In 8 mesi 59 detenuti sono morti suicidi: mai così tanti di Giulia Torlone La Repubblica, 3 settembre 2022 “Persone fragili, tossicodipendenti e malati psichiatrici che non dovevano essere lì”. Donatella, “delicata come un cristallo di Boemia”. Simone, 44enne con problemi psichici che aveva rubato un telefonino. Alessandro, che si è tolto la vita al secondo tentativo: non era più sorvegliato. L’appello del Garante, di Antigone e del sindacato degli agenti: “Pochi medici, celle sovraffollate, l’isolamento dovuto al Covid tra le ragioni dell’impennata. Le regole vanno ripensate”. E da Villa Maraini le voci di chi ce l’ha fatta. “Ho fallito, so che avrei potuto fare di più” scrive in una lettera aperta Vincenzo Semeraro, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Verona. Sente addosso la colpa di non aver impedito a Donatella Hodo di togliersi la vita inalando gas da un fornelletto nella notte tra l’1 e il 2 agosto, nel carcere di Montorio. Di lei, ragazza ventisettenne, il giudice ha ricordato il suo essere “fragile, fragilissima, come un cristallo di Boemia”, con un passato di dipendenza dalla droga e una serie di furti. Non ha resistito al carcere e alla lunga attesa di rientrare in comunità. Superato in otto mesi il totale dei suicidi del 2021 - La storia di Donatella è quella dei 59 detenuti morti suicidi nelle carceri italiane da inizio anno, un numero che segna un triste record (nel 2021 sono stati 57 in totale). L’ultimo ieri, giovedì primo settembre, nel carcere bolognese della Dozza, dove un detento con problemi psichici si è impiccato usando come cappio i pantaloni della sua tuta. Solo ad agosto, 15 persone in detenzione si sono tolte la vita, una ogni due giorni. L’ultimo episodio è del 27 agosto a Capanne, in Umbria, quando un agente ha trovato il corpo di un ragazzo di 34 anni di origine marocchina, dietro le sbarre per aver fatto da palo in una rapina da pochi spiccioli. Due giorni prima era accaduto a Catania a Simone Melardi, 44 anni e affetto da problemi psichici, che si è impiccato dopo una settimana di detenzione. Era finito in carcere per aver rubato 180 euro e un telefonino. Il sindacato: “Mancano medici e cure verso i più fragili” - “La fragilità è il filo conduttore di queste storie - commenta Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato di Polizia penitenziaria, in sciopero della fame da oltre due settimane - e lo Stato non è in grado né vuole gestirle”. Dietro a questi suicidi, nella maggior parte dei casi, si nascondono dipendenze da droghe, alcol o disturbi psichiatrici. “Le carceri italiane sono diventate un girone dantesco. Non c’è solo il sovraffollamento, che è sicuramente un problema, ma la totale mancanza di cura verso i più fragili. I medici e gli psichiatri non sono abbastanza, i bandi spesso vanno deserti perché la paga è bassa e le condizioni di lavoro sono pessime”. Un detenuto su 4 è tossicodipendente. L’emergenza salute mentale - La denuncia degli operatori è chiara: dietro le sbarre ci sono persone che non dovrebbero stare lì, che necessitano di recupero e riabilitazione. Secondo gli ultimi dati, i detenuti tossicodipendenti sono oltre un quarto del totale, il 26 per cento. “C’è un’emergenza di salute mentale, ormai è evidente. Bisogna affrontare questo enorme tema sia all’interno del carcere che fuori. Le strutture per la detenzione alternativa sono poche e c’è bisogno di costruirne di nuove. In cella, un problema che potrebbe essere trattato facilmente all’esterno si radicalizza, perché l’ambiente è ansiogeno e privo di cura” racconta Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio detenuti di Antigone. Proprio per la possibile mancanza di cura, la procura di Torino ha aperto un’inchiesta dopo la morte di Alessandro Gaglioffo, ventiquattrenne torinese di origine brasiliana, in cella dopo aver rubato in due supermarket. La notte di Ferragosto si è coperto con il lenzuolo e si è stretto intorno al collo un sacchetto di nylon. Aveva già provato a uccidersi cinque giorni prima, ma gli avevano revocato l’alta sorveglianza. L’effetto del Covid e dello stop alle visite dei familiari - Se il fenomeno dei suicidi in carcere appare strutturale, l’impennata di quest’anno esige una lettura approfondita. “Siamo davanti a una situazione particolare, è innegabile che ci sia qualcosa di diverso. È tutta l’estate che ci interroghiamo sui motivi” ammette Scandurra. L’isolamento da Covid e la sospensione delle visite e dei momenti di condivisione hanno inciso molto in questi due anni, ma fino a poco fa questa mancanza era compensata dalla possibilità di utilizzare il telefono quotidianamente per contattare l’esterno. Il Garante Mauro Palma: “La politica dia un segnale” - “Piano piano, però, si sta tornando alla regola pre-pandemia che consente una sola chiamata a settimana, di dieci minuti. Ripristinare una norma di oltre quarant’anni fa è scellerato, avrà contraccolpi e conseguenze sempre peggiori per i detenuti fragili. La politica deve mandare un segnale subito, bisogna dare a queste persone la sensazione che non sono dimenticate lì” conclude il coordinatore di Antigone. Che il carcere sia il grande assente di questa campagna elettorale è convinto Mauro Palma, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che lancia un appello invitando i partiti “a un deciso cambio di rotta”. Detenzione alternativa: storie di quelli che ce l’hanno fatta - Quando la detenzione alternativa è possibile, i risultati positivi si vedono. È il caso di Valeria, quarant’anni, che faceva uso di droghe da quando ne aveva 15. Durante il lockdown la polizia la ferma in un luogo di spaccio e invece di finire in prigione, arriva a Villa Maraini. “Mi sono salvata venendo qui, ma penso a tutte le persone rinchiuse in un carcere e che non hanno possibilità di curarsi”, racconta in un video sui social. Non è facile che il giudice acconsenta alla detenzione alternativa: le lungaggini burocratiche si sommano ai costi che le Regioni devono sostenere per ogni persona curata in un centro dedicato. “Noi sosteniamo che punizione e trattamento non possano andare di pari passo - commenta Massimo Barra, presidente della Fondazione Villa Maraini - perché c’è il rischio che chi sta dentro, e sta male, impari a delinquere”. Nei centri di detenzione alternativa come questo, si fa un programma terapeutico di comunità. Chi arriva qui, magari dopo essere già stato in prigione, ha poche aspettative. Come Daniele che ora è diventato un volontario, ma ricorda gli inizi in un video. “Non ci credevo, perché ero abituato al carcere che è una scuola del crimine, senza prospettive di cambiamento. Col tempo, invece, ho iniziato a vedere le cose con un altro punto di vista. Bisogna dare a chi sta in carcere la possibilità di cambiare. E di salvarsi”. Emergenza carceri e suicidi. “Ecco che cosa fare subito” di Paolo Comi Il Riformista, 3 settembre 2022 Il tema del carcere e della detenzione in generale è il grande assente di questa campagna elettorale. Lo si è visto ieri mattina in occasione della manifestazione organizzata a Roma sotto il Ministero della giustizia a sostegno dello sciopero della fame da parte della presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, contro i suicidi nelle carceri. Tranne Roberto Giachetti, deputato di Italia viva con un passato da radicale come Bernardini, nessun politico ha infatti trovato il tempo per testimoniare vicinanza all’iniziativa non violenta della presidente di Ntc. Eppure i numeri dei suicidi fra le mura degli istituti di pena del Paese sono drammatici: 59 dall’inizio dell’anno, a cui devono aggiungersi 19 decessi al momento “per cause da accertare”. Pur a fronte di un calo complessivo della popolazione carceraria, attualmente di circa 55mila detenuti, i suicidi hanno invece fatto registrare negli ultimi mesi un aumento esponenziale. Le spiegazioni possono essere diverse. Come ricordato dalla stessa Bernardini, sono sempre di più i detenuti con gravi problemi psichiatrici, incompatibili con il regime carcerario, e che dovrebbero scontare la pena nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Purtroppo tali strutture, nate proprio per accogliere gli autori di reati affetti da disturbi mentali, non hanno un numero di posti sufficienti con la conseguenza che questi soggetti continuano a espiare la propria pena in carcere dove è impossibile qualsiasi terapia e cura specifica. Ai tanti detenuti malati psichiatrici si devono poi aggiungere coloro che sono affetti da tossicodipendenze, circa il 30 per cento dell’intera popolazione carceraria. Anche per costoro è incompatibile la detenzione carceraria dove difficilmente possono essere sottoposti a un programma di disintossicazione. Per Rita Bernardini, al diciottesimo giorno di sciopero della fame, ci sarebbero comunque due soluzioni in grado di dare un certo sollievo a chi sta scontando la pena in carcere. La prima si tratta di una ‘banale’ circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e riguarda le telefonate che possono essere effettuate dai detenuti, oggi incredibilmente limitate a solo dieci minuti alla settimana. Un aumento del minutaggio complessivo autorizzato dal Dap potrebbe certamente alleviare i momenti di solitudine e sconforto, spesso causa dei suicidi. Molto poche, poi, sono le strutture dove i detenuti possono inviare una mail. Pur a fronte dello sviluppo della rete, nella maggior parte degli istituti di pena si comunica ancora con la lettera inviata in busta con il francobollo. Un sistema ottocentesco che non garantisce neppure tempistiche accettabili: fra l’inoltro, la ricezione e la risposta può trascorrere anche un mese. La seconda soluzione riguarda il ricorso alla liberazione anticipata speciale, l’aumento dei giorni da scontare per i meritevoli. Per questo provvedimento, però, serve il via libera del Parlamento. Secondo il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, serve allora “un deciso cambio di rotta” da parte di tutti i partiti politici “che metta da parte lo scontro ideologico e ragionando in termini di utilità e funzionalità, nel quadro delineato dalla nostra Costituzione”. Una effettiva riabilitazione passa dalla possibilità di un concreto reinserimento nella società. E anche su questo fronte i numeri sono impietosi: sui 55mila detenuti, ce ne sono 1.200 che frequentano l’università ma anche 900 analfabeti, solo fra gli italiani, senza considerare gli stranieri. Il dato che deve, comunque, far riflettere riguarda chi si trova oggi in carcere. 