Cartabia ha cambiato l’esecuzione penale: ora fermiamo l’onda della restaurazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 settembre 2022 Mercoledì scorso il Consiglio dei ministri ha dato il via libera definitivo ai decreti attuativi della riforma Cartabia. Va dato atto, contro ogni aspettativa, che in 20 mesi di governo la guardasigilli ha messo in moto una macchina gigantesca e ha riformato i processi e la fase esecutiva della pena. Ha riunito diverse commissioni per ogni settore della riforma composta da giuristi, operatori del settore, persone di grande competenza che hanno avuto come faro gli ideali della Costituzione italiana. Una riforma coraggiosa che si aspettava da tempo. E ciò nonostante le varie critiche, molte costruttive, altre (fortunatamente minoritarie) affette dall’oramai stucchevole retropensiero che evocava la solita P2 di Gelli. Uno dei temi che la riforma coinvolge è l’esecuzione penale. Primeggia la disciplina organica della giustizia riparativa, un istituto che è già sulla carta ma molto di nicchia. E che da ora in poi si estenderà. Tale istituto si concretizza nell’elaborazione di specifici programmi, guidati da mediatori esperti e indipendenti, che mettono in contatto principalmente la vittima del reato e la persona indicata come autore dell’offesa, ma anche qualsiasi altro interessato (familiare della vittima o del presunto autore del reato, rappresentanti di enti e associazioni, servizi sociali, etc…), al fine di giungere ad un esito riparativo, simbolico o materiale, che ricostituisca il rapporto tra le persone coinvolte e l’intera comunità. In particolare, l’articolo 44 stabilisce al comma 1 che i programmi di giustizia riparativa disciplinati dal decreto attuativo della riforma sono accessibili senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità. Il comma 2 prevede che ai programmi si può accedere in ogni stato e grado del procedimento penale, nella fase esecutiva della pena e della misura di sicurezza, dopo l’esecuzione delle stesse e all’esito di una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità, anche ai sensi dell’articolo 344- bis del codice di procedura penale, o per intervenuta causa estintiva del reato. Il comma 3 stabilisce che qualora si tratti di delitti perseguibili a querela, ai programmi si può accedere anche prima che la stessa sia stata proposta. L’articolo 45 prevede che possono partecipare ai programmi di giustizia riparativa la vittima del reato; la persona indicata come autore dell’offesa; altri soggetti appartenenti alla comunità, quali familiari della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa, persone di supporto segnalate dalla vittima del reato, enti ed associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, rappresentanti o delegati di Stato, Regioni, enti locali o di altri enti pubblici, autorità di pubblica sicurezza, servizi sociali e chiunque altro vi abbia interesse. L’articolo 53, invece, stabilisce che d’ora innanzi i programmi di giustizia riparativa si conformino ai principi europei e internazionali in materia e vengano svolti da almeno due mediatori. Essi comprendono la mediazione tra la persona indicata come autore dell’offesa e la vittima del reato, anche estesa ai gruppi parentali o con la vittima di un reato diverso da quello per cui si procede; il dialogo riparativo; ogni altro programma dialogico guidato da mediatori, svolto nell’interesse della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa. L’articolo 56 stabilisce al comma 1 che d’ora innanzi quando il programma si conclude con un esito riparativo, questo può essere simbolico o materiale. L’esito simbolico può comprendere dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi. Il comma 3 prevede che l’esito materiale può comprendere il risarcimento del danno, le restituzioni, l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori. La riforma, inoltre, impone che i centri per la giustizia riparativa siano istituiti presso gli enti locali. Il comma 2 dell’articolo 63 prevede che per ciascun distretto di corte d’appello è istituita la Conferenza locale per la giustizia riparativa cui partecipano, attraverso propri rappresentanti. Per garantirne il funzionamento, l’articolo 67 dispone al comma 1 che nello stato di previsione del Ministero della giustizia è istituito un Fondo per il finanziamento di interventi in materia di giustizia riparativa, con una dotazione di euro 4.438.524 annui a decorrere da quest’anno. Viene attuata una riforma organica anche delle “sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi”. Tale tipologia di sanzioni si inquadra come è noto tra gli istituti - il più antico dei quali è rappresentato dalla sospensione condizionale della pena - che sono espressivi della cosiddetta lotta alla pena detentiva breve; cioè del generale sfavore dell’ordinamento verso l’esecuzione di pene detentive di breve durata. A tal fine, si evidenzia che le statistiche del ministero della Giustizia confermano d’altra parte il successo applicativo della sospensione condizionale della pena: il 50 per cento delle condanne a pena detentiva di qualsiasi ammontare, nel decennio 2011- 2021, è infatti rappresentato da condanne a pena sospesa. Pertanto, nel contesto di un più ampio disegno volto all’efficienza del sistema penale, la riforma Cartabia rivitalizza e rivalorizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive, che vengono ora concepite come vere e proprie pene sostitutive. La riforma amplia l’ambito di applicazione della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato ad un alveo di delitti circoscritto a quelli puniti con pena non superiore a sei anni. Il pubblico ministero può, laddove lo ritenesse opportuno, prospettare all’indagato/imputato la messa alla prova, conseguendo la definizione anticipata del procedimento con ricadute positive sui tempi complessivi dei processi penali. Si interviene anche sull’istituto della particolare tenuità del fatto in una triplice direzione: estensione dell’ambito di applicabilità ai reati con pena detentiva non superiore nel minimo a due anni; attribuzione di rilievo alla condotta susseguente al reato; esclusione dall’applicazione ad alcuni reati, tra cui la corruzione e i più gravi reati contro la pubblica amministrazione, lo stalking e tutti i reati di violenza contro le donne e di violenza domestica; i reati in materia di stupefacenti; l’incendio boschivo; violenza sessuale. Sarà competenza del giudice determinare in concreto l’eventuale tenuità del fatto, senza alcun automatismo. Non solo. Viene attuata una riforma del sistema delle pene sostitutive delle pene detentive brevi, dando così una risposta alla situazione dei “liberi sospesi”. Si tratta di migliaia di condannati a pene inferiori ai 4 anni che hanno già accesso alle misure alternative al carcere, ma che solo dopo anni scontano la pena disposta dai Tribunali di sorveglianza. Da adesso sarà il giudice di cognizione ad applicare, immediatamente, le nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi. Il meccanismo elaborato è ispirato al modello del sentencing di matrice anglosassone, ma non è del tutto estraneo al nostro ordinamento, che lo conosce nei processi davanti al giudice di pace. La riforma Cartabia è sicuramente innovativa, progressista e ha come faro l’articolo 27 della nostra costituzione, quello dove i padri costituenti - e non è un caso - non menzionano il carcere. Ora si spera di non fare nessun passo indietro, ma avanti. Cesare Battisti diventa “detenuto” comune, FdI contro il Dap: “Vergogna” di Errico Novi Il Dubbio, 30 settembre 2022 Declassificato il regime di carcerazione per l’ex terrorista, che era in “Alta sorveglianza” dal suo ingresso in cella nel 2019. La misura dell’Amministrazione penitenziaria dopo un’interrogazione della deputata Pd Enza Bruno Bossio. Cesare Battisti era in “Alta sorveglianza”. Con provvedimento del Dap passa allo status di “detenuto comune”. Cambia poco. Non significa che sta per ricevere un permesso premio. Né che otterrà a breve la liberazione condizionale. Semplicemente, la sua vita di recluso migliorerà un po’, nel senso che potrà incontrare, nell’ora d’aria, altri detenuti. Basta però un provvedimento dall’impatto tutto sommato irrilevante per il mondo esterno a scatenare la reazione furente di parte della politica, e in primo luogo di Fratelli d’Italia. È il responsabile Giustizia del partito uscito vincitore dalle elezioni, Andrea Delmastro, a tuonare infatti contro il Dap guidato da Carlo Renoldi: “Ultimo soccorso al terrorismo rosso. Una aberrazione! Dopo anni di latitanza, appena assaggiato il regime carcerario italiano il criminale terrorista ottiene la declassificazione a detenuto comune. Una vergogna!”. “Ancora più una vergogna”, secondo Delmastro, “che il Dap stia prendendo questa gravissima e scellerata decisione a pochi giorni dal cambio del governo”. Renoldi avrebbe dato, secondo Delmastro, un segnale gravissimo. In realtà la decisione del Dap è conseguenza non solo delle istanze presentate dal difensore di Battisti, Davide Steccanella, ma anche di un’interrogazione parlamentare. Era stata la deputata del Pd Enza Bruno Bossio, che proprio oggi ha scoperto di essere stata beffata del rosatellum e di non risultare più fra i rieletti, a rivolgere lo scorso 21 luglio l’atto di sindacato ispettivo al ministero della Giustizia. Esprimeva “perplessità” per la scelta di tenere ancora Battisti in Alta sorveglianza, a tre anni dalla fine della latitanza e dalla riconsegna alle autorità italiane. Soprattutto perché i reati per i quali l’ex capo dei Pac è stato condannato “risalgono a più di quarant’anni fa e sono avvenuti in un particolare contesto politico e sociale”. Bruno Bossio aveva esortato via Arenula ad assumere iniziative anche “di carattere ispettivo” per verificare “eventuali irregolarità e/o anomalie nella gestione del detenuto Cesare Battisti”. Di certo, l’avvocato Steccanella, fa notare come fosse “incomprensibile” la permanenza di Battisti nel regime di Alta sorveglianza: “Gli ultimi reati li ha commessi nel 1979: pensiamo possa riorganizzare dal carcere la lotta armata?”. E liquida le critiche venute da FdI come una “strumentalizzazione politica”. Reazioni contrariate arrivano pure da Jacopo Morrone della Lega, secondo il quale già il trasferimento dal carcere di Rossano all’istituto in cui Battisti si trova adesso, quello di Ferrara, andrebbe considerato un “trattamento particolare”. Parole di amarezza sono rilasciate alle agenzie da familiari di vittime del terrorismo come Alberto Torreggiani. Ma nella vicenda pesa anche un non detto: Renoldi, magistrato che Marta Cartabia ha voluto alla guida delle carceri contro il parere di molti partiti, oltre ad essere tra i migliori conoscitori del sistema penitenziario è anche una figura culturalmente connotata a sinistra. Circostanza che sembra contribuire a polarizzare i punti di vista su Battisti. La polemica per la “declassificazione” ha tutta l’aria di essere destinata ad annunciare l’addio di Renoldi al Dap. C’è una distanza politica che era già riaffiorata nei giorni scorsi, con gli attacchi di un sindacato degli agenti, il Sappe: attriti che il caso di un ex terrorista rosso come Battisti poteva solo esasperare. Al punto da far trascurare le ragioni di diritto su cui si è basata la decisione del Dap. Cesare Battisti diventa detenuto comune e i meloniani scatenano la forca di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 settembre 2022 Il regime carcerario dell’ex terrorista rosso è stato declassificato da alta sicurezza a comune. Fratelli d’Italia attacca il Dap (“vergogna”, “aberrazione”), ma nella decisione non c’è nulla di scandaloso. Da alcuni giorni, il regime carcerario dell’ex terrorista rosso Cesare Battisti è stato declassificato da alta sicurezza a comune. L’ex leader dei Pac (Proletari armati per il comunismo), condannato all’ergastolo per quattro omicidi e altri gravi reati, si trova nel carcere di Ferrara, dopo aver trascorso parte della detenzione prima nel penitenziario di Oristano e poi in quello di Cosenza. Battisti venne arrestato il 13 gennaio 2019, dopo 37 anni di latitanza. Era stato lo stesso Battisti a sollecitare il provvedimento di declassificazione del regime carcerario con diverse istanze, ribadendo ai magistrati la volontà “di scontare la pena positivamente e costruttivamente”. Ora dal carcere di Ferrara potrebbe essere trasferito in quello di Parma. La decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) è stata immediatamente criticata da Fratelli d’Italia. Il responsabile giustizia del partito, Andrea Delmastro Delle Vedove, ha attaccato la decisione con queste parole: “Ultimo soccorso al terrorismo rosso. Il terrorista passerebbe dal regime ad alta sicurezza a quello comune, vedendo così la prospettiva di ottenere futuri benefici. Una aberrazione! Dopo anni di latitanza e di fuga dalle sue responsabilità penali, appena assaggiato il regime carcerario italiano il criminale terrorista ottiene la declassificazione a detenuto comune. Una vergogna! Ancora più una vergogna che il Dap stia prendendo questa gravissima e scellerata decisione a pochi giorni dal cambio del governo. L’impunità del terrorismo rosso non è certamente la politica che il governo di Centrodestra intende mettere in campo”. Un altro deputato di FdI, Galeazzi Bignami, ha annunciato un’interrogazione parlamentare. In verità, come specificato dall’avvocato Davide Steccanella, difensore di Battisti, nella decisione del Dap non c’è nulla di scandaloso e, soprattutto, nulla che implicherebbe “l’impunità” dell’ex terrorista rosso: “Quella di prima era una decisione sbagliata: l’ultimo reato commesso da Cesare Battisti risale al 1979, non c’è nessun pericolo di un ritorno al terrorismo e declassificare il suo regime carcerario è la scelta corretta che nulla cambia rispetto alla pena che deve scontare e che non costituisce nessuna offesa alle vittime. E’ una decisione interna al Dap e che non va strumentalizzata politicamente”. In difesa del provvedimento è sceso in campo anche il garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri: “Per giudicare questi provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria bisogna conoscere le norme e le leggi. Dire che non è accettabile vuol dire ammetterle di non conoscere - afferma Cavalieri - Questa persona ha seguito l’iter normativo in modo corretto, l’amministrazione penitenziaria ha riconosciuto quello che non poteva non riconoscergli. Declassificazione non significa che l’amministrazione penitenziaria cancella il fatto che ha fatto reati terroristici, ma è una questione gestionale e logistica. Non incide sul tipo di condanna che ha avuto. Vuol dire che diventa un detenuto comune”. Ancora una volta, come evidenziato anche dal presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza, in un’intervista al Foglio, si conferma la tendenza di Fratelli d’Italia a concepire la fase dell’esecuzione della pena in chiave giustizialista. Eppure, il principio della finalità rieducativa della pena (oltre che del rispetto della dignità del detenuto) vale anche nei confronti di chi viene condannato all’ergastolo, soprattutto se si è chiamati a espiare la pena a distanza di quarant’anni dai fatti. La logica del “buttare via la chiave” non fa parte della nostra Costituzione. La riforma civile parte nel 2023, nel penale previsti tempi più brevi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2022 Fatta la riforma adesso bisognerà pensare alla fase attuativa. Che, vista la mole degli interventi, non si profila agevole. Il Consiglio dei ministri di mercoledì ha approvato definitivamente i decreti legislativi che intervengono sul processo penale, su quello civile e sull’ufficio del processo. Un passaggio fondamentale nel rispetto degli impegni presi con l’Europa nell’attuazione del Pnrr, con il dichiarato obiettivo di ridurre da una parte la durata dei processi (del 40% nel civile e del 25% nel penale) entro la metà del 2026 e di raggiungere l’azzeramento pressoché totale dell’arretrato civile (il 90%) in tutti gradi di giudizio entro il 2026 (con un passaggio intermedio che vede l’abbattimento dell’arretrato civile del 65% in primo grado e del 55% in appello, entro la fine del 2024). Obiettivi ambiziosi rispetto ai quali le misure messe in campo, accompagnate da un esteso intervento di reclutamento di magistrati, favorito dall’allargamento del perimetro dei candidati per effetto del nuovo requisito della sola laurea in giurisprudenza, dovranno fare i conti con un articolato calendario per l’entrata in vigore, soprattutto nel civile, e una dettagliata disciplina della fase transitoria, in particolare nel penale. Nel civile infatti la norma base esclude un’immediata entrata in vigore delle numerose novità, rinviando di norma al 30 giugno 2023 per il debutto. Per consentire un avvio consapevole, da parte degli operatori, delle novità normative, le disposizioni del decreto hanno effetto a decorrere dal 30 giugno 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente; ai procedimenti pendenti a quella data continuano ad applicarsi le disposizioni in vigore in precedenza. Così facendo, sottolinea la Relazione, “ci si è assicurati che l’abrogazione delle norme preesistenti e l’applicazione delle nuove norme (si pensi, ad esempio, all’abrogazione del cosiddetto “rito Fornero” e alle nuove disposizioni in tema di procedimenti di impugnazione dei licenziamenti) operino contestualmente”. Altre disposizioni saranno invece operative in momenti diversi. Esemplare in questo