perché si è potuto permettere di versare 150 mila dollari di cauzione. Anche a Londra, culla del common law, abbiamo casi “illustri”: nel 2011 fu scarcerato, in attesa del processo, l’ex portavoce dell’ex premier David Cameron, Andy Coulson, già direttore di News of the World, accusato per le presunte intercettazioni illegali da parte del tabloid. Nella sua “pillola quotidiana”, Berlusconi esordisce con il problema, vero, delle condizioni indecenti delle carceri: “Privare un essere umano della libertà personale è una cosa molto grave, ma in alcuni casi necessaria. Io sono un garantista… ma i veri colpevoli vanno puniti… bisogna, però, costruire nuove carceri in numero adeguato, in modo che garantiscano ai detenuti condizioni di vita dignitose” e bisogna “ampliare il più possibile le pene alternative al carcere”. Infine, sfodera la proposta già avanzata, un po’ in sordina, nel 2013, 2014 e 2018: “La detenzione carceraria deve essere l’extrema ratio e solo per i reati più gravi, dobbiamo introdurre l’istituto della cauzione, per limitare al massimo le carcerazioni preventive”. Come pezza d’appoggio al suo ragionamento, il leader di FI racconta che “da 30 anni sono 1000 persone all’anno, tre ogni giorno, ad andare in prigione senza aver commesso alcun reato, senza avere alcuna colpa, come poi risulterà dall’esito dei loro processi”. Il messaggio che vuole lanciare, quello di masse di innocenti in carcere, è lo stesso che il centrodestra aveva provato a far passare promuovendo il referendum, fallito, sull’abolizione della custodia cautelare preventiva per pericolo di reiterazione di reato, in caso di accusa per finanziamento illecito ai partiti o per reati con pena sotto, nel massimo, ai 4 anni, 5 se si va in carcere. Secondo il ministero della Giustizia, le misure cautelari emesse nel 2021, per procedimenti iscritti e/o definiti nello stesso anno, sono state 32.805 e le assoluzioni definitive rappresentano solo l’1,6%, mentre gli assolti non definitivi sono il 5,6%. In totale, solo 1 misura su 10 ha avuto come esito un’assoluzione definitiva/non definitiva o un proscioglimento a vario titolo. Quanto sulla cauzione che ha in mente Berlusconi, potrebbe essere sollevata una questione di costituzionalità perché, di fatto, l’istituto sarebbe precluso a una moltitudine di indagati-imputati che non possono permettersela. La cauzione penale che esiste in Italia, invece, è quella di buona condotta (articolo 237 del codice penale). Può essere imposta dal giudice nel momento in cui valuta violazioni di misure di sicurezza come la libertà vigilata o restrizioni varie. Il soggetto, in quel caso, deve versare una cauzione o presentare una garanzia di tipo fideiussorio. Solo se non commetterà nessun’altra violazione la cauzione verrà restituita (o verrà estinta la garanzia). La somma non può essere superiore ai 2.065,83 euro, per un periodo minimo di un anno e massimo di 5. Le proposte di Nordio vanno contro la Costituzione di Roberto Scarpinato Il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2022 I giudici nominati dalla politica, la direzione delle indagini sottratta ai pm e data alla polizia, l’azione penale non più obbligatoria, i risparmi eliminando le intercettazioni. Più procede la campagna elettorale, più il dott. Carlo Nordio, ex magistrato del quale l’on. Giorgia Meloni auspica la nomina a ministro della Giustizia in caso di vittoria del centrodestra, sforna proposte di riforma della giustizia che attestano la sua avversione alla Costituzione, di cui coerentemente propone una radicale riscrittura per eliminare tutti i capisaldi posti a garanzia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario dalla politica. La necessità di cristallizzare a livello costituzionale i rapporti tra potere giudiziario e potere esecutivo, assicurando che il primo non risultasse dipendente dal secondo, fu imposta dal concorde “proposito delle forze antifasciste […] di porre in essere tutti gli strumenti atti ad evitare il ripresentarsi di un regime liberticida ed antidemocratico”, come risulta dai lavori dell’Assemblea costituente. Solo grazie a tali cardini costituzionali la magistratura ha potuto assolvere i propri compiti, pagando anche un elevatissimo tributo di sangue, nella travagliata storia italiana che presenta vistose anomalie per il costante pericolo di regressione antidemocratica. In nessun paese europeo di democrazia avanzata si è verificata infatti la sequenza ininterrotta di stragi e di omicidi politici che ha segnato la nostra storia dal secondo dopoguerra agli anni 90, i cui mandanti e complici eccellenti sono rimasti occulti a causa dei sistematici depistaggi di apparati statali. Depistaggi proseguiti dalla strage di Portella delle Ginestre del 1947 sino alle stragi politico-mafiose del 1992-’93, tanto da indurre il legislatore a ravvisare la necessità di introdurre nel 2016 nel Codice penale lo specifico reato di depistaggio. In nessun paese europeo si registra, come in Italia, una presenza plurisecolare e pervasiva di mafie, alcune delle quali divenute componenti organiche di più ampi sistemi di potere mafiosi grazie a relazioni collusive e strutturali con soggetti appartenenti ai massimi vertici della nomenclatura politica, degli apparati statali e del mondo economico. In nessun altro paese europeo si registra la corruzione sistemica che ha caratterizzato la storia nazionale, un’eterna Tangentopoli dallo scandalo della Banca romana nel 1892 sino ai nostri giorni. Ciò premesso, il dott. Nordio auspica uno stravolgimento della Costituzione con un insieme di proposte che hanno un unico comun denominatore: invertire i rapporti tra politica e magistratura per assicurare l’assoluto predominio della prima sulla seconda. Il tutto proprio nell’attuale fase storica caratterizzata da una regressione della democrazia riconosciuta da tutti gli studiosi, alcuni dei quali segnalano l’inquietante clanizzazione della politica, cioè la sua progressiva degradazione a competizione tra clan sociali, gruppi di interesse, ristrette oligarchie interessate solo a autoperpetuarsi e a spartirsi le risorse collettive. Vanno in questa direzione la sua proposta della nomina giudici non più per pubblico concorso (come previsto dall’art. 101 della Costituzione), ma per designazione governativa, nonché l’elezione popolare dei pubblici ministeri, con la conseguente mobilitazione di gruppi di potere, lobby e clan mafiosi per sostenere e finanziare l’elezione di pubblici ministeri graditi. Conseguenza ampiamente prevedibile se si pensa al recente ritorno in campo, come protagonisti della politica e della scelta dei candidati per le elezioni, di personaggi condannati in via definitiva per collusione con la mafia. Nella stessa direzione va la sua proposta di sottrarre alla magistratura il potere di dirigere le indagini (art. 109 della Costituzione), attribuendolo solo alle Forze di Polizia: un ulteriore coerente tassello per costruire una giustizia completamente asservita alla politica. Lo statuto professionale dei magistrati è caratterizzato da garanzie finalizzate a impedire indebiti condizionamenti (ad esempio, l’inamovibilità dall’ufficio e la progressione automatica in carriera salvo demerito), mentre gli appartenenti alle Forze di Polizia ne sono privi. Stante la diversità delle loro funzioni, essi sono inseriti in strutture gerarchiche a piramide i cui vertici sono i ministri dell’Interno, della Difesa e delle Finanze, espressione delle maggioranze politiche contingenti. L’esperienza storica è costellata di episodi di esponenti delle Forze di polizia retrocessi o trasferiti da un giorno all’altro, perché indisponibili a seguire direttive politiche dall’alto, o comunque sgraditi perché non malleabili. Basti ricordare, per il suo carattere emblematico, la subitanea retrocessione e il trasferimento nel 1992 di Rino Germanà, valoroso poliziotto vittima di attentato mafioso in cui rischiò la vita, mentre su incarico di Paolo Borsellino indagava sui rapporti tra mafia e politica. L’esperienza storica dimostra come affidare la direzione delle indagini a una magistratura indipendente sia una garanzia per i cittadini contro il pericolo di abusi o deviazioni e depistaggi da esponenti infedeli delle Forze di Polizia. Basti ricordare alcuni dei casi più eclatanti emersi solo grazie a tale garanzia costituzionale: dai depistaggi nelle indagini sulle stragi di Peteano (1972), Piazza Fontana (1969), Piazza della Loggia (1974), Bologna (1980), Via D’Amelio (1992), agli abusi delle Forze di Polizia e ai conseguenti depistaggi nelle vicende della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto al G8 a Genova (2001) e, più di recente, al caso di Stefano Cucchi. Nella stessa direzione va l’idea di abolire l’obbligo del pm di esercitare l’azione penale (art. 112), finalizzato a garantire l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3), che sarebbe compromessa da scelte politiche discrezionali. A dire il vero vi è una norma della Costituzione di cui il dott. Nordio rimpiange l’abrogazione e di cui auspica il ripristino. Guarda caso si tratta del divieto per i magistrati di avviare qualsiasi indagine nei confronti dei parlamentari senza l’autorizzazione delle Camere di appartenenza, abrogato a furor di popolo nel 1993 per gli abusi della classe politica che su 1225 richieste di autorizzazione ne aveva respinte ben 963, creando uno scudo impunitario che aveva contribuito a fare incancrenire la corruzione. Proposta coerente con l’impegno profuso dal dott. Nordio nella campagna referendaria di giugno, che tra l’altro mirava ad abrogare la legge Severino anche nella parte della incandidabilità di condannati con sentenza definitiva per gravi reati come quelli di mafia e di corruzione. Da ultimo il dott. Nordio propone di risparmiare le spese di giustizia limitando le intercettazioni telefoniche e ambientali: evidentemente ignora che esse sono da tempo lo strumento principale per le indagini contro mafia e corruzione, e