1.301 persone hanno avuto una pena inferiore a un anno mentre altre 2.567 hanno una condanna compresa tra uno e due anni. “Quasi 4 mila persone per cui il carcere non può far nulla: è troppo poco tempo per poter costruire un reale percorso di conoscenza e di riabilitazione, ma è abbastanza per cucire addosso alla persona detenuta uno stigma che ne pregiudica spesso un effettivo reinserimento sociale”, ricorda il Garante, secondo cui “in questi casi il rischio è che il carcere sia inutile in partenza e aggravante in uscita”. Ma, come da più parti ricordato, “il tema del carcere porta pochi voti e scarsi consensi”. Caro Garante, l’esito del voto influirà anche sulle carceri di Franco Mirabelli* Il Dubbio, 3 settembre 2022 Il senatore dem Franco Mirabelli risponde all’appello di Mauro Palma: “Per noi il carcere va inteso come estrema ratio e luogo di reinserimento e di speranza”. Fa bene Mauro Palma a rivolgersi alla politica indicando le misure più urgenti che è necessario mettere in cantiere per affrontare la situazione, per molti versi drammatica, in cui versano le carceri italiane. L’apertura al territorio e una sensibilità nuova da parte degli enti locali alla realtà degli istituti di pena, un maggiore impegno per fare della pena una occasione di crescita e di formazione per i detenuti e la necessità di investire di più sulla sanità e la salute per garantire risposte necessarie soprattutto di fronte al disagio, anche mentale, che si vive nelle carceri. Tutto ciò è necessario per ragioni di semplice umanità ma soprattutto per garantire il rispetto del dettato costituzionale. Il Garante nazionale lancia il suo appello denunciando la mancanza, in campagna elettorale, di un dibattito su questi temi. È vero, il carcere è un tema delicato che poco si presta alle semplificazioni e che non contribuisce a creare consenso, ma credo sia sbagliato in queste settimane ignorare il tema perché penso che questo voto, e il risultato elettorale, peserà molto sul futuro delle carceri e sugli orizzonti dell’amministrazione penitenziaria. Si sa benissimo che ci sono due visioni contrapposte: l’idea del carcere come luogo di punizione, l’unico luogo dove espiare le pene, luogo deputato a privare della libertà e contenere chi delinque e l’idea, che in questi ultimi anni, grazie anche al lavoro del ministro Orlando e al contributo della ministra Cartabia, ha iniziato ad affermarsi, del carcere come estrema ratio a cui preferire misure alternative, sede di formazione e di lavoro capace di restituire speranza, di aprirsi all’esterno, operando davvero per il reinserimento e la riduzione della recidività. La senatrice Bongiorno, tanto garantista con i colletti bianchi, propone il carcere come unico luogo di espiazione della pena e, così, immagina un sistema che porterà ad un aumento esponenziale dei reclusi. Salvini ritorna a indicare nel “carcere e buttare via le chiavi” la ricetta per affrontare tutti i problemi di sicurezza. Insomma io penso che se anche, sbagliando, in campagna elettorale non si parla di carceri, non si possono non conoscere e vedere gli effetti che il voto può avere e gli scenari che possono profilarsi, con il rischio che le innovazioni positive di questi anni, che si sono realizzate anche grazie al lavoro di Mauro Palma, vadano cancellate. Accogliere o non accogliere le proposte del Garante, chiudere o non chiudere l’esperienza della vigilanza dinamica, rendere permanenti o no le misure introdotte durante il covid sui permessi di lavoro e sulla comunicazione con l’esterno, proseguire o meno sulla strada della formazione di tutti gli operatori, ampliare, certo in sicurezza, o no le pene che si possono espiare fuori dal carcere, proseguire o no sulla strada delle convenzioni per portare lavoro e formazione negli istituti. Queste sono le alternative e su questo si gioca il futuro delle carceri italiane. Penso che sia sempre giusto denunciare la disattenzione della politica, ma oggi, a tre settimane dal voto è doveroso e necessario esplicitare le possibili o probabili conseguenze di una scelta. Noi vogliamo proseguire sulla strada indicata dalla Costituzione: il carcere come estrema ratio e luogo di reinserimento e di speranza. Sì è vero, si parla poco di carcere in campagna elettorale, ma il 25 si vota anche per questo. *Senatore, capogruppo Pd in commissione Antimafia “La giustizia non sia vendetta”. Il piano del Cav per le carceri di Federico Garau Il Giornale, 3 settembre 2022 Il leader di Forza Italia affronta il tema delle carceri italiane. E promuove la Meloni: “Nulla di strano se la prima premier donna è di centrodestra”. Nuova pillola di Silvio Berlusconi sulle pagine dei social. L’argomento trattato oggi dal leader di Forza Italia è il sistema carcerario, che da anni versa in condizioni a dir poco pietose. Nel definire la situazione attuale, infatti, il presidente di FI parla di “condizioni vergognose” e della necessità di prendere al più presto dei provvedimenti. Nell’introdurre il tema, Berlusconi precisa che non è mai bello scegliere di privare qualcuno della libertà, tuttavia una simile decisione a volte si rende necessaria. “Io sono un garantista, il che significa adottare il massimo delle attenzioni per salvaguardare un possibile innocente, ma sono convinto che i veri colpevoli vadano puniti, anche in maniera severa” spiega l’ex presidente del Consiglio. “Però lo stato non può mai abbassarsi al livello dei criminali che vuole punire. Se il carcere diventa un luogo di tortura, di violenza, di promiscuità, allora non soltanto non serve a rieducare i detenuti, ma sortisce l’effetto opposto: anche chi è stato punito per una colpa lieve, nelle nostre carceri rischia di diventare un vero criminale”. Parlare di carceri porta a pensare a tutte quelle persone finite ingiustamente dietro le sbarre, i casi purtroppo sono molti. Alcuni restano rinchiusi in attesa di giudizio, e poi si rivelano innocenti. “Da trent’anni sono 1000 persone all’anno, tre ogni giorno, ad andare in prigione senza aver commesso alcun reato, senza avere alcuna colpa, come poi risulterà dall’esito dei loro processi” riferisce Berlusconi. Ci sono poi le condizioni di incuria in cui versano le carceri nelle quali, secondo le stime riportate dal leader di FI, si trovano recluse ben 55.000 persone, con un numero di posti letto pari a 50.000. “In alcune carceri vi sono 12 detenuti in una sola cella, con un solo bagno in condizioni precarie” spiega Berlusconi. “Le celle sono torride d’estate e gelide d’inverno. La possibilità di percorsi rieducativi è soltanto teorica, la qualità del cibo è pessima, il servizio sanitario è assolutamente carente. Il risultato è un suicidio ogni tre giorni, un detenuto che non ne può più si toglie la vita” aggiunge. Le riforme da fare - Silvio Berlusconi afferma senza mezzi termini di vergognarsi di vivere in un Paese in cui degli esseri umani vengono trattati in tal modo, pur avendo commesso in passato degli errori. Da qui la necessità che la politica prenda provvedimenti, e il leader di Forza Italia individua alcuni punti su cui intervenire. “Il primo impegno: dobbiamo costruire nuove carceri in numero adeguato che garantiscano ai detenuti delle condizioni di vita dignitose. Il secondo impegno: dobbiamo ampliare il più possibile le pene alternative al carcere. La detenzione carceraria dev’essere l’extrema ratio e solo per i reati più gravi. Come l’omicidio, la violenza sessuale, il terrorismo” passa ad elencare. E ancora: “Il terzo impegno: dobbiamo introdurre l’istituto della cauzione, per limitare al massimo le carcerazioni preventive. Il quarto impegno: dobbiamo migliorare le condizioni di lavoro degli agenti di custodia, che svolgono una attività ingrata in condizioni spesso drammatiche”. Tanto il lavoro da svolgere, dunque. “Se anche tu credi che sia necessario riformare a fondo il sistema carcerario, se anche tu vuoi vivere in un Paese nel quale giustizia non significhi vendetta, allora il 25 settembre devi venire a votare e devi votare per noi, per Forza Italia” conclude l’ex premier. Giustizia, il fattore personale. Lettera al prossimo Guardasigilli di Luciano Violante La Repubblica, 3 settembre 2022 Gentile ministr* della Giustizia, è ragionevole che ciascun nuovo ministro intenda lasciare il segno della propria azione di governo e che perciò progetti innovazioni radicali per differenziarsi dal predecessore. Mi permetto, come anziano frequentatore dei mondi della giustizia, di proporle di integrare la sua visione strategica continuando a collocare tra le priorità del suo ministero i problemi del personale. Dalla continuità di questo impegno dipende infatti il successo di ogni riforma. Come è noto, il presidente del Tribunale di Roma ha deciso di sospendere per sei mesi, dal 15 ottobre al 15 aprile 2023, l’assegnazione di nuovi processi alle udienze collegiali. La decisione, non so quanto provvida, ha avuto comunque il merito di richiamare l’attenzione sugli organici, sottostimati da tempo immemorabile: in Italia ci sono 12 magistrati ogni 100.000 abitanti di fronte ad una media europea di 21 magistrati. La carenza è stata affrontata negli ultimi due anni in quattro direzioni. La prima è la intensificazione dei concorsi, dopo il blocco dovuto alla pandemia. Tra il luglio 2021 e settembre 2022 sono stati messi a concorso più di 1.000 posti di magistrato ordinario. È necessario che i concorsi continuino a tenersi ogni anno. La seconda è la previsione di piante organiche flessibili per far fronte a processi di straordinaria complessità, come quello per il crollo del ponte di Genova. La terza direzione riguarda la integrazione degli organici dei funzionari amministrativi: cancellieri esperti, cancellieri, segretari. Nel 2021 ne sono stati assunti più di 4.000; nel 2022, sinora, più di 3.000. La quarta è costituita dall’assunzione degli addetti all’ufficio del processo. In tutto saranno 16.500; ne sono stati assunti sinora