senso tutto il pacchetto che punta a stabilizzare le novità introdotte nella fase dell’emergenza sanitaria, (deposito telematico, udienze da remoto e trattazione scritta), dove, compatibilmente con lo stato di informatizzazione degli uffici, si partirà già dall’1 gennaio 2023. Nel penale invece il decreto entrerà in vigore 15 giorni dopo la data di pubblicazione sulla “Gazzetta Ufficiale” e vedrà la generalità delle misure, di natura procedurale, soggetta al canonico principio per cui i nuovi atti processuali saranno regolati sulla base della riforma con un banco di prova immediato per moltissime delle innovazioni introdotte. Con l’eccezione però di numerose fattispecie per le quali il decreto prevede espressamente una disciplina della fase transitoria, cruciale in questo contesto tutto l’intervento sul regime sanzionatorio (dalla nuova disciplina sostitutiva della detenzione breve alle novità sulle pene pecuniarie) e per quelle misure invece di diritto sostanziale, per esempio la tenuità del fatto, per le quali invece a dovere essere applicato sarà il principio della norma più favorevole all’imputato. Giustizia contesa: in testa Nordio, ma Bongiorno e Forza Italia sperano di Giulia Merlo Il Domani, 30 settembre 2022 Il dicastero di via Arenula è poco citato dalle ricostruzioni giornalistiche sulla composizione del nuovo governo, eppure è centrale nell’organigramma dei ministeri “pesanti” su cui è necessaria la concertazione del Quirinale. Bongiorno potrebbe ottenerlo solo se Salvini non andrà al Viminale, e gli azzurri rimangono in attesa. Sono ore delicate per la composizione della squadra del prossimo governo. Il lavorio è ancora tutto sottotraccia: la macchina parlamentare e le audizioni al Quirinale sono attese per le prossime settimane, ma Giorgia Meloni non può permettersi di arrivare impreparata. Per questo la composizione della squadra di ministri con cui si presenterà davanti a Sergio Mattarella per governare è delicata e fondamentale. Una delle caselle chiave è quella del ministero della Giustizia, che insieme a Interni, Esteri, Difesa ed Economia sono considerati dalla prassi quelli di peso, su cui l’esame del Colle è più attento e la cui distribuzione va pesata tra gli alleati. Nordio avanti - Il nome più gettonato è quello anche più scontato: il magistrato veneto Carlo Nordio, voluto fortemente da Meloni in lista ed eletto in un seggio sicuro alla Camera nella sua Treviso. Notissimo tra le toghe, soprattutto per le sue posizioni molto critiche nei confronti della sua stessa categoria di appartenenza, è tuttavia un uomo molto considerato e ascoltato nel panorama della destra. Il suo sarebbe il profilo perfetto sulla carta, nella pratica però i suoi detrattori ne sottolineano i limiti concreti. Il primo: è un ex magistrato non particolarmente amato dalla sua stessa categoria e a via Arenula lavorano circa un centinaio di magistrati fuori ruolo. Tradotto: i ministeri sono macchine complesse e avere contro una parte della struttura interna potrebbe portare alla paralisi. Il secondo: è un indipendente, difficilmente controllabile anche dalla stessa Meloni. Basti pensare alle numerose interviste rilasciate in campagna elettorale, in cui ha parlato della necessità di reintrodurre l’immunità parlamentare, che poi ha richiesto una frenata da parte del diretto interessato e da Fratelli d’Italia, visto che il tema non è mai stato concordato con gli alleati. Per tutta la vita Nordio è stato un battitore libero, quindi dargli il timone del ministero della Giustizia vorrebbe dire sì avere un giurista abile e con un disegno preciso su come riformarla - a partire dalla separazione delle carriere - ma anche un ministro difficilmente piegabile a esigenze politiche contingenti. Bongiorno aspetta - L’altro nome che circola nei gruppi ristretti è quello dell’avvocata Giulia Bongiorno. Il suo nome viene più spesso collocato nella casella del ministero senza portafoglio della Pubblica amministrazione, dove già è stata durante il governo giallo-verde. Tuttavia, l’ambizione della penalista sarebbe quella di approdare a via Arenula, in un dicastero di peso in cui saprebbe muoversi con la concreta conoscenza della materia. Il suo nome, però, è strettamente legato a quello del suo assistito più noto, Matteo Salvini. Prassi istituzionale vuole che Giustizia e Interni non siano mai assegnati allo stesso partito per una ragione precisa: “Governandoli entrambi, una sola forza politica controllerebbe il novanta per cento delle forze di polizia”, spiega una fonte interna al ministero. Salvini non ha mai fatto mistero di voler tornare al Viminale e sta provando a imporlo all’alleata Meloni, dunque tutto dipenderà da questo braccio di ferro: se la premier in pectore terrà duro sul no - ben sapendo che portare davanti a Mattarella un ex ministro ancora sotto processo per la sua passata gestione del ministero - qualcosa alla Lega dovrà restituire. E una ipotesi sarebbe proprio quella della Giustizia. Tuttavia, anche sul nome di Bongiorno lo scetticismo c’è: certamente è una penalista di fama e preparata, tuttavia proprio il fatto che in questa fase è il difensore di Salvini potrebbe giocare contro di lei in una valutazione complessiva. Forza Italia spera - La terza ipotesi, allora, sarebbe quella di un nome di Forza Italia. Pur non circolando nomi, gli azzurri rimangono in attesa di vedere l’evoluzione della situazione. Una fonte ex democrisitiana interna al partito ha spiegato la strategia: “Facciamo come nella prima repubblica, non dobbiamo assolutamente muoverci in questa fase. Nessuna telefonata e nessun nome deve essere fatto prima del tempo. Non è ancora il tempo delle decisioni vere e proprie: la corsa ai ministeri è una maratona, non i cento metri”. La speranza è quella che i nomi attualmente usciti vengano bruciati nel tempo necessario per comporre il governo e che Forza Italia possa puntare ad acquisire questo dicastero così centrale. Anche perché l’aspettativa, visto che tra FI e Lega corre solo qualche decimale di differenza nei voti, è che Meloni redistribuisca equamente gli incarichi. La riforma Cartabia è storia. Ma il centrodestra vuole di più di Anna Maria Greco Il Giornale, 30 settembre 2022 “Missione compiuta”, esulta il ministro della Giustizia. Fi, Lega e Fdi preparano un’azione molto più incisiva. “Missione compiuta e all’unanimità”, gioisce la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Mercoledì sera il consiglio dei ministri ha approvato tre decreti legislativi di attuazione della riforma della giustizia civile e penale e dell’ufficio per il processo. Un sì compatto, che mette la parola fine ad un travagliato iter parlamentare e garantisce il rispetto dei tempi previsti dal Pnrr: 19 ottobre per la riforma penale e 26 novembre per quella civile. Anche il via libera ai 2,3 miliardi di euro che andranno al settore. È il primo atto del governo Draghi dopo le elezioni e in attesa del nuovo governo di centrodestra chiesto dagli elettori. Per la Guardasigilli si tratta di “riforme di sistema, importanti in quanto agiscono in profondità e nel tempo restituiranno al Paese una giustizia più vicina ai bisogni dei cittadini”, ma ora bisognerà vedere come il suo successore intenderà agire. Perché è vero che Lega e Forza Italia ci hanno messo la firma e che alla Camera un mese fa anche Fratelli d’Italia, dall’opposizione, si è astenuta sul decreto attuativo della riforma penale, ma si sa che la coalizione ha nel suo programma molto di più. A cominciare dalla separazione delle carriere, battaglia storica di Silvio Berlusconi e su cui la Lega ha promosso un referendum poi fallito, ma anche dal sorteggio per le elezioni dei togati al Csm, dallo stop alle porte girevoli tra politica e magistratura. Punti già toccati dalle riforme, che hanno limitato ad esempio il passaggio di funzioni tra giudici e pm, cambiato il sistema elettorale a Palazzo de’ Marescialli e ridotto molto l’agibilità di una toga in politica, però non fino al punto che il centrodestra vorrebbe, come hanno ricordato illustri esponenti oggi in corsa per il posto di Guardasigilli, come Carlo Nordio (eletto con FdI), Giulia Bongiorno (Lega) e Francesco Paolo Sisto (Fi). Tutti hanno detto che le riforme Cartabia sono “un passo avanti”, ma di “compromesso” e bisogna andare più in là. Il capitolo giustizia si preannuncia come uno dei banchi di prova del nuovo esecutivo, fondamentale per capire che tipo di opposizione si troverà di fronte, se sarà costruttiva o riproporrà la vecchia cesura tra garantisti e giustizialisti. Dipenderà molto dal Pd, in cerca ora di un nuovo leader e dal M5S, che fino ad agosto contestava soprattutto alcune norme penali, pretendendo che si ritornasse al testo dell’exministro Alfonso Bonafede. Quanto ad Azione, le posizioni sono vicine ed Enrico Costa avverte che “la riforma non esaurisce le esigenze del sistema giustizia ma costituisce una solida base su cui proseguire in questa legislatura”, annunciando che presenterà subito un disegno di legge per separare le carriere di giudici e pm. L’Europa, comunque, può essere soddisfatta perché le garanzie di efficienza e tempi più ristretti sollecitate da anni ci sono tutte. Entro il 2026, in particolare, sono previsti riduzione del 25% della durata media del processo penale nei 3 gradi di giudizio, oltre alla giustizia riparativa e riti alternativi, ci saranno più udienze online, digitalizzazione già in corso per 11 milioni di fascicoli e nel civile giudizi meno lunghi del 40%. Tutto questo prevede maggiori investimenti sul personale (già fatte assunzioni degli amministrativi), con uno staff per aiutare il magistrato a definire i giudizi, il nuovo “ufficio per il processo” con 16.500 collaboratori di pm e giudici sul modello dei clerk inglesi, metà già assunti. Nordio nega l’autocandidatura ma dice: “Resto a disposizione” di Simona Musco Il Dubbio, 30 settembre 2022 Autocandidatura? “Un’assurdità”. Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, smentisce categoricamente, in un’intervista al Messaggero, di aver fatto un passo avanti per proporsi come successore di Marta Cartabia al ministero della Giustizia. Un’ipotesi rilanciata dalle pagine del Dubbio, che ha ripreso un’intervista dell’ex magistrato al Gazzettino, in cui si diceva tentato dal mettere piede a via Arenula per sistemare le storture della Giustizia, toccate con mano nei disastrati Tribunali italiani. Nessuna autopromozione, dice dunque Nordio, che però al quotidiano romano ribadisce di essere disponibile anche ad occupare la casella di guardasigilli. “Ho già detto che per la mia preparazione tecnica mi riterrei più adatto in commissione Giustizia, in quanto è lì che si elaborano le leggi - ha evidenziato -. Certo, avendo visto la situazione disastrata degli uffici giudiziari, la tentazione di entrare al ministero e di colmare rapidamente gli organici e di implementare le risorse sarebbe molto forte. In ogni caso sarebbe irriverente pronunciarsi su una nomina che spetta al Capo dello Stato”. Tradotto: il garbo istituzionale impone il silenzio, lo stesso che rivendicano tutti i partiti di centrodestra in un momento delicato come quello attuale. Tant’è che la stessa premier in pectore, Giorgia Meloni, si è vista costretta, tramite Twitter, a mettere a tacere le voci che raccontano dei primi malumori interni in vista della formazione dell’Esecutivo. “Continuo a leggere irreali ricostruzioni in merito a eventuali ministri di un Governo di centrodestra - ha cinguettato la leader di Fratelli d’Italia -. Dopo fallimentari gestioni come quella di Speranza & Co. vi assicuro che stiamo lavorando a una squadra di livello che non vi deluderà. Non credete alle bugie che circolano”. Insomma, nessuna certezza al momento. Se non quella di avere due candidati in prima fila per il dopo Cartabia: Nordio, appunto, eletto tra le file di FdI, e Giulia Bongiorno, tra i volti più importante della Lega. I giochi di potere tra i partiti prevedono una spartizione precisa dei ministeri chiave. Mentre per l’Economia si fa largo il nome di un tecnico, Interni, Esteri, Difesa e Giustizia saranno assegnati in base ai risultati delle elezioni, ovvero uno alla Lega, uno a Forza Italia e due a Fratelli d’Italia. Il nome di Bongiorno, ovviamente sponsorizzato dal leader del Carroccio Matteo Salvini, sarebbe gradito anche a Silvio Berlusconi. Ma ciò allontanerebbe ulteriormente l’ex ministro dell’Interno dal Viminale, dove è intenzionato a rimettere piede. Il nome dell’avvocato Bongiorno sarebbe una soluzione utile per evitare quegli attriti con il mondo della magistratura associata (nonché con le toghe fuori ruolo al ministero, circa un centinaio) che appaiono inevitabili nel caso in cui via Arenula venisse assegnata a Nordio. L’ex procuratore aggiunto di Venezia, infatti, più volte è entrato in contrasto con Anm e Csm, non nascondendo le sue critiche nei confronti dei colleghi. Ma l’ago della bilancia, al momento, sembra pendere proprio nella sua direzione. E la sua nomina sposterebbe la responsabile Giustizia della Lega sulla casella della Pubblica amministrazione, già occupata dal primo giugno 2018 al 5 settembre 2019 nel governo Conte uno. Sul fronte giustizia lo scopo del centrodestra sarebbe comune, con la volontà di rimaneggiare la riforma Cartabia, a partire da quella sul Csm. Dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri dei decreti delegati su civile, penale ed ufficio del processo, rimane infatti da chiudere l’iter della riforma dell’ordinamento giudiziario. Il governo avrà tempo fino al 21 giugno 2023 per esercitare la delega, ma non è detto che ciò avvenga. E ciò per realizzare riforme di più ampio respiro, a partire dalla separazione delle carriere, che necessita però di un percorso più lungo, trattandosi di riforma costituzionale. Sul punto i tre partiti di maggioranza sono d’accordo, così come sulla soppressione dell’obbligatorietà dell’azione penale, e potrebbero trovare una sponda nel Terzo Polo, che si è detto pronto a discutere sulla già annunciata volontà di Fratelli d’Italia di cambiare la Costituzione, che potrebbe dunque concretizzarsi proprio partendo dalla Giustizia. Bongiorno ha mantenuto nelle ultime settimane un profilo più soft, pur essendo noto il suo giudizio negativo sulla riforma Cartabia, a suo dire “anacronistica”. La vera soluzione, aveva spiegato al Dubbio, “è una riforma costituzionale”, a partire dai referendum. Nordio ha invece chiarito con numerose interviste il suo piano per la giustizia, a partire dall’abolizione della legge Severino e dell’abuso d’ufficio. Ma oggi “la priorità è l’economia, e quindi anche gli interventi più urgenti sulla giustizia sono quelli che possono incidere subito sul bilancio”, ha sottolineato. E per quanto riguarda l’idea di rivedere la Costituzione, “ovviamente si può e si deve farlo solo con il concorso e il contributo della maggior parte delle forze politiche - ha concluso. Personalmente preferirei un’Assemblea Costituente”. Gian Carlo Caselli: “Dovremo resistere alle leggi dei vari Nordio e Bongiorno” di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2022 Da Fratelli d’Italia fino al Pd, sono 41 in totale i neo parlamentari che hanno avuto o hanno tuttora guai con la giustizia. Sono presenti in tutti i gruppi politici, ma il record è del partito guidato da Giorgia Meloni e, a seguire, quello di Matteo Salvini. Candidature che per l’ex magistrato Gian Carlo Caselli sono il risultato di un fenomeno: “L’accantonamento della questione morale”. Dottor Caselli, il 6,8 per cento dei neoeletti di Camera e Senato hanno avuto o hanno ancora qualche grana giudiziaria. Tenendo conto del taglio dei parlamentari, è una percentuale più alta rispetto a quella registrata alle Politiche del 2018, quando erano 45, ma su 945 seggi assegnati. È opportuno candidare indagati, imputati o condannati? Sicuramente no. Queste candidature disallineano il nostro Paese rispetto alle altre democrazie occidentali. Non si può non ricordare ancora una volta il caso di Karl Theodor von Guttemberg, ministro della Difesa tedesco, delfino di Angela Merkel, scomparso dai radar della politica subito dopo la scoperta che aveva copiato parte della sua tesi del dottorato di ricerca, per noi poco più di una bagatella… Questo disallineamento dipende dal fatto che in Italia si deve, purtroppo, registrare un accantonamento di fatto della questione morale, che non è una pruderie di benpensanti, ma una grande questione democratica e istituzionale: per la decisiva ragione che un sistema indifferente al malaffare è l’emblema del prevalere dell’interesse privato sull’interesse pubblico. Questo accantonamento comporta, oltre a candidature inopportune, la scomparsa nei programmi elettorali finanche della mera evocazione di una questione posta dal rapporto tra etica e politica. Cosa si potrebbe fare per limitare questo fenomeno? Oggi l’obiettivo di cancellare questo malcostume è quasi surreale. Posto che realisticamente dobbiamo prima di tutto farci carico della necessità di resistere alle pesanti controriforme, che di sicuro vorranno realizzare guardasigilli con la cultura politico-giudiziaria di Carlo Nordio o di Giulia Bongiorno o di altri del medesimo milieu. Il tema della legalità è stato per lo più assente, tranne in pochissimi casi, in questa campagna elettorale... Dal sogno di una palingenesi nazionale con Mani Pulite, si è passati all’indifferenza, se non peggio, di oggi. La crisi di fiducia nel Parlamento, che è spietatamente scolpita nel massiccio astensionismo, sembra irreversibile. Persino peggiore è la crisi della