non solo hanno consentito allo Stato un efficace contrasto a tali forme criminali e di parassitismo sociale, causa di gravi danni all’economia, ma anche di sequestrare e confiscare ingentissimi patrimoni illegali di valore molto superiore ai costi delle intercettazioni. Il dott. Nordio ha il pieno diritto di esprimere le sue idee, ma nel momento in cui è candidato alle elezioni e si auspica la sua nomina a ministro della Giustizia le sue proposte perdono valenza individuale e assumono il carattere di un organico progetto politico. Progetto tanto più inquietante ove si consideri il crescente indice di gradimento che inizia a riscuotere nell’establishment di potere, da tempo impegnato in un regolamento di conti con la magistratura il cui traguardo finale è proprio quello indicato dal dott. Nordio: assicurare l’egemonia della politica sulla giustizia. Il che dimostra come in Italia la questione giustizia, oggi come ieri, non sia riducibile solo a problematiche tecniche e di stanziamento di risorse, ma resti inestricabilmente connesso alla questione della Stato e della democrazia. Quale Giustizia? Quella voluta dai nostri padri costituenti o quella auspicata dai fan sempre più numerosi del dott. Nordio? Intercettazioni, i costi “fantasma” senza controlli: Italia sotto accusa di Valeria Di Corrado Il Messaggero, 4 settembre 2022 Sul nostro Paese grava una procedura europea: le Procure non comunicano alla Corte dei conti quanto si spende all’anno. “Sulle intercettazioni, in Italia, c’è un vero e proprio Far West. Siamo addirittura stati messi in mora dall’Ue, nonostante il Copasir abbia denunciato con documenti approvati all’unanimità, per ben tre volte nell’attuale legislatura, le ricadute che questa situazione ha sulla privacy dei cittadini e sulla sicurezza nazionale”. Il senatore Adolfo Urso, presidente del comitato che esercita il controllo parlamentare sull’operato dei servizi segreti italiani, dà manforte all’ex magistrato Carlo Nordio, candidato alle elezioni politiche nelle liste di Fratelli d’Italia, che proprio due giorni fa è intervenuto a Mestre sul tema: “Per uscire dalla crisi si può risparmiare anche su tutti gli sprechi che ci sono nel mondo della giustizia, a cominciare dalle intercettazioni telefoniche ambientali che costano 200 milioni di euro l’anno, con i quali si potrebbero assumere segretari e cancellieri per accelerare il corso dei processi”. “Nordio ha scoperchiato un vaso di Pandora - commenta il senatore Urso - In primo luogo esiste un problema sull’uso massiccio di questo strumento da parte dei pm italiani, con il ricorso, spesso, ad intercettazioni a strascico: siamo il Paese più intercettato al mondo, in rapporto alla popolazione”. Basti pensare che ogni anno ci sono circa 130mila “bersagli”, di cui 110mila utenze telefoniche che restano sotto intercettazione una media di 57 giorni. Il 12% di questi “bersagli” sono comunicazioni di tipo ambientale, mentre il 3% di tipo telematico (i cosiddetti trojan). “La seconda criticità è legata al fatto che non c’è controllo di alcun tipo sulle tariffe e sulle società a cui vengono affidate le captazioni. Siamo sotto infrazione europea - precisa il presidente del Copasir - perché le Procure si rifiutano di applicare la legge e di consegnare i contratti secretati alla sezione speciale della Corte dei conti istituita a questo scopo”. La Commissione europea, infatti, ha messo in mora l’Italia perché non ha ottemperato a una specifica direttiva del 2011 che assimila i contratti per le intercettazioni a transazioni commerciali. In quanto tali, andrebbero quindi sottoposti a un controllo preventivo e successivo da parte della Corte dei conti; nello specifico, alla Sezione centrale per il controllo dei contratti secretati. Ma, come evidenziato nella relazione trasmessa alle Camere lo scorso 19 agosto sull’attività svolta dal Copasir, “appare ancora eccessivamente esiguo il numero delle Procure della Repubblica che sottopongono alla preposta Sezione della Corte dei conti i contratti relativi alla fornitura di sistemi di intercettazione”. “Questo comporta che ci sia una differenza abnorme dei costi, con Procure che spendono mille per un’intercettazione e altre che spendono cento”, spiega Urso. Le più “spendaccione” sono quelle di Palermo, Roma, Napoli, Milano e Reggio Calabria. Nel 2019, a fronte di uno stanziamento complessivo di bilancio da 125 milioni e 352 mila euro per le intercettazioni, ne sono stati utilizzati 191 milioni. Per il 2021 e il 2022, invece, lo stanziamento si è leggermente ridotto: a 213,7 milioni di euro l’anno. La riforma Orlando della giustizia ha previsto misure di razionalizzazione in questo settore. Il 18 febbraio 2021 era stato inviato al Parlamento un decreto ministeriale dall’allora capo del dicastero, Alfonso Bonafede, che aveva individuato una sorta di “listino”, con prezzi massimi per ogni tipo di prestazione: 2,40 euro al giorno per un’intercettazione telefonica; 75 euro per un’ambientale; 120 euro per una telematica. Ma il ministro Marta Cartabia ha ritirato questo decreto, spiegando che “armonizzare le tariffe è un elemento problematico nell’interlocuzione con le Procure; il tariffario proposto è stato considerato troppo rigido”, si legge nella relazione del Copasir approvata lo scorso 21 ottobre sulla disciplina per l’utilizzo dei contratti secretati, che ha come relatori il senatore M5S Francesco Castiello e il deputato Elio Vito (ex FI). Riguardo invece la direttiva europea che l’Italia non ha rispettato, la Cartabia “sta valutando la richiesta di un’interpretazione ufficiale alla Corte di giustizia dell’Unione europea”. Manca, infine, un controllo sulle società a cui le Procure affidano le intercettazioni: non esiste un albo di tali agenzie e spesso alcune hanno i server all’estero. Ciò comporta delle criticità sulla “conservazione e gestione dei dati raccolti”, allerta il Copasir. Lo dimostra, per esempio, il caso Exodus, un software usato da diverse Procure che, nel corso del 2019, è stato oggetto di indagine a Napoli. “Se non c’è certezza della distruzione delle intercettazioni non rilevanti, come quelle captate a strascico dai trojan, rischia di azionarsi - conclude Urso - un sistema di ricatto che mina non solo la privacy, ma la sicurezza nazionale”. Così la Cartabia ha congelato la “giustizia a orologeria” di Felice Manti Il Giornale, 4 settembre 2022 Lo stop alle conferenze stampa show irrita Gratteri. Intercettazioni, il Copasir avvisa: ci sono troppe ombre. Chi pensava che qualche inchiesta a orologeria avrebbe potuto condizionare la campagna elettorale finora è rimasto deluso. Merito (o colpa...) della riforma del ministro della Giustizia Marta Cartabia, che ha di fatto ridimensionato le conferenze stampa show vietando la diffusione dei nomi degli arrestati, costringendo perfino Nicola Gratteri l’altro giorno a mordersi la lingua dopo la maxi operazione che ha portato a 202 arresti “di presunti innocenti”, tra cui il sindaco di Rende Marcello Manna, presidente di Anci Calabria. La conferenza è stata convocata, annullata e ripristinata tra le doglianze dei cronisti: “La stampa è potente, ha potere, chiedete ai vostri editori di dire ai referenti politici di cambiare la legge - ha detto loro il pm antimafia, masticando amaro - Fino a quando non cambia la legge, io non intendo né essere indagato né essere sottoposto a procedimento disciplinare”. Il procuratore di Catanzaro ufficialmente è in corsa per la Procura di Napoli, dopo che il procuratore Giovanni Melillo è stato nominato Procuratore nazionale antimafia. A decidere sarà il prossimo Csm, dopo le elezioni del 25 settembre. Qualcuno in Calabria vede Gratteri già ministro della Giustizia in un ipotetico governo a guida Fratelli d’Italia. Tanto che ieri una parte del Pd si è scagliata contro di lui: “Io mi chiedo ha detto la deputata Pd Enza Bruno Bossio, in corsa nel collegio plurinominale della Camera in Calabria e che con Gratteri ha un conto aperto se il procuratore voglia seguire la legge o essere la legge. Perché, diciamolo, anche la mafia vuole essere la legge; mentre il Pd, che è contro le cosche, vuole difendere lo stato di diritto”. Ieri intanto a Cernobbio la Guardasigilli ha sottolineato come l’iter della riforma che porta il suo nome sia ormai agli sgoccioli. “Sono molto soddisfatta - ha detto a Radio24 la Cartabia - manca solo l’ultimo passaggio per completare le riforme del processo civile e penale”, ha spiegato, ricordando l’approvazione dei decreti legislativi di attuazione della delega tra fine luglio e inizio agosto “per dare alle commissioni parlamentari 60 giorni. Poi il Consiglio dei ministri potrà dare l’ok”. Ma la giustizia resta un vaso di Pandora. Lo dimostra lo scontro l’altro giorno tra l’ex magistrato Carlo Nordio, candidato nelle liste di Fratelli d’Italia, e i Cinque stelle. “Visto che la crisi è economica, basta agli sprechi che ci sono nel mondo della giustizia, a cominciare dalle intercettazioni telefoniche ambientali che costano duecento milioni di euro l’anno, con i quali si potrebbero assumere segretari e cancellieri per accelerare il corso dei processi. La lentezza della giustizia ci costa 30 miliardi, due punti percentuali di Pil all’anno”, aveva detto Nordio. “Con questa ideona la destra fa l’occhiolino a mafie e delinquenti alla ricerca del loro sostegno”, aveva replicato Mario Perantoni, presidente M5s della commissione Giustizia della Camera. Il problema che Nordio solleva non è solo economico. Nei giorni scorsi Il Giornale ha lanciato l’allarme sulle troppe intercettazioni con captatore: “Con i trojan è stata fatta carne da macello e sono state violate innumerevoli norme processuali, che rendono tutt’altro che genuine quelle acquisizioni, che non potranno che essere dichiarate inutilizzabili”, aveva detto al nostro quotidiano Gioacchino Genchi, per anni considerato (a torto) il grande orecchio delle Procure. Secondo l’esperto le nuove tecniche di intercettazione, trojan e