a tempo determinato più di 8.000. Questi nuovi dipendenti potranno collaborare tanto nell’attività giurisdizionale quanto in quella delle cancellerie. Si aggiungono infine 5.410 profili tecnici, informatici, statistici. Nella storia della giustizia non si era mai realizzato un intervento così massiccio e in così poco tempo. Il merito è del Pnrr, del Parlamento e del governo. Inoltre è stato previsto che i laureandi in Giurisprudenza dopo il superamento dell’ultimo esame del corso di laurea possano accedere al tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari; che i laureati in Giurisprudenza possano accedere al concorso direttamente, senza alcuno stage intermedio; che i concorsi si tengano contemporaneamente in più sedi. Il suo ministero, inoltre, per effetto di una recente innovazione, dovrà determinare entro il mese di febbraio i posti che si renderanno vacanti nel quadriennio successivo e dovrà informarne il Csm, che potrà coprire tempestivamente i posti vacanti per evitare vuoti di organico. Occorrerà accertare, infine, l’effettiva efficienza degli uffici giudiziari. A questo scopo potrà avvalersi dell’Ufficio per il monitoraggio, recentemente costituito, che le permetterà di accertare quali uffici funzionino meglio e quali meno bene ed intervenire in base alle sue responsabilità. A una immissione così massiccia di nuovo personale dovrebbe corrispondere un parallelo impegno delle Università. Le Università di Bologna, Napoli, Torino, Bari, Palermo, della Tuscia hanno vinto dei bandi per proposte relative al miglioramento del servizio giustizia. Forse occorrerebbe andare oltre, chiedendo a tutte le Università un particolare impegno didattico e scientifico dei Dipartimenti di Giurisprudenza per avere concorrenti all’ingresso in magistratura sempre più preparati. So bene, signor* ministr*, che questi impegni non danno lustro, ma le assicuro che i sostenitori delle riforme e tutti i cittadini, elettori e non, le saranno grati se su questo terreno riterrà di operare in continuità con il precedente governo. Con rispettosa cordialità. “Questa destra è più manettara dei 5S. La riforma Cartabia non si tocca…” di Simona Musco Il Dubbio, 3 settembre 2022 Parla il democrat Walter Verini: “Se lo scopo del centrodestra è riaprire la guerra dei 30 anni con la magistratura daremo battaglia”. “Con questa destra si rischia anche un giustizialismo manettaro che fa impallidire quello dei 5Stelle d’antan”. A dirlo al Dubbio è Walter Verini, tesoriere del Partito democratico, che promette il massimo impegno del suo partito per salvaguardare le riforme Cartabia. “Se lo scopo della destra è riaprire la guerra dei 30 anni con la magistratura daremo battaglia”, spiega. Onorevole, quali sono le priorità del Pd in materia di giustizia? Innanzitutto, come ha ribadito la nostra responsabile giustizia Anna Rossomando, attuare le riforme Cartabia. In questi due anni siamo riusciti a portare a casa riforme certamente perfettibili, ma tuttavia strutturali, sul penale, sul civile e sul Csm. Non era scontato e ciò ha consentito di far superare, nei fatti, la guerra dei 30 anni tra politica e magistratura, che non aveva reso possibile, per una lotta senza quartiere tra populismo giudiziario e garantismo a corrente alternata, riformare la giustizia. Che veniva usata come una clava per uno scontro politico. Ma ora, finalmente, si sono fatte riforme non a favore o contro qualcuno, ma per i cittadini. Come giudica le proposte del centrodestra? Vediamo una tentazione molto forte di buttare a mare queste riforme e la voglia di una trumpizzazione dell’Italia, con le allusioni al presidenzialismo e alla “cacciata” di Mattarella. Io non demonizzo il presidenzialismo in sé come concetto, ma in Italia il Presidente è un cardine di garanzia per tutti. Pensarlo senza rivedere complessivamente l’idea del ruolo del Presidente della Repubblica è pericoloso. Questo potrebbe preludere a una voglia di “regolare conti”, magari rendendo la Corte costituzionale e il Csm organismi che rispondono a maggioranze di governo e non al Parlamento nel suo insieme, colpendo il loro ruolo di garanzia e terzietà. Il popolo italiano aveva un’occasione per esprimersi sulla giustizia, i referendum. Il fatto che li abbia disertati in massa vuol dire che aveva fiducia nel Parlamento per le riforme. Quel fallimento viene ignorato dalla destra ma le riforme sono state fatte e, ora, non ci sono più un fine processo mai e una prescrizione infinita, abbiamo implementato i riti alternativi e detto basta alle gogne mediatiche. Il problema semmai è quello di garantire ciò in equilibrio con una sobria e corretta informazione. protocolli tra procura, avvocati e giornalisti come quello di Perugia indicano una strada. Secondo molti, però, la riforma Cartabia non risolve il problema delle degenerazioni correntizie all’interno della magistratura. Come interverrete? Procedure per carriere, giudizi, sono già stati cambiati. Non c’era tempo per fare una riforma di rango costituzionale, ma noi siamo per l’istituzione di un’Alta Corte per il disciplinare. Il Pd ha presentato con Rossomando una proposta di legge per segnare questo punto, che ribadirà nel nuovo Parlamento. Ma il correntismo, come ha detto più volte Mattarella al Csm in questo anno delicato, si supera soprattutto con l’autorigenerazione. E se c’è una politica che dichiara guerra all’autonomia e all’indipendenza della magistratura - e questi tentativi ci sono stati storicamente, politicamente e sono ancora un rischio presente - dall’altra parte ci possono essere frange della magistratura che reagiscono. Vogliamo davvero riaprire questa guerra o l’imperativo categorico è far funzionare la giustizia? Bisogna concentrarsi sull’applicazione di queste norme, anziché rilanciare temi balzani, come l’immunità parlamentare, che sembra quasi una difesa di casta. Se la politica farà questo dimostrerà che la priorità sono i cittadini, non i politici. Alcune modifiche legislative vengono chieste anche da molti amministratori, come quella della legge Severino. Qual è la vostra idea? Siamo favorevoli, abbiamo fatto proposte, in nome della presunzione di innocenza, per evitare che dopo un solo grado di giudizio un amministratore possa essere sospeso. Abolire l’intera Severino avrebbe consentito invece la candidabilità dei mafiosi, ma anche su questo il referendum ha messo una pietra. L’altra questione a cui gli amministratori tengono molto - e noi siamo d’accordo - è quella della responsabilità impropria, che prevede anche una modifica del Tuel. Non può esistere che se una porta cade in una scuola l’avviso di garanzia arrivi ad un sindaco. Il carcere è un tema assente in questa campagna elettorale. Ieri c’è stato un altro suicidio e il dossier dei Radicali mette in evidenza una situazione infernale. Cosa farete in caso di vittoria? Domani (oggi, ndr) sarò al carcere di Terni, dove la scorsa settimana ci sono stati un suicidio e il ferimento di un agente. Per il Pd quello dell’ordinamento penitenziario è uno dei temi centrali, perché la civiltà di un Paese si misura da queste cose. Ho firmato anch’io la proposta di liberazione anticipata speciale, per combattere il sovraffollamento. Altra cosa riguarda la riforma complessiva: su questo avevamo chiesto coraggio alla ministra Cartabia, chiedendo un decreto non solo per recepire le proposte della Commissione Ruotolo, ma anche per fare qualcosa di più strutturale. Cosa c’è di più necessario ed urgente della situazione delle carceri? Investire in umanità nella gestione delle pene significa investire anche nella sicurezza dei cittadini: se una volta fuori dal carcere chi ha sbagliato e ha pagato esce formato, con un lavoro in mano e un accompagnamento al reinserimento, è evidente che non torna a delinquere. Costituzione, insomma. Salvini, invece, rilancia l’idea di giustizia sommaria, come la castrazione chimica. Con questa destra vedo il rischio di un giustizialismo manettaro che fa impallidire quello classico dei 5Stelle. In caso di vittoria del centrodestra ci sarà un confronto aperto o una contrapposizione forte come ai tempi di Berlusconi presidente del Consiglio? Dipende. In questi ultimi due anni di legislatura, abbiamo votato delle riforme cercando punti di sintesi. Se si decide di andare avanti applicando quelle riforme e magari migliorandole, con il contributo di avvocatura e magistratura si può discutere. Ma se questa destra decide di riaprire la guerra con la magistratura saremo pronti a dare battaglia. Anche perché il rischio è anche quello di perdere i fondi del Pnrr, fondamentali per ammodernare il sistema giustizia. Non ce lo possiamo permettere. Applichiamo le riforme, velocizziamo le assunzioni di magistrati e cancellieri, stabilizziamo l’ufficio del processo. così si potrá far funzionare la giustizia non con le guerre. Gratteri inaugura le conferenze stampa show contro la politica di Ermes Antonucci Il Foglio, 3 settembre 2022 Il procuratore di Catanzaro attacca la legge sulla presunzione di innocenza dopo il maxi blitz contro la ‘ndrangheta a Cosenza. Prima di elevarsi a difensore della libertà di stampa, però, definisce “cretini” i giornalisti. Ha convocato una conferenza stampa per fornire i dettagli dell’ultima retata contro la ‘ndrangheta da 202 arresti, poi l’ha disdetta, infine l’ha riconvocata, ma allo scopo di attaccare la politica. Nicola Gratteri, capo della procura di Catanzaro, ne ha combinata un’altra. Giovedì mattina, alle prime luci dell’alba, la provincia di Cosenza si è risvegliata con un maxi-blitz contro la criminalità organizzata, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro guidata da Gratteri: 202 arresti chiesti dai pm e disposti dal gip, un totale di 254 indagati, un elenco infinito di accuse. Tra le persone arrestate e indagate ci sono anche amministratori pubblici, tra cui il sindaco di Rende, Marcello Manna, che finisce agli arresti domiciliari per una presunta corruzione politica-elettorale risalente alle elezioni comunali del 2019. Come da tradizione, l’operazione di Gratteri ha proporzioni mastodontiche, anche se, sempre seguendo la tradizione, sarà curioso vedere quanti di questi arresti saranno dichiarati illegittimi dal tribunale del Riesame