Il Garante ai partiti: “Il carcere è assente dai vostri programmi perché non porta voti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 settembre 2022 Nonostante una prima parte dell’anno drammatica nelle carceri, con 57 suicidi nei primi otto mesi dell’anno, il carcere è il grande assente della campagna elettorale per le elezioni politiche del 2022. Che il carcere non sia un tema da campagna elettorale non è certo una novità. Ma in questa campagna elettorale 2022, nonostante i dati gravi sui suicidi - 57 nei primi otto mesi dell’anno, quattro in meno del totale nei dodici mesi del 2021, a cui si aggiungono 19 decessi “per cause da accertare” -, il silenzio su questo mondo è pressoché assoluto. Ed è per questo che il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha lanciato un appello a tutti i partiti politici e ai loro leader. “Il carcere - si legge nell’appello - è assente non solo perché porta pochi voti e scarsi consensi, ma richiede anche uno sguardo ampio e prospettico capace di superare la tendenza di gran parte dell’attuale dibattito politico a guardare solo all’immediato”. Nell’appello il Garante nazionale invita le forze politiche e i candidati “a mettere al centro dei loro programmi il tema dell’esecuzione penale, non per proporre facili e talvolta vuoti slogan di bandiera ma per affrontare concretamente i problemi”. L’appello invita i partiti a un deciso cambio di rotta, liberandosi dello scontro ideologico e ragionando in termini di utilità e funzionalità, nel quadro delineato dalla nostra Costituzione. Uno spunto di riflessione per una finalità che secondo il Garante deve essere comune: ovvero che il carcere sia un luogo adeguato per chi vi opera e funzionale per chi vi è ristretto, che dia la possibilità a tutti di tornare nella società. Il Garante nazionale ritiene che alcune criticità del sistema possano trovare risposte comuni, su almeno quattro punti, al di là delle diversità di idee sul carcere. Proposte che non possono non trovare spazio nel dibattito preelettorale, nei programmi e negli impegni dei partiti e delle coalizioni. Sono quattro i punti che il Garante ritiene fondamentali e trasversali. Il primo. Un impegno dei territori ad aprirsi per istituire delle strutture di accoglienza e di controllo di quelle persone che invece attualmente per pene brevissime sono inutilmente in carcere; persone rappresentano una minorità sociale che rischia di trovare solo risposte di tipo reclusivo. Così decongestionando l’attuale sistema sovraffollato. Il secondo. Un investimento culturale massiccio sull’istruzione e sulla formazione all’interno delle carceri: su quasi 55mila detenuti ce ne sono 1.200 che frequentano l’università ma anche 900 italiani e analfabeti. Il terzo. Una immissione importante di professionalità in carcere al fine di potenziare tutti i percorsi di connessione con il mondo esterno e anche con il suo fondamentale aspetto tecnologico: operatori sociali, educatori, psicologi, mediatori culturali, formatori professionali. Infine il quarto. Una maggiore assunzione di responsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale che in carcere svolge una funzione complessa e impegnativa. Affrontare le difficoltà comportamentali e il disagio psichico deve essere una priorità. Una maggiore attenzione a chi in carcere opera. “Sono alcuni punti su cui è possibile trovare convergenza - scrive il Garante nazionale -, fermo restando l’impegno civile di tutti a che il nostro Paese possa comunque avere a breve strutture detentive materialmente adeguate alla sua tradizione democratica”. Emergenza Covid finita, gli affetti di noi detenuti tornano a contare zero di Giuseppe Grassonelli* Il Riformista, 2 settembre 2022 Lavoravo a questo articolo di Giuseppe quando il numero sconosciuto si è acceso sullo schermo del telefono dopo ore di attesa e ho trovato la sua voce. C’erano comunicazioni che si erano affastellate nei giorni di silenzio e l’ho travolto subito. Lui ha ascoltato fino in fondo, poi ha detto una frase a cui continuo a pensare e che è il motivo per cui m’intrufolo qui come una premessa. Giuseppe non m’ha detto quanto parli o come sei esuberante, Giuseppe ha detto: “Come sei viva”. Mentre vi chiedete se voi usate questo aggettivo in situazioni simili, io lo lascio qua, perché è in questa vita che lo sorprende, che si avvera la distanza fra le nostre due esistenze. E la differenza è un sentimento che si esprime come sofferenza. Cecilia Gabrielli (compagna di Giuseppe Grassonelli) “Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. “Particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari”. Dall’ordinamento penitenziario emerge il rapporto con la famiglia come un sostegno affettivo e materiale