captatori, catturano a strascico tutto ciò che ascoltano. Con il rischio di manipolare la verità. Un allarme che, in base a un documento del Coparsir che il Giornale ha potuto consultare, avrebbe interessato anche l’organismo di controllo sui nostri servizi segreti, che lamenta poca trasparenza negli affidamenti degli appalti da parte delle Procure, la necessità di salvaguardare “diritti fondamentali come la privacy” e “l’equilibrata armonizzazione delle tariffe con le quali sono remunerati i fornitori”. Gratteri vuole Napoli, la Procura che non lascia spazi mediatici di Errico Novi Il Dubbio, 4 settembre 2022 Il capo dei pm di Catanzaro, in corsa per l’ufficio partenopeo, troverebbe a Napoli una criminalità diversa dalla “intrusività” della ‘ndrangheta. Non sappiamo come potrà concludersi la prossima tra le sfide “di cartello” per la conquista di un incarico dirigenziale nella magistratura, vale a dire la corsa per la successione a Giovanni Melillo come procuratore di Napoli. Sappiamo però da un paio di giorni che sarà sicuramente della partita un nome pesantissimo del panorama inquirente italiano: Nicola Gratteri. È ufficiale infatti la sua domanda di partecipazione al “concorso” indetto dal Csm (formalmente, le competizioni fra toghe per i posti direttivi si chiamano così). Si è mosso per tempo, il pm fra i più mediatici e divisivi: il bando scade il 12 settembre e alcuni dei competitors dati fino a pochi giorni fa per sicuri partecipanti ancora non hanno formalizzato la loro candidatura. A cominciare dall’avversario più temibile che Gratteri rischia di incrociare, l’attuale procuratore di Bologna Giuseppe Amato. Non sappiamo come finirà, e Gratteri non passa certo per essere uno amatissimo dalla nomenclatura togata. Dovrebbe occuparsene il nuovo Csm, che però rischia di insediarsi non prima del periodo natalizio. Ma intanto si può azzardare un’impressione: la Procura di Napoli potrebbe segnare una netta soluzione di continuità nel percorso professionale di Gratteri, sempre qualora fosse lui ad aggiudicarsela. Non solo e non tanto perché si tratta di un ufficio più “pesante” rispetto alla pur impegnativa Procura di Catanzaro che il pm attualmente dirige. Il punto è che Napoli non si presta alla mediaticità dei magistrati. Se n’è avuta dimostrazione proprio da Melillo, che ha interpretato il ruolo con grande misura e sobrietà, certamente per vocazione ma anche per la natura del contesto. Napoli, la criminalità partenopea, non assomigliano alla ndrangheta, a quell’asserito sistema calabrese che sembra prestarsi, per vari motivi, a iniziative inquirenti anche spettacolari, come l’inchiesta sui presunti intrecci politico- malavitosi cosentini illustrata da Gratteri due giorni fa. Sotto il Vesuvio la criminalità organizzata è fatta sempre meno da grandi e radicate cupole e sempre più da bande giovani e fluide. Il che non favorisce la ricerca, oltre che la presenza, di grandi intrecci con il potere. A Napoli si tratta per lo più di malavita pura, di illegalità diffusa ma paradossalmente meno opaca, più ordinaria. Cioè, c’è tanto da lavorare e poco da far emergere sulla ribalta mediatica, molto meno di quanto sia avvenuto con le grandi famiglie camorriste fino ad alcuni anni fa. E c’è da lavorare tanto, spesso nell’ombra, proprio per quella composizione pulviscolare del crimine partenopeo, inafferrabile, instabile, diffusissima ma meno strutturata di quanto si possa dire per le ‘ndrine calabresi. C’è da lavorare, per il procuratore di Napoli, anche perché nel palazzo del Centro Direzionale trova sede il più grande ufficio inquirente d’Italia: qualcosa come 112 pubblici ministeri. Un esercito. Certamente efficace e dotato di milizie coraggiose, ma non sempre semplicissimo da gestire: ne seppe qualcosa Agostino Cordova, contro il quale, una ventina d’anni fa, i sostituti partenopei organizzarono una rivolta fino a ottenere la cacciata del capo. È il caso di ribadirlo: Gratteri è tra i favoriti ma non è un uomo solo al comando. Ci sono altri procuratori della Repubblica, fra gli sfidanti in arrivo, come il potentino Francesco Curcio e la stessa facente funzioni napoletana Rosa Volpe. Però appunto: nella fase che potrebbe essere la più prestigiosa della sua carriera, rischiamo di vedere un altro Gratteri. Chino sulle carte a lavorare, come ha sempre fatto, ma senza neppure più il tempo di criticare la legge sulla presunzione d’innocenza. Dai brigatisti alla mafia: chi era Carlo Alberto dalla Chiesa, l’uomo che inventò l’anti-terrorismo di Manfredi Alberti* L’Espresso, 4 settembre 2022 A quarant’anni dalla morte del generale, ucciso da Cosa nostra con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo, una biografia dello storico Vittorio Coco ne ricostruisce la storia. A partire dall’incontro con Aldo Moro. Gli anni Settanta e Ottanta del Novecento emergono sempre più come terreno di studio da parte di nuove leve di storici, per nulla o poco coinvolte per motivi anagrafici da quel periodo, e forse proprio per questo maggiormente in grado di coglierne le fattezze. Ciò vale sia per l’analisi dei processi economico-sociali, sia per la ricostruzione dei fatti politici e delle biografie dei protagonisti. Una delle figure più coinvolte nella lotta al terrorismo e alla violenza politica degli anni Settanta e Ottanta è stata quella del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di cui ricorre il 3 settembre il quarantesimo anniversario della morte. Il suo importante ruolo traspare nitidamente nell’ultimo lavoro di Vittorio Coco, storico dell’Università di Palermo, che ha da poco dato alle stampe un volume - Il generale dalla Chiesa, il terrorismo, la mafia, Laterza, Roma-Bari 2022 - che ne ripercorre l’intero percorso biografico. Andando oltre le visioni apologetiche o demonizzanti che si sono periodicamente alternate, il pregio del volume è quello di esaminare la vita di dalla Chiesa sulla sola base delle fonti disponibili, non trascurando di sondare anche quelle circostanze su cui ci sono ancora molte zone d’ombra. Nato in Piemonte ma di radici emiliane, dalla Chiesa si laurea nel 1943 all’Università di Bari, ed è in quell’occasione che incontra Aldo Moro, docente supplente di Diritto penale. Da giovane tenente dei carabinieri aderisce poi senza esitazione alla Resistenza. Nell’immediato dopoguerra è in Sicilia per indagare sulla morte del sindacalista Placido Rizzotto; vi farà ritorno al comando della Legione carabinieri della Sicilia occidentale, in anni di recrudescenza del fenomeno mafioso, tra il 1966 e il 1973, acquisendo una prima importante esperienza nella lotta contro il crimine organizzato. Tra il 1974 e il 1975, alla guida di un Nucleo speciale di polizia giudiziaria, dalla Chiesa è in prima linea nel contrasto alle Brigate rosse, delineando un metodo di lotta al terrorismo - mafioso o politico - basato su una conoscenza ravvicinata dell’organizzazione da contrastare, anche attraverso una pratica che si dimostrerà decisiva: l’infiltrazione. Con il tempo tale metodo darà i suoi frutti, e anche in ambito giudiziario si comincerà a sperimentare il criterio della centralizzazione e della specializzazione, rivelatosi cruciale anche sul terreno della lotta alla mafia. Dopo l’assassinio di Aldo Moro, il nuovo ministro dell’Interno Rognoni lo sceglie come “superdetective”, essendo l’unico dotato di un’esperienza specifica nel contrasto alla lotta armata di estrema sinistra. Il suo operato in quello snodo cruciale della storia repubblicana, tuttavia, non smette di suscitare ancora oggi dubbi e ipotesi di ricerca, così come la sua richiesta di adesione alla loggia massonica P2, motivata probabilmente dal desiderio di facilitare un percorso di carriera non scontato. L’ultimo tragico atto della vita di dalla Chiesa è quello più noto. Nella primavera del 1982, lasciata l’Arma dei carabinieri per accettare l’incarico di prefetto di Palermo, dalla Chiesa era perfettamente consapevole non solo delle difficoltà che avrebbe trovato, ma anche dell’ostilità di quanti, a livello locale e nazionale, non avevano alcun interesse a colpire realmente la mafia e i suoi conniventi. A soli tre mesi dal suo insediamento, fu così assassinato in un agguato mafioso. Eppure l’omicidio di dalla Chiesa, preceduto di pochi mesi da quello del dirigente comunista Pio La Torre, pose le basi per la nascita di quel dissenso diffuso verso le istituzioni corrotte che fu un elemento fondamentale della nascita del moderno movimento antimafia, e che avrebbe assestato, a partire dal Maxiprocesso a Cosa Nostra, un colpo durissimo all’organizzazione. *Ricercatore di Storia del pensiero economico presso il Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali all’Università di Palermo Sardegna. “Il carcere non è la soluzione per detenuti disabili o con problemi psichiatrici” linkoristano.it, 4 settembre 2022 L’associazione “Socialismo Diritti Riforme” interviene ancora sulle carenze degli istituti sardi. Nelle carceri sarde cresce il numero dei detenuti - quasi ovunque oltre i limiti previsti - e cresce la tensione. Oltre a Oristano-Massama, dove per 259 posti ci sono 264 detenuti, e Tempio Pausania, con 190 ristretti per 170 posti, c’è anche Cagliari-Uta: a fronte di 561 posti (ufficiali) ci sono 559 reclusi. Attenzione, però, avverte Maria Grazia Caligaris, referente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”: i dati del Ministero, forniti dall’Ufficio statistica del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, non tengono conto delle celle distrutte dai detenuti con gravi disturbi psichici che, esasperati dal disagio mentali, si scagliano sulle suppellettili e le pareti rendendo inagibili le “stanze di pernottamento”. “Una sottovalutazione del numero celle disponibili”, osserva Caligaris, “si registra anche a Nuoro, dove ci sono 251 detenuti ma solo in teoria 375 celle perché una sezione con circa 80/90 posti letto non è agibile. Totalmente in controtendenza invece la Casa di Reclusione ‘Tomasiello’ di Alghero che con 156 posti ospita 92 persone private della libertà. Stabili le presenze al ‘San Daniele’ di Lanusei (29 presenze per 32 posti) e nelle tre colonie penali, dove per complessivi 583 posti ci sono 270 detenuti”. “Complessivamente nei 10 penitenziari sono presenti 2.069 ristretti (la metà sardi), con 32 donne, ma solo 1.647 sono definitivi. Infatti 402 sono in attesa di completare l’iter giudiziario e 204 (poco meno del 10%) risultano in attesa di primo giudizio. L’incidenza degli stranieri è complessivamente del 21,4%. Supera il 67% a Mamone-Onanì, il 62% a Is Arenas ma anche Bancali con il 29% e Cagliari con il 17% aggiungono problematiche a condizioni già molto difficili”. “Le emergenze negli istituti penitenziari dell’isola attengono innanzitutto alla carenza di personale”, ricorda la nota di Socialismo Diritti Riforme: “direttori e vice direttori, comandanti, sovrintendenti e personale penitenziario, funzionari giuridico-pedagogici e amministrativi. In compenso sono molto numerosi i detenuti con gravi patologie, alcune delle quali incompatibili con la presenza dietro le sbarre”. “Ciò è particolarmente evidente nel carcere di Cagliari-Uta dove la presenza del Sai-Cdt”, conclude Caligaris, “porta in Sardegna detenuti da altre regioni italiane e ultimamente anche alcuni affetti da disabilità motoria. L’emergenza più sentita resta però quella dei detenuti psichiatrici e in doppia diagnosi, costretti al carcere per assenza di strutture alternative. Brutta figura per uno Stato di diritto e la società che destina alla galera chi ha solo bisogno di cure”. Vibo Valentia. “Detenuti a disagio in cella”, scontro sul Garante Il Giornale, 4 settembre 2022 È scontro sul Garante campano dei diritti dei detenuti Samuele Ciambriello, dopo una sua dichiarazione che ha acceso lo scontro politico. Diversi familiari di detenuti campani reclusi nel penitenziario di Vibo Valentia, hanno denunciato a Ciambrello il sovraffollamento della struttura penitenziaria calabrese. Secondo i parenti dei detenuti, alcuni dei quali con condanne per camorra passate in giudicato, si sono ritrovati da qualche giorni in cella con altri dieci, dodici detenuti. “Colpa” della dell’operazione della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, scattata alle luci dell’alba di giovedì nella provincia di Cosenza che ha travolto il sindaco di Rende Marcello Manna e altre 201 persone. Ciambriello si è detto “preoccupato per quello che sta succedendo nel carcere di Vibo Valentia. Comprendo, in parte, i motivi e le pulsioni che spingono un giudice a firmare un’ordinanza di misura cautelare in carcere per 200 persone, ma mi chiedo come sia possibile che, prima di eseguire questi blitz, non si verifichino le disponibilità negli istituti penitenziari. È impensabile che vengano prelevati di notte dalle loro case e poi scaricati in carceri non adeguati ad accoglierli. Mi sto occupando di questa vicenda perché in Calabria sono tanti i detenuti di origine campana e anche perché è l’unica regione d’Italia che ancora non ha eletto il Garante dei detenuti. C’è un punto all’ordine del giorno del Consiglio regionale che viene puntualmente rinviato. Sono detenuti doppiamente dimenticati. Per quanto tempo ancora dovranno vivere questa doppia reclusione? Mi auguro che, non solo al più presto vengano adottate misure che ristabiliscano serenità nel carcere di Vibo Valentia, ma soprattutto che la Regione si decida a garantire ai detenuti un organo di garanzia”. Parole che hanno fatto infuriare il deputato Fdi Andrea Delmastro, responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia: “Indecenti le parole di Ciambriello, che si dice preoccupato non già della pervasività del fenomeno mafioso, ma del fatto che i poveri signori accusati di associazione mafiosa non sarebbero comodi nelle celle in cui sono in custodia cautelare a Vibo Valentia. La balzana idea del carcere a numero chiuso già evocato in campagna elettorale dal centrosinistra diventa l’alibi per sinistre idee di impunità generalizzata”. Torino. La direttrice del carcere: “Aumentato tantissimo il ricorso al servizio di psichiatria” agensir.it, 4 settembre 2022 “Il carcere è una cassa di risonanza di quel che succede nella società. Il ricorso al servizio di psichiatria è aumentato tantissimo. Il periodo del Covid è stato molto duro e sappiamo che il prossimo inverno dovremo far fronte a una situazione altrettanto difficile”. Sono le parole di Cosima Buccoliero, direttrice del carcere Lorusso-Cutugno di Torino nella testimonianza che ha portato a Ravenna alla tavola rotonda “Recluse, Donne nelle carceri italiane” condotta da Francesco Zanotti direttore del settimanale interdiocesano Risveglio-Corriere Cesenate-Il Piccolo in occasione della mostra fotografica di Giampiero Corelli sulla condizione delle detenute nelle carceri italiane dal titolo “Domani faccio la brava”. Le donne detenute sono poche, spiega, a Torino sono il 4% della popolazione carceraria “ma vivono una situazione di marginalità maggiore rispetto agli uomini - prosegue la direttrice del carcere di Torino -. L’istituzione carcere è maschile, creata da uomini, pensata per uomini. Si tratta di donne che vengono da contesti difficili, e spesso hanno subito reati o violenza. Vivono una maggiore situazione di solitudine perché non hanno la famiglia vicino: spesso sono loro il centro della famiglia e quando sono detenute sono solo. Senza considerare il forte senso di colpa per non poter gestire il rapporto genitoriale. Una volta uscite, poi, sono maggiori le difficoltà di poter ricostruire una vita all’esterno”. “I bambini in carcere per fortuna sono pochi ma ci sono - aggiunge Buccoliero -. Non siamo riusciti a ridurne il numero: a Torino sono 4, ed erano 12 in pandemia. E i piccoli si rendono conto che non è casa loro. Questo problema non è stato affrontato né risolto”. Lo scopo del carcere è quello di liberare le persone dalle motivazioni devianti e creare risorse, ha aggiunto Letizia de Maria, giudice di sorveglianza del Tribunale di Bologna, anche lei tra i relatori della tavola rotonda. “In questo la genitorialità è una spinta potentissima verso il cambiamento, significa trovare un nuovo scopo nella vita. Vale per uomini e donne”. Quello della salute mentale, aggiunge è un problema in crescita: “Per alleviarlo bisognerebbe trovare delle comunità sul territorio ma non ci sono”. In carcere poi, “ci scontriamo con una notevole mancanza di risorse: manca circa il 50% dell’organico”. Ferrara. Silenzio della politica sui problemi in carcere? Boldrini: “Io ne parlo” La Nuova Ferrara, 4 settembre 2022 La senatrice Pd sulla denuncia della Camera penale sui mancati spazi di dibattito in campagna elettorale sui temi di violenze e suicidi nelle celle. In carcere si continua a morire (58 suicidi e 814 tentati, sventati dalla Polizia penitenziaria) e in carcere si registrano violenze quotidiane, anche a Ferrara. Ma nessuno ne parla, almeno in campagna elettorale, era stata la denuncia del presidente Pasquale Longobucco della Camera penale cittadina. Nessuno tranne la senatrice Pd, Paola Boldrini (nel silenzio assoluto di tutti gli altri politici impegnati nella corsa elettorale), che ieri replicava: “Al presidente della Camera penale che afferma che il tema sui problemi del carcere non è di interesse elettorale, rispondo che per fortuna non lo è. Perché c’è e c’è da tempo”. Boldrini non a caso, giovedì scorso era a Ferrara, in carcere Proprio ieri (oggi per chi legge, ndr) : “Ho partecipato, in carcere - spiegava ieri -, ad un incontro organizzato dalla direttrice, Nicoletta Toscani, con Massimo Parisi, direttore generale del personale e delle risorse (Dap) , venuto apposta da Roma per interloquire e dare risposte sui timori avanzati circa la costruzione di un nuovo padiglione - previsto per il 2026 per 80 detenuti inseriti in percorsi avanzati - e sull’implemento dell’organico”. Un incontro che faceva seguito ad un’altra visita, ricorda la Boldrini, “richiesta e fatta in cosiddetta missione con Franco Mirabelli, capogruppo in Commissione permanente giustizia in Senato, lo scorso autunno, per aprire un ragionamento in questa direzione e chiedere l’inserimento di risorse in Finanziaria”. Ma il summit di giovedì scorso, rammenta ancora la Boldrini “faceva seguito a un mio confronto l’8 giugno con la ministra Marta Cartabia e con lo stesso Parisi e a una mia interrogazione parlamentare il 2 agosto. Motivo per cui ringrazio la direttrice Toscani per averlo organizzato ed esteso, correttamente, ai livelli istituzionali coinvolti, alla rete penitenziaria e ai sindacati”. La Boldrini lo ammette di condividere le posizioni della Camera penale di Ferrara “sulle condizioni delle carceri e sulla necessità di ripensarle”. Ma soprattutto - dice - “condivido l’idea che il sovraffollamento e le condizioni di vita dovuti agli spazi ridotti siano tra i motivi che impediscono la riabilitazione - ricordando che a questo la detenzione servirebbe come da dettato costituzionale - e aumenti invece l’aggressività e la violenza, che si trasforma anche in autolesionismo e suicidio”. E allora: “Come ho ribadito ieri, il discorso carcere va affrontato sul triplice piano della progressiva e cronica carenza di personale, della condizione e gestione dei detenuti e degli operatori stessi”. Per Boldrini, “manca personale sanitario, psicoterapeuti e psichiatri, per una presa in carico dei detenuti fin dal loro ingresso”. E ancora: “vanno aumentate figure a supporto del personale tra i più colpiti dallo stress da lavoro. Per questo io e Mirabelli avevamo chiesto che in Finanziata fossero messe risorse ad hoc. E per questo, per le condizioni delle carceri e di quello di Ferrara di cui mi occupo dai tempi in cui ero Presidente di circoscrizione, continuerò a battermi se tornerò in Parlamento”. Frosinone. Progetto Seconda Chance, al via i colloqui con i detenuti di Giovanni Del Giaccio Il Messaggero, 4 settembre 2022 Lavorano già in