e dalla Cassazione, e quante delle persone indagate saranno alla fine riconosciute come non colpevoli. Comunque, all’alba di giovedì Gratteri comunica ai giornalisti che in mattinata si sarebbe tenuta una conferenza stampa incentrata sul maxi-blitz. Pochi minuti più tardi, il contrordine: conferenza annullata. Passa un’altra ora e arriva l’ennesimo colpo di scena: la conferenza stampa si fa. “Avevo annullato la conferenza - spiegherà Gratteri - perché qualche cretino su qualche sito online ha fatto uscire la notizia alle 5 con informazioni non contenute nel nostro comunicato stampa”, cioè con i nomi degli indagati. I cretini sarebbero i giornalisti che, essendosi procurati l’ordinanza di custodia cautelare, hanno diffuso legittimamente le generalità delle persone indagate e arrestate (come appunto il sindaco di Rende). Perché, dunque, la conferenza era stata annullata? Nessuno lo sa. Fatto sta che, dopo aver dato dei “cretini” ai giornalisti, Gratteri si eleva a difensore della libertà di stampa e parte all’attacco: fornisce le informazioni generali dell’operazione di indagine, ma poi attacca la legge recentemente approvata dal Parlamento sulla presunzione di innocenza (in attuazione di una direttiva europea), sostenendo che questa gli impedisce di fornire i dettagli dell’operazione e i nomi degli indagati, definiti sarcasticamente “202 presunti innocenti”. “La stampa ha potere - dice ai giornalisti - chiedete ai vostri editori di dire ai politici di cambiare la legge”. In realtà la legge non afferma affatto che i dettagli dell’indagine e i nomi dei soggetti coinvolti non possano essere comunicati ai giornalisti. Afferma, invece, che le conferenze stampa non possano essere convocate senza un atto motivato che ne specifichi l’interesse pubblico, e che gli indagati non possano essere presentati come colpevoli prima di una sentenza definitiva. Difficile farlo, occorre ammetterlo, quando Gratteri svolge le sue conferenze stampa circondandosi di forze dell’ordine a favore di telecamere e facendo intervenire, come in questo caso, anche il direttore dell’Anticrimine, un comandante del Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata (Scico), un comandante della Guardia di Finanza, un generale dei Carabinieri, il comandante provinciale dei Carabinieri di Cosenza e il capo della squadra mobile di Cosenza. Tutti in uniforme, con le loro medaglie al petto, le loro decorazioni militari, i loro “nastrini”. Impossibile comunicare il nome di un indagato senza farlo apparire come Al Capone. Dunque, non potendo mettere in scena l’ennesima conferenza stampa show contro gli indagati, Gratteri (che tra l’altro ora punta a guidare la procura di Napoli) ha deciso di inaugurare un nuovo format: la conferenza stampa show contro la politica e le leggi adottate da quest’ultima. Un uso strumentale del proprio ruolo che, siamo sicuri, sarà attentamente valutato dal Csm e dal ministero della Giustizia. Calabria. Il “Minotauro” dell’antimafia ha bisogno sempre di nuove vittime di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 3 settembre 2022 Un centinaio di aderenti a “Nessuno tocchi Caino” sono in sciopero della fame per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla diffusa pratica di pena di morte tramite suicidio in carcere. Di questi il 30% era in attesa di giudizio. Sappiamo inoltre che le carceri calabresi sono in pessimo stato e che al loro interno, l’unica autorità riconosciuta è la ndrangheta. Infine è noto a tutti che la Calabria è la prima regione d’Italia per indennizzi a persone innocenti finite in carcere. In tale contesto la procura di Catanzaro guidata dal dottor Gratteri dà un’ulteriore pennellata al quadro già molto angosciante arrestando quasi 200 persone. Tra questi il sindaco della città di Rende, nonché presidente dell’Anci Calabria. In questo tipo di inchieste un politico importante non deve mai mancare pena il calo di attenzione da parte dell’opinione pubblica. La nuova maxi retata avviene in un momento in cui ‘ Rinascita scott’ si trascina e agonizza tra stanchezza e noia. L’avvocato Pittelli continua ad essere detenuto ma è difficile sfuggire alla sensazione che i motivi della sua detenzione abbiano poco da fare con il processo. Tra l’altro Rinascita Scott, un piccolo processo di provincia gonfiato artificialmente, per impressionare l’opinione pubblica, rischia di saltare nella sua interezza. A questo punto la strategia è quasi obbligata. Bisogna rilanciare e magari alzare la posta. Spostare la discussione da Pittelli al sindaco Manna e ad altri politici oggi coinvolti. Dai Mancuso alla cosca degli zingari e via dicendo. Sia chiaro noi non facciamo indagini e non sapremmo farle. Non è questo il nostro mestiere quindi non siamo innocentisti e tanto meno colpevolisti. Continuiamo a credere nella presunzione di innocenza ed alla necessità di non ferire a morte una persona quando non ricorrono le condizioni indispensabili per l’emissione d’un mandato di cattura. E di abusi, in Calabria, in questi ultimi trent’anni ne sono stati fatti a migliaia senza mai una pur timida autocritica da parte dei responsabili. Il risultato è che in Calabria la campagna elettorale è stata aperta da un colpo di fucile contro la segreteria di un parlamentare mentre lo stesso si trovava nei locali e oggi, in piena campagna elettorale, si registra l’ennesima retata che di fatto sposta l’attenzione dell’opinione pubblica dal floscio e moscio dibattito ‘ politico’ alla attività dell’antimafia. Avvantaggiando di fatto i candidati duri e puri. Una sola certezza: la strategia messa in campo in questi anni da noti procuratori antimafia è fallita. È iniziata tanti anni fa sull’esempio di quanto succedeva a Palermo dove magistrati eroici scrivevano la storia facendo luce, almeno parzialmente, sui rapporti oscuri tra mafia e Stato (centrale e periferico), su centinaia di omicidi, di estorsioni e di ricatti mentre in Calabria da ‘Stilaro’ a ‘Mandamento Jonico’ a ‘Marine’ e via dicendo ogni ‘retata’ corrispondeva ad una acclarata strage di innocenti. E per ogni innocente arrestato la ‘ndrangheta conquista mille simpatizzanti. Così ancora oggi la ‘ndrangheta è protagonista e il ‘Minotauro’ dell’antimafia pretende sempre nuove vittime innocenti per mantenersi in vita. Bologna. Suicidio in cella, carcere della Dozza nel mirino: “Ora un’ispezione” di Luca Muleo Corriere di Bologna, 3 settembre 2022 Un 53enne, in cella da un mese, si è impiccato. Ira della Camera penale: sindaco e pm agiscano. Lente sulla direzione sanitaria. Sarebbe uscito a fine anno. In carcere era tornato da un mese, dopo la revoca di una misura alternativa. Aveva 53 anni, origine slava, piccoli reati alle spalle e problemi psichici. L’hanno trovato impiccato nell’infermeria. L’allarme dei sindacati, l’ira dei penalisti che chiedono un’ispezione. Sarebbe uscito a fine anno. In carcere era tornato da un mese, dopo la revoca di una misura alternativa. Aveva 53 anni, origine slava, sulle spalle una serie di piccoli reati commessi, un tentativo di evasione. E problemi psichici. Due giorni fa l’hanno trovato impiccato nell’infermeria, aveva usato i pantaloni della tuta. E’ il sesto detenuto che si uccide in Emilia Romagna nel 2022, il 59esimo in Italia. Una tragedia che è anche l’ennesimo segnale d’allarme rispetto alla situazione delle carceri e della Dozza in particolare. Insostenibile secondo i sindacati di polizia penitenziaria, che nel diffondere la notizia sottolineano come tutto il peso sia sugli agenti. Dura la presa di posizione degli avvocati penalisti che invocano l’apertura di un’inchiesta da parte della Procura e del Ministero sulla morte di un ristretto bisognoso di cure ritenute incompatibili col regime carcerario. Il garante dei detenuti, Antonio Ianniello, lancia invece la proposta di selezionare e formare detenuti in grado di allertare medici e personale dei penitenziari di fronte a problemi psicologici di altri carcerati, e “offrire vicinanza e supporto a coloro che sono a rischio”. Il 53enne, dice Iannello che prospetta la necessità di rivedere i protocolli di prevenzione, “aveva mostrato accentuate difficoltà di adattamento alla condizione di detenzione in ragione di patologia psichiatrica per la quale era seguito in carcere”. In un contesto critico come quello della Dozza, che ospita “ben oltre 200 persone rispetto alla capienza regolamentare di 502”, tra “carenze di organico, precaria qualità delle condizioni detentive, difficili condizioni operative”. Come detto, la Camera penale di Bologna parla di persone “sole e già dimenticate” come le “altre due che da inizio anno sono morte nel carcere della nostra città, in circostanze che sembra non possano, o non si vogliano, chiarire”. I penalisti ricordano di aver invocato nelle precedenti occasioni “interventi immediati da parte delle istituzioni penitenziarie, ma anche del Sindaco e del Procuratore. Sono passati solo pochi mesi, ma nulla è stato fatto, e nulla pare si intenda fare, per fermare questa strage”. E adesso chiedono al ministro della Giustizia di disporre un’ispezione urgente “per accertare se vi siano le condizioni minime per poter garantire la sicurezza delle persone detenute, con una attenta verifica dell’area sanitaria”. Al Procuratore di svolgere “le opportune verifiche per accertare compiuta la dinamica e le cause del decesso e se vi siano state omissioni nella custodia e nella cura del soggetto”. Si rivolgono poi al Tribunale di Sorveglianza per “sollecitare i magistrati a effettuare visite all’interno del carcere” e per verificare “attentamente i pareri medici rilasciati dall’area sanitaria sulla compatibilità del regime carcerario con le patologie di cui sono affetti i detenuti richiedenti misure alternative o altri benefici penitenziari”. Di notizia “ancora più grave visto che alcuni detenuti dovrebbero essere controllati con ancora maggiore attenzione” parla il garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri. Sul fronte della polizia penitenziaria Nicola D’Amore del Sinappe si chiede “quanto sono efficaci i protocolli che rilevano il rischio suicidario senza le figure sanitarie”. E come la Fp-Cgil chiede una presenza fissa di personale sanitario che offra assistenza