essenziale nella vita del detenuto, e il rapporto è facilitato da colloqui, corrispondenza telefonica ed epistolare. Nei primi anni 70 ai detenuti erano consentite telefonate senza limite di durata. Allora, erano poche le famiglie che avevano il telefono in casa e molti reclusi dovevano accontentarsi di chiamare il bar del paese, se il titolare era un amico disponibile e tollerante. Oppure i parenti lasciavano i messaggi ai propri cari in carcere attraverso le radio libere. I detenuti telefonavano da una piccola cabina pubblica all’interno dell’istituto, dopo essersi procurati i gettoni necessari. La caccia ai gettoni è stata spesso causa di accoltellamenti. Sono state le leggi di “riforma” dell’ordinamento penitenziario a porre limiti. Con l’ordinamento penitenziario del 1975 e la legge Gozzini del 1986, le telefonate sono diventate quattro al mese più due per buona condotta. Con il nuovo Regolamento penitenziario del 2000, vi è stata un’ulteriore restrizione ai colloqui telefonici: due al mese se il detenuto effettuava anche i colloqui visivi consentiti; altrimenti faceva “domandina” al direttore per un’ulteriore telefonata, che non sempre veniva accolta. Nel marzo 2020 le attività trattamentali sono state ristrette per l’emergenza sanitaria, i colloqui visivi sono stati sospesi. In “compenso”, sono stati ammessi colloqui virtuali e chiamate su telefoni mobili. Risultato: dodici telefonate mensili, sette videochiamate brevi su WhatsApp e due videochiamate lunghe con Skype. Grazie alle nuove - per noi rivoluzionarie - tecnologie, abbiamo avuto contatti quasi giornalieri con le nostre famiglie. Molti detenuti, che da anni non effettuavano colloqui a causa di distanze o costi, hanno riabbracciato con gli occhi i propri cari. Ora, finita l’emergenza sanitaria, non sappiamo se festeggiare o piangere lacrime amare, visto che per molti la fine della pandemia significa il ritorno alle due telefonate mensili. Pensiamo sia arrivato il momento di garantire e regolamentare i rapporti affettivi con i familiari secondo due principi fondamentali: normalizzazione e responsabilizzazione. Il che significa, sotto il profilo affettivo, organizzare la vita reclusa nella maniera più simile possibile a quella libera, consentire ai detenuti di assumersi la responsabilità del beneficio di più ampi spazi di libertà. Chiediamo di avere una vita familiare “normale” pur restando in carcere, un regime detentivo che consenta di sperimentare forme di autonomia e senso di responsabilità, fondamentali nell’ottica del reinserimento sociale. Speriamo sia subito attuata la proposta di Rita Bernardini sostenuta con lo sciopero della fame di aumentare i contatti dei detenuti coi familiari attraverso più telefonate e video chiamate e i trasferimenti in luoghi vicini alla famiglia. Sarebbe un significativo segnale di attenzione. Antonio, un mio compagno di detenzione, ha fatto un calcolo matematico che dovrebbe colpire l’immaginazione di ognuno per la brutalità meccanica che deriva dalla geometrica applicazione della certezza della pena. In base alla legge ordinaria, un detenuto che sconta una pena di trent’anni, pari a 10.957 giorni, ha il diritto, se tutto fila liscio nel suo percorso detentivo, solo a 60 giorni di colloqui visivi coi familiari. Naturalmente questi giorni sono a disposizione solo di chi si può permettere il lusso di usufruire delle quattro ore di colloquio al mese. Poi ci sono i due colloqui telefonici di dieci minuti l’uno: 20 minuti al mese, 4 ore all’anno, 120 ore in trent’anni, ossia 5 giorni. Il mio maestro dice che non ci sono ore sull’orologio dell’amore, perciò lascio a voi il calcolo dell’umanità che si cela dietro questa tabella di marcia del dolore. Mi fermo qui, con Georg Trakl, sulla soglia del tempo pietrificato dal dolore, che mi arresta in un presente senza storia e senza avvenire, e coi miei compagni vi chiedo di poter colmare di parole e voce il tempo che voi vivi potete riempire di carezze. *Ergastolano detenuto a Opera, Consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino Carceri, oggi in piazza a sostegno di Rita Bernardini Il Riformista, 2 settembre 2022 Oggi a Roma, dalle ore 9 alle ore 13, in Piazza Cairoli si svolgerà una manifestazione a sostegno dell’iniziativa nonviolenta di Rita Bernardini, in sciopero della fame dalla mezzanotte del 16 agosto per chiedere alle istituzioni di intervenire per fermare l’ondata di suicidi nelle carceri italiane. Nel corso della manifestazione di oggi, la presidente di Nessuno tocchi Caino terrà un “Memento” straordinario tra le 10 e le 12.30 durante il quale dialogherà con Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione Camere Penali, con il giornalista Alessandro Barbano, con il direttore