carcere, fornendo servizi alla casa circondariale. Dalle opere di muratura al verde, fino alla raccolta dei rifiuti. Sono i detenuti cosiddetti articolo 21, quelli che hanno mostrato una buon condotta e tanta voglia di riabilitazione. Altri, adesso, potranno lavorare anche fuori dalla struttura alla periferia di Frosinone. Lasciare le celle e la vita della casa circondariale per andare al lavoro, svolgere il ruolo per il quale si è stati scelti e quindi rientrare. Con un beneficio per loro e per gli imprenditori che li utilizzeranno. Questi ultimi, infatti, grazie alla Legge Smuraglia hanno la possibilità di risparmiare sui contributi previdenziali e la tassazione. Ma - ancora di più - di offrire a chi ha sbagliato la possibilità di riscattarsi. C’è un aspetto economico, quindi, ma anche legato alla coscienza di ciascun imprenditore. Nei giorni scorsi presso la casa circondariale la rappresentante dell’associazione Seconda chance, Flavia Filippi, ha incontrato insieme all’imprenditore Osvaldo Magnanti, la direttrice dell’istituto - Teresa Mascolo - la sua vice Anna Del Villano e l’educatrice Filomena Moscato. Un colloquio per capire se e come era possibile utilizzare dei detenuti in grado di ottenere il famigerato articolo 21 e metterli a disposizione per l’attività di distribuzione di gelati e surgelati gestita da Magnanti che aveva bisogno di due fattorini. Uno scambio di vedute, le comprensibili perplessità di chi si trova ad affrontare qualcosa di inatteso, come può essere per chi gestisce un’azienda e mai avrebbe immaginato di utilizzare personale proveniente dall’esperienza carceraria, le assicurazioni sul percorso da fare. Poi l’incontro con due detenuti di 28 e 35 anni, “entrambi con lunghe pene alle spalle, entrambi liberi nel 2023 - spiega Flavia Filippi - due ragazzi estremamente educati, seri, affidabili e patentati”. Quello che serviva all’impresa, anche se non si tratta di una scelta facile e sono immaginabili i pensieri di chi sta per compierla. Eppure non dovrebbero esserci problemi di sorta, tanto meno dei pregiudizi. Basterebbe confrontarsi con chi non solo ha risparmiato sui contributi e le tasse, ma ha fatto del bene anche a se stesso. Da nord a sud dell’Italia sono sempre più numerosi gli imprenditori che decidono di utilizzare non solo i benefici della Legge Smuraglia ma appunto fare del bene. L’elenco è lunghissimo: dal ristorante La Botteghina di Alghero al gruppo Palombini che gestisce a Roma bar, caffetterie, ristoranti e ricevimenti, dal centro sportivo Villa York al Gianicolo ai centri sportivi Empire e Babel, ma ancora il Parco Nazionale del Circeo e quello degli Aurunci. “Sono tanti - spiega Flavia Filippi - i ristoratori e gli albergatori che hanno bisogno di pasticcieri, lievitisti, cuochi, aiuto cuochi, camerieri, lavapiatti, addetti alle pulizie, giardinieri. E per questo organizzo periodicamente giri di colloqui con detenuti che hanno frequentato corsi di gastronomia in carcere. Ma anche gli imprenditori di altri settori sono interessati ad aderire al progetto”. E pure enti di un certo rilievo, come ad esempio l’Istituto superiore di sanità, l’Unione artigiani italiani, Croce Rossa, Cnel, Cnr, Rai... C’è la Seconda chance ma anche l’opportunità di adibire dei locali in disuso del carcere a laboratorio di pasticceria o call center, ad esempio, perché no a sartoria come accade a Viterbo con grande successo. Gli spazi esistono anche a Frosinone, qui lo sforzo da fare è forse un po’ più grande. Intanto vanno affrontate le questioni burocratiche per ottenere la disponibilità, ma queste si possono superare facilmente. Allora l’imprenditore non dovrà impegnarsi tanto dal punto di vista economico, quanto da quello della serietà: non si può immaginare di aprire un servizio, dare speranza a chi ha dimostrato di voler tornare a una vita normale e poi chiudere e andarsene. In generale - sia per il lavoro all’esterno, sia nell’ipotesi di utilizzo di strutture in disuso - basta non avere pregiudizi per scoprire che dare un’altra occasione a chi ha sbagliato, fa bene a tutti. Per chi volesse contattare l’associazione info@secondachance.net. Caserta. Lavori di pubblica utilità dei detenuti, il progetto casertano sbarca in Messico casertanews.it, 4 settembre 2022 Arriva in Messico il modello casertano di reinserimento sociale dei detenuti attraverso i lavori di pubblica utilità. Le delegazioni italiane del Consorzio Asi Caserta, guidata dalla presidente Raffaela Pignetti, e del Ministero della Giustizia-Dap, con il responsabile dell’Ufficio Centrale per il lavoro dei detenuti, Vincenzo Lo Cascio, hanno presentato a Città del Messico, su invito dell’Unodc, il progetto “Mi riscatto per il futuro”, nell’ambito delle attività legate all’omologo programma “De vuelta a la comunidad”. Il progetto messicano è ispirato alle esperienze avviate in Italia dal Ministero e, tra queste, in particolare a quella in corso nelle aree Asi di Caserta considerata un modello da esportare e di cui è stata apprezzata la possibilità di investire in formazione all’interno delle carceri e la capacità di coniugare le esigenze di cura del territorio con la funzione rieducativa della pena. Di questo ha parlato la presidente Raffaela Pignetti, nella qualità di ospite d’onore di Unodc Mexico, durante gli incontri che si sono susseguiti nella capitale messicana con autorità governative, rappresentanti delle Nazioni Unite e in particolare Kristian Holge di Unodc Messico, la responsabile del progetto Martha Orozco, i partner del progetto messicano (tra cui Enel Green Power e Unodc Vienna). Sono stati quindi illustrati gli importanti risultati ottenuti dal Consorzio Asi con l’attuazione di “Mi riscatto per il futuro” che impegna i detenuti delle carceri della provincia di Caserta in lavori di pubblica utilità negli agglomerati industriali. “Il nostro progetto è ora anche un modello internazionale di riferimento, cui altre realtà possono guardare - ha dichiarato la presidente Pignetti -. Con la formazione in carcere, “Mi riscatto per il futuro” così come “De Vuelta a la comunidad” mirano ad abbassare la recidiva aumentando le opportunità di lavoro. Per raggiungere questi obiettivi è fondamentale estendere la rete di collaborazione tra gli attori coinvolti e impegnati nella sostenibilità sociale, condividendo esperienze positive e buone prassi. Noi abbiamo creduto fortemente in questo progetto, nonostante le difficoltà. Abbiamo raccontato, attraverso le Nazioni Unite, come ci siamo riusciti e quali sono i prossimi passi perché lo sviluppo sostenibile possa accompagnare la crescita di un’area industriale e di Caserta. Siamo pronti per ampliare il nostro progetto, estendere la formazione ad altri detenuti e implementare i lavori di manutenzione nelle aree Asi”. Gianfranco De Gesu Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha dichiarato: “Siamo molto soddisfatti di questo importante risultato raggiunto in questa attività di cooperazione internazionale denominata “De vuelta a la comunidad” che vede il Ministero della Giustizia partner strategico dello Stato di Città del Messico per il rafforzamento del Sistema penitenziario, il nostro obiettivo primario è promuovere la lotta alla recidiva e la riabilitazione ad una vita libera alle persone private dalla libertà personale”. Il programma di pubblica utilità si è consolidato in Italia coinvolgendo anche “importanti imprese pubbliche e private per il rafforzamento del lavoro intra murario ed extra murario” ha concluso De Gesu. Pavia. Una storia dietro le grate di don Dario Crotti, Anna Panara e Ilaria Rizza L’Osservatore Romano, 4 settembre 2022 “Prima di tutto io non ho la maschera, parlo soltanto per me. Avete cambiato tutti i miei sentimenti verso gli altri. Prima pensavo che tutte le altre persone fossero dei mostri da quello che ho visto nella mia vita. Dentro di me c’era rabbia che poteva bruciare il mondo intero. Ma dopo questi incontri, dopo aver parlato insieme, dopo avervi visti anche discutere tra di voi, tutto è andato al contrario. Anzi nella direzione giusta. Ho capito che la maggior parte sono innocenti. Quando uno dei nostri ospiti si è scottato con la colla calda, giuro che stavo per piangere. Da quel momento ho capito che siamo molto fragili. Vi prego, non vi offendete: prima pensavo di non avere niente da imparare, vi vedevo come degli studenti che non hanno ancora visto la vita come funziona e che non avevano nulla da insegnarmi. Sbagliavo di grosso. Quel giorno ho scoperto che per 26 anni non avevo imparato niente. Quel cambiamento non poteva farlo nessuno neanche un Dio, ma voi lo avete fatto anche senza saperlo. Sono in debito con voi”. Non racconta l’estate, ma è come una brezza fresca nell’afosa estate lombarda questa testimonianza che arriva dalla casa circondariale “Torre del Gallo” a Pavia. L’ha scritta un giovane egiziano dopo aver partecipato alla tre giorni “Percorso giovani e carcere” promossa dal cappellano e da alcune giovani studentesse universitarie. Nata 13 anni fa, l’iniziativa intende promuovere l’incontro e la conoscenza tra giovani della città - studenti, ragazzi delle parrocchie e di gruppi ecclesiali - e giovani detenuti. Il tutto nello stile della “Chiesa in uscita” che traduce il verbo “abitare” in “incontrare” la città in tutte le sue sfaccettature, in tutti i suoi luoghi, compreso il carcere anche se sempre più relegato a periferia. La prima giornata del “Percorso giovani e carcere” di quest’anno ha avuto inizio con un semplice gesto di condivisione, attraverso il quale gli individui sono diventati parte di un gruppo. Una persona si presentava tenendo tra le dita un’estremità di un lungo gomitolo rosso, per poi passare la matassa ad un’altra che voleva conoscere. Le nostre vite così si sono subito intrecciate in maniera molto suggestiva, e si è creato un clima di fiducia che ha consentito una profonda condivisione di idee, emozioni, pensieri. Come quelli del giovane amico egiziano che all’inizio si sentiva