psicologica e psichiatrica. Per Giovanni Battista Durante e Francesco Campobasso del Sappe un suicidio in carcere “è sempre un fallimento delle istituzioni che dovrebbero garantire equilibrio e legalità nell’esecuzione della pena”. Bologna. Suicidio nel carcere della Dozza. Il Garante: “Serve aiuto dai detenuti” Il Resto del Carlino, 3 settembre 2022 L’appello del Garante: “Selezionare e formare persone all’interno dell’istituto per intercettare situazioni d’allarme”. Il Garante per i detenuti di Bologna lancia l’allarme: selezionare persone all’interno del carcere perché siano in grado di intercettare situazione d’allarme. Questo prima che accada l’irreparabile. la tragedia nell’istituto detentivo proprio l’altra sera: un detenuto di 53anni di origine straniera si è tolto la vita. L’uomo si trovava alla Dozza da circa un mese, e aveva fatto ingresso nell’Istituto penitenziario, in ragione della revoca di una misura alternativa alla detenzione, e prima della fine di questo anno avrebbe terminato di espiare la pena. “Secondo quanto appreso, aveva palesato accentuate difficoltà di adattamento alla condizione di detenzione - anche nel corso delle precedenti carcerazioni - in ragione di patologia psichiatrica per la quale era seguito in carcere”. “E in questo senso anche ogni intervento - e ogni via che sia allo stato percorribile - che possa essere utile in chiave di prevenzione va sperimentato: l’attenzione è sul potenziale ausilio che può anche giungere dalle stesse persone detenute, se adeguatamente formate a offrire vicinanza e supporto a coloro che sono a rischio con l’obiettivo di tentare di costruire interventi concreti per presidiare le situazioni che possono essere potenzialmente stressanti in un contesto di privazione della libertà personale”. “Era dagli ultimi giorni del settembre 2020 - ha sottolineato il garante - che non si verificava un evento tragico di questa natura nel carcere”. Il locale contesto detentivo non è mutato: permanente condizione di sovraffollamento (ben oltre 200 persone oltre la capienza regolamentare di 502); carenze di organico nelle varie aree; precaria qualità della condizioni detentive; difficili condizioni operative per coloro che lavorano in carcere”. Per Ianniello, quindi,”risulta urgente verificare lo stato di applicazione del piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie in carcere” e”ogni intervento che possa essere utile in chiave di prevenzione va sperimentato: l’attenzione è sul potenziale ausilio che può anche giungere dalle stesse persone detenute, se adeguatamente formate a offrire vicinanza e supporto a coloro che sono a rischio”. Vibo Valentia. L’allarme del Garante dopo il blitz di Gratteri: “In dieci in una cella” Il Dubbio, 3 settembre 2022 Il Garante campano è stato allertato dai familiari di alcuni detenuti campani ristretti in Calabria: con gli arresti di ieri il sovraffollamento è fuori controllo. Nella giornata di ieri, il Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello, è stato allertato da diversi familiari di detenuti campani, attualmente ristretti nella Casa circondariale di Vibo Valentia, per sovraffollamento della struttura penitenziaria. I loro parenti ristretti hanno lamentato di trovarsi, da ieri mattina, in celle con dieci e dodici compagni, a seguito dell’operazione della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, scattata alle luci dell’alba di ieri nella provincia di Cosenza. “Sono preoccupato - afferma Ciambrello - per quello che sta succedendo nel carcere di Vibo Valentia. Comprendo, in parte, i motivi e le pulsioni che spingono un giudice a firmare un’ordinanza di misura cautelare in carcere per 200 persone, ma mi chiedo come sia possibile che, prima di eseguire questi blitz, non si verifichino le disponibilità negli istituti penitenziari. È impensabile che vengano prelevati di notte dalle loro case e poi “scaricati” in carceri non adeguati ad accoglierli. Mi sto occupando di questa vicenda perché in Calabria sono tanti i detenuti di origine campana e anche perché è l’unica regione d’Italia che ancora non ha eletto il Garante dei detenuti”. “C’è un punto all’ordine del giorno del Consiglio regionale che viene puntualmente rinviato. Sono detenuti doppiamente dimenticati. Per quanto tempo ancora dovranno vivere questa ‘doppia reclusione’? Mi auguro che, non solo al più presto vengano adottate misure che ristabiliscano serenità nel carcere di Vibo Valentia, ma soprattutto che la Regione si decida a garantire ai “diversamente liberi” un organo di garanzia, che si occupi delle loro problematiche quotidiane”. Ravenna. Musumeci (ex detenuto): “La società chiede giustizia ma vuole vendetta” agensir.it, 3 settembre 2022 “La legalità uno Stato prima di pretenderla deve darla”. Lo ha detto ieri a Ravenna Carmelo Musumeci, ex detenuto condannato all’ergastolo ostativo e ora in libertà condizionale in una delle case della comunità della Papa Giovanni XXIII partecipando alla tavola rotonda “Recluse, donne nelle carceri italiane” organizzata dal settimanale interdiocesano Risveglio-Corriere Cesenate-Il Piccolo in occasione della mostra fotografica di Giampiero Corelli sulle condizioni delle detenute nelle carceri femminili d’Italia. Originario di Aci Sant’Antonio, in provincia di Catania, si trasferisce in Toscana a 16 anni dove entra a far parte di un’organizzazione criminale dedita al traffico di droga, racket e bische clandestine. A causa di una guerra tra bande, nel 1991 viene condannato all’ergastolo per omicidio e sottoposto al regime di 41 bis. “Una tortura democratica”, così lo definisce, descrivendo le condizioni del carcere dell’Asinara negli anni ‘90: “Per un anno e sei mesi non ho più incontrato nessuno. Le condizioni igieniche erano disastrose, mancava l’acqua corrente. Dal bagno alla turca entravano i topi, che andavano anche in cella”. La via di uscita, in quelle condizioni, sono stati i libri e la cultura: entrato con una licenza di terza media, Musumeci in carcere è riuscito a prendere tre lauree, in Giurisprudenza, sociologia e filosofia. “Fu un educatore - ricorda - che all’Asinara mi disse: hai tanto tempo, perché non ti metti a studiare? Ma in regime di 41 bis non potevo avere neanche i libri. ‘Non cominciare a trovare scuse’, mi disse e iniziò a mandarmi pagine di libri per lettera. Ancora devo capire perché in carcere hanno paura dei libri. E anche dell’amore”. L’amore, invece, è proprio ciò che fa andare avanti, testimonia Musumeci, anche in carcere: “In tanti, anche ultimamente, hanno preferito togliersi la vita perché l’amavano e non sopportavano di vivere così. La mia compagna, invece, mi diceva, ‘devi vivere’ e così io avevo una doppia condanna: l’ergastolo e a vivere”. Poi, l’incontro con la Papa Giovanni XXIII e con don Oreste Benzi: “La mia fortuna sono state le relazioni: prima con don Oreste e ora con Nadia Bizzotto” responsabile della struttura di accoglienza “Il Sogno di Maria” di Bevagna (Perugia) che ospita Musumeci nell’ambito del progetto Oltre le Sbarre. Da quel momento per lui inizia un percorso di riscatto, non semplice ma salvifico: “In carcere non ti puoi permette di diventare buono, il carcere non vuole questo: se lo diventi, ti ribelli. Il problema è culturale. Non è il codice penale che stabilisce che sei una brava o cattiva persona”. “La società chiede giustizia ma vuole vendetta - conclude l’ex detenuto -. Si dice che occorre rieducare i detenuti ma quando si rieduca la società? Secondo le statistiche, il 70% di chi esce dal carcere poi ci torna, ma io dico che il restante 29% non ci torna solo per paura. Dovrebbe essere un’opportunità, non far paura”. “Metamorfosi: un canto del mare” dai barconi dei migranti alla musica di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 settembre 2022 Con “Metamorfosi: un canto del mare”, corto di Giovanni Pellegrini, alla 79ma Mostra del Cinema di Venezia arrivano immagini di un carcere lontano dai generi cinematografici e dalla cronaca, quello ancora sconosciuto a parte della società libera. Ne dà notizia il quotidiano del ministero della Giustizia, rendendo nota la presentazione, presso lo spazio Regione Veneto/ Veneto film Commission dell’Hotel Excelsior, del documentario che racconta come, grazie a un progetto pilota promosso dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, dall’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli e dal Dap, legni di barconi utilizzati da migranti per venire in Italia siano stati trasformati da detenuti del carcere di Milano Opera in strumenti musicali dal raro valore evocativo. Non nascondono dietro laccature e levigature il loro passato, ma portano i segni della salsedine, raccontano viaggi verso un futuro migliore, a volte mai giunti a destinazione. Alcuni di questi strumenti costituiranno il primo quartetto d’archi che suonerà una sinfonia appositamente composta dal maestro Nicola Piovani. “Il carcere ha tanti volti, ai più sconosciuti - ha commentato il capo del Dap, Carlo Renoldi - Questa preziosa occasione qui alla Mostra del Cinema di Venezia per il progetto Metamorfosi, di cui siamo particolarmente orgogliosi, evidenzia, alla società libera, un carcere impegnato nella promozione delle persone detenute. L’attività della liuteria offre infatti un lavoro qualificante e autenticamente riabilitativo, come devono essere tutti i percorsi di reinserimento avviati all’interno degli Istituti. Il progetto ha anche un grande valore simbolico perché i violini sono realizzati con i legni dei barconi su cui i migranti cercavano una nuova vita attraverso il lavoro. Raccontare anche questo aspetto contribuisce ad accendere nuova luce su un mondo che è parte della nostra Repubblica”. All’incontro tenutosi martedì scorso erano presenti insieme al capo Dap, al Direttore generale delle Dogane e Monopoli, Marcello Minenna, e al presidente della Casa dello Spirito e delle Arti, Arnoldo Mosca Mondadori, il sindaco di Lampedusa, Filippo Mannino, e il regista del corto, Giovanni Pellegrini. Gli altri protagonisti del progetto, i detenuti del laboratorio di liuteria del carcere di Opera narrano invece nel documentario un’esperienza fatta anche di tante emozioni: “In fondo ai barconi abbiamo trovato