magistratura, evidenziata dagli intrallazzi di Luca Palamara. Mentre nella Pubblica amministrazione la corruzione è ancora diffusa, opera di quei soggetti - copyright Davigo - che sono scampati alle inchieste diventando i più veloci e resistenti. Sicché gli anni di mobilitazione e speranza di Mani Pulite sono ora anni di delusione. Con il pericolo - per dirla con Ilvo Diamanti - che si diffonda un sentimento di assuefazione più che di rassegnazione; un senso di abitudine che rischia di annebbiare e avvolgere in particolare i fatti di corruzione fino a renderli “normali” ai nostri occhi, quasi “banali”. Quanto incide la riduzione dei parlamentari e la legge elettorale? Potrebbe nascondere una corsa all’impunità? Non sono un “politico”, ma un ex procuratore che ha sempre cercato - in teoria e nella prassi - di tenere separati i due ruoli. In ogni caso, è innegabile che i nostri problemi derivino soprattutto dal mancato adempimento dell’impegno solennemente assunto di far seguire subito alla riduzione del numero dei parlamentari una nuova legge elettorale, capace di arginare la tendenza a candidare in base all’affidabilità di “cordata” più che alle capacità dei soggetti. Quanto all’eventuale corsa all’immunità, qualcuno forse vuol “portarsi avanti”, ma in generale per farla franca basta e avanza la cancellazione della riforma Bonafede della prescrizione, posto che ora chi può e conta può fare ancora affidamento sulla comoda possibilità di tirarla alle lunghe finché la prescrizione - pardon, ora si chiama improcedibilità - non inghiotta tutto. “Nordio alla Giustizia sarebbe un vero garantista, ma Salvini stia lontano dal Viminale” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 30 settembre 2022 Fabrizio Cicchitto, ex ministro berlusconiano e ora presidente di Riformismo& Libertà, di formazioni dei governi ne ha viste tante, e ora spiega che “la Meloni si gioca tutto sul Ministero dell’Economia, che dovrebbe affidare a un tecnico affidabile, e su quello dell’Interno, che non deve assegnare a Salvini perché sarebbe la sua rovina”. Sugli altri dicasteri è chiaro: “Il mio auspicio personale - ragiona - è che Carlo Nordio vada alla Giustizia e Vittorio Sgarbi alla Cultura, quest’ultimo non per le sue uscite focose ma per la sua competenza sul tema; con Nordio invece avremmo la certezza di avere un vero garantista al ministero della Giustizia”. Presidente Cicchitto, crede che il centrodestra riuscirà a formare un governo stabile o sorgeranno contrasti già nella fase di scelta dei ministri? In primo luogo vorrei rilevare un dato su queste elezioni che è stato messo poco in evidenza. Il Pd ha perso 800mila voti ed Enrico Letta ha annunciato le dimissioni, mentre il Movimento 5 Stelle che ha perso milioni di consensi viene considerato vincitore. Al tempo stesso, nel centrodestra due partiti hanno dimezzato i voti rispetto al 2018 e la vittoria dipende tutta da Fratelli d’Italia. Inoltre, un dato significativo è che non esiste più la linea gotica per cui Msi e An prendevano voti quasi soltanto da Roma in giù. Questa linea è saltata non perché il nord sia diventato filofascista ma perché ha vissuto la Meloni in una dimensione diciamo “a- fascista”. Gli elettori del Nord che hanno mollato Salvini a causa della sua inattendibilità hanno tenuto in considerazione la capacità oratoria di Meloni e la coerenza dei suoi atteggiamenti. Crede che il calo di consensi della Lega sia dovuto solo a questo? Beh, Salvini è al governo in un esecutivo filo atlantico ma si comporta da filoputiniano, poi lo fa cadere nel momento peggiore. La Meloni, invece, pur dall’opposizione, ha sempre dimostrato u atteggiamento costruttivo e una linea filoatlantica. Premesso questo, come riusciranno i partiti a consultare il manuale Cencelli e spartirsi i ministeri senza troppo discutere? Siamo nella fase dell’ovvia contrattazione ed è evidente che i pariti della coalizione che sono andati peggio, cioè Lega e Forza Italia, cercheranno di avere un recupero con buoni ministeri. La Meloni si gioca la pelle su due punti: il ministero dell’Economia, che auspico vada a un tecnico affidabile all’Italia e all’estero, e quello dell’Interno, che mi auguro no finisca nelle mani di Salvini perché sarebbe la rovina per la stessa Meloni. Ma Salvini lo reclama, dicendo che al Viminale ha fermato gli sbarchi e che per “difendere i confini degli italiani” è finito anche sotto processo. Come la mettiamo? Salvini teneva le navi a bagno maria per quindici giorni e poi quei disgraziati, tranne quattro o cinque che venivano presi da Francia e Germania, scendevano tutti in Italia. Insomma faceva quella che in Campania si chiama ammuina. Ora pensa di recuperare voti sfruttando il Viminale e rendendosi protagonista sul fronte dell’immigrazione ma Meloni deve guardarsi bene dal permetterglielo. Come pensa verranno ripartite le altre caselle dell’esecutivo, penso ad esempio alla Giustizia dopo le riforme portate avanti da Marta Cartabia? Tolti Economia e Interno è tutto sistemabile. Il mio auspicio personale è che Carlo Nordio vada alla Giustizia e Vittorio Sgarbi alla Cultura. Quest’ultimo non per le sue uscite focose ma per la sua competenza sul tema. Con Nordio invece avremmo la certezza di avere un vero garantista al ministero della Giustizia. Crede che Pd e Movimento 5 Stelle, dopo la separazione in campagna elettorale dovuta alla caduta del governo Draghi, dovrebbero fare opposizione unitaria al governo Meloni? Assolutamente no. Il Pd è una cosa e il Movimento 5 Stelle un’altra. Mi auguro che questa distinzione rimanga, mentre auspico che ci siano elementi di convergenza tra il Pd e il terzo polo. I dem devono capire che Conte non è un compagno che sbaglia, ma uno che ha fatto quello che ha fatto in modo scientifico e calcolato, e dal suo punto di vista anche giusto. Ha voluto salvare il salvabile e ci è riuscito visto che passa per vincente, ma per farlo è tornato alle origini, cioè a un partito populista, autoritario e ultra giustizialista, che cavalca tematiche sociali in chiave del tutto diversa da quella del Pd. Eppure in molti al Nazareno vorrebbero tornare ai fasti del governo giallorosso. Tra pochi mesi ci sarà un Congresso nel quale si affronteranno le due anime (o forse di più) del partito: come andrà a finire? Di certo c’è una parte del Pd che vorrebbe tornare all’abbraccio con i Cinque Stelle ma mi auguro che il Congresso dem sia limpido e scelga o un partito riformista e garantista o un partito massimalista e giustizialista. Le vie di mezzo, a prescindere dai nomi, sono totalmente sbagliate. E queste elezioni lo hanno dimostrato. Calenda e Renzi hanno promesso un’opposizione dura ma al tempo stesso si sono detti disponibili a dare una mano ad esempio sui rigassificatori. Che fine farà l’alleanza tra i due? Credo che Calenda e Renzi debbano collocarsi all’opposizione in modo preciso, dopodiché devono valutare il governo sul merito. Se l’esecutivo fa cose buone è giusto votarle, se le fa negative vanno fronteggiate di petto. Ma tutto dipende dai contenuti. Questo governo è tutto da scoprire, può avere una deriva assolutamente negativa o una con cui è possibile stabilire un confronto, Bisogna vedere che indirizzo prende l’esecutivo dal punto di vista programmatico e della scelta dei nomi. Sulla base di questo si sceglie poi che tipo di opposizione fare. Crede che il governo riuscirà a mettere in piedi una riforma della Costituzione in senso presidenziale nel corso di questa legislatura, come auspicato da Meloni? Questo non glielo so dire, ma andrei molto cauto su una riforma di questo tipo. Cassese ieri ha scritto che una riforma presidenzialista è possibile, ma bisogna stare molto attenti sui contenuti. Insomma, c’è presidenzialismo e presidenzialismo e su questo vorrei vederci chiaro. Nordio: “Il semipresidenzialismo sarebbe una garanzia di stabilità” di Alberto Cantoni Il Foglio, 30 settembre 2022 In un’intervista al Messaggero, l’ex magistrato capolista con FdI parla di giustizia: “Occorre ridurre la lentezza dei processi e evitare il 90 per cento delle intercettazioni”. Sulla Costituzione: “Serve un’Assemblea Costituente”. D’accordo anche Sabino Cassese: “Il presidenzialismo può consolidare l’esecutivo”. “Oggi la priorità è l’economia, e quindi anche gli interventi più urgenti sulla giustizia sono quelli che possono incidere subito sul bilancio”. Pragmatico e - forse - già proiettato in una logica ministeriale, Carlo Nordio parla di riforme (e non solo) in un’intervista al Messaggero. L’ex magistrato, candidato capolista con Fdi e in quota presidenza della Repubblica nelle trattative per l’elezione del capo dello stato a gennaio di quest’anno, non ha dubbi: “Occorre ridurre la lentezza dei processi, madre dell’incertezza del diritto, della sfiducia dei cittadini, della contrazione degli investimenti e di un rallentamento dell’economia che ci costa un 2 per cento di Pil”. La posizione, in merito, è chiara: “Ho abbastanza esperienza per affermare che il 90 per cento delle intercettazioni sono fatte a strascico, per cercare qualcosa sulla base di semplici indizi: non portano a nessun risultato definitivo e devastano l’onore e la riservatezza dei cittadini”. Il ragionamento verte su un unico punto incontrovertibile: permettendo solo il dieci per cento delle intercettazioni realmente utili allo stato, in cinque anni il paese risparmierebbe quasi un miliardo di euro. Sul trionfo elettorale di Fratelli d’Italia (l’endorsement in chiave presidenza della Repubblica era arrivato in primis da Giorgia Meloni) e sull’exploit del partito al Nord - anche nel suo Veneto -, Nordio spiega che “oggi l’elettorato è molto volatile, e può esser più sensibile ad argomenti che ieri lo appassionavano e che ora sono in secondo piano. Le iniziali oscillazioni in politica estera davanti alla criminale aggressione dell’Ucraina da parte di Putin non hanno giovato all’immagine dei nostri alleati, che per fortuna hanno poi cambiato idea”. Sulla possibilità di diventare ministro per il governo venturo, invece, l’ex procuratore aggiunto di Venezia ritiene che, per la sua preparazione tecnica, si riterrebbe più adatto in commissione Giustizia, perché è lì che effettivamente si elaborano le leggi. Ma non si tira indietro dall’ambizione del dicastero: “Certo, avendo visto la situazione disastrata degli uffici giudiziari, la tentazione di entrare al Ministero e di colmare rapidamente gli organici e di implementare le risorse sarebbe molto forte”. Intervistato dal Foglio, anche il presidente dell’Unione camere penali Gian Domenico Caiazza, si è detto favorevole all’ipotesi della sua nomina come prossimo ministro della Giustizia: “È certo che con il dottor Nordio abbiamo sempre registrato una comunanza di punti di vista e di lettura complessiva della giustizia penale, che mi fa dire che sarebbe certamente un ottimo ministro”. Capitolo Costituzione: in occasione della conferenza stampa dopo la vittoria elettorale di lunedì notte, il capogruppo FdI Francesco Lollobrigida ha ventilato (confermando quanto già sostenuto in passato dal partito) una modifica del testo. La Costituzione “è bella, ma ha anche settant’anni”. Su questo fronte, Nordio preferisce la strada di “un’Assemblea Costituente, come da tempo suggerisce la Fondazione Einaudi di cui mi onoro di far parte. Quanto al presidenzialismo, o meglio semipresidenzialismo, sarebbe una garanzia di stabilità che oggi manca. In Francia fu voluto da De Gaulle dopo la crisi causata dalla guerra algerina: funziona, e nessuno, si sogna di dire che sia un regime dittatoriale”. Con lui, è d’accordo anche un’altra figura chiave, il giurista (ex giudice della Corte Costituzionale) Sabino Cassese, che in un’altra intervista sul Corriere dice la sua: “Modificare la Costituzione non è un attentato alla Costituzione. Il presidenzialsmo può soddisfare un’esigenza fondamentale: quella di consolidare l’esecutivo. La Costituzione stabilisce quanto tempo durano in cariche i membri del Parlamento, quanto il presidente della Repubblica, quanto tempo i giudici della Corte costituzionale, ma non stabilisce quanto tempo durano i governi. Con la conseguenza di avere avuto 67 governi in 75 anni, mentre la Germania ne ha avuti due terzi di meno e un numero ancora inferiore di cancellieri. Quando, nell’ultimo decennio del secolo scorso, si introdusse la riforma presidenziale per comuni e regioni, si disse che si voleva sperimentare il presidenzialismo per poi trasferirlo anche a livello nazionale. La sperimentazione ha dato risultati complessivamente positivi; perché non tenerne conto”. Infine, spazio a una riflessione sulla dimensione europea: “La nostra adesione (come Italia, ndr.) all’Alleanza Atlantica, ai princìpi delle libertà occidentali e all’idea di Europa è assoluta, e non varrebbe nemmeno la pena di parlarne. Certo vorremmo l’Europa immaginata da De Gasperi, da Schuman e da Adenauer, fondata sui principi della civiltà liberale e cristiana piuttosto che su un’organizzazione più burocratica che idealistica, che non ha saputo nemmeno darsi una Costituzione, e che anzi ne ha ripudiato i preamboli religiosi e culturali che ne dovrebbero costituire le fondamenta. Vorremmo portare in Europa queste alte aspirazioni”. Caiazza: “Cambiare la giustizia: ora i numeri ci sono” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 settembre 2022 Intervista al presidente dell’Unione delle Camere Penali, da oggi a Pescara per affrontare i temi tanto cari al mondo dell’avvocatura. Si apre oggi a Pescara il congresso straordinario dell’Unione Camere penali, evento che terminerà domenica. Non si voterà per un nuovo vertice ma si farà il punto sul futuro della giustizia e dell’esecuzione penale alla luce di diverse novità: un nuovo governo, un nuovo Consiglio superiore della magistratura, la riforma penale appena approvata. Interverranno i responsabili Giustizia dei partiti, il capo del Dap Carlo Renoldi, l’ex guardasigilli nonché presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, accademici e, ça va sans dire, avvocati. Ne parliamo con il leader dei penalisti italiani, Gian Domenico Caiazza. Che giudizio dà dell’esito elettorale? Il voto è chiarissimo: il Paese ha scelto di essere guidato da un Governo di centrodestra, trainato da Fratelli d’Italia. Come si ripercuote questo nell’ambito della giustizia? Lo vedremo subito. Se vogliamo fare affidamento, come facciamo, sugli impegni assunti dalle forze politiche che hanno risposto ad un nostro appello su alcuni temi fondamentali della giustizia, possiamo essere ottimisti. Abbiamo una maggioranza parlamentare assoluta, a prescindere dall’assetto di governo, favorevole alla separazione delle carriere e anche all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, e c’è pure una consistente maggioranza per ritornare sul tema della prescrizione ante- Bonafede. Ora bisognerà vedere se verranno rispettati questi impegni e come verranno eventualmente declinati. Ci faccia un esempio... Sulla separazione delle carriere, noi, ma non solo noi, pensiamo che l’unica riforma sia quella costituzionale. Qualunque altra idea di riforma con legge ordinaria ci farebbe ricadere nella separazione delle funzioni, senza superare quello stesso equivoco che ha caratterizzato i recenti referendum. Marcello Pera, probabile nuovo ministro per le Riforme, già nel lontano 1997 depositò un ddl di riforma costituzionale proprio sulla separazione. Mi fa molto piacere. Ricordo che sulla questione giace, in commissione Affari costituzionali alla Camera, una nostra più recente proposta di legge di iniziativa popolare sottoscritta da oltre 72mila cittadini. Tornando agli appelli alle forze politiche: l’Ucpi lo inviò a tutti tranne che a Giuseppe Conte. Visto il risultato elettorale che non li ha polverizzati occorrerà riaprire un dialogo anche con il Movimento Cinque Stelle? Decidemmo di non inviarlo a lui non in base a calcoli elettorali o di peso politico. In questi anni abbiamo semplicemente preso atto che il Movimento rivendica legittimamente posizioni totalmente inconciliabili con le nostre. Rispettando questa distanza incolmabile, abbiamo ritenuto di non perdere tempo. Che abbiano il 10 o il 15 per cento di consensi a noi non cambia nulla. Veniamo alla tre giorni di Congresso pescarese. Lei interverrà domani. Ci anticipa qualcosa del suo discorso? Farò il quadro di quello che come Unione abbiamo fatto ed evitato che accadesse. Parlerò dell’importante dato storico dei governi populisti che ci siamo lasciati alle spalle; delle delusioni importanti che abbiamo segnalato in riferimento ai decreti delegati della riforma del processo penale. Infine ragionerò in prospettiva in base al quadro parlamenta-re delineatosi dalle recenti elezioni. C’è un nuovo problema che noi avremo con la maggioranza politica. Quale? È il tema dell’esecuzione della pena. Se è vero che abbiamo intitolato il congresso “La giustizia oltre il populismo penale”, non si può nascondere d’altra parte che sul tema del carcere il populismo penale rientri dalla finestra. Le parole d’ordine che sentiamo sono allarmanti e mi riferisco, ad esempio, a “certezza della pena è certezza del carcere”. “Certezza della pena” è un principio illuminista e liberale che non ha nulla a che vedere con il “buttare la chiave”. Preso atto, in disaccordo, del fatto che taluni sostengono di essere garantisti sul processo e giustizialisti per l’esecuzione penale, il compito dei penalisti italiani dovrà essere quello di confrontarsi, convincere, modificare questi punti di vista. Ci siamo confrontati persino con Bonafede, lo faremo anche adesso