del Riformista Piero Sansonetti e con Paola Severini, giornalista Rai. Il “Memento” è dedicato alla grave situazione in cui versano le carceri italiane dove ben 58 detenuti si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno e agli obiettivi del digiuno di Rita Bernardini. L’iniziativa nonviolenta è a sostegno delle volontà manifestate dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia e il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Carlo Renoldi affinché si proceda per l’immediato a ridurre la popolazione detenuta in forte sovraffollamento, con misure come la liberazione anticipata speciale. L’iniziativa di Rita Bernardini, e di tutti coloro che si sono uniti a staffetta al digiuno, è altresì a sostegno della proposta di aumentare i contatti dei detenuti con i familiari attraverso un maggior numero di telefonate e di video chiamate, come chiesto da Don Davide Maria Riboldi (cappellano del carcere di Busto Arsizio) e la concessione dei trasferimenti richiesti dai detenuti per avvicinamento alla famiglia e per motivi di studio e di lavoro. Altri obiettivi più a lungo termine sono rivolti a tutte le forze politiche impegnate nella campagna elettorale affinché l’esecuzione penale e la riforma della giustizia siano nel concreto aderenti ai principi della Costituzione italiana e della Convenzione europea. Carcere tra indifferenza e meraviglia di Antonella Cortese Ristretti Orizzonti, 2 settembre 2022 Spesso mi sento chiedere: Liberi dentro Eduradio & Tv che cosa è e che cosa significa esattamente? È un progetto sociale o un progetto radiotelevisivo? Come se necessariamente queste accezioni dovessero essere opposte o avere difetti di convergenza. In effetti, data la sua genesi, è un progetto sociale che si esprime attraverso i media - quindi la TV e la radio - per parlare del carcere e non solo di carcere, al carcere e alle città nelle quali spesso gli istituti penitenziari sono collocati. Il progetto-trasmissione è nato durante la pandemia, quando abbiamo cominciato un po’ tutti ad usare le parole “isolamento”, “quarantena” (anche se non dura 40 giorni), “distanziamento sociale”, termini ad alta frequenza d’uso tra le spesse mura del carcere, parole che improvvisamente penetravano pesanti e violente attraverso notiziari, programmi e talk show a tutte le ore sugli schermi presenti in tutte le celle di tutte le prigioni in tutto il nostro territorio. Allora, in quella baraonda mediatica, abbiamo pensato che un mezzo di comunicazione resta ciò che è, uno strumento che assume connotazioni diverse in funzione dell’uso che ne fai. Così è nato questo spazio di parola e pensiero che per un certo periodo ha provato a sostituire corpi, voci, pensieri, sorrisi cavalcando le onde elettromagnetiche, tornando a dar voce alla prof. che aveva dovuto interrompere le lezioni, al corso di teatro che ha proposto attività a distanza, al sostegno spirituale per non abbandonare nessuno nella desolazione della solitudine e della pandemia, all’attività fisica da fare in cella e allo yoga, ai racconti di quello che succedeva nelle altre carceri e nel mondo. Oggi la redazione continua il suo cammino, forte del sostegno di Asp Città di Bologna, dell’Azienda Usl e della Diocesi di Bologna, seguita da un gruppetto di affezionato pubblico ristretto e da “liberi” in tutta la regione Emilia Romagna che si sono incuriositi e cominciano a guardare al carcere come a un luogo in cui ci sono delle persone, quelle che scontano una pena perché hanno commesso un errore e quelle che ci lavorano. Insieme combattiamo una guerra sotterranea, quella all’indifferenza, interrotta di tanto in tanto da episodi di cronaca che ricordano a tutti che si può decidere di morire di propria mano, in un qualsiasi carcere, a qualsiasi età. L’Associazione Antigone riporta che nei primi 8 mesi del 2022 ci sono state 57 persone detenute che si sono tolte la vita nelle carceri. E si sa che l’estate è calda, lunga, pesante. Tra ferie del personale, sospensione delle attività trattamentali, temperature tropicali, nelle carceri italiane solo ad agosto sono stati registrati 14 suicidi, più di uno ogni due giorni. Eppure, qualcosa si deve fare, perché è indubbio che siamo manchevoli e la nostra società civile quando una persona detenuta in una struttura dello Stato si toglie la vita si deve pur interrogare, da qualche parte c’è uno sbaglio, una superficialità, una distrazione, una leggerezza di troppo. Liberi dentro Eduradio & Tv ha avuto il piacere di entrare alla Dozza, ossia nella Casa Circondariale Rocco D’Amato di Bologna, durante la cosiddetta “Estate Dozza”, una settimana di eventi proposti dall’Associazione il Poggeschi per il carcere che ha coinvolto diverse associazioni e liberi