anche scarpette di bambini, fischietti attaccati a giubbotti di salvataggio e altri oggetti che ci hanno fatto pensare ai tanti che non ce l’hanno fatta. Per noi è stato un viaggio nel viaggio”, racconta il giornalista Andrea Pancani che ha moderato l’incontro. “Intendiamo estendere questo progetto - ha concluso Renoldi - perché ci ha consentito, attraverso l’attività dei tanti testimonial e l’attenzione della stampa estera, di mostrare uno dei percorsi attuati all’interno delle carceri che meglio esprime il finalismo rieducativo della nostra Costituzione, la più bella del mondo, della quale come italiani dobbiamo essere particolarmente orgogliosi”. Il progetto “Metamorfosi”, è stato insignito della Medaglia del Presidente della Repubblica Italiana per l’alto valore sociale e di legalità di cui è portatore. Saramago non è tornato di Enrico Sbriglia L’Opinione, 3 settembre 2022 È un testo che mi ha sempre inquietato, forse perché osserva, con un umanesimo spietato, le nostre società e i nostri modelli di Stato, che presumeremmo avanzati in tema di democrazia, quantomeno dichiarata, ancorché malamente praticata. Il titolo del libro, di Josè Saramago, è “Saggio sulla lucidità”. Descrive uno scenario di delusione verso la politica, le istituzioni e i suoi rappresentanti, esprimendo una insofferenza verso i governanti che assomiglia terribilmente ai momenti drammatici che stiamo vivendo, seppure pare che quest’ultimi siano percepiti in modo banale, distante, dalla generalità. Al massimo, avvertiti e tradotti visibilmente negli aumenti progressivi del costo del gas, nel rialzo dell’inflazione; nell’invito, al momento ancora silenziato, ad adottare stili di vita più sobri in tema di consumi, soprattutto di quelli riferiti all’energia e alla mobilità, nonché nei trasporti. Il libro racconta di ciò che accade in una indefinita città del Portogallo, in occasione di una tornata elettorale nel corso della quale si registra un’astensione massiccia, maggioritaria, del corpo elettorale e di come tale accadimento venga interpretato dalle forze politiche di Governo e di opposizione come fatto eversivo. Una testimonianza palese di un ordito di trame finalizzate a sovvertire il sacro ordine costituito. Una congiura, forse, ispirata da potenze straniere e nemiche che intendono in tal modo sovvertire il sistema. Da lì una reazione governativa progressiva e violenta verso i cittadini, che risulteranno tutti sospettati di far parte della trama, mentre per converso i politici che l’autore, premio Nobel per la letteratura nel 1998, indica come appartenenti al partito di mezzo, oppure di destra o di sinistra, non si discostano assolutamente da una lettura condivisa e univoca che vede negli elettori non più la fonte d’ispirazione delle proprie azioni e programmi politici, ma il nemico: il nemico d’abbattere. Nel racconto, che si sviluppa come un giallo, c’è il richiamo a una epidemia che ha colpito il Paese qualche tempo prima, determinando la cecità di quanti si siano infettati: quanta similitudine con il dramma del Covid che abbiamo vissuto in questi due ultimi anni e che ancora stiamo combattendo. O meglio, subendo! Nel frattempo, però, si avvicina anche per noi cittadini italiani, sempre più involuti nel ruolo di sudditi che intendono imporci, l’ennesima incomprensibile scadenza elettorale, quasi come se non fossimo in uno stato di guerra, ancorché non palesemente dichiarata, mentre i parolai di una politica senza più pensiero critico, dopo avere umiliato e mutilato il Parlamento con una legge suicida, ingaggiano tra loro la sfida delle promesse vuote e impossibili, sventolando il cencio di un Eldorado, ognuno con la propria visione di un avvenire radioso e progressivo, dimentichi tutti delle regole basilari dell’economia politica, del fatto che andrebbero sempre indicati i cespiti certificati delle risorse che si potrebbero impiegare. E poi quali redditi verrebbero effettivamente penalizzati, quali politiche economiche - in un’ottica di armonizzazione con quelle dell’Unione europea e confortata da essa - si dovrebbero intraprendere, quali ulteriori e necessari sacrifici dovremmo intraprendere. No, meglio esibire le paillette e mostrine, meglio ostentare a ogni piè sospinto i crocifissi al collo di Cristi con il capo inclinato. Così, almeno loro, non vedranno e sentiranno le cose che si propinano agli elettori. Meglio lanciare promesse sulla flat-tax, con la solita tiritera degli aiuti alle famiglie, aggiungendo semmai la proposta di ripristinare il servizio di leva obbligatorio per i nostri giovani, mostrando un tempismo e una capacità di leggere i tempi terribili che stiamo vivendo che, ancora una volta, sanno raccontare della lontananza della politica dalla sensibilità e dai timori diffusi tra la gente, nelle famiglie, qualunque esse siano, monocellulari, ordinarie, allargate, multicolori. Chi, infatti, affiderebbe a questa amorfa classe politica le proprie figlie e i propri figli, o la nipoteria, soprattutto nei momenti difficili che il Paese sta vivendo. Chi si fiderebbe di loro, della loro autorevolezza e del loro senso dello Stato, della loro ragionevolezza e capacità di ponderazione? I sacrari militari, che costellano il nostro Paese, dove riposano inquieti migliaia di ragazzini dai più diversi dialetti e dalle uniformi bucherellate, che non ebbero la fortuna di tornare a provare la carezza di una madre, che non conobbero l’amore di una donna, il piacere di accarezzare un figlio, d’impegnarsi nel lavoro e nella società, ormai sembra che non contino più niente, mentre cresce in tanti la consapevolezza che una sparuta minoranza di cittadini, i quali il 25 settembre pure esprimeranno una scelta partitica, consentiranno a delle forze politiche, qualunque esse saranno, di governare con numeri insignificanti, con percentuali che un tempo sarebbero state intestate alla minoranza, un’Italia piegata. Sì, è proprio il trionfo di una politica sinistra, che nulla ha di liberale e convintamente democratico e partecipativo. E nessun Saramago italiano sembra più in grado di descriverla. Che almeno la smettessero di dire bugie! Marco Cappato: “Accompagno chi cerca il suicidio assistito. Ma non so se io lo farei” di Elvira Serra Corriere della Sera, 3 settembre 2022 Antiproibizionista, è stato per anni al fianco di Pannella e Bonino: “Con Marco ho anche vissuto a Roma. Ricordo queste cene insostenibili con la pastasciutta: metteva un panetto di burro e una montagna di parmigiano” Quante volte è stato arrestato? “Portato dentro per il fermo di polizia... in Italia un paio di volte, poi a Bruxelles e a Mosca. Arrestato per qualche giorno, invece, a Manchester”. L’esperienza più pericolosa? “A Mosca, nel 2007. Ero andato con altri parlamentari europei ad aiutare l’organizzazione di un Gay Pride non autorizzato. Contro di noi c’era un gruppo di facinorosi skinhead neonazi, mentre un prete ortodosso ci lanciava l’acqua benedetta. Era pericolosa la situazione: la strategia della polizia era di lasciare che si trasformasse in rissa, per non intervenire e lavarsene le mani”. Che bambino era? “Normale, allegro, molto sportivo: giocavo a pallacanestro fin da piccolissimo. Guardavo Goldrake, andavo in montagna, in spiagge improbabili della Jugoslavia dove ci portavano i nostri genitori, facevo puzzle”. Già allora difendeva i più deboli? Non so: non aveva un ospedale degli animali? “Mi piacevano i giornali, la geografia, la storia. Mi inventavo delle guerre sulla cartina geografica. A un certo punto l’ho sparata grossa dicendo che volevo diventare segretario generale dell’Onu. Mi interessava la cosa pubblica: c’era sensibilità in famiglia”. Per via dei suoi genitori... “Mio padre, ingegnere e manager, era segretario del Partito Repubblicano a Monza. Mia madre si era iscritta al Partito Radicale durante la campagna “O lo scegli, o lo sciogli!”. Avevo uno zio socialista. A metà degli anni 70 i miei andarono a un comizio di Pannella e ricordo che rimasi al bar con il nonno e mio fratello Massimo, di due anni più grande di me”. La sua adolescenza... “In prima media ho avuto una specie di grande fervore religioso: per quattro mesi ho fatto il chierichetto. Mi sembrava necessario combattere la povertà. Verso i 15 anni ho virato sull’anarchia, più sul versante musicale, ma sempre con l’idea del tendenziale deperimento del potere, che è necessario, ma dovrebbe essere limitato all’indispensabile. Vale per tutto, eh, per lo Stato e per le aziende. Che Twitter abbia sospeso Trump, il presidente degli Stati Uniti democraticamente eletto, per me è inconcepibile, al di là del merito e del fatto che lui abbia idee lontanissime dalle mie”. Il primo voto? “Nel 1989: antiproibizionista e Pds. Era il momento del dialogo tra Occhetto e Pannella”. Prima tessera? “Nel 1990, con il Coordinamento radicale antiproibizionista. Era la prima questione che vedevo intorno a me: l’assurdità che dei ragazzi potessero essere arrestati perché fumavano spinelli”. Lei li fumava? “Sì, moderatamente”. E oggi? “Ogni tanto, non ho mai preso il vizio. È una cosa che faccio più in compagnia. Ancora adesso ho coltivato una pianticina”. Il primo vero incontro con Pannella... “Nel ‘92. Mio fratello era candidato alle comunali a Monza e lui venne per un comizio. Avevo appena parcheggiato la Vespa quando me lo vidi passare accanto e lo fermai: “Ciao Marco, sono il fratello di Dallas: era il soprannome che aveva dato a Massimo, per sfotterlo, perché sembrava un candidato americano. Poi quando è salito sul palco gli ha detto: “Ho conosciuto il vero radicale della famiglia”. Qualche mese dopo ci incontrammo di nuovo a Genova, al Congresso radicale antiproibizionista. E parlammo a lungo, mi dedicò molta attenzione. Fu da subito un rapporto importante”. Avete anche abitato insieme... “Io ero sempre via, ma quando andavo a Roma stavo a casa sua. Ricordo queste cene insostenibili con la pastasciutta: metteva un panetto di burro e una montagna di parmigiano. Per fortuna aveva anche un pizzicagnolo sotto casa e si faceva portare su le cose. Con lui l’impegno era sempre senza orari: riunioni di quattro giorni, il digiuno di Pasqua, la marcia di Natale, il presidio al Quirinale. Un modo di vivere la politica