con i nuovi interlocutori. Fonti della Lega ipotizzano che il capo del Dap Carlo Renoldi possa essere rimosso appena si insedierà il nuovo governo. Difenderete quindi la sua permanenza? Renoldi, che interverrà quale relatore al nostro congresso, è un interlocutore di grande qualità che va preservato e difeso. Un panel molto interessante è quello dal titolo “Il difensore di fronte alle nuove restrizioni dei decreti attuativi”. Interverranno il consigliere della ministra Cartabia, Gian Luigi Gatta, gli avvocati Petrelli e Mazza, la professoressa Marandola... Come lei sa, abbiamo scritto un documento molto duro contro i decreti delegati che, in forza anche della genericità di alcune deleghe, hanno svuotato ciò che di buono c’era nella riforma. Questo è quanto accaduto. Ora occorre intervenire nuovamente sui decreti delegati. Questa possibilità la offre la norma stessa che prevede che nei due anni successivi all’approvazione si possano apportare delle modifiche, sempre ovviamente nel rispetto della delega. Quindi noi dobbiamo aprire un grande dibattito dottrinale e politico innanzitutto con questo obiettivo. Poi dovremmo strutturare delle iniziative degli avvocati nei processi. Ci spieghi meglio.. Dovremmo sollecitare interpretazioni, sollevare questioni di legittimità costituzionale, in questo con l’ausilio anche dei nostri Osservatori, perché ci sono norme che possono essere aggredite subito. Basti pensare alla norma sulla improcedibilità per quanto riguarda i poteri di deroga del termine di maturazione della prescrizione in appello affidati a criteri unilaterali formulati dal giudice in modo del tutto arbitrario. Ci sarà anche un panel dal titolo “Ordinamento giudiziario: la riforma inutile”. Tra gli ospiti l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte... Mentre sulla riforma del processo abbiamo interloquito con la ministra Cartabia, per quanto riguarda la riforma dell’ordinamento giudiziario la nostra voce non è stata ascoltata. Dal nostro punto di vista, come abbiamo sottolineato anche con il titolo del panel, si tratta di una riforma inutile perché non è centrata sulle questioni che noi riteniamo cruciali. Oltre le correnti. Parla Mirenda, l’unico indipendente eletto al Csm di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 settembre 2022 Intervista ad Andrea Mirenda, l’unico togato (su 20) eletto al Consiglio superiore della magistratura senza il sostegno delle correnti: “A essere antisistema non sono io, ma loro. Lavorerò per basare le nomine su criteri oggettivi e trasparenti”. “Quando leggo che io sarei un magistrato ‘antisistema’ mi viene da sorridere. La verità è che a essere antisistema sono loro, le correnti. È antisistema chi si muove sotterraneamente e in modo occulto per alterare i processi decisionali di un organo di rilevanza costituzionale come il Csm. In questo modo ci si pone fuori dal sistema, fuori dall’ordinamento giudiziario e fuori dalla Costituzione. Il giudice per la legalità è contro l’antisistema”. A parlare, intervistato dal Foglio, è Andrea Mirenda, giudice del tribunale di sorveglianza di Verona, l’unico candidato indipendente eletto come componente togato del nuovo Consiglio superiore della magistratura. L’unico su venti. In magistratura dal 1986, Mirenda è stato per anni un esponente della corrente di Magistratura democratica. Nel 2008, però, decise di abbandonare la corrente (e anche l’Anm) in polemica con i criteri spartitori alla base delle nomine del Csm, a cui la stessa Md mostrava di partecipare attivamente. Nel 2017 lo strappo finale: si dimise dall’incarico di presidente di sezione presso il tribunale di Verona e decise di tornare a fare il giudice di sorveglianza, denunciando il “mercato delle nomine” e la deriva correntizia, accusando addirittura il Csm di usare “metodi mafiosi”. Il destino ha voluto che proprio lui fosse sorteggiato come candidato al rinnovo del Csm, in virtù del mancato raggiungimento del numero minimo di candidati nel collegio. “Non mi sarei mai candidato spontaneamente - racconta ora al Foglio - Mai avrei chiesto alcunché, essendo tenacemente convinto della necessità di introdurre il sorteggio come metodo di elezione del Csm”. “Accettata la candidatura - aggiunge Mirenda - credo che abbia pagato l’impegno profuso in quindici anni in una direzione ben precisa”, cioè quella di critica coraggiosa dell’antisistema correntizio, quello emerso poi chiaramente nel 2019 con lo scandalo Palamara. “Mi limitavo semplicemente a fare il bravo cronista, cioè a dare eco a ciò di cui si discuteva costantemente fra noi magistrati: l’esistenza di un nominificio, con regole alterate, preferenze evidenti, svalutazioni studiate e addirittura, come si è poi scoperto, nomine arbitrarie seguite motivazioni aggiustate”. Ecco, l’antisistema delle correnti. “Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente, compresi i magistrati. Quello che non va bene è l’occupazione delle istituzioni da parte delle correnti. Quello che non va bene è che le correnti decidano delle sorti dei magistrati”, aggiunge Mirenda. “Il sorteggio è l’unico metodo di selezione dei candidati che potrebbe evitare questo fenomeno, perché eviterebbe in radice il debito di riconoscenza tra l’eletto e le correnti che lo hanno portato al Csm”. Fatto sta che le correnti sono vive e vegete, e non per colpa loro. Alle elezioni per il rinnovo del Csm sono stati i magistrati ad attribuire 19 seggi su 20 a candidati proposti dalle correnti. “C’è stato un plebiscito bulgaro verso il sistema correntizio”, riconosce Mirenda. “La magistratura ha rimosso la questione etica. Ha rimosso i moniti del capo dello Stato a superare la modestia etica e ha massicciamente riconfermato l’antisistema. Questo a dimostrazione definitiva del fatto che, se mai ci dovesse essere una riforma della magistratura, questa non potrà che essere per volontà del legislatore”. Dottor Mirenda, non si sente un po’ solo? “Sento profondo disagio e una profonda preoccupazione”, replica. “Spero che ci possa essere un dialogo con i laici e spero che i colleghi abbiano un fremito di legalità. Il fatto che, alla fine del mandato, nessuno di noi per cinque anni potrà aspirare a cariche direttive potrebbe stimolare un recupero di coscienza”. Quali saranno le priorità di azione al Csm? “Mi concentrerò in primo luogo su quello che è stato la pietra dello scandalo, cioè il nominificio. La realtà associativa si è trasformata in un ufficio di collocamento. Occorre introdurre metodi cristallini per le nomine. Occorre individuare all’interno di quella massa di parametri che oggi servono a valutare l’attitudine del magistrato a rivestire incarichi direttivi e semidirettivi i parametri che hanno veramente significato, quelli che veramente dimostrano una capacità di coordinamento del lavoro dei colleghi”. “Insomma - conclude Mirenda - bisogna stabilire parametri di carattere oggettivo che sminino la discrezionalità, troppo spesso diventata arbitrio”. L’eclissi lunga e dolorosa della magistratura di Alberto Cisterna Il Riformista, 30 settembre 2022 “It’s not dark yet, but it’s getting there” cantava il premio Nobel per la letteratura Bob Dylan. “Non è buio ancora, ma presto lo sarà” sembrano le parole che, a mezza voce e con malcelata preoccupazione, sussurrano le toghe italiane di fronte allo scenario politico inaugurato dalle elezioni del 25 settembre. È vero, non è la prima volta che il centrodestra (Cdx) si aggiudica una competizione elettorale nazionale. È vero, non è la prima volta che quello schieramento annuncia riforme radicali sul versante della giustizia. Ma è la prima volta che il Cdx mette in campo una strategia a doppia partizione: per un verso ha annunciato in campagna elettorale modifiche legislative ordinarie di un certo peso, per altro pretende una revisione della Costituzione in varie sue parti, senza mai escludere espressamente le norme sul potere giudiziario. Si badi bene. Esclusa qualche scaramuccia periferica sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, mai la Costituzione repubblicana era finita sotto il mirino delle ambizioni costituenti della politica italiana. A nessuno era venuto in mente di modificare l’assetto dell’organizzazione giudiziaria prendendo le distanze dallo statuto della Carta del 1947. Certo, nel 1999, si erano introdotte nell’articolo 111 le norme sul “giusto processo”, scopiazzandole dalla Cedu, ma gli effetti benefici sul processo penale e civile di quella riscrittura costituzionale sono stati sempre pressoché nulli, dopo qualche iniziale entusiasmo. Anzi. Si è avuto come l’impressione che principi basilari come la ragionevole durata del processo, la terzietà del giudice, la parità delle parti dovessero, essi, adattarsi alla morfologia ambigua della giustizia italiana, perdendo ogni capacità performante e ogni spinta innovatrice. Se davvero il Cdx intende modellare la forma di governo o addirittura di Stato in senso presidenzialista, è evidente che la magistratura ordinaria non potrebbe non subire un pesante contraccolpo da questa riscrittura della Carta. L’attribuzione della presidenza del Csm a un presidente eletto dal popolo e non più di estrazione parlamentare, altera in modo decisivo l’autogoverno della magistratura dovendosi immaginare che un presidente del Repubblica di diretta derivazione dal voto popolare sarebbe senz’altro propenso a interventi, come dire, ravvicinati sul funzionamento di palazzo dei Marescialli. Senza considerare che sia il presidente che il vicepresidente potrebbero facilmente appartenere alla medesima coalizione politica e derivare dagli esiti della stessa tornata elettorale; circostanza sinora evitata dalla sfasatura tra il settennato quirinalizio e il quadriennio consiliare. Se l’opzione fosse, poi, quella dell’elezione diretta del premier sul modello del cd. sindaco d’Italia, anche questa volta le conseguenze non sarebbero di scarso momento sul funzionamento dell’organizzazione giudiziaria con un gabinetto a palazzo Chigi fortemente legittimato poblica liticamente e poco propenso a mediazioni con la corporazione delle toghe, sempre diffidenti verso governi autorevoli (basti pensare allo scontro con la ministra Cartabia). Insomma, questa volta la copertura della Costituzione - che tante volte ha dato modo alla Consulta di neutralizzare gli effetti di riforme legislative ordinarie malviste dalle toghe (si pensi alla legge caducata sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione o alla norma cassata sull’obbligo di archiviazione in caso di annullamento di un mandato di cattura) - potrebbe vacillare. Nello schieramento del 25 settembre, soprattutto nei suoi settori più sensibili alle geometrie costituzionali e istituzionali, potrebbe trovar spazio l’idea di un complessivo rimodellamento dell’assetto della giurisdizione irrompendo nella cittadella disegnata nel 1947 attraverso l’escamotage di dare sostanza e forma definitiva a una battaglia tutto sommato ben vista dalla pubopinione come quella della separazione delle carriere tra giudici e pm. Di lì il passaggio verso il doppio Csm sarebbe agevole, come pure ghiotta potrebbe essere l’occasione per sistemare il principio di obbligatorietà dell’azione penale o la disponibilità diretta della polizia giudiziaria da parte dei pm o i poteri del Csm o la creazione dell’Alta Corte disciplinare. Tutte proposte che riscuotono consensi ben oltre gli steccati dell’attuale Cdx e che hanno visto spendersi figure autorevole della politica italiana (primo tra tutti, Luciano Violante). Certo non è ancora buio, ma tra un poco il sole della magistratura italiana rischia un’eclissi lunga e dolorosa cui, francamente, non si è del tutto pronti a reagire con proposte autorevoli. Un nuovo giallo nel caso Omerovic: che fine hanno fatto i vestiti di Hasib? di Valentina Stella Il Dubbio, 30 settembre 2022 L’ospedale ha restituito alla famiglia indumenti diversi da quelli indossati dall’uomo il giorno in cui è precipitato dalla finestra dopo una perquisizione. Alla già tanto nebulosa vicenda sul caso di Hasib Omerovic, il 37enne di origini rom precipitato in circostanze ancora da chiarire il 25 luglio scorso dalla sua abitazione nel quartiere di Primavalle a Roma nel corso di una perquisizione delle forze dell’ordine, si aggiungono altri punti oscuri. Sono stati resi noti oggi durante una conferenza stampa convocata alla Camera dei Deputati dall’onorevole di +Europa Riccardo Magi, appena rieletto a Montecitorio. Presenti con lui, come per la prima conferenza che si è tenuta lo scorso 12 settembre, Fatima Sejdovic, la madre della vittima, Carlo Stasolla, portavoce di Associazione 21 luglio, e gli avvocati della famiglia, Susanna Zorzi e Arturo Salerni. Prima domanda: che fine hanno fatto i vestiti di Hasib? L’ospedale Gemelli, due giorni dopo il volo di 9 metri di Hasib dalla finestra di casa sua, ha restituito alla famiglia in una busta bianca indumenti e scarpe diversi da quelli indossati dall’uomo il giorno della “caduta”, ha spiegato l’avvocato Arturo Salerni. Hasib indossava un pantalone nero arrotolato alle ginocchia, mentre alla madre è stato riconsegnato un pantalone corto marrone. I vestiti restituiti non sono comunque di Hasib: c’è stato uno scambio involontario da parte del personale dell’ospedale? Anche se fosse, è comunque strano - hanno sottolineato durante la conferenza - che pure l’altra persona avesse solo pantaloni e scarpe. Seconda domanda: chi ha scattato la foto di Hasib a terra dopo essere precipitato? E che giro ha fatto per arrivare alla famiglia? L’avvocato ha spiegato che è giunta ai parenti dell’uomo da una vicina di casa che però ha detto di non averla scattata. Bisognerà ricostruire la catena di condivisione. Tutti questi elementi sono stati fatti presenti agli investigatori, insieme ad un altro elemento: “Abbiamo consegnato un video - ha detto il legale - girato il 26 luglio dalla famiglia che il giorno dopo è andata al commissariato di Primavalle e si vedono due poliziotti che dicono di essere intervenuti il giorno prima in casa di Hasib”. Quanto detto ai genitori del ragazzo corrisponderà alle testimonianze rese agli inquirenti successivamente? Sempre il legale ha ricordato che “il fascicolo non è più contro ignoti. Ci sono degli indagati per tentato omicidio, non so quanti. Il padre, la madre e la sorella di Hasib sono stati sentiti nei giorni scorsi. Hanno parlato per diverse ore e approfondito diversi aspetti. Da parte nostra c’è apprezzamento per come sta lavorando la Procura”. Gli avvocati hanno costruito e mostrato ai giornalisti una mappa della casa e dei danni registrati in casa: i segni dei calci sulla porta della stanza di Hasib, il termosifone divelto, il manico di scopa rotto, le lenzuola sporche di sangue. L’immobile poi è stato sequestrato dalla procura. Sul versante politico, Magi ha rilanciato la polemica con il ministro dell’Interno: “Il fatto che dopo 25 giorni Lamorgese non abbia risposto alla interrogazione che ho presentato è una grave mancanza di rispetto istituzionale nei confronti del Parlamento e dei cittadini. Ne presenterò un’altra al nuovo ministro dell’Interno. L’oggetto dell’atto di sindacato ispettivo - ha proseguito il parlamentare - riguarda aspetti amministrativi della vicenda: sono state fatte indagini interne? Sono scattati procedimenti disciplinari? Sappiamo che al commissariato di Primavalle c’è stato un avvicendamento: perché l’opinione pubblica deve saperlo da fonti ufficiose e non dagli organi preposti? Faccio un ulteriore appello alla Lamorgese affinché risponda all’interrogazione. Non si tratterebbe affatto di una interferenza col delicato lavoro che sta svolgendo la magistratura”. Infine il portavoce dell’Associazione 21 Luglio, Carlo Stasolla, ha denunciato la “freddezza” del Comune di Roma nei confronti della vicenda: “L’amministrazione capitolina non ha manifestato nessuna vicinanza alla famiglia né privatamente né pubblicamente. Persino per avere un nuovo alloggio per la famiglia di Hasib abbiamo dovuto fare un presidio a piazza del Campidoglio per fare pressing”. “Abbiamo paura ma vogliamo verità e giustizia per Hasib”, ha concluso la madre di Hasib, Fatima. Arresto obbligatorio in flagranza di chi violi il divieto di avvicinamento alla persona offesa di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2022 La riforma penale della legge 134/2021 ha esteso l’obbligatorietà a violazioni di provvedimenti coercitivi disposti a tutela della vittima. La violazione di misure cautelari personali come il divieto di avvicinamento alla persona offesa o l’ordine di allontanamento dalla casa familiare consente l’arresto in flagranza anche se si tratta di fattispecie al disotto del limite edittale per il quale esso è di regola possibile. La mancata convalida dell’arresto dell’imputato da parte del giudice non poteva essere giustificata dal fatto che il reato di violazione di provvedimenti dell’autorità giudiziaria fosse sanzionato con pene inferiori a quelle previste dalla norma del Codice penale che disciplina i casi di arresto obbligatorio in caso di flagranza di reato. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 36775/2022, ha accolto il ricorso della Procura della Repubblica contro la mancata convalida dell’imputato che aveva violato il divieto di avvicinamento alla persona offesa ed era stato tratto in arresto mentre compiva la condotta delittuosa dell’articolo 387 bis del Codice penale. Infatti, la Cassazione accoglie il motivo di ricorso che lamentava la non presa in considerazione da parte del Gip dell’intervento legislativo recato dalla legge 134/2021 che aveva ampliato la categoria di reati per i quali scatta l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza in deroga alla regola generale dei limiti edittali per i quali è previsto. In tal caso non vale quindi la necessaria circostanza che il reato preveda un massimo di pena pari a 5 anni. Quindi a partire dall’entrata in vigore della legge 134/2022 di riforma penale i reati previsti dall’articolo 387 bis del Codice penale (Violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa) come quello contestato all’imputato del caso ora risolto prevedono l’arresto obbligatorio in flagranza ex articolo 380 del Codice anche se sono sanzionati con il massimo di tre anni di pena detentiva. La norma in vigore da ottobre 2021 - Il comma 15 dell’articolo 2 della legge 134/2021 ha aggiunto altre ipotesi di arresto obbligatorio in flagranza sostituendo la lettera l-ter) del comma 2 dell’articolo 380 del Codice di procedura penale che ne consente il compimento per specifici reati al di là della regola generale del massimo edittale a 5 anni (delitti di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori, previsti dagli articoli 387-bis, 572 e 612-bis del Codice penale). Noi ergastolani in attesa di tornare tra i vivi Il Riformista, 30 settembre 2022 Due brevi lettere dal carcere di Opera spiegano il senso - in una è scritto: la “religiosa missione etica” - dei Laboratori del Cambiamento “Spes contra Spem” che Nessuno tocchi Caino ha istituito e continua a tenere con cadenza mensile da ormai sei anni nelle sezioni di alta sicurezza. L’ultimo, a Opera, è stato “animato” dalla presenza di detenuti che non li avevano mai frequentati. I toni del confronto all’inizio un po’ troppo accesi erano la spia di un malessere che è sempre più diffuso nelle carceri. Gli autori delle due lettere sono ergastolani ormai veterani dei Laboratori di Nessuno tocchi Caino. Il primo, Giuseppe Grassonelli, invoca il tribunale della verità e della riconciliazione; il secondo, Antonio Aparo, letteralmente, ricama la speranza e la pazienza che il tempo della pena richiede. Sarebbe bene siano ascoltati, non solo dagli altri detenuti, ma anche dai guardiani detenenti e dai magistrati sorveglianti, se si vuole evitare che la sfiducia e la disperazione, che serpeggiano nelle carceri e di cui il numero dei suicidi di quest’anno è solo un terribile indice, superino un punto di non ritorno. I nostri “laboratori del cambiamento” hanno un obiettivo chiaro e definito: rivoltare la banalità del male nella gratuità del bene. Noi stiamo tra il bene e il male, stiamo bene e male, ma la nostra missione è rendere il tutto sensato e gratuito. Tutto ciò che facciamo è senza scambio e interesse, perché se la Giustizia è restituzione, essa non può essere incatenata a uno scambio equivalente. La giustizia dell’occhio per occhio non è vera. È vendetta. E ripetizione. Non fa fare un solo passo in avanti. Ferma l’orologio dell’esistenza. È certificatile. Vera è invece la restituzione del non equivalente. Mi piace pensare che “letteratura” significa “le cose che si leggeranno”, quelle che potranno essere lette. Prima o poi, comincerà un tempo nuovo per tutti, e con questo bisognerà fare i conti. Ci sarà bisogno allora non di pentimenti giudiziari di scambio, ma di “relazioni di verità”. Sergio D’Elia cita sempre la commissione sudafricana “verità e riconciliazione” e il suo mandato, il suo scopo principale: una ricostruzione dei fatti avvenuti e non la vendetta sui colpevoli. Per quanto mi riguarda, io sono disponibile a sottopormi al duro giudizio dinanzi a un Tribunale della Verità. Non chiederei di essere perdonato, ma di poter sperare in un “ritorno” alla società perduta. Quindi: No a uno scambio di informazioni; No a uno scambio per avere; Sì a uno scambio di formazione; Sì a uno scambio per essere. Non basterà uscire dall’odio del passato, occorrerà orientarsi a un’altra storia, perché il nemico più brutale, più arrogante e più presuntuoso è stato quello che un tempo ci è stato amico. Lunga vita a Spes contra Spem. Giuseppe Grassonelli Mi sveglio con un disegno confuso in mente e inizio a ricamare all’alba, l’immagine si dipana come il filo tra le dita e una figura prende forma sulla tela. Il ricamo mi ricorda la speranza e accompagna la pazienza che il tempo della pena ci richiede, perché magari non si è avuto tempo di considerare l’istanza oppure perché i documenti sono andati smarriti. Intanto le nostre richieste sbaragliano per ansia gli schemi del punto croce, si fanno più insistenti, sembrano assillanti, ma sono mosse dalla consapevolezza di chi sa che non riceverà risposta. Il 5 agosto 2022 ricamavo quando il magistrato di sorveglianza m’ha convocato per la prima volta dopo trent’anni e due mesi di reclusione. Le mie istanze di permesso vengono rigettate perché - scrivono - non ho fatto una revisione critica del mio passato e sono “restio” a entrare nel merito dei reati e delle motivazioni che mi hanno indotto a delinquere. Eppure ho scritto una lettera pubblica ai miei concittadini e partecipo alle attività del laboratorio Spes contra spem per ribadire la mia distanza da tutte le mafie e assumermi le mie responsabilità. Eschilo nelle Eumenidi ci insegna che il colpevole inciampa a sua insaputa perché il delitto lo rende cieco. I miei compagni e io abbiamo sbagliato trent’anni fa perché ci siamo lasciati cadere nella narrazione che la società ci offriva, ma oggi abbiamo imparato a riflettere e dialogare. La società ci ignora, ma l’ordinamento penitenziario non dovrebbe ruotare intorno al detenuto? A ogni passo ci scontriamo con la difficoltà di comunicazione, che è equivoca e contorta, così moltiplica le situazioni di inciampo, mentre la nostra paura e l’ansia crescono dentro e persino le mura ci gridano contro che noi non siamo esseri umani. In Spes contra spem parliamo della nostra trasformazione e speriamo nella “restituzione alla società”. I miei compagni e io quando parliamo fra noi usiamo un’altra espressione, la chiamiamo “ritorno tra i vivi”. Antonio Aparo Liguria. Le nostre prigioni: viaggio del Tg3 ligure nelle carceri liguri sanremonews.it, 30 settembre 2022 Storie di detenuti, fame di spazi e progetti per riabilitare chi, pagando gli errori, vuole ricostruirsi una vita. Per la prima volta le telecamere della Tgr Liguria entrano nelle sei carceri della regione, documentando come vivono le persone detenute, raccontando le storie di chi è stato condannato e di chi dietro le sbarre lavora, dagli agenti della polizia penitenziaria, ai volontari, gli educatori, i medici, i direttori degli istituti. Un viaggio in dieci puntate. Le prime cinque saranno trasmesse da lunedì prossimo alle 7.30 in Buongiorno Regione e nel tg delle 14. L’inchiesta, coordinata dal caporedattore Luca Ponzi, è realizzata da Mariangela Bisanti con le riprese di Graziano Notaro, parte da Marassi, il più grande carcere ligure con 700 detenuti: dal sovraffollamento fino ai racconti di chi ha problemi di tossicodipendenza, che coinvolgono una persona su due. La difficile convivenza dei reclusi con disturbi psichiatrici. In questa realtà non mancano però gli sforzi per organizzare le attività di recupero. Giorgio e Lino raccontano poi la loro vita oltre le sbarre, rinunciando anche all’ora d’aria, che talvolta - dicono alcuni - rischia di diventare scuola di crimine. Da Genova la Tgr andrà poi a Chiavari, la più piccola casa di reclusione della Liguria, poi a Pontedecimo, Sanremo, Imperia e la Spezia, anche qui storie di detenuti, fame di spazi e progetti per riabilitare chi, pagando gli errori, vuole ricostruirsi una vita. Palermo. Manca il Garante comunale dei detenuti, i consiglieri all’assessore: “Subito la nomina” palermotoday.it, 30 settembre 2022 Incontro fra i componenti della quarta commissione e Antonella Tirrito: “Ci ritroviamo nella condizione che un detenuto, divenuto padre, non può riconoscere il figlio, se non dopo la fine della detenzione”. La quarta commissione al Consiglio comunale di Palermo ha incontrato questa mattina l’assessore Antonella Tirrito (con delega al reinserimento sociale dei detenuti) per affrontare le tematiche legate all’emergenza abitativa e al reinserimento sociale dei carcerati. Nel corso dell’incontro, inoltre, è emersa l’esigenza di nominare con urgenza il Garante comunale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale a Palermo. “Lo scorso marzo è scaduto l’avviso pubblico per la presentazione delle domande da parte dei soggetti interessati alla nomina di Garante, ma ad oggi non si è proceduto ad alcuna assegnazione - dichiarano il presidente della Commissione, Salvo Imperiale, e i consiglieri Antonino Randazzo, Giovanna Rappa, Teresa Piccione e Germana Canzoneri -. E’ necessario che quanto prima venga nominato il Garante per i diritti dei carcerati, una figura fondamentale all’interno degli istituti penitenziari. Da un lato, deve essere il riferimento per i detenuti e dall’altro deve monitorare le condizioni delle carceri”. “Oggi ci ritroviamo nella condizione assurda che un detenuto, divenuto padre, non può riconoscere il figlio, se non dopo la fine della detenzione. La legge, infatti, impone che il riconoscimento da parte del genitore avvenga entro 10 giorni dalla nascita e quindi, il detenuto, essendo impossibilitato a recarsi presso gli uffici preposti, non può formalizzare la sua posizione. Basterebbe che si istituisse un servizio che, sollecitato dal Garante dei detenuti, provvedesse a inviare personale comunale presso gli istituti penitenziari, qualora un detenuto dovesse divenire genitore, per effettuare il riconoscimento del neonato. Il Garante, in questo caso farebbe da collante tra le esigenze dei carcerati e la macchina Amministrativa”. L’assessore Tirrito si è resa pienamente disponibile, comunicando che si attiverà subito per esaminare lo stato del bando e definire quanto prima la nomina. Napoli. Davide Bifolco ucciso da un carabiniere: “Vorrei fosse ricordato come vittima innocente” Il Riformista, 30 settembre 2022 “L’appello del papà: “Vorrei fosse ricordato come vittima innocente”. “Vorrei si ricordasse mio figlio come vittima innocente”. È l’auspicio che Giovanni, padre di Davide Bifolco ucciso da un carabiniere nel Rione Traiano a Napoli la notte del 5 settembre del 2014, affida ad una lettera diffusa alla stampa nel giorno del compleanno del figlio, ammazzato quando aveva 16 anni. “Oggi Davide avrebbe compiuto 25 anni e come accade sempre in questo giorno, da 8 anni sia io che la mia famiglia pensiamo a come sarebbe diventato, se avesse avuto ancora i capelli corti o se avesse continuato a giocare a pallone”. “Davide è una vittima innocente. Lo devo ripetere perché si continua a gettare fango sul nome di mio figlio come è accaduto giorni fa su un articolo di giornale dove Davide era ancora descritto come “amico” di Arturo Equabile (all’epoca latitante, ndr) nonostante questo non sia vero e nonostante sia stato proprio un maledetto “scambio” di persona a causare la morte di mio figlio”. “Oggi dopo le sentenze del tribunale, inchieste e libri che comprovano che avevamo ragione noi (se mai la ragione bastasse a lenire il dolore quando ti uccidono tuo figlio in quel modo) mi aspetterei almeno questo cioè che si parlasse di Davide come un ragazzino innocente che, se non l’avesse ucciso quel carabiniere, avrebbe festeggiato oggi con noi i suoi 25 anni”. Al Rione Traiano - come annunciato dalla famiglia - si ricorderà Davide domenica 2 ottobre alle ore 19:30 in via Orazio Coclite, davanti al murales a lui dedicato. Davide venne ucciso la notte del 5 settembre 2014, al termine di un inseguimento con una gazzella dei carabinieri. Davide, insieme ad altre due persone, era in sella a uno scooter quando venne speronato. Tentò la fuga a piedi e, mentre era a terra, venne raggiunto da un proiettile al petto partito dalla pistola d’ordinanza di un carabiniere, all’epoca poco più che trentenne. Davide non era armato, era su un “mezzo” senza assicurazione e con a bordo, secondo la tesi degli investigatori, un ragazzo (Arturo Equabile) ricercato per reati contro il patrimonio. Il militare che lo ha ucciso nel 2018 è stato condannato in Appello a due anni con pena sospesa per omicidio colposo. Viterbo. Insieme per costruire un ponte tra istituti penitenziari e imprese tusciaweb.eu, 30 settembre 2022 Confartigianato e “Seconda chance”. Andrea De Simone e Angelo Mosca incontrano Flavia Filippi: “Un’occasione per chi assume e chi cerca una nuova vita”. Confartigianato Viterbo e “Seconda chance” insieme per creare un dialogo tra le carceri e le imprese disposte ad agevolare il reinserimento lavorativo dei detenuti a fine pena, usufruendo dei benefici concessi dalla legge Smuraglia. Gradita visita questa mattina negli uffici della Confederazione da parte della giornalista di La7 e fondatrice dell’associazione “Seconda chance”, Flavia Filippi, ricevuta dal segretario provinciale di Confartigianato Viterbo, Andrea De Simone, e dal consulente del lavoro del sistema Confartigianato Viterbo, Angelo Mosca. Filippi ha fortemente voluto questo incontro con l’associazione viterbese per far conoscere “Seconda chance”, una bella realtà del terzo settore che permette alle imprese di assumere personale e allo stesso tempo compiere una buona azione. Da quasi due anni Flavia Filippi, insieme alla documentarista Alessandra Ventimiglia, e a Beatrice Busi Deriu, titolare di Ethicatering, è infatti impegnata a fare da ponte tra mondo dell’impresa, direttori degli istituti penitenziari e detenuti ritenuti idonei dal magistrato di sorveglianza (che se ne assume ogni responsabilità) a svolgere un lavoro fuori dalle mura penitenziarie. “Siamo lieti di collaborare a questa iniziativa insieme a ‘Seconda chance’ - afferma Andrea De Simone -, offrendo al mondo dell’impresa la possibilità di dare una mano a persone in cerca di una seconda occasione, e di assumere al tempo stesso personale che permetta di risparmiare sul costo del lavoro. Si tratta di un rapporto diretto: le carceri selezionano i detenuti a fine pena che possono lavorare fuori dalle strutture, gli imprenditori bisognosi di personale li incontrano e se ci sono le condizioni scelgono loro se e chi assumere. In questo modo si risponde ad un’esigenza sociale e solidale, e si attenua anche la difficoltà che oggi hanno le aziende di trovare lavoratori”. Sono 108 i posti di lavoro procurati da “Seconda chanche” in pochi mesi, sono moltissimi gli imprenditori e le aziende, anche multinazionali, che dopo aver incontrato in carcere (Monza, Opera, Bollate, Pescara, Viterbo, Civitavecchia, Rebibbia, Velletri, Frosinone) gruppi di detenuti preventivamente selezionati dalle direzioni degli istituti, offrono periodi di prova e poi contratti di lavoro (anche part time o a tempo determinato) a pasticcieri, cuochi, camerieri, lavapiatti, addetti alle pulizie, giardinieri, elettricisti, fabbri, falegnami, meccanici, magazzinieri, braccianti, manovali, operai, ragionieri, periti elettronici. Per informazioni sulla possibilità di aderire al progetto “Seconda chance” è possibile contattare Confartigianato imprese di Viterbo al numero 076133791, mail info@confartigianato.vt.it. Torino. Pc rigenerati per i colloqui dei detenuti di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 30 settembre 2022 Dopo un’estate tragica per le carceri italiane (Torino compresa) in cui - a due terzi dell’anno in corso - è già stato superato con 59 casi il totale dei suicidi del 2021, presentiamo una buona notizia sul fronte della formazione e dell’avviamento al lavoro dei detenuti, unica chance per il reinserimento nella società nel dopo-pena. Lunedì 26 settembre, presso la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” alla presenza, tra gli altri di Bruno Mellano, garante regionale delle Persone private della libertà, si è tenuta una visita guidata a cura di Arianna Balma Tivola, responsabile dell’Area trattamentale dell’Istituto, per presentare la preziosa donazione di 12 pc rigenerati a cura del Lions Club Rivoli Host e della Fondazione Luigi Rossi. I computer, come è stato constatato durante la visita, sono stati messi a disposizione dei detenuti per aumentare le postazioni dedicate alla videochiamate verso i familiari, attività gestita dal personale di Polizia Penitenziaria coadiuvato da alcuni ristretti tirocinanti, selezionati e formati dall’azienda Cisco Italia e retribuiti grazie ad alle borse lavoro erogate dall’Ufficio Pio e dalla Fondazione Musy. “La pandemia” ha spiegato Arianna Balma durante la visita nella sezione dove si svolgono i colloqui anche in presenza “poiché non erano più possibili gli incontri con i famigliari abbiamo dovuto implementare le videochiamate su Whatsapp e Skype con tutti i problemi tecnici e organizzativi che questo comporta in carcere: limitazioni dell’accesso alla rete per questioni di sicurezza, numeri elevati di richieste (il carcere di Torino è tra i più sovraffollati e problematici della Penisola con 1.440 reclusi per una capienza di 1.060 persone, ndr) tenendo conto che i detenuti hanno diritto a 6 ore di colloqui mensili”. E così si sono allestite le sale con 20 pc dove i ristretti, prenotando il proprio turno, possono accedere alle videochiamate il martedì e il giovedì dalle 9 alle 17: “I detenuti fanno richiesta” ha spiegato Giovanni Simone, l’agente penitenziario referente del Servizio informatico dell’Istituto coadiuvato da Gabriele e Gianni, reclusi che frequentano il tirocinio organizzato da Cisco Italia e assistono i compagni per il collegamento dei video-colloqui con i parenti “e noi