a disagio in mezzo a tutta quella gente. Temeva il giudizio degli altri e il suo. Ma ha saputo superare la paura di guardarsi allo specchio, portando così una boccata d’aria fresca tra le mura del carcere. Firenze. Un grande concerto per i detenuti a Casa Caciolle Corriere Fiorentino, 4 settembre 2022 Un grande concerto per i detenuti di Sollicciano. È quello organizzato dalla Madonnina del Grappa a Casa Caciolle 5, struttura dove vivono i detenuti che scontano pene alternative. Il concerto è stato tenuto dalla Young Orchestra di Toscana Classica diretta dal Maestro Giuseppe Lanzetta. Per una sera, sarà la musica a dare voce ai detenuti, che non hanno voce e che ormai da anni vivono in drammatiche condizioni all’interno del penitenziario di Sollicciano. “Di fronte alle logiche dello sfruttamento, alle dinamiche che creano sempre più grandi squilibri tra pochi ricchi e molti poveri, di fronte alla inaccettabile situazione delle nostre carceri, al dilagare delle azioni di guerra ed ingiustizie che piegano ogni possibile pacifica convivenza tra le persone, attraverso la musica, la presenza attiva e la riflessione, desideriamo rompere la cortina del silenzio e far levare una voce diversa, forte, nitida, coraggiosa, capace di incidere e sensibilizzare” ha detto don Vincenzo Russo, presidente della Madonnina del Grappa e cappellano del carcere di Sollicciano. Il giorno successivo, domenica 4 settembre, alle 9 sempre a Casa Caciolle si terrà un convegno sul tema “Una svolta agroecologica per Madre Terra”. Interverranno Giovanni Pandolfini di Mondeggi Bene Comune, la biologa Daniela Conti, Gianni De Giglio (SfruttaZero), Spartaco Codevilla di Rimaflow Fuorimercato). Crisi della politica tra evasione fiscale e astensionismo di Gaetano Lamanna Il Manifesto, 4 settembre 2022 25 settembre. Sono due espressioni del malessere sociale: ma il popolo di evasori aspetta il prossimo condono e non rinuncia a votare destra; il popolo di sfiduciati e poveri continua ad astenersi. Senza infingimenti dobbiamo dirci che c’è una corrispondenza diretta tra l’ampio consenso alla destra e l’arretramento politico, culturale e sociale della sinistra. Favorita nei sondaggi Giorgia Meloni manda messaggi tranquillizzanti all’esterno e accattivanti all’interno. Assicura Bruxelles che con la destra al governo i conti pubblici non avranno nulla da temere. Intanto non rinuncia, come gli altri due leader della sua coalizione, a promettere mare e monti come se vivessimo nel paese della cuccagna. Il programma della destra è un florilegio di proposte che mettono insieme dosi massicce di tagli alle tasse e spese fiscali à gogo. Di tassare profitti e rendite neanche a parlarne. Va bene che siamo in campagna elettorale e domina la propaganda, ma un programma di governo che da un lato introduce la flat tax per i ricchi e, dall’altro, concede sussidi e incentivi a singoli gruppi sociali senza porre alcun limite all’incremento della spesa pubblica, è un nonsense, una clamorosa sciocchezza. Uno Stato immaginario, “minimo” e “massimo” al tempo stesso. Un ossimoro, un inganno colossale che espone l’Italia a rischi gravi. Non a caso autorevoli analisti tornano a evocare il default e la recessione economica. Sconcerta il fatto che, nonostante il contenuto contraddittorio e demagogico delle promesse, tutti i sondaggi premino un’offerta politica che esprime il peggio del liberismo e del populismo. Appare incredibile che i cittadini diano fiducia ad una coalizione che predica lo Stato sovrano e intanto lo sottomette al dominio dei mercati finanziari; che ammicca ai concessionari di spiagge, ai tassisti e a chiunque abbia privilegi e rendite da tutelare; che usa in maniera ignobile il dramma dei migranti; che vuole chiudere il capitolo della transizione ecologica; che si propone la privatizzazione dei servizi pubblici togliendo risorse preziose allo Stato sociale; che strizza l’occhio agli evasori e promette un maxi-condono in un paese in cui il tax gap è di circa 100 miliardi all’anno, e si potrebbe continuare a lungo. Certamente pesa la crisi culturale del paese, il ruolo dei mass media e il degrado della politica. Senza infingimenti, però, dobbiamo dirci che c’è una corrispondenza diretta tra l’ampio consenso alla destra e l’arretramento politico, culturale e sociale della sinistra. Dopo la sbornia liberista, sia pure nella versione blairiana, dei gruppi dirigenti del Pds-Ds-Pd, si sono indeboliti i legami sociali e di massa, è cominciata l’emorragia dei voti e si è allargato a dismisura il fenomeno dell’astensionismo. Il punto è che a disertare le urne, per oltre il 70 per cento, sono cittadini a basso reddito, in massima parte ex elettori di sinistra. La destra ne trae vantaggio e, nel contempo, incamera pure il voto degli evasori. L’astensionismo elettorale e l’evasione fiscale sono due fenomeni che, in forme diverse, esprimono il malessere sociale, denunciano un grave deficit di partecipazione democratica alla vita pubblica, rivelano una diffusa tendenza a chiudersi nel proprio particulare. Con una differenza fondamentale: il popolo degli evasori, in attesa del prossimo condono, non rinuncia a votare a destra; il popolo degli sfiduciati, dei perdenti e della povera gente continua ad astenersi. La cosa assurda è che in Italia ad essere rappresentati, grazie alla destra, sono coloro che non pagano le tasse. Avviene un curioso ribaltamento del “no taxation without representation” (no alla tassazione senza rappresentanza), principio costitutivo dello Stato moderno. Per secoli il “rapporto d’imposta” ha indicato il legame tra la persona fisica e lo Stato, tra imposte e rappresentanza. Ha motivato il “patto sociale” attraverso cui lo Stato esercita le sue funzioni fondamentali e si impegna a garantire ai cittadini sicurezza, giustizia, istruzione, salute e altri diritti sociali e civili. La riflessione a sinistra deve ripartire proprio da qui, da come ridare voce e rappresentanza al popolo delle periferie, ai giovani precari, a quanti si sentono discriminati, emarginati e tagliati fuori. L’esito delle elezioni non sarà indifferente ai tempi e ai modi della ripartenza della sinistra Se riuscissimo, contro ogni pronostico, a sconfiggere la destra il compito sarà meno arduo. Questi giorni saranno decisivi per stabilire un rapporto con i segmenti più deboli della società e cercare di riportarli al protagonismo elettorale. La divisione delle forze di sinistra rappresenta un altro elemento di vantaggio per la destra. Il Pd è un partito d’opinione, con un orientamento prevalentemente liberal-democratico, ma non si può negare il suo saldo ancoraggio alla Costituzione e all’antifascismo. C’è poi la galassia del “piccolo mondo antico”, illuminante definizione di Norma Rangeri. Unione popolare, guidata da Luigi De Magistris, rappresenta un primo apprezzabile tentativo di aggregare una parte di questo mondo e superare lo sbarramento del 3 per cento. Dobbiamo però aver chiaro che l’avversario da battere, qui e ora, è la destra, non il Pd, SI o i 5 Stelle. Questa è la realtà oggettiva e non esistono scorciatoie. Dopo il 26 settembre, si tratta di affilare meglio l’arma della critica ed essere pronti a misurarci con le profonde contraddizioni della globalizzazione e del sistema capitalistico. I politici bussano, i giovani non aprono di Aldo Grasso Corriere della Sera, 4 settembre 2022 I politici che si sono esibiti su TikTok per conquistare i giovani al voto hanno sfiorato il ridicolo per l’infantilismo linguistico con cui si sono presentati, una sorta di lallazione informatica, di “baby talk”, quelle vocine che gli adulti fanno per rivolgersi ai bambini. Le risposte ricevute sul web da alcuni giovani andrebbero tenute in conto. Strano che gli esperti dei candidati ignorino queste regole elementari di comunicazione, come se la distanza fra i partiti italiani (nati più di cent’anni fa) e la generazione... (ultime lettere dell’alfabeto, a piacere) appaia incolmabile. La disintermediazione, frutto della rivoluzione informatica, ha assestato un duro colpo al vecchio edificio della conoscenza, a partire dalla scuola. I giovani s’informano sull’attualità per altre vie, attraverso pratiche algoritmiche di non facile decrittazione, seguendo forme nuove di passaparola (i social sono mezzi ma anche comunità). Ed è sempre più difficile, per un politico, spiegare loro ideologie e programmi di governo. Le barzellette di Berlusconi hanno fatto il botto? Certo, secondo il “canone Gigi Baggini” (Ugo Tognazzi che balla il Tip Tap in “Io la conoscevo bene”; c’è su YouTube). Ancora una volta, toccherà ai giovani inventarsi il futuro. È lì che passeranno il resto della loro vita, a partire dal voto delle prossime elezioni. Nessuna immagine è innocente di Wlodek Goldkorn L’Espresso, 4 settembre 2022 Ambigui, complici, mai neutrali. Tutti gli scatti contengono un preciso punto di vista sulla realtà. Come svelano i racconti visivi di questa violenta estate. Le immagini non sono innocenti e le verità che trasmettono sono molteplici, spesso ambivalenti, sempre soggette alla nostra interpretazione perché sono fatte dallo sguardo di chi le produce, del fotografo (professionale o meno), di chi filma un evento con il suo smartphone; uno sguardo che successivamente incrocia l’occhio di che ne usufruisce. E né lo sguardo né l’occhio sono tabula rasa, guidati invece da opinioni e pregiudizi, talvolta da ideologie o utopie future o nostalgiche o anche dalla libido (che non tratteremo qui), da un racconto precostituito. Lo sappiamo da decenni, da quando - per fare un solo esempio - una studiosa come Susan Sontag alle fotografie ha cominciato a dedicare libri e e saggi. Eppure ogni volta che vediamo un’immagine, che voglia essere eclatante o scandalizzare lo spettatore, caschiamo nell’illusione che quella sia la verità accertata. Del resto la nostra memoria più che delle parole è fatta da immagini. È successo pure in questa estate violenta, fra un assassinio feroce, un tentativo