totalizzante”. Quando è morto ha pianto? “Sì. Negli ultimi anni eravamo sempre più distanti, in parte avevo già elaborato il distacco. Seppi che era morto mentre raccoglievo le firme in Porta Romana a Milano per le comunali del 2016. È stato un pezzo importante della mia vita e una grande perdita. Da lui ho imparato tanto sia umanamente che politicamente”. Mi faccia un esempio di quello che ha imparato umanamente... “In una parola, direi l’attenzione: se stai parlando con una persona, non lasciare spazio alla distrazione, alla parola detta tanto per cortesia. Da fuori molti si potevano aspettare la rottamazione. Ma io sono fiero, rivendico di non aver mai usato questo registro, né con Pannella né con Bonino. Una volta andammo tutti e tre insieme da Veltroni, nel 2009, per quel negoziato difficile con il Pd. Avevo dimenticato il cappotto e tornai indietro a riprenderlo. Allora Veltroni, che conoscevo bene dall’Europarlamento, mi disse: “Guarda Marco che in politica bisogna imparare a uccidere il padre”. Ecco, io non ho mai sentito questa esigenza”. Ed Emma Bonino? “È sempre stata complementare a Marco: c’era Pannella con la creazione visionaria e gli strumenti di lotta, come lo sciopero della fame, ed Emma che era la sua migliore interprete istituzionale. Dopo ore e ore di riunione estenuante lei saltava sempre su: chi fa cosa? Umanamente molto brusca, essenziale, che può anche essere un pregio, mi ha insegnato molto sulla necessità di semplificare l’azione politica. E poi la marcia in più di entrambi era la visione globale: ragionavano in termini di cosa succede nel mondo e “quindi” di cosa succede in Italia”. È più divertente fare il consigliere comunale (a Milano), l’europarlamentare (a Strasburgo) o il deputato (a Roma)? “Allora, il deputato l’ho fatto tre giorni, non potrei dire. Mentre quella di parlamentare europeo è stata l’esperienza più appassionante. Da una parte ho veramente girato il mondo, conosciuto grandi personalità internazionali. Il Partito Radicale Transnazionale aveva contatti con i dissidenti ovunque, il Dalai Lama l’ho incontrato più volte”. Chi l’ha emozionata di più? “La persona con cui eravamo più intimamente legati era Kok Ksor, il capo dei Montagnard del Vietnam”. Non vorrebbe tornare in Parlamento in Italia? “Ho scelto di fare la politica dal basso, con l’Associazione Luca Coscioni e con Eumans! Questo mi dà la libertà e il tempo, anche banalmente, di rispondere a chi mi chiede aiuto per il suicidio assistito”. E allora dove pensava di andare con la “Lista Referendum e Democrazia”? “La lista serviva a porre la questione di una democrazia che non funziona, di un gioco pesantemente truccato, inaccessibile a chi non fa parte della ristretta cerchia. Oggi la democrazia è l’unica cosa che non si può fare con il telefonino”. Quante persone ha accompagnato in Svizzera a morire? “Tre: Dj Fabo, Piera Franchini, che dovette rinunciare e poi ci ritornò da sola, ed Elena. Altre due le ho aiutate economicamente a farlo: Davide Trentini e Dominique Velati”. Che effetto le fa sentire una madre che dice al figlio: “Vai Fabiano, la mamma vuole che tu vada”? “La sofferenza di Fabiano era così forte, così prolungata, che in tutte le persone presenti lì quel giorno in attesa, la sua morte è stata vissuta come un momento di liberazione”. Se si trovasse nelle stesse condizioni chiederebbe il suicidio assistito? “Sono situazioni impossibili da prevedere. Ma non ritengo scontato che io per me sceglierei l’eutanasia. La gran parte del tempo comunico, leggo, scrivo. Magari interagendo con un comunicatore potrei trovare la motivazione per vivere. Altri come Antonio, l’uomo marchigiano che ha appena ottenuto il via libero al suicidio assistito, trovava nella manualità la sua ragione di vita e l’ha persa. Dj Fabo viveva per la musica. Un giorno un po’ superficialmente gli dissi: “Ma scusa, la musica la puoi ascoltare ancora”. E lui: “Ma io adesso quando la ascolto piango, perché mi fa venire su la vita che non posso più avere”“. Si commuove quando aiuta queste persone ad andarsene? “Mi commuovo in modo sfasato. Sul momento no, la tensione delle cose che possono andar male è troppo forte. È una responsabilità: guido, prendo la macchina, queste persone mi hanno dato una fiducia enorme e non posso tradirla. Poi, però, dopo giorni le cose vengono fuori. L’ultima volta, dopo aver accompagnato Elena, sono andato da mia figlia al mare e non potevo spiegarle perché ero in una condizione psicologica diversa. A un certo punto ho pianto da solo”. Sua figlia si chiama Vittoria. Chi ha scelto il nome? “Insieme con la madre (la giornalista e imprenditrice Simona Voglino Levy, ndr). L’idea però è stata sua. Doveva chiamarsi Micol, ma poi è arrivata dopo una lunga attesa. Ha quasi 4 anni. Ogni tanto quando vede qualcuno che mi ferma per strada mi chiede: chi è? Le rispondo: un amico”. (Parentesi futile. Canzone preferita? “Siamo solo noi, di Vasco”. Il film? “C’era una volta in America”. La sua madeleine? “Gli gnocchi di patate di mia nonna e la torta di mele”. Serie tv? “Breaking Bad”. Si è dato un limite al suo impegno sociale? “Il limite è la ragionevolezza. Anche il rischio sulla disobbedienza civile, la possibilità del carcere, l’autodenuncia, sono arrivati dopo dieci anni di iniziative. È stata importante la gradualità, non c’è mai stata solo provocazione. Per l’eutanasia avevamo già provato la strada del referendum, di una legge in Parlamento. Oggi un nuovo processo, per la morte di Elena cui mancava il requisito previsto dalla sentenza della Consulta di essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, rappresenta un modo di creare nuove libertà sul tema del fine vita. Non è qualcosa di avventato”. Lei è credente? “No. Penso che ci sia un importante elemento di mistero da rispettare. Non ho la presunzione che tutto si possa ridurre a materia e razionalità. Il concetto stesso di infinito è incomprensibile per la mente umana. Penso anche che dare un nome a questo mistero sia forse un modo di illudersi di renderlo meno misterioso. E io non sento il bisogno di codificare o di ritualizzare il mio rapporto con il mistero”. Migrante si uccide impiccandosi nel Cpr di Gradisca di Marinella Salvi Il Manifesto, 3 settembre 2022 Non si sa nemmeno il nome, chi fosse, cosa pensasse o volesse. Forse speranze, certo paure, o viceversa. Magari il sogno di un futuro in un mondo lontano e migliore, o soltanto un passato insopportabile, quel Pakistan della fame dal quale andarsene, con le tasche vuote ma gli occhi fiduciosi. Chissà. Intercettato (meglio sarebbe dire “catturato”) non si sa bene dove oppure, si dice, proveniente da qualche altro centro, con documenti scarsi: è dunque un clandestino, per legge. Pare che il Giudice di Pace di Gorizia abbia stabilito tre mesi di permanenza al Cpr, poi il rapido trasbordo a Gradisca, camerata della zona blu, pare, dove mettono i nuovi arrivati e vengono tolti i cellulari. Mura invalicabili, cancelli, guardie armate. Visita di rito nell’ambulatorio medico, “sembrava tranquillo e in buona salute”, nessun segno di rabbia o depressione, dicono dal Cpr. L’ambulatorio medico. Quello che c’è e non c’è, quello che come unica dotazione ha uno stetoscopio, quello che se svieni dai dolori ti manda in ospedale a Gorizia. Voleva essere rimpatriato? Non risulta. Aveva commesso reati? Non risulta. Mercoledì sera ha aspettato che i compagni si allontanassero per fumare, che uscissero su quella che molti chiamano “vasca” ed è la parte esterna della camerata tra le sbarre, una gabbia insomma. Ha tolto il coprimaterasso, lo ha ben arrotolato e con quella corda si è impiccato. Sconcerto, ma gran voglia di rassicurare. La Garante comunale per i diritti delle persone recluse, Giovanna Corbatto, chiede non si speculi, una sola ora di permanenza al Cpr non permette di tirare in ballo le condizioni della struttura per motivare quel gesto estremo. Anche se la struttura, come aveva detto Mauro Palma - Garante nazionale - invece di essere un luogo di sosta amministrativo ha tutte le caratteristiche di un carcere di massima sicurezza. Duecento telecamere ma quando succede qualcosa di grave non vedono nulla. Quando muore qualcuno o c’è una protesta più chiassosa del solito, il primo pensiero è sequestrare i cellulari a tutti, sia mai che arrivi all’esterno qualche registrazione. Per i quattro migranti morti in questi tre anni non c’è stata una spiegazione, niente. Solo le urla di migranti da dietro i muri, qualche chiamata di nascosto con il terrore delle ritorsioni. E se qualcuno ha raccolto quelle grida, se ha manifestato, se addirittura ha pubblica le foto di pavimenti e sbarre insanguinate, c’è il foglio di via, la perquisizione, il fermo di polizia. Cpr è l’acronimo di Centro per i Rimpatri, il decreto legislativo 286/1998 li definisce “luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione”. Non è un carcere, non ci sono reati da scontare, c’è soltanto la mancanza di documenti idonei alla permanenza in Italia. Dovrebbe essere così ma così non è: è un carcere chiuso, impenetrabile, niente si deve sapere. Una morte legata a “fantasmi del passato” dice Corbatto, parlarne non è il caso, “solo rispettoso silenzio”. Sembra più consapevole la sindaca di Gradisca, Linda Tomasinsig: “Contesto l’esistenza di questa struttura, luogo in cui le condizioni della detenzione portano spesso alla disperazione. Lì non è tutelato nessuno”. Cibo scadente, psicofarmaci e abbandono. Razzismo, spesso. Un carcere dove si aspetta non si sa bene cosa e tempi dilatati, oggi a Gradisca domani a Torino. Ma non si deve strumentalizzare, dicono, e allora non si deve cercare di sapere, di capire. Avviene così che questo pachistano senza nome, se non è stato il primo, difficilmente sarà l’ultimo a morire nel Cpr. Il nostro Sudan invivibile di Sulim Ahmed Hamed Muhammed Il Manifesto, 3 settembre 2022 Mancano cibo, acqua, diritti umani. I militari sparano su chi protesta in città e i janjaweed seminano il terrore nelle campagne. Altro che rivoluzione sudanese. Una testimonianza. Con riferimento alle preoccupazioni dei deboli e dei bisognosi che vivono in diverse zone del Sudan, in particolare nelle regioni del Paese colpite dalla guerra (come