li mettiamo nelle condizioni di parlare con i famigliari. Sono spesso momenti molto delicati, soprattutto quando ci sono padri o madri che attraverso il video incontrano i figli piccoli o i genitori anziani, o ricevono notizie di malattie o decessi… Il nostro, sia quello degli agenti che dei detenuti che collaborano con me, oltre che un accompagnamento tecnico è anche un supporto psicologico per allentare le tensioni e le sofferenze provocate dalla distanza dagli affetti”. La possibilità di aumentare le postazioni per le videochiamate, come è stato sottolineato - poiché la popolazione carceraria in Italia (55 mila detenuti) per il 36% è straniera e anche quando i colloqui sono possibili in presenza chi ha famiglia a migliaia di chilometri non può usufruirne - favorisce anche i ristretti stranieri o italiani che hanno congiunti lontani che, tramite pc possono mettersi in contatto con loro. Per tutti questi motivi - anche se nel mare delle problematiche carcerarie del nostro Paese l’incremento delle possibilità di contatti dei ristretti con i famigliari è una goccia - la donazione dei pc dismessi dalle aziende e rigenerati dai detenuti - ha evidenziato Lorenzo Lento, insegnante del Cisco che tiene i corsi di informativa per i reclusi - è un esempio di come l’economia circolare faccia del bene anche in carcere. Le aziende che hanno pc inutilizzati con 5 o 6 anni di vita o in fine leasing possono mettersi in contatto con la fondazione Luigi Rossi che si occupa della raccolta dei pc dimessi inviando una mail a info@fondazioneluigirossi.org - tel. 327.9499915. Brescia. Frigoriferi in dono per i detenuti di Canton Mombello quibrescia.it, 30 settembre 2022 Le associazioni “La Gabbianella” e “Cibo per tutti” hanno donato tre frigoriferi alla Casa Circondariale “Nerio Fischione” di Brescia (Canton Mombello). Presenti il presidente del consiglio comunale Roberto Cammarata, la Garante dei detenuti Luisa Ravagnani, la direttrice del carcere Francesca Paola Lucrezi, Alessandro Dolci e William Gargiuolo, rispettivamente in rappresentanza dell’associazione La Gabbianella e Cibo per tutti. Gli istituti di pena cittadini, nel reperimento di beni quali frigoriferi, ventilatori e oggetti di uso quotidiano, ricevono spesso un aiuto dall’esterno. Negli anni sono state numerose le raccolte che hanno avuto come obiettivo quello di rendere meno faticosa la vita dei detenuti e che hanno visto la cittadinanza attivarsi per reperire il necessario. Il reperimento dei frigoriferi è comprensibilmente più difficoltoso e oneroso e, quindi, la donazione anche di una sola unità risulta particolarmente preziosa. Va ricordato che la detenzione, come stabilito dalla Costituzione Italiana, dovrebbe comportare la limitazione della sola libertà di movimento e non anche di tutta una serie di afflizioni aggiuntive - oggi strettamente correlate - che deteriorano la qualità della vita delle persone recluse e allontanano sempre più l’obiettivo del reinserimento. In estate poter disporre di una bottiglia di acqua fresca in un ambiente nel quale le temperature possono superare facilmente i quaranta gradi non può essere definito un lusso ma una necessità e, in ogni altra stagione, la corretta conservazione dei cibi rappresenta una regola di salute fondamentale per il benessere personale e collettivo. Voghera (Pv). Studenti e detenuti in vigna: “Così coltiviamo la vita” di Alessio Alfretti La Provincia Pavese, 30 settembre 2022 L’associazione Terre di mezzo e don Pietro Sacchi organizzano una singolare vendemmia Coinvolti 60 ragazzi dei Galilei, Maserati e Baratta di Voghera e tre ospiti del carcere. Detenuti e ragazzi, fianco a fianco a lavorare. È il progetto che da tre anni l’associazione Terre di mezzo propone agli ospiti delle case circondariali e agli studenti degli istituti superiori di Voghera e della zona. Anima del progetto sono don Pietro Sacchi, parroco della chiesa di via Emilia, e la vicepresidente di Terre di mezzo, Noemi Agosti. Insieme si occupano di organizzare ogni anno questa complessa macchina fatta di una singolare mescolanza di empatia, senso pratico e nozioni teoriche. “Da sempre ho lavorato nelle carceri e per strada, come educatore oltre che come sacerdote”, spiega orgoglioso il sacerdote per introdurre questa esperienza che è arrivata a coinvolgere circa 60 studenti delle scuole Galilei, Maserati e Baratta di Voghera. Lui e i suoi collaboratori guidano tre detenuti fuori dalla casa circondariale di Voghera per aiutarli a riappropriarsi della proprio vita, grazie a una possibilità prevista dall’ordinamento penitenziario. Lo fanno attraverso il lavoro: i detenuti insieme agli studenti vanno in vigna a raccogliere l’uva per poi arrivare a produrre un vino, da mettere in commercio. Il nome degli ultimi prodotti è tutto un programma, si chiamano “Lo Sprigionato” ed “Exitum”: al di là dei facili giochi di parole, c’è davvero la voglia di uscire dalle pareti del carcere e ricominciare. Un percorso non facile per i detenuti, che accanto a loro trovano gli studenti, in uno scambio di esperienze che arricchisce entrambe le parti in questa “terra di mezzo”. Solcano i filari assieme dal lunedì al giovedì, divisi in due squadre da 10 persone, che comprendono anche i tutor dell’associazione, che quest’anno sono stati oltre a Noemi Agosti e don Pietro Sacchi, anche Annagaia Muda, Arianna Maggi, Marta Cosca, Federico Rosolin e Riccardo Esposito. Ogni giorno il gruppo, grazie alla collaborazione delle cantine Torrevilla, ente ospitante del progetto, parte verso un vigneto nuovo. La cantina svolge un ruolo fondamentale in quest’avventura, occupandosi della gestione organizzativa e dell’invio nelle varie aziende dei soci, il cui tutor operativo e punto di riferimento fondamentale è l’enologo Simone Fiori. Il venerdì, invece, si sta tutti nel teatro della parrocchia di San Pietro in via Emilia: con i ragazzi e i detenuti ci sono esperti che approfondiscono temi legati alla legalità e all’educazione: i giovani dialogano con i carcerati, che riscoprono delle forme di socialità che tra le mura della casa circondariale sono loro precluse. Si crea così un clima di condivisione. “I detenuti seguono con attenzione cosa fanno i ragazzi, li consigliano, si sentono responsabili per loro - racconta don Pietro. Nasce così una confidenza, una complicità che fa aprire le persone e le fa crescere”. “Tutto questo - aggiunge Noemi Agosti - serve anche a dare un futuro concreto ai detenuti. L’associazione cerca infatti di sostenerli in un percorso fuori dal carcere, dando loro un aiuto economico mediante delle borse lavoro, il sostegno che serve per rendere reale la speranza di rifarsi una vita”. Roma. L’arte dei detenuti in mostra nella scuola della Polizia Penitenziaria di Roberta Barbi vaticannews.va, 30 settembre 2022 Le opere dei reclusi della casa circondariale di Reggio Emilia, partecipanti al progetto Liberi Art, sono esposte nella “Giovanni Falcone”. Donate due opere alla Polizia Penitenziaria e una alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. “Anche se abbiamo sbagliato, abbiamo una dignità e la possibilità di ricominciare”. Così gli artisti di Liberi Art, ormai ex detenuti, hanno presentato le proprie opere alla Polizia Penitenziaria che li ha ospitati nella Scuola di Formazione di Roma, per un pomeriggio all’insegna dell’arte. Nell’occasione sono state donate tre opere: una alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, rappresentata all’evento dal Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi, raffigurante l’emblema della Repubblica Italiana, e le altre due alla Polizia penitenziaria, una con lo stemma araldico del Corpo e l’altra dedicata ai magistrati vittime di mafia Giovanni Falcone - a cui è intitolata la Scuola di formazione - e Francesca Morvillo, dono personale alla Polizia Penitenziaria dall’insegnante di arte che ha condotto i detenuti per mano in quest’avventura: Anna Protopapa, artista, da anni volontaria negli istituti di pena di Reggio Emilia. Le 19 opere esposte sono state realizzate con materiali diversi, la maggior parte dei quali di riciclo o donati da commercianti “amici”. Ritraggono soggetti diversi, ma che hanno un’unica aspirazione e un significato univoco: “Che il cambiamento è sempre possibile!”, come racconta Anna Protopapa, convinta che l’arte in carcere possa aiutare molto i reclusi. È stata lei a guidarli tra tele, pennelli e non solo, in mostra, infatti, vi è anche una collezione di sette modelli ispirati alle invenzioni di Leonardo e realizzati per lo più con stuzzicadenti. Una nuova dimostrazione di come il carcere sia un luogo pieno di vita che, invece, “troppo spesso è associato a immagini negative, perché certo è un luogo di punizione, ma come afferma la nostra Costituzione, è anche un luogo di cambiamento”, come spiegato da Renoldi. Il Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha poi sottolineato come il tempo della detenzione debba essere dedicato anche alla riflessione su quanto commesso e sul destino delle vittime: “Come dice Papa Francesco: ‘nessuno si salva da solo’, e così anche noi dobbiamo lavorare in comunità, perché il carcere è parte del territorio e può cambiare solo con gli stimoli, i suggerimenti e le esperienze che vengono anche da fuori”. Della necessità di inserimento del carcere nel tessuto sociale e territoriale ha parlato anche Anna Angeletti, direttrice della casa di reclusione di Paliano, in provincia di Frosinone, che ha ricordato come gli istituti di pena siano chiamati nell’ordinamento giuridico proprio “case”: circondariali o di reclusione. E proprio a Paliano, esempio unico in Italia di istituto che ospita esclusivamente collaboratori di giustizia, nella fase più acuta della pandemia da Covid, è nata una falegnameria che ha realizzato i cavalletti in legno sui quali sono state esposte le opere di Liberi Art. Sull’attenzione di Papa Francesco verso i detenuti si è concentrata, invece, la testimonianza di Alessandro Gisotti, vicedirettore editoriale del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, che ha ricordato l’attenzione che il Papa ha dimostrato in molte occasioni verso i detenuti, raccontando in particolare il viaggio a Panama nel gennaio 2019, in occasione della XXXIV Giornata Mondiale della Gioventù, quando celebrò in un istituto di pena minorile una toccante liturgia penitenziale alla quale presero parte i giovani privati della libertà. A Papa Francesco e alla sua enciclica Fratelli tutti è particolarmente legato il progetto Liberi Art. La prima opera realizzata, infatti, oltre un anno fa, è stata dedicata proprio “a questo messaggio del Santo Padre che è universale, perciò rivolto a tutti, detenuti compresi - ricorda Protopapa - abbiamo deciso così anche per fare nostro questo messaggio e per impegnarci a viverlo ogni giorno”. E sono molti i messaggi che il progetto ha esplorato, tematiche come il contrasto al bullismo, la violenza sulle donne o la lotta alla mafia, che “sarebbe difficile affrontare con i ragazzi fuori dal contesto artistico”. Un modo per soffermarsi a riflettere, dunque, ma non solo. “Per me è stata un’opportunità di esprimere le mie capacità - racconta Stiljan, ex detenuto di Reggio Emilia, oggi in detenzione domiciliare - con l’arte riesco finalmente a esprimere cose che normalmente non riesco a dire e, nel tempo che ho passato in carcere, è stato anche un modo per andare oltre il muro”. Liberare la mente, mollare gli ormeggi, magari proprio come quel modello di nave pirata che Stiljan per quattro mesi ha costruito con gli stuzzicadenti e che poi lo ha portato fuori dal carcere, ma stavolta per davvero. Milano. La vita di Gesù, ecco il commovente dialogo nel carcere di Opera di Riccardo Bonacina vita.it, 30 settembre 2022 La presentazione del libro di Andrea Tornielli, diventa occasione di uno straordinario dialogo tra l’autore, l’arcivescovo di Milano, Roberto Vecchioni e i detenuti. Su Gesù, il perdono, la speranza. Grazie a Arnoldo Mosca Mondadori e al direttore del carcere Silvio Di Gregorio. Solo Arnoldo Mosca Mondadori poteva organizzare l’incontro di presentazione dell’ultimo libro di Andrea Tornielli, Vita di Gesù (Piemme), all’interno del carcere di Opera dove con la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti già opera con progetti sociali, come “Il senso del pane” che mette al lavoro i detenuti per produrre ostie, o “Metamorfosi” il progetto che ha riutilizzato il legname dei barconi dei migranti, recuperato nell’isola di Lampedusa, trasformandolo, nei laboratori di liuteria e falegnameria del carcere in strumenti musicali - violini, viole e violoncelli. Mosca Mondadori e il direttore del carcere Silvio Di Gregorio sono stati i fautori di questo incontro in cui il bel libro di Tornielli (direttore dei media vaticani) è stato occasione di una conversazione autentica e profonda che ha coinvolto autore, ospiti, l’arcivescovo di Milano Mario Delpini, il cantautore Roberto Vecchioni, oltre a tre detenuti sul palco, Claudio, Vincenzo e Carlo, e poi altri per interventi spontanei e giustamente liberi “La vita di Gesù non è un libro - ha sottolineato l’Arcivescovo -, ma un compagno di viaggio e la sua vita è un racconto che non vuole essere un romanzo, non una cronaca che racconta, ma che testimonia. È una vita scritta nella carne e nei sentimenti. Il Papa raccomanda un contatto diretto e quotidiano con i Vangeli e anche questo libro è un amico che propone una conversazione, non unicamente una lettura”. Ecco una conversazione vera come quella che si è sviluppata nel teatro del carcere di Opera. Grazie agli interventi dei detenuti che fanno domande dirette, senza allocuzioni inutili o giri di parole. Chiedono a Vecchioni “ma perchè Gesù perdona tutti ma fa fatica a perdonare gli ipocriti?” E il cantautore, “Ha ragione Gesù e lo capiamo tutti. Gli ipocriti, quelli che dicono una cosa e ne pensano un altra, sono quelli che fanno arrabbiare di più anche me e anche voi, ne sono certo”. Applausi. E all’autore del libro (che poi verrà regalato auna cinquantina di detenuti “a patto che poi passi di mano in mano”, si raccomanda Mosca Mondadori) viene chiesto perchè nel libro, che racconta in una fedele cronologia la vita di Gesù a tre voci, quella di Tornielli, quella dei Vangeli e quella di papa Francesco, parli così frequentemente degli sguardi. Tornielli spiega come abbia cercato di essere lui stesso un personaggio presente agli episodi raccontati in un esercizio di immedesimazione, “perchè il Vangelo deve diventare qualcosa che accade oggi”, risponde: “Il Vangelo è pieno di sguardi, basti pensare al miracolo delle nozze di Cana (come la Madonna avrà guardato Gesù affinchè lui tramutasse l’acqua in vino dopo il rifiuto infastito iniziale?), o a Zaccheo (lo sguardo di Gesù su di lui e l’invito a casa sua) o all’incrocio degli sguardi di Gesù e di Pietro che, pur avendolo rinnegato tre volte, si sente perdonato e piange. L’incontro con Gesù non è una teoria, un’idea, ma passa attraverso i suoi sguardi di amore e di misericordia immensa”. Ancora un detenuto a Delpini, “come è possibile che le scene descritte nei Vangeli accadano ancora oggi?”