di uccidere uno scrittore celebre e un ritratto di un leader che guida un Paese in guerra. Ma procediamo con ordine. A partire da un video amatoriale in cui si vede niente o poco. Siamo in una sala a Chautauqua nello Stato di New York il 12 agosto. Nel filmato, della durata di 45 secondi, vediamo persone che si alzano dalle sedie. Poi sentiamo un uomo gridare ripetutamente “Oh, my God” (Dio mio). Al suono delle parole si sovrappongono le immagini di un palco dove una dozzina di persone sono disposte sul lato sinistro in un cerchio. Lentamente, entra in scena un poliziotto con un cane al guinzaglio ed entrambi, l’uomo e l’animale, sembrano smarriti e fuori luogo. Il punto è questo: fuori focus è tutto quello che succede. Ma sappiamo (da altre fonti) che il video documenta il tentativo di uccidere, con quindici coltellate, Salman Rushdie. Sappiamo pure che molti anni fa a Teheran è stata emessa una fatwa, una condanna a morte contro di lui per aver scritto e pubblicato “I versetti satanici” e non riassumeremo questa vicenda né il libro. Quello che ci interessa è il contesto. Basta leggere “I figli della mezzanotte”, il romanzo con cui lo scrittore, oltre 40 anni fa, è assurto alla celebrità e ha vinto il Booker Prize per capire che si tratta di un autore critico nei confronti del rapporto che l’Occidente ha con il resto del mondo, che in quel libro decostruisce la lingua inglese coloniale, introduce gli idiomi molteplici e spuri delle strade di Mumbai (un po’ come hanno fatto gli autori ebrei americani usando parole in yiddish nei loro testi) e parla dello sguardo che i colonizzati percepiscono e subiscono da parte degli occidentali. Ma è più che lecito sospettare che l’attentatore e gli estensori della fatwa sappiano poco o nulla di approfondito su Rushdie. O forse, al contrario, l’ira dei fondamentalisti si è rivolta contro un autore che vive la letteratura come indagine sulle verità, del mondo lontanissimo da ogni ideologia o fede rivelata. E che proprio per questo e non per la sua (inesistente) blasfemia lo vogliono morto. Tutto questo nell’immagine immediata filmata e diffusa non si vede, ovviamente. Ma anche nelle cronache si parlava raramente dei “Figli della mezzanotte”, come se per raccontare lo scrittore fosse importante solo l’ultimissimo episodio. A scanso di equivoci: Rushdie, una volta amico e oggetto delle lodi di Edward Said pioniere degli studi post-coloniali, negli ultimi anni ha avuto un atteggiamento sempre più critico nei confronti dell’Islam ma il libro resta e l’autore ne è sempre fiero e ne rivendica l’approccio. Poi c’è invece la vicenda di una serie di immagini non casuali, non amatoriali ma esplicitamente posate e volutamente artificiali. Stiamo parlando delle foto di Volodymyr Zelensky assieme alla moglie Olena, scattate da Annie Leibovitz e pubblicate a fine luglio su “Vogue”. Ci interessa, di nuovo, il contesto e la memoria. Memoria delle fotografie. Ecco, la più discussa fra le immagini raffigura la coppia presidenziale seduta a un tavolo, le facce rivolte verso l’obiettivo. Lui abbraccia quasi disperatamente la compagna della vita come se fosse la sua ancora nell’universo. Il punctum (per usare il termine caro a Roland Barthes) è la mano destra piuttosto grande del marito che stringe il corpo della moglie: la fede sul dito medio in vista. Sopra le braccia e i corpi ci sono i volti dei due con la guancia della donna attaccata alla guancia dell’uomo. Lei ha i capelli biondi mossi dal vento, gli occhi verdi-azzurri e la pelle dalla carnagione bianca. Lui ha i capelli e la barba neri come è anche il colore degli occhi, la carnagione della pelle è scura, il naso pronunciato, grande. Lui è forte, lei fragile? Non lo sappiamo. La foto è ambigua, è lecito il sospetto che sia la ragazza bionda stretta dalla manona dell’uomo scuro a dargli la forza e la fiducia. Ecco, a questa foto è stata mossa l’accusa di futilità, di immoralità, di qualcosa che non andava fatto perché il glamour - la foto è glamour - non si addice a un Paese in guerra dove vengono distrutte le città e ammazzate le persone. Può darsi. Però, nella discussione è mancato tutto quello che oltrepassa lo scatto. Intanto elenchiamo due elementi. Il primo. Le foto di Leibovitz fanno eco a un altro servizio della stessa autrice di vent’anni fa. In quelle fotografie del 2002 Leibovitz aveva raffigurato, sempre in chiave glamour, George W. Bush e il suo staff di allora: da Condoleeza Rice a Dick Cheney a Colin Powell e Donald Rumsfeld (e quella immagine fece anche da copertina di questo settimanale). In ambedue i servizi, la fotografa, compagna di Sontag (ci torneremo) racconta il potere in guerra, potere che tenta di apparire romantico nella convinzione che la forza e il sacrificio possano fare leva sulla storia e riscattare la dignità di un popolo (per Bush la guerra contro l’Iraq cui si stava preparando doveva riscattare l’umiliazione subita l’11 settembre). Ma anche l’idea di portare la libertà sulla punta delle baionette, per quanto sbagliata, è romantica. Romantica è pure la percezione che lo spettatore ha della solitudine e della tristezza del potere. Nella foto di Zelensky con la moglie lo spazio attorno sembra vuoto, quasi incolore, come un po’ lo sono i vestiti che i due indossano. Foto glamour si è detto. Infatti sono destinate a un pubblico che vuol essere glamour: il ceto urbano di Kiev, Leopoli e Mariupol, gente che ambisce a vivere esattamente come i loro pari a Milano. Abbiamo detto che le immagini non sono innocenti. E allora parliamo del secondo elemento mancato nella discussione sulle foto di Leibovitz. Eccolo, perfino le immagini che documentano la Shoah e ne sono testimonianza non ci dicono la “verità oggettiva” ma svelano l’occhio di chi le ha fatte. E alcune sono glamour. Lee Miller era una fotografa americana e una delle prime donne reporter di guerra. È celebre la foto dove lei posa ma in realtà ne è la regista: nuda nella vasca da bagno di Hitler, un paio di scarponi da soldato davanti. È un’immagine metaforica e come tutte le metafore soggetta a interpretazioni e non priva di ambiguità per l’ambientazione e il richiamo all’intimità. Miller ha anche scattato fotografie a Buchenwald. In una, glamour, si vedono detenuti, davanti a un mucchio di ossa. Gli ex prigionieri hanno addosso maglioni e giacche civili più che decenti, ai piedi scarpe robuste. Solo i pantaloni sono quelli da lager. Eppure, quella foto posata ebbe un impatto enorme nel fissare la memoria dei campi nazisti. Ma c’è di più. Tutti noi (o quasi tutti) abbiamo presenti le immagini degli ebrei sulla rampa di Auschwitz prima di essere avviati alle camere a gas, o sull’orlo delle fosse in cui finivano i corpi dei fucilati, per esempio a Babij Jar alle porte di Kiev. Però, osservando queste immagini vediamo le vittime con lo sguardo dei loro assassini. La stragrande maggioranza delle fotografie della Shoah sono state infatti scattate dai carnefici. Ecco perché le immagini non sono innocenti. E per tornare a Sontag, in un bellissimo testo del 2002 “Looking at War” pubblicato su “New Yorker,” parlando delle foto della guerra civile in Spagna, la grande pensatrice si chiedeva se l’estetizzazione uccide l’autenticità. Domanda aperta. Ma poi dice pure che non basta vedere gli orrori per essere contrari alla guerra. E non è neppure sufficiente condannare la guerra per stare dalla parte giusta. Occorre empatia, la capacità di distinguere. Cose difficili queste senza indagare il contesto delle foto, le fonti e la genesi dei fatti rappresentati. O se vogliamo, la stessa immagine può raccontare due storie opposte. Ma le immagini sono comunque testimonianze (per la memoria e per la giustizia). Lo dice uno storico della Shoah, Christopher Browning, motivo per cui tutte quante sono importanti nonostante la loro provenienza, che va spiegata. Vale pure per chi viene accusato di ignavia per non aver impedito la violenza estrema. A Civitanova Marche il 29 luglio, un uomo uccideva a colpi di stampella un altro uomo. Saliva il coro di indignazione: perché le persone intorno non sono intervenute per fermare l’omicida e invece si sono limitate a filmare l’accaduto? Ma quelle immagini, sfocate, frammentarie, sono importanti non solo e non tanto per il loro valore simbolico quanto prima di tutto per i Tribunali della Repubblica. Lo sono però perché il contesto ci è noto. La Nobel polacca alla letteratura Olga Tokarczuk dice spesso che viviamo in un’epoca in cui tutto viene preso alla lettera e sono scomparsi la metafora, il simbolo, il contesto. Ricostruirli è una forma di resistenza perché la metafora, il simbolo, il contesto ci rendono consapevoli di quanto viviamo dentro la catastrofe, di quanto le vittime non sempre sono esseri angelici, ma quanto in fin dei conti occorre scegliere da che parte si sta. O, per parafrasare Hannah Arendt: per aver la capacità di osservare e dare giudizio (quindi, aggiungiamo noi, interpretare le immagini) non occorre abbracciare tutto il mondo ma considerarsi soltanto cittadini del mondo. I migranti usati come armi: la strategia dietro l’aumento degli sbarchi in Italia di Bianca Senatore L’Espresso, 4 settembre 2022 Cresce il sospetto di un piano dietro l’impennata di arrivi sulle nostre coste, con l’obiettivo di destabilizzare l’Italia e l’Europa generando allarmismo. E senza nessuna pietà per le vittime di questa tratta. Il telefono squilla. Dopo quasi due mesi e mezzo Rasim (nome di fantasia) ha riattivato la linea e ricompare anche su Telegram. L’ultima volta che lo abbiamo sentito era in Serbia, pronto a traghettare, per la modica cifra di 5mila euro alcuni siriani attraverso i confini europei. La sua attività non si è mai interrotta, anzi, è riuscito a entrare in un vero e proprio network di smugglers che in questi giorni sta lavorando tantissimo, dice. Più del solito. Non vuole rivelare la sua posizione esatta, ma conosce il polso della situazione delle partenze dalle coste del nord Africa. E sa