il Darfur, il Nilo Azzurro, le montagne di Nuba ecc.), proverò a descrivere meno del 10% delle violazioni dei diritti umani, delle libertà fondamentali calpestate e delle sofferenze quotidiane della popolazione. Dopo il 19 novembre 2019, quando la rivoluzione sudanese ha deposto l’ex presidente Omar al-Bashir, avevamo creduto che il Sudan sarebbe diventato come il resto dei paesi del mondo, ma un gruppo ristretto di politici e militari ha preso il potere dando vita a un governo condiviso fra loro che si è completamente disinteressato delle condizioni di vita dei cittadini; così il popolo sudanese è sceso nuovamente in strada per protestare in tutte le città del paese, in particolare nella capitale Khartoum. E questa è la premessa. Per quanto riguarda le condizioni di vita oggi, la qurush (moneta nazionale) è in mano ai militari e ai pochi cittadini che sostengono il governo, mentre gran parte del popolo sudanese non trova cibo per sé e per i propri figli. Ad esempio, in occasione dell’Eid al-Adha, la festa del sacrificio (una delle principali feste religiose islamiche) in molti non hanno potuto avere l’agnello, un animale molto importante in questa celebrazione per le famiglie musulmane, e da più case si sono sentiti i bambini piangere. Quando uno dei componenti della famiglia si ammala, non ha soldi per curarsi: gli ospedali infatti accettano solo i malati che sono disposti a pagare; tante persone muoiono per mancanza di cure. A Khartoum c’è un solo ospedale aperto e gratuito: una cardio-chirurgia pediatrica messa su e gestita da Emergency. Mia moglie soffre di forti dolori alla testa: tre mesi fa sono andato con lei in ospedale per una visita ma non possedevo i soldi che il medico mi chiedeva; ho potuto poi pagare dottore e medicine grazie ad aiuti di amici europei: le hanno diagnosticato il Lupus, dovrà quindi curarsi per tutta la vita. Cosa molto difficile qui. Se nei piccoli villaggi e nelle campagne i tristemente famosi “janjaweed” (un braccio armato del governo sudanese già dagli anni di al-Bashir) vanno ad aggredire e a uccidere i “neri” a loro invisi e ad incendiare case e stalle (ora le spedizioni non vengono più fatte a cavallo, ma a bordo di potenti automobili), sono ormai molti mesi, diciamo pure anni, che la situazione si è fatta pericolosa anche dentro la capitale: le mobilitazioni contro il governo sono continue e i militari rispondono sparando; andare nelle strade comporta dei rischi e la gente (quei pochi che un lavoro ancora ce l’hanno) è spesso impossibilitata a raggiungere il posto di lavoro o ad andare a comprare qualcosa. Anche uscire di casa con una borsetta è sconsigliabile perché gli scippi sono quasi certi. Alcune settimane fa i manifestanti hanno chiuso i ponti che collegano le diverse parti della città, che sono rimaste così isolate. Mi chiedo se questo non equivalga a stare in carcere, se non addirittura peggio, perché in questa situazione non c’è niente di garantito, niente di sicuro, nessun servizio. Internet non è accessibile continuativamente (in una settimana mediamente l’abbiamo per 4 giorni su 7, ma ci sono settimane in cui manca sempre); la stessa elettricità è a singhiozzo, a volte l’erogazione è garantita solo poche ore al giorno. E la cosa che sembra più assurda in una città irrigata da due fiumi (il Nilo azzurro e il Nilo Bianco) è la carenza fortissima di acqua per tutti noi cittadini non potenti e non corrotti. Recentemente sono dovuto andare in Darfur per sostenere alcuni miei parenti in seguito a un evento drammatico che è capitato loro. I fatti sono questi: due miei cugini, Othman Babker e Ibrahim Babker, il giorno 2 agosto stavano coltivando i loro campi nei pressi di Jabel Marra quando due uomini (subito identificabili come “janjaweed”, sia per le fattezze arabe-non africane sia per la tipica prepotenza che esprimeva già la certezza di impunità) hanno fatto entrare in quei terreni le loro mandrie di bovini e cammelli perché potessero pascolare; la più che legittima protesta dei due agricoltori è stata ignorata dai janjaweed, che hanno lasciato lì i loro animali. Ma ecco che arriva un terzo uomo, munito di kalashnikov. Non parla con nessuno, non cerca di capire, quello che vede è già per lui chiaro e chiara nella sua mente è la parte con cui schierarsi. Spara. E ammazza entrambi i contadini. Poco dopo ne uccide un terzo, in un campo vicino. Questi i tristi fatti. La testimonianza oculare è di un quarto agricoltore che si era arrampicato su un albero e nascosto fra le fronde ha potuto vedere tutto, senza essere individuato. I miei cugini avevano uno 30 anni e l’altro poco più di 20; il primo sposato e padre di due bambini, il secondo ancora uno studente. Sono lutti dolorosi, che provocheranno altra miseria, perché la domanda ora è “chi coltiverà quei campi?”. Sono morti ingiuste e assurde che nella loro “ordinaria follia” illustrano in quale situazione di impotenza, di paura, di angoscia si vive in questo nostro Sudan, dove ogni azione che si compie equivale a un atto di coraggio. *Membro della “Rural Sons Charity Organization” (purtroppo inattiva dal 2016 per interruzione dei contributi europei) Myanmar. Altri tre anni di carcere e lavori forzati a Aung San Suu Kyi di Emanuele Giordana Il Manifesto, 3 settembre 2022 La premio Nobel accusata di frode elettorale. In prigione anche l’ex ambasciatrice britannica Vicky Bowman e il marito Htein Lin. Il Myanmar torna nelle pagine della peggior cronaca politica internazionale con due notizie che sembrano studiate apposta per arrivare in prima pagina, specie sui giornali in lingua inglese. Mentre dopo appena due settimane dall’ennesima condanna, la Nobel Aung San Suu Kyi - premier de facto del governo rovesciato il 1 febbraio 2021 da un golpe militare - è stata condannata ad altri tre anni di reclusione per presunta frode nelle ultime elezioni politiche, la “giustizia” birmana ha condannato a un anno di galera ciascuno l’ex ambasciatrice britannica a Yangon e suo marito per violazione delle leggi sull’immigrazione. Dopo aver servito nel 1990 per la prima volta in quella che allora era chiamata Birmania, ricorda la Bbc, l’ex diplomatica del Regno Unito Vicky Bowman era tornata a Yangon come ambasciatrice dal 2002 al 2006. Ora dirige - o meglio dirigeva - il Myanmar Center for Responsible Business (Mcrb), con sede a Yangon, che si è detto “scioccato” dalle sentenze. Vicky Bowman e suo marito Htein Lin, un ex prigioniero politico, sono stati arrestati la scorsa settimana nella loro casa di Yangon. La magistratura birmana ha accusato Bowman di essere rimasta in una casa nello Stato Shan, anziché vivere all’indirizzo di Yangon dove si era originariamente registrata presso le autorità mentre suo marito non avrebbe denunciato il soggiorno della moglie nello Stato Shan. Come si comprende bene, un pretesto anche piuttosto debole. La loro udienza in tribunale era originariamente fissata per il 6 settembre e non è chiaro il motivo per cui è stata anticipata a ieri ma - sottolinea il quotidiano locale (clandestino) Irrawaddy - “il suo arresto è avvenuto dopo che la Gran Bretagna ha imposto ulteriori sanzioni a tre società collegate alla giunta, tra cui Sky One Construction Company, di cui Aung Pyae Sone, figlio del leader del regime Min Aung Hlaing, è ai vertici”. Scelta confermata anche dalla Bbc secondo cui l’arresto della coppia è avvenuto dopo che Londra ha annunciato sanzioni contro le autorità militari birmane in coincidenza con il quinto anniversario dell’espulsione della minoranza rohingya dal Paese. Un pogrom che ha creato la più popolosa diaspora di quella comunità che ora vive rifugiata in Bangladesh e che conta circa un milione di persone mentre in Myanmar ne restano solo alcune centinaia di migliaia, in gran parte recluse in campi profughi che sono veri e propri ghetti-prigione. Non contenti di aver assestato un gancio alla corona di Sua Maestà colpendo sia pure un ex diplomatica, nello stesso giorno la magistratura birmana ha comminato una nuova pena ad Aung San Suu Kyi e non solo a lei. Una corte della capitale ha condannato infatti anche il presidente detenuto Win Myint e il ministro dell’Ufficio del governo dell’Unione Min Thu: tutti e tre con una pena di tre anni di carcere con lavori forzati per presunte frodi elettorali durante il voto del 2020, che aveva sancito una nuova vittoria della Lega nazionale per la democrazia. Fatto che è stato il movente dichiarato del golpe militare del febbraio seguente. Il dettaglio lo racconta un altro giornale birmano clandestino: il giudice del distretto di Zabuthiri (una township della capitale Naypyidaw) ha emesso la sentenza a porte chiuse - spiega MyanmarNow - nel Naypyidaw Detention Centre. I tre leader del governo civile estromesso e della Lega avrebbero violato la sezione 130a del codice penale “influenzando ingiustamente la Commissione elettorale”. Com’è noto, dopo il golpe la giunta ha sostituito la Commissione elettorale, scoprendo 2mila voti doppi, trovati dopo un anno di indagini condotte dopo il golpe. Un altro pretesto fabbricato ad arte. L’ultimo rapporto di Ocha, reso noto sempre ieri, fa luce sulla “crisi politica, dei diritti umani e umanitaria senza precedenti che sta ponendo in grave rischio i civili, limitando l’accesso ai servizi vitali, tra cui salute e istruzione, e determinando una profonda insicurezza alimentare”. Secondo l’Ufficio delle Nazioni unite per il Coordinamento degli affari umanitari, non solo l’emergenza umanitaria in Myanmar è ormai cronica ma “il conflitto continua a imperversare, causando livelli senza precedenti di sfollamenti, distruzione di proprietà e contaminazione da mine soprattutto nel Nordovest e nel Sudest del Paese, determinando gravi rischi per la protezione dei civili” mentre il reclutamento forzato, anche di bambini, viene sempre più segnalato e armi pesanti, bombardamenti aerei e fuoco d’artiglieria continuano a mietere vite. Quanto allo spazio operativo umanitario “è sempre più minacciato dai blocchi burocratici imposti dalle autorità”. Secondo Ocha, si stima che 20mila proprietà civili, tra case, chiese, monasteri e scuole, siano state distrutte finora durante le ostilità, benché tali numeri siano difficili da verificare.