. E l’arcivescovo: “È possibile se manteniamo lo stupore, lo stupore di essere buoni anche se abbiamo l’etichetta dei cattivi, lo stupore di fronte ai nostri gesti di bene: questo è il primo passo della fede, che non è solo un pensiero, ma una decisione. Guardando Gesù e le sue ferite, scoprendo il suo amore per noi, ci scopriamo capaci di amare”. E alla domanda fatta a Tornielli su quale sia la sua preghiera preferita, è scoppiato un applauso convinto quando l’autore ha confessato di amare molto una preghiera del neo beato papa Albino Luciani “Signore, prendimi come sono, con i miei difetti, con le mie mancanze, ma fammi diventare come tu mi desideri”. Uno dei momenti più commoventi è stato quando l’intero auditorium, ristretti e ospiti, in assoluto silenzio hanno ascolta la Canzone del perdono di Roberto Vecchioni, composta per papa Francesco. La canzone dice “Perche non c’è niente nella vita di un uomo/ niente di cosi grande come il perdono/ Niente di così infinito come un perdono” Si può chiedere perdono anche a chi non c’è più? È l’ultima, straziante domanda di un altro detenuto che ammette di aver fatto del male, molto male a qualcuno: “Le persone che muoiono sono presso Dio, e se chiedi perdono con intensità vedrai come una luce amica, un sorriso, che arriva da un luogo che non riusciamo a immaginare e che dice: “Sei perdonato”“, conclude l’Arcivescovo Mario, prima che, suggellando l’incontro, ognuno dica cosa sia la speranza. Per Vecchioni, l’amore. Per un recluso, “fare le ostie” (a cura della Fondazione da tempo a Opera vi è un laboratorio di produzione). Per un altro, la famiglia. Per Tornielli, “sapere che c’è qualcuno che mi vuole bene così come sono”. Per Mosca Mondadori, “la pace con sé stessi”. Per l’Arcivescovo, “una promessa che chiama, che fa sì che il tempo sia luogo di responsabilità, una promessa fatta da Dio che responsabilizza sul presente”. La salute mentale in carcere fuoriluogo.it, 30 settembre 2022 Una ricerca nel carcere di Firenze Sollicciano a cura di Giulia Melani, Katia Poneti e Lisa Roncone pubblicata sul sito de la Società della Ragione. Con la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), sancita dalla legge 81/2014, ha preso avvio un sistema completamente nuovo di trattamento per i soggetti affetti da patologia psichiatrica e autori di reato (i cosiddetti “folli rei”), i quali, dichiarati non imputabili per infermità di mente, in precedenza erano rinchiusi negli OPG. Alla base della riforma del 2014, la visione del “folle reo” come di un malato primariamente, bisognoso di cura. In coerenza, il nuovo sistema delineato dalla l.81, è in carico al SSN ed è imperniato sul trattamento del malato: da eseguirsi di regola sul territorio, e, solo come misura estrema, in modalità residenziale per i soggetti sottoposti a misura di sicurezza in apposite strutture (le Residenze per Esecuzione Misure di Sicurezza-Rems). La chiusura degli OPG ha però avuto un riflesso anche sul carcere, sui soggetti detenuti con patologia psichiatrica (pregressa o sopravvenuta durante la detenzione), i cosiddetti “rei folli”: anche questi finivano in OPG, che funzionava - a finalità puramente custodiale - come grande e indistinto contenitore di soggetti e patologie diverse, secondo la logica manicomiale. Il carcere, e prima il sistema giudiziario affrontano oggi il problema di operare nei confronti delle persone condannate con patologia mentale (i “rei folli”) secondo il paradigma alla base del nuovo sistema per i non imputabili (i folli rei): anche i “rei folli” (le persone condannate e affette da patologia psichiatrica grave), hanno il diritto a essere riconosciute primariamente come pazienti, bisognosi di cure, che dovrebbero essere prestate di regola fuori dal carcere, sul territorio. A questo passaggio di paradigma si frappongono diversi ostacoli, di natura normativa, culturale, di prassi consolidate dell’epoca degli OPG, di inadeguata applicazione della riforma sanitaria in carcere. La questione così complessa dell’assistenza ai “rei folli” - fra adeguata diagnosi e primo indirizzo trattamentale in carcere e cura più a lungo termine sul territorio - non ha l’attenzione che merita. A ciò si aggiunga che anche il tema più vasto della tutela della salute mentale dei detenuti e delle detenute, specie in chiave preventiva, è ampiamente trascurato, nonostante le ricerche epidemiologiche individuino una più alta prevalenza di disturbi della popolazione carceraria rispetto alla popolazione generale, in primis per i disturbi da stress per la detenzione. Un progetto, promosso dalla Società della Ragione in collaborazione con il Garante dei detenuti della Regione Toscana ed il sostegno economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, si è proposto di colmare il vuoto in primo luogo di conoscenza circa l’effettiva funzione svolta dal sistema sanitario in carcere e la sua efficacia nella tutela della salute mentale, sulla condizione dei malati più gravi, fra diritto ad essere curati - di regola fuori dal carcere- e effettivo trattamento ricevuto e sull’atteggiamento dei vari operatori coinvolti (della sanità, della giustizia, del carcere) rispetto alla prevenzione nel campo della salute mentale e alla problematica delle persone con disturbi psichiatrici gravi e il loro livello di collaborazione. La ricerca, condotta da Giulia Melani, Katia Poneti e Lisa Roncone, con la supervisione scientifica di Franco Corleone, si è concentrata sul carcere di Sollicciano a Firenze ed ha prodotto un report finale “Salute Mentale e Assistenza Psichiatrica nel carcere di Firenze Sollicciano” che è scaricabile dal sito de la Società della Ragione. Superare il carcere con la giustizia sociale. Intervista a Nicoletta Dosio di Giuditta Pellegrini altreconomia.it, 30 settembre 2022 L’ingresso nella prigione delle Vallette a Torino due anni e mezzo fa è divenuto per la storica attivista del movimento No Tav l’occasione per riflettere da dentro su un’istituzione obsoleta e umiliante. Ne è nato un libro dedicato alle “detenute che ho incontrato”. E che punta a far rinascere le collettività e il mutuo aiuto. A gennaio del 2020, mentre scoppiava la pandemia e il mondo si chiudeva in casa, Nicoletta Dosio è stata detenuta per la partecipazione pacifica a una manifestazione di protesta del movimento No Tav. Dopo aver infranto gli arresti domiciliari come gesto politico che intendeva ribadire le scelte fatte e il rifiuto a divenire la “carceriera di se stessa”, Nicoletta è stata imputata di 130 evasioni, inaugurando la scia di quella “sistematica e capillare azione di repressione penale”, come scrivono i suoi avvocati, che negli ultimi anni si è riversata sulla Val di Susa per sedarne il conflitto sociale. L’ingresso nel carcere delle Vallette a Torino è divenuto però l’occasione per delle attente riflessioni da dentro su un’istituzione obsoleta e umiliante, ora raccolte nel libro “Fogli dal carcere, Il diario della prigionia di una militante No Tav”, uscito prima dell’estate per Redstar Press, con scritti di Haidi Gaggio Giuliani, Daniela Bezzi, Valentina Colletta, Emanuele D’Amico e Italo Di Sabato. Il carcere emerge nella sua cruda verità: un non luogo basato su un’idea vendicativa della giustizia, contro cui si infrange ogni diritto e la cui degenerazione ha portato alle rivolte durante il lockdown e allo sciopero della fame che da un mese le detenute delle Vallette portano avanti. Nicoletta, ci puoi parlare del libro? Il libro nasce perché sentivo di doverlo alle detenute che ho incontrato durante la reclusione. Scrivevo molto, per sentirmi viva, perché il carcere ti espropria da te stessa. Farne esperienza ti fa capire come sia inutile, anzi, controproducente, perché si matura soltanto rabbia e senso dell’ingiustizia. Ho imparato a mettere in discussione il carcere di per sé, perché lì dentro non esiste distinzione tra chi ci è finito per cause politiche e non, come se ci fossero ragioni più o meno buone. Ti rendi conto che lì si trovano le vittime di questa società, la maggior parte ha pene minime, ma senza supporto esterno per poter uscire. Inoltre il carcere oggi fa da surrogato all’Opg, il manicomio giudiziario. Molti si lasciano andare, non reagiscono, non mangiano ed è terribile capire che non puoi fare nulla, perché ciò che li salverebbe è la libertà e tu non gliela puoi dare. Emerge una situazione critica, in cui l’unica speranza è rappresentata dalla resistenza del quotidiano che si crea tra le detenute.... Infatti. Io ho vissuto la detenzione con il supporto enorme dei tanti gesti di solidarietà e delle centinaia di lettere che mi arrivavano ogni giorno, ma c’è gente che non ha nessuno. Eppure li dentro se ho trovato umanità non è stato certo tra le guardie, ma proprio tra le detenute. Si crea una resistenza senza smancerie, fondamentale per la sopravvivenza a regole irrazionali che vengono applicate in maniera del tutto arbitraria. Per esempio contro l’assurdità che vieta di tenere delle piantine (perché anche il verde parla di libertà), le donne creano fiori con la carta di giornale, per cercare di abbellire la cella. Oppure c’è la regola per cui l’unica collana permessa è il rosario che porta il prete, così lo indossano tutte, a prescindere dal credo: per sentirsi vive, per conservare la propria dignità attraverso un piccolo abbellimento o la pulizia. A me hanno fatto una relazione negativa per una doccia fuori orario, con un mezzo processo e l’intenzione di umiliarmi. Una volta ero in biblioteca, il mio rifugio, perché stare in mezzo ai libri era un po’ come sentire la voce di casa e avevo assistito a una lezione di musica organizzata da ragazzi esterni che poi mi hanno invitato a prendere un caffè alla macchinetta. Allora la guardia è intervenuta dicendo che io non potevo perché non ero una cittadina, cioè non avevo diritti, mentre il caffè è per le persone degne. Siccome ti sei macchiata di una colpa contro il sistema devono renderti buona e obbediente per il capitale, come se quella fosse la redenzione. È l’operaio ideale, che non protesta mai, è il soldato pronto ad ammazzare un altro senza pensare. È l’educazione che ti dà il carcere: imparare a dire sì senza chiederti perché. Si ha l’impressione che dentro finisca ogni tipo di valore... Il carcere è un mondo di sbarre e di plastica. La raccolta differenziata è proibita, i piatti sono usa e getta e te li devi comprare, come tutto il resto. Nel periodo del lockdown non poteva entrare nulla da fuori e i prezzi del mercato interno sono cresciuti. La mia famiglia mi aveva mandato un pacco, perché da vegetariana avevo poco da mangiare, ma mi hanno detto che non me lo potevano dare perché veniva dall’esterno (come se la roba che compravamo in carcere venisse dall’interno) e che dovevo scegliere se darlo ai poveri o buttarlo. Ho provato ad obiettare che di poveri dentro ce sono parecchi. Come si può pensare che questa richiesta avesse finalità terapeutico-preventive? Nel periodo del lockdown in alcune carceri sono scoppiate le proteste per denunciare sovraffollamento e inesistenza di tutele, come hai vissuto quel momento? Avevamo visto in televisione le proteste di Modena, poi è arrivato un telegramma che diceva che i parenti volevano fare una manifestazione davanti al carcere di Torino. Dalla mattina però il cortile ha cominciato a essere pieno di blindati, le guardie presidiavano i camminamenti e hanno tolto la possibilità dell’ora d’aria. Io aspettavo di sentire i manifestanti per fare la battitura delle sbarre, ma non sono stati fatti avvicinare: hanno fermato tutto prima che anche a Torino scoppiasse la rivolta. Inoltre sono arrivate alcune guardie dicendoci che stava per uscire un comunicato secondo il quale si poteva fare domanda per l’uscita anticipata a causa della pandemia, e che il giorno dopo si sarebbero scelte delle portavoce per partecipare ad un’assemblea su questo tema, che di fatto c’è stata, ma poi il decreto non è mai stato applicato e non è cambiato nulla. Hanno usato questa cosa per scoraggiare le detenute a protestare, dicendo che se avessero fatto qualcosa del genere poi non ci sarebbero rientrate. Poi è arrivata la notizia degli 11 detenuti che sono morti a Modena: hanno detto che era stato per overdose, che hanno preso d’assalto l’infermeria, ma nessuno ci ha creduto, perché le porte sono blindate e tutti conoscono la violenza delle guardie. Adesso è nata una commissione di verità e giustizia per capire che cosa sia successo veramente. Sei arrivata a parlare di abolizione del carcere, come sarebbe possibile secondo te? L’abolizione del carcere non solo è possibile ma doverosa e l’alternativa è la giustizia sociale. Io ho vissuto il periodo in cui si metteva in discussione il manicomio e ricordo che Basaglia era visto come un idealista senza speranza, invece la riforma si è realizzata, creando le strutture alternative. E lo stesso può avvenire per il carcere. Ci sono molte persone con pene inferiori ai due anni che non possono accedere alle misure alternative perché non hanno un posto fisso in cui vivere. Quindi bisogna garantire una casa e la possibilità di un lavoro decente a tutti, perché il carcere va prevenuto eliminando la povertà. Questo può succedere solo facendo rinascere le collettività, in cui ritrovare la propria collocazione e ricevere un aiuto materiale, ma anche costruire qualcosa di diverso. È incredibile ma quando sono uscita mi sono sentita in colpa. Quando sono partite le battiture dei blindi per salutarmi mi sono girata, sarei tornata indietro, ho sentito che la libertà è un bene collettivo, che non puoi essere libera quando sai che gli altri non lo sono e che potevo essere felice solo aprendo quei cancelli, per portare tutte fuori con me. “Una giustizia alta e altra”. La mediazione nella nostra vita e nei tribunali di Giuseppe Buffone* sistemapenale.it, 30 settembre 2022 Una giustizia che è “altra” e, allo stesso tempo, “alta”. Sono queste le parole chiave del pensiero che Maria Martello tesse in questa nuova Opera dedicata alla mediazione: no, non solo alla mediazione; soprattutto: alla vita dei conflitti. Nascono, si sviluppano, si rafforzano, feriscono: durano. Poi, muoiono. Le ceneri dei conflitti sono, tuttavia, piene di scintille, di mozziconi di sentimenti sparsi lì a caso: pronti ad ardere di nuovo, e riaccendersi. La “perfetta liturgia giudiziaria” stenta a governarli: la sentenza in sé definisce il giudizio ma non compone il conflitto. Chiude il processo ma non risolve il dilemma alla base della lite. Per molti (troppi) casi, la sola giurisdizione non fa altro che “riassestare” la posizione dei litiganti, cercando di offrire un equilibrio tra di loro: l’uno di fronte all’altro. Ma senza composizione del conflitto, l’equilibrio è spesso precario perché, ognuno dei contendenti è pronto, all’occasione, a sferrare la mossa del kuzushi: quella che serve a sbilanciare l’avversario per riportarlo nel vivo della lite: e, dunque, il processo. Di nuovo. Maria Martello muove la linea della sua penna proprio da questo punto principale ossia la differenza tra “conflitto” e “contenzioso legale”, aprendo la propria “lectio magistralis” con insegnamenti che riposano su un forte coraggio alimentato da grande esperienza: “il giudizio danneggia le relazioni”. La giustizia “del processo e nel processo” vive di proprie regole che non ci conciliano con le esigenze soggettive dei suoi protagonisti: e ciò che è paradossale sta nella sensazione di sconfitta che residua finanche nel vincitore. Gli esempi di Maria Martello non mancano: non ipotesi astratte ma scene di vita vissuta. Come la signora vittima di un furto che davanti al giudice freme per raccontare la propria sofferenza e resta delusa al cospetto della domanda del magistrato: “di che colore era il cappellino del ragazzo che l’ha rapinata?”. Ma quel tribunale ha necessità di raccogliere le prove della colpevolezza dell’imputato: e la sofferenza della signora non è oggetto del procedimento. Maria Martello dipinge le scene di vita processuale con l’abilità di una ritrattista: è questa la fisiologia delle aule di udienze. Tutte le parti in causa, tutti i protagonisti del processo, vogliono sentirsi “narratori del proprio conflitto” e lo fanno davanti a una rete a maglie strettissime che filtra solo gli elementi utili e necessari per la decisione: c’è tanto spazio per il Diritto e non ci sono mai sufficienti posti liberi per i sentimenti. Processo e Conflitto diventano le moderne facce opposte di Giano bifronte, destinati ad essere così vicini e, allo stesso tempo, così distanti. Ma è questa la giustizia che vogliamo? Soprattutto, utilizzando le parole di Maria Martello: questa “Giustizia garantisce un servizio alla persona?” Se non limitiamo il senso del servizio alla pronuncia della decisione finale che “distribuisce i torti e le ragioni”, forse allora no: se “Giustizia” è anche il “risanamento delle relazioni delle parti” allora assistiamo allo spettacolo di una giustizia con un copione perfetto ma un finale mai appagante. Da qui la visione propositiva di Maria Martello nel senso di “pensare” a una forma di giustizia “diversa” e perciò “altra”, intesa come alternativa offerta ai litiganti in occasione del processo, somministrata come una prima dose di quel vaccino che può curare il conflitto, senza - ebbene sì! - bisogno del giudice. Una giustizia di “plurimi servizi” “all’interno del processo” e “al di fuori del processo”. Maria Martello offre una lettura della “nuova giustizia al servizio della persona” che non è più soltanto “idea”, bensì diritto positivo. L’Italia, infatti, dirige lo sguardo del processo sempre più verso una fabbrica di servizi ove inclusa, in modo consistente, quella “giustizia altra” che può raggiungere l’obiettivo finale: comporre il conflitto piuttosto che chiudere il processo. Si trova qui un rapporto che non è bilaterale: perché se chiudi il processo e non componi il conflitto, al contrario, se componi il conflitto certamente chiudi il processo. Tracce evidenti di questo percorso del Legislatore si rinvengono, da ultimo, nella cd. riforma Cartabia, ossia la delega legislativa contenuta nella legge n. 206 dello scorso dicembre che, tra l’altro, punta alla “revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie”. Diversi i settori di “promozione” e “investimento” nel settore degli strumenti che partecipano al concetto di “giustizia altra” dove spiccano, in particolare, i ritocchi alla disciplina degli incentivi fiscali per rendere il ricorso agli strumenti di composizione del conflitto più appetibili ed economici, oltre che vantaggiosi dal punto di vista economico. Tra le altre misure, la delega rimanda all’Esecutivo di prevedere: l’incremento della misura dell’esenzione dall’imposta di registro; il riconoscimento di un credito d’imposta commisurato al compenso dell’avvocato che assiste la parte nella procedura di mediazione, nei limiti previsti dai parametri professionali; l’ulteriore riconoscimento di un credito d’imposta commisurato al contributo unificato versato dalle parti nel giudizio che risulti estinto a seguito della conclusione dell’accordo di mediazione; l’estensione del patrocinio a spese dello Stato alle procedure di mediazione e di negoziazione assistita; la previsione di un credito d’imposta in favore degli organismi di mediazione commisurato all’indennità non esigibile dalla parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato; la riforma delle spese di avvio della procedura di mediazione e delle indennità spettanti agli organismi di mediazione. La riforma - va evidenziato - non guarda solo alla forma ma tanto anche alla sostanza prevedendo, ad esempio che la delega riordini “le disposizioni concernenti lo svolgimento della procedura di mediazione nel senso di favorire la partecipazione personale delle parti, nonché l’effettivo confronto sulle questioni controverse”. L’istituto della mediazione è privilegiato nelle scelte nazionali e questa impostazione merita favore se non altro proprio alla luce della lettura