che stanno arrivando molti migranti. “Sì, li stanno portando ai punti di imbarco in centinaia alla volta, nessuno li ferma”, racconta Rasim. “Lo stanno facendo in Tunisia, in Libano, in Libia e anche in Marocco, per far partire quanta più gente possibile”. La conversazione è molto nitida e lui sembra non avere peli sulla lingua. Gli chiediamo perché e soprattutto il senso di quel “nessuno li ferma”. Il punto caldo della questione migratoria, in questo momento, sembra essere proprio questo. “Da metà giugno è iniziata a circolare la voce tra di noi di aiutare più gente a passare, di chiedere meno soldi, ma non mi frega di politica. Per me è lavoro”, ammette Rasim. Altri trafficanti, invece, hanno accettato e poi hanno iniziato a portare in massa gente sulle coste. “Hanno allentato i controlli sulle rotte interne, lì dove le milizie bloccavano, respingevano o incarceravano, c’è stato il via libera”. Il sospetto che dietro l’incremento delle partenze verso l’Italia ci fosse la brigata Wagner guidata dai mercenari russi c’era da tempo. Anche Repubblica ne ha parlato il 29 luglio scorso. Ma dai racconti dei trafficanti, sembra che dietro ci sia un coinvolgimento ben più vasto. Obiettivo: destabilizzare l’Italia e l’Europa. Secondo il dossier del Viminale, pubblicato il giorno di Ferragosto, tra il 1° gennaio e l’11 agosto 2022, 45.664 migranti sono arrivati sulle coste italiane. Circa il 40,3 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Si pensi che tra il 1° agosto 2019 e il 31 luglio 2020 erano sbarcati in Italia 21.616 migranti ma già l’anno seguente, cioè tra il 1° agosto 2020 e il 31 luglio 2021 erano sbarcate 49.280 persone, con un aumento del 128 per cento. Nel lungo periodo i numeri sono già da tempo in crescita ma è l’infittirsi di arrivi in un lasso di tempo limitato ad autorizzare altri scenari. Perché nel frattempo, è scoppiata una guerra in Europa che vede contrapposti Russia e Occidente e intanto in Italia è caduto il governo Draghi. Con le elezioni a settembre e un possibile cambio degli equilibri in Europa, l’immigrazione torna a essere tema e leva di propaganda. E una emergenza indotta potrebbe essere un’arma elettorale. “C’è un aumento delle partenze, te lo garantisco e non solo verso l’Italia ma anche verso la Spagna. Lo so perché le notizie ci arrivano”, specifica Rasim. Il riferimento è ancora una volta alla rete di trafficanti che avrebbe avuto l’ordine di allentare le maglie e far passare più migranti. L’ordine da chi è arrivato? chiediamo insistentemente. Ma Rasim non lo sa o non lo dice. Di sicuro qualcosa è cambiato nei comportamenti. A confermarlo è Kun, che è appena arrivato in Marocco dalla rotta desertica. È scappato dal Sud Sudan insieme a sua moglie dopo che lui è stato torturato e lei ha subito uno stupro di gruppo. Ora sono in salvo, alla fine di un viaggio lunghissimo che, però, negli ultimi tratti è diventato improvvisamente più agile. “Abbiamo attraversato molti Paesi e abbiamo dovuto pagare molti soldi. Ci hanno bloccato più volte nella giungla della Repubblica Centrafricana, poi in Ciad ci hanno preso soldi e ci hanno rimandato indietro. Siamo passati per un’altra strada e prima ancora di arrivare in Niger ci hanno respinti ancora”, racconta Kun che però aggiunge: “Poi, a un certo punto, ai posti di blocco ci hanno lasciato passare senza problemi e dall’Algeria al Marocco nessuno ci ha più fermati. Ci hanno anche dato un passaggio insieme ad un altro gruppo di persone. Viaggiavamo su un pulmino bianco, eravamo una trentina”. Giunti in Marocco, Kun e sua moglie vogliono chiedere asilo ma molti altri migranti, invece, vogliono proseguire il viaggio. E si stanno spostando nella zona di Tan Tan per imbarcarsi verso le Canarie, soprattutto verso Fuerteventura e Lanzarote. Negli ultimi giorni gli sbarchi in territorio spagnolo sono cresciuti e ci sono stati anche molti morti. Lo scorso 12 agosto un barcone con 54 persone tra cui 13 donne e 1 bambino si è capovolto. La Royal Moroccan Navy è intervenuta e ha salvato 36 migranti ma 18 risultano dispersi e nemmeno un corpo è stato ritrovato tra le onde. Poi ci sono le partenze direttamente dall’Algeria, verso Maiorca e Alicante attraverso la rotta oceanica, molto più impegnativa di quella del Mediterraneo. Secondo i dati del ministero dell’Interno spagnolo, alle Canarie c’è stato un aumento degli sbarchi del 25,8 per cento. Erano stati 8.222 nel 2021 e fino ad agosto se ne sono contati 10.347. L’incremento è stato proprio negli ultimi 15 giorni, quando tra Fuerteventura e Lanzarote sono arrivate 758 persone. Sarà, probabilmente, il risultato del passaggio libero ai checkpoint dell’Africa subsahariana, proprio come hanno raccontato Rasim e Kun. Nonostante l’incremento, però, i dati ufficiali diffusi dal governo di Madrid dicono che il numero totale di migranti arrivati irregolarmente in Spagna fino al 15 agosto è 18.147, l’1,1 per cento in meno rispetto allo stesso periodo del 2021. Anche il dato spagnolo, dunque, conferma che, come sta accadendo in Italia, l’aumento degli sbarchi registrati nell’ultimo periodo, è legato a una strategia contingente, messa in atto, forse, per generare allarmismo. Mettere sotto pressione alcuni Paesi europei e provare a indirizzarne l’andamento politico, facendo leva sui fattori fisiologici, guerre, violenze, terrorismo e siccità che da sempre sono alla base dei flussi. Tra i migranti arrivati a Lampedusa, Pozzallo e Roccella Ionica, le condizioni mediamente non sono buone. Molti sono stati torturati in Libia o nei Paesi d’origine. Altri sono arrivati denutriti e feriti e hanno riferito ai medici di indicibili violenze. “Stavo per morire in Libia. Provare a navigare il Mediterraneo era solo una chance. Sarei morta in mare, non mi importava più…”, ha raccontato una giovane donna salvata dalla Ocean Viking di Sos Mediterranee. Tra le strategie geopolitiche, la propaganda e gli slogan c’è tutto il dolore di questa ragazza e la dignità calpestata di migliaia di uomini, donne e bambini. Usati ancora una volta come “armi non convenzionali”. Droghe. La macchina della violazione dei diritti umani di Giada Girelli* Il Manifesto, 4 settembre 2022 “Le Nazioni Unite, la comunità internazionale, gli Stati Membri hanno la responsabilità storica di invertire la devastazione causata da decenni di “guerra alla droga” globale. Esortiamo gli Stati Membri e le agenzie ONU a fondare le loro politiche di droga sui diritti umani”. È questa la raccomandazione di una storica dichiarazione del gruppo di esperti del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU presentata da Marco Perduca su questa rubrica lo scorso 10 agosto, una delle più recenti manifestazioni di una progressiva quanto fragile rivoluzione nell’approccio alle droghe. Il tema delle politiche sulle droghe è delicato, complesso e contrassegnato da retoriche cieche alle evidenze scientifiche. Per questo è fondamentale una nuova risorsa, la prima in Italia, che offre una guida al tema dei diritti: “Droghe e Diritti Umani: le politiche e le violazioni impunite” scritto da Susanna Ronconi e Sergio Segio per SocietàINformazione, con il sostegno di Fight Impunity, edito da Milieu. Il volume ricostruisce le troppe violazioni causate da decenni di guerra alle droghe: dalla pena di morte per reati di droga, con oltre 4.000 vittime nell’ultimo decennio, alle esecuzioni extragiudiziali e i trattamenti forzati. Ma sono discussi anche abusi meno evidenti ma non meno gravi: l’assenza di servizi di riduzione del danno, la mancanza di farmaci palliativi, l’uso eccessivo del carcere - con 1 persona su 5 al mondo detenuta per reati di droga. Emerge così come le violazioni e la violenza siano legate non tanto alle droghe, bensì alle politiche; che non sono conseguenze imprevedibili di leggi e pratiche, ma caratteristiche strutturali di approcci punitivi. Il volume va nel profondo di cause, attori, e sviluppi politici, soprattutto internazionali; denuncia le responsabilità della governance globale, particolarmente dell’Agenzia ONU sulle droghe e il crimine (UNODC), nel “privilegiare il linguaggio e le strategie basate sulla repressione”, nel santificare un approccio punitivo figlio dell’ideologia. Un tema centrale è la tradizionale separazione tra il ‘mondo’ dei diritti umani e quello delle droghe. Un muro che inizia a sgretolarsi solo recentemente, arrivando dopo un lungo silenzio (e pur tra forti resistenze) a maggiori sensibilità, e a posizioni prima impensabili su temi critici come la decriminalizzazione, raccomandata oggi da diversi attori ONU. In questo processo è impossibile non citare il ruolo della società civile, incluse le associazioni dei consumatori, nell’imporre un cambio di prospettiva verso le persone che usano droghe non come criminali, ma appunto come persone, con diritti e dignità; troppo spesso vittime di una guerra di stato che più che i narcotrafficanti (che dalla guerra traggono enormi profitti) colpisce i più vulnerabili tra chi di droghe fa uso. Il volume ripercorre l’impegno della società civile a colmare il vuoto delle istituzioni e portare avanti un essenziale lavoro di documentazione, di denuncia degli abusi e degli “assordanti silenzi” di troppe autorità di fronte ai danni della guerra alla droga, e di promozione di strategie alternative più efficaci e umane. Se il tema dei diritti è consolidato nelle discussioni internazionali, diversa è la pratica, dove gli approcci punitivi sono prevalenti, gli abusi sono la regola, e discriminazione e violenza scandiscono la vita dei consumatori anche nei paesi ritenuti più progressisti. Ciò dimostra che la decriminalizzazione è essenziale ma non sufficiente. Urgono politiche di legalizzazione tese non a eliminare le droghe (obiettivo dimostratosi irrealistico) ma a promuovere salute e diritti; accompagnate da un ripensamento strutturale, con i diritti, la dignità e l’empowerment come principi guida. *Harm Reduction International, Analista Senior Diritti Umani e Giustizia