che ne dà, autorevolmente, Maria Martello: “con la mediazione la contrapposizione vincitori/vinti è superata con decisioni creative che fanno pervenire alla sua soluzione”. Certo, va detta una cosa: mediatori non si nasce! Si diventa. Il mediatore è un professionista qualificato, formato, culturalmente attrezzato. La stessa Martello lo ripete più volte: un conto è fare mediazione, un conto è essere mediatore. Perché accada “il miracolo della mediazione” “il mediatore deve saper affrontare le resistenze di un mondo formatosi all’insegna della lotta per la supremazia”: il mediatore deve essere formato. Di ciò è consapevole anche il Legislatore della riforma che sembra quasi raccogliere il monito di Maria Martello invitando l’organo legiferante delegato a “procedere alla revisione della disciplina sulla formazione e sull’aggiornamento dei mediatori, aumentando la durata della stessa, e dei criteri di idoneità per l’accreditamento dei formatori teorici e pratici, prevedendo che coloro che non abbiano conseguito una laurea nelle discipline giuridiche possano essere abilitati a svolgere l’attività di mediatore dopo aver conseguito un’adeguata formazione tramite specifici percorsi di approfondimento giuridico, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. In altri termini: il mediatore ha una sua dignità professionale che deve emergere e solo così può esprimersi; per usare le parole di Maria Martello, la mediazione è “un’arte”. Proprio il secondo capitolo (parte prima) dell’Opera della Martello (“L’arte di mediare i conflitti”) è una preziosa fotografia sincera della mediazione: chi è, come opera, cosa fa, come cambia i conflitti. Questo punto è importante ed emerge chiaramente nella didattica esperta della Martello: l’arte del mediatore è quella di trasformare circostanze negative - purtroppo sempre possibili, prima o poi, nella vita di tutti - in eventi dei quali sappiamo cogliere i risvolti nascosti, in una concreta possibilità di indagare il proprio modo di stare al mondo e la natura dell’altro, la “controparte”. La mediazione, frutto di un artigiano capace, deve però poggiare le basi su un terreno fertile, in grado di coglierne valore e importanza: e, qui, la Martello richiama all’esigenza di un percorso culturale, quasi educativo dei cittadini. Impariamo l’importanza del medico non al momento della terapia, ma con l’informazione che riguarda le sue funzioni, il suo operato. Chi ci insegna l’importanza della mediazione? Un dovere civico per Maria Martello. Si è discorso, poco fa, di “miracolo della mediazione”: non a caso. Maria Martello promuove una mediazione in termini di “miracolo possibile” a cui accosta una “scuola di miracoli”. Certo una metafora del genere attribuisce ad eventi eccezionali il realizzarsi della mediazione, quasi ad un “deus ex machina” del teatro greco. Così non è. La parte seconda dell’Opera di Maria Martello - con una consapevolezza piena del tessuto normativo e ordinamentale italiano - tocca tutti i punti strategici ed essenziali attraverso cui approdare a una mediazione “possibile”, anche se miracolosa. C’è un “racconto” del conflitto, una “descrizione” del conflitto, una “analisi” del conflitto: e tutto ciò conduce ad un nuovo paradigma per gestirlo (attraverso cinque semplici punti). Maria Martello mettendo bene in risalto il cuore della mediazione - “un giudizio che non giudica” - si dedica, quindi, a una sua lucida e attenta analisi anche nella sua dimensione di “istituto giuridico”, accertando ciò che non c’è, ciò che invece c’è, ciò che potrebbe esserci. Fin qui si è sempre aggettivata la giustizia che passa attraverso la pacificazione dei conflitti come giustizia “altra”: ma Maria Martello, a conclusione della sua Opera, spiega che essa è anche “alta”, e anzi lo è ancor prima di essere altra. Parafrasando il pensiero di Maria Martello “la mediazione è una risorsa da considerare persino non di esclusiva pertinenza delle liti che sarebbero destinate a finire di fronte a un giudice, ma pratica quotidiana di assoluto rilievo sociale. Dovrebbe essere lo schema interiore che guida il modus operandi di ciascuno a fronte di qualsiasi avversità che si presenti nel quotidiano, comunque e da chiunque generata. A questo avvia la mediazione che, nel contempo, è via per trovare le soluzioni ma anche esperienza, modellabile e ripetibile autonomamente, di un modo nuovo di gestire i conflitti. Un vero percorso di autoformazione per chi ne fruisce!”. Il carattere nobile dell’ars mediatoria trasuda abbondantemente in ogni pensiero di Maria Martello: conquista, travolge, appassiona. Questo aspetto è già esso testimonianza del potere “trasformativo” dei Mediatori: si, quelli con la “M” maiuscola. Maria Martello, tassello dopo tassello, getta elementi rivelatori della sua idea della mediazione e, ancor più, della figura del “mediatore” e lo fa con parole tanto semplici quanto, ahimè, oggi dimenticate: gentilezza, dolcezza, ascolto. Oggi forse trascuriamo troppo l’importanza del sorriso come strumento per accogliere una persona, l’essenzialità di un linguaggio gentile perché “l’altro” possa sentirsi a suo agio, la forza delle “parole” che possono emozionare ma anche tagliare come la lama di un coltello. E, dimenticandoci di questo - la forza delle cose semplici a disposizioni di tutti noi - restiamo a nostra volta travolti dai conflitti: quelli che si insediano negli animi che smettono di essere aperti all’altro, con una idea positiva delle persone e della capacità di cambiare i contesti in cui ci troviamo. Di fatto, l’Opera di Maria Martello è un tributo all’ottimismo: dopo averla letta, inconsapevolmente, il lettore si rende conto di essere stato egli stesso cambiato. In bene, in meglio: l’epifania della mediazione - che si rivela in tutto il suo aspetto attraverso le parole di Maria Martello - ha una forza che conquista. E, seguendo le ferme parole di Maria Martello ci si rende conto che, ognuno, per sua parte, può far la differenza nei conflitti come nella società: ma questo impone di aprirsi al vento delle soluzioni innovative, del “diverso che può essere meglio” avendo il coraggio, se serve, di cambiare direzione, anche se non è quella che imboccano tutti gli altri. Non stupirà. Nessuno ha mai fatto la differenza restando come gli altri. Ora l’ho capito bene. Grazie, Maria. *La recensione che segue è già stata pubblicata su Giustizia consensuale (n. 1/2022). La pubblichiamo nuovamente con il consenso dell’Editore, che ringraziamo. Perché il reddito non dà futuro di Veronica De Romanis La Stampa, 30 settembre 2022 Una delle lezioni da trarre dal voto di domenica è che un modo facile per ottenere consenso è quello di promettere risorse pubbliche ai cittadini. Lo dimostra il risultato conseguito dal Movimento 5 Stelle al Sud. Il suo leader, Giuseppe Conte, ha garantito che il reddito di cittadinanza, il provvedimento cavallo di battaglia, non sarebbe stato ridimensionato come auspicato dalla maggior parte degli altri esponenti politici, a cominciare da Giorgia Meloni. “Chi tocca il reddito farà i conti con noi” ha ammonito. Con la crisi che avanza, le disuguaglianze e la disoccupazione aumentano, in particolare nel Mezzogiorno d’Italia. In un simile contesto, il reddito rappresenta “una misura di protezione sociale indispensabile” ha spiegato il capo dei pentastellati. Fino ad oggi, sono stati spesi oltre 20 miliardi assegnati a circa 3,5 milioni di persone. I risultati, però, sono stati deludenti: il 56 per cento delle famiglie in povertà assoluta non ha ricevuto il sostegno e solo in 400mila hanno trovato un’occupazione. Gli stessi 5 Stelle hanno riconosciuto che la misura andrebbe modificata, soprattutto per quanto riguarda le politiche attive. I centri per l’impiego non sono attualmente in grado di offrire l’assistenza necessaria a trasformare gli occupabili in occupati. Il loro potenziamento è previsto nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) nel quale sono stati impegnati circa 600 milioni. Manca, invece, un progetto di revisione del capitolo relativo alla povertà. Oltre il 70 per cento di chi ha ricevuto l’assegno, tra maggio e giugno 2019, ne è ancora beneficiario. Questo dato dovrebbe far riflettere, e molto. Rileva che chi era povero al momento dell’istituzione del reddito di cittadinanza - e potenzialmente occupabile - è ancora tale dopo oltre tre anni. Ciò dimostra che il sussidio non contribuisce a dare prospettive future. Questo aspetto è stato pressoché ignorato (perché si parla così poco del rafforzamento dei servizi sociali?). Eppure, andrebbe modificato in fretta. C’è da augurarsi che lo faccia Giorgia Meloni, la vera vincitrice delle elezioni. La leader di Fratelli d’Italia ha sempre dichiarato che il Reddito di Cittadinanza andava cancellato perché “non ha funzionato, né sul lato del contrasto alla povertà né su quello delle politiche attive”. Senza una revisione complessiva, il rischio è quello di alimentare la creazione di un esercito - sempre in crescita - di percettori perennemente poveri e mai occupabili. Cittadini che diventano dipendenti dalle promesse del politico di turno. Del resto, distribuire risorse è sempre stato un modo facile per ottenere consenso. Basti ricordare l’exploit di Matteo Renzi alle europee del 2014. Grazie all’introduzione degli 80 euro fu sfondata la soglia del 40 per cento. Il bonus fu finanziato con maggiore indebitamento. In questa campagna elettorale, Conte non ha fatto altro che replicare un copione ben noto. Anche lui ha promesso risorse che non ci sono. Si ricorrerà al debito. Come è noto, il nostro rapporto debito/Pil è il secondo più elevato della zona dell’euro dopo quello greco. Andrebbe messo su una traiettoria di sicurezza. Impossibile senza una crescita duratura e sostenibile. Chi come Conte parla di distribuzione di risorse senza spiegare come intende aumentare la produzione di ricchezza rischia, pertanto, di ottenere il risultato opposto. Ossia accrescere la vulnerabilità del Paese agli occhi dei mercati finanziari, cioè di chi investe nella nostra economia. I primi a pagare il costo sarebbero proprio i più deboli. Patuanelli: “Un pezzo di Paese rischia la povertà può esplodere la rabbia sociale” di Federico Capurso La Stampa, 30 settembre 2022 C’è un tempo per il “chiacchiericcio”, dice Stefano Patuanelli, e c’è un tempo per le cose serie. Della sfera più leggera del dibattito fanno parte i timori per i rapporti di Matteo Salvini con la Russia: “Chiarirà su questi legami, ma la Lega - chiede Patuanelli - non è nell’esecutivo Draghi? E queste paure escono solo ora?”. Questione ben più concreta - sottolinea il ministro e capodelegazione nel governo Draghi del Movimento 5 stelle - è l’intenzione di Fratelli d’Italia di abolire il reddito di cittadinanza e il Superbonus: “Lo avevano promesso, ora sono maggioranza. Andranno loro in giro per l’Italia, in piena crisi economica, a togliere il reddito, dicendo che è “metadone di Stato”, e il Superbonus agli imprenditori, chiamandolo “una grande truffa “. Auguri”. Si rischia una “guerra civile”, se sarà abolito il reddito, come avvisava Giuseppe Conte in campagna elettorale? “Senza il reddito, una parte ampia del Paese scivolerà sotto soglia di povertà. Non sceglie se andare o meno in vacanza, ma se dare o meno da mangiare ai figli. Qualcosa si deve dire a quelle persone, per non farlo diventare un problema di piazza. E noi faremo di tutto perché non lo diventi mai”. Giorgia Meloni vorrebbe lasciare alle opposizioni la presidenza della Camera. Un gesto che aiuterebbe la pacificazione? “Non le credo. Ho l’impressione che voglia solo tenere buone le opposizioni, in vista di riforme costituzionali che temo vorranno fare. Il centrodestra ha fatto promesse importanti e irrealizzabili in campagna elettorale, ora sono maggioranza: inizino a pedalare senza trucchi. Noi non faremo sconti”. Teme che Letta e Meloni possano accordarsi per escludervi dalla partita per la presidenza della Camera e delle commissioni parlamentari di Vigilanza Rai e Copasir? “Sono sincero, ormai dal Pd mi aspetto di tutto. Non lo escludo”. Letta vi invita anche a fare opposizione insieme... “Per come stanno oggi le cose, non vedo alcun percorso comune con il Pd, nemmeno all’opposizione. Quello che ha combinato Letta è troppo grave: ha provato a distruggerci, alleandosi con le nostre scissioni interne e con praticamente tutto l’arco parlamentare. Per ricostruire il fronte con il Pd deve cambiare tutto”. Conte può candidarsi a leader del campo progressista? “Lo è già, dato che non vedo un campo progressista, ma un solo partito che ha parlato al mondo progressista, il Movimento 5 stelle. E Conte ne è il leader”. E intorno al M5S potreste costruire una “cosa di sinistra” più ampia? “Sì, si può allargare ad altre forze, certo. C’è solo un problema: il Pd ha preteso sempre di avere l’egemonia, anche dei rapporti interni a questo campo. Deve capire che non è più così. Se aderisce alla nostra proposta per il Paese, bene, anche se oggi non nutro grandi speranze in questo senso”. Lei è stato anche ministro dello Sviluppo economico. Di fronte all’aumento delle bollette elettriche del 59%, cosa può fare l’Italia per aiutare famiglie e imprese? “Quello che abbiamo proposto noi da febbraio: un price cap nazionale, sganciare il prezzo dell’energia da quello del gas, una norma per tassare sul serio gli extra-profitti delle aziende energetiche e aiuti più massicci alle imprese. Congiuntamente andare in Ue non solo per il price cap europeo, ma anche per un energy recovery fund, ma ho un timore”. Quale? “Un altro governo sovranista in Europa renderà più difficile trovare soluzioni. Ogni paese sovranista cercherà di difendere solo i propri interessi nazionali e se questi saranno contrastanti, non si arriverà mai a un compromesso utile a risolvere un problema. Sarà un passo indietro”. FdI sostiene che il Pnrr si può modificare, per contrastare i rincari in bolletta... “Ma il Pnrr non è modificabile nelle misure e negli obiettivi. Quello che si deve fare è adattare le misure alla nuova situazione economica e ai nuovi prezzi di energia e materie prime. Il Pnrr non cambierà, che la destra lo voglia o meno. La campagna elettorale è finita”. Myanmar, altra raffica di sentenze. 23 anni di carcere in totale per San Suu Ky di Emanuele Giordana Il Manifesto, 30 settembre 2022 Condannato anche l’economista australiano Turnell, i media della giunta tacciono. Un rapporto di Amnesty denuncia il ruolo di Meta nel genocidio dei rohingya. Una raffica di sentenze in Myanmar sono state l’ennesimo schiaffo al partito di Aung San Suu Kyi e alla sua leader che si è vista comminare altri tre anni di prigione, una pena che porta il complesso degli anni da scontare in carcere a 23 in una dozzina di casi che non hanno ancora terminato il suo calvario giudiziario. La notizia è stata diffusa dall’Associated Press e si basa su informazioni confidenziali. Con lei sono stati condannati due suoi ex ministri delle Finanze, Kyaw Win e U Soe Win, il vice U Set Aung e l’economista australiano Sean Turnell, già consigliere economico del Governo della Lega nazionale per la democrazia (Nld), arrestato dalla giunta 5 giorni dopo il golpe del 1 febbraio 2021 che ha chiuso la breve parentesi democratica del Paese. Turnell, condannato come Suu Kyi a tre anni, è stato accusato - come la Lady - di aver violato la legge sui segreti di Stato del Myanmar e rischiava una pena massima di 14 anni di reclusione. Non ha nemmeno potuto avere il conforto di un funzionario dell’ambasciata australiana, che non è riuscita ad ottenerne l’espulsione. I dettagli esatti dei presunti reati non sono stati resi pubblici (la stampa di regime non fa nemmeno menzione del processo) anche se la televisione di Stato ha affermato l’anno scorso che Turnell aveva accesso a “informazioni finanziarie segrete dello Stato” e aveva cercato di fuggire dal Paese. Rischia ora anche una condanna per violazione delle leggi sull’immigrazione. Quanto a Suu Kyi, 23 anni di prigione equivalgono, fanno notare gli osservatori, a una condanna all’ergastolo e non è escluso che ci saranno altri processi e altre condanne a intervalli, come è stato finora, di qualche mese o settimana. Su un altro fronte va invece segnalato il rapporto di Amnesty International pubblicato ieri (Atrocità social: Meta e il diritto dei rohingya a una riparazione) che denuncia come gli algoritmi di Facebook, la piattaforma di cui è proprietaria l’azienda Meta, abbiano contribuito ai crimini perpetrati nel 2017 dalle forze armate birmane contro i Rohingya, minoranza musulmana dello stato settentrionale del Rakhine da cui è stata sostanzialmente espulsa. Il rapporto è basato in parte sui Facebook Papers, una serie di documenti interni resi pubblici dalla whistleblower Frances Haugen, informatica americana. Secondo la Commissione delle Nazioni unite per l’accertamento dei fatti, “il ruolo dei social media è stato importante” nelle atrocità commesse in Myanmar contro i rohingya e Meta (la casa madre di Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger) non avrebbe sorvegliato adeguatamente. “In un post condiviso oltre 1000 volte - è uno degli esempi nel rapporto - un difensore dei diritti umani dei rohingya era stato descritto come traditore della nazione e minacciato di morte. In uno dei commenti, si leggeva: Questo è un musulmano. I musulmani sono cani che devono essere uccisi. In un altro: Non lasciamolo vivo. Eliminiamo tutta la sua razza. Il tempo sta scadendo”. Due richieste di risarcimento sono state già presentate negli Usa e nel Regno unito.