volontari, e che è stata sostenuta vigorosamente dalla direttrice attuale, insediatasi da pochi mesi, la dottoressa Rosa Alba Casella. Abbiamo incontrato un gruppo di donne detenute, abbiamo parlato dei nostri programmi, di quanto ci piacerebbe poter realizzare una redazione interna nella quale sarebbero proprio le persone ristrette, insieme ai redattori, a lavorare sui contenuti, il montaggio, la post produzione, dopo averne appreso le basi per poterlo fare. Quindi una redazione mista di ristretti e redattori, che insieme affronti argomenti e notizie da diverse prospettive, partendo dai luoghi del reale, dalle spesse mura del carcere per parlare di giustizia, diritti, salute, vite che si reinventano, giustizia riparativa, ma anche di musica, film, letture, amori, amicizie recise e amici nuovi. Alle spalle abbiamo più di due anni di esperienza e un’associazione della quale facciamo parte, che si chiama Insight, che si autodefinisce un collettivo di persone che a partire da una multiforme esperienza di ricerche e lavoro formativo si dedica alla conoscenza di alcuni ambiti sociali e umani liminali. Con le donne del Femminile abbiamo anche ragionato sul significato della parola “meraviglia”, partendo dall’incipit lanciato da un festival di editoria indipendente - Elba book festival - che interrogava i suoi ospiti sul tema e che, tra l’altro, questa estate ha sostenuto il nostro progetto del Libro sospeso donando 160 volumi alle biblioteche delle carceri di Porto Azzurro e della Dozza. È possibile provare meraviglia in un ambiente ristretto? In uno spazio liminale, quindi per definizione di transizione o di trasformazione come dovrebbe essere il tempo-spazio della detenzione? La domanda resta aperta, ma le risposte sono state piuttosto rassicuranti; La finestra sulla meraviglia deve continuare a rimanere aperta, semmai appena socchiusa se proprio non può restare spalancata, ma guai solo a pensare di chiuderla del tutto. Un liberale incontrollabile, Nordio sogna via Arenula di Giulia Merlo Il Domani, 2 settembre 2022 Ha passato l’intera vita professionale a Venezia. Per nulla carrierista, tra le toghe è sempre stato in minoranza. Sue le indagini sulle coop rosse e sul Mose. Ma per Meloni potrebbe essere più un problema che una soluzione. Del carattere veneto ha la giovialità. Carlo Nordio l’ha mantenuta anche durante i durissimi scontri con i colleghi della procura di Milano, a cavallo di Tangentopoli. Magistrato fuori dagli schemi correntizi, è stato presenzialista in tv e loquace sulla carta stampata, ma anche sempre pronto ad andare contro l’opinione dominante, tanto da inimicarsi equamente sia una parte della magistratura che i politici sui quali ha indagato. Nato nel 1947 a Treviso, laureato in Giurisprudenza a Padova nel 1970 e dal 1977 procuratore a Venezia, la sua vita professionale si è svolta in un triangolo di 80 chilometri quadrati che oggi è diventato il suo collegio elettorale. Il Veneto, infatti, rimane la terra della seconda vita di Nordio: quella in politica, da capolista di Fratelli d’Italia alla Camera nel collegio plurinominale Veneto 1 - che comprende per l’appunto Treviso, Padova e Venezia - e nell’uninominale che corrisponde a Treviso. La sua candidatura non ha stupito. Tra i pochi magistrati apertamente di destra - anche se lui ha sempre preferito definirsi liberale ed elenca nel suo pantheon Immanuel Kant, William Shakespeare e Winston Churchill - non si è mai sottratto a incarichi politici come, ad esempio, la presidenza della fallita commissione Castelli per la riforma del codice penale. Né ha fatto mistero di guardare alla politica una volta smessa la toga. Chi lo conosce lo avrebbe collocato nell’alveo di Forza Italia, ma il tramonto del berlusconismo non avrebbe potuto offrirgli un collegio sicuro. Fratelli d’Italia invece gli sta promettendo - oltre a un posto a Montecitorio - anche la possibilità di sognare il ministero della Giustizia. La vita in procura - Silenziosamente c’è chi si interroga: non sarà troppo indipendente per un partito così rigorosamente gerarchico? Nel foro veneziano, notoriamente non tenero con la controparte in magistratura, lo descrivono come “un magistrato anche troppo libero. Uno che non ha mai sgomitato, ma che nello stesso tempo si notava”. Non troppo diverso il controcanto tra le toghe: divisivo sì, ma tutti riconoscono che “non era una carrierista”. Nei suoi quarant’anni di magistratura di cui buona parte vissuti sotto i riflettori Nordio ha legato la sua carriera a una città - Venezia - rinunciando a incarichi direttivi. Fino a 65 anni è rimasto sostituto procuratore, è diventato aggiunto solo nel 2009 e ha gestito la procura veneziana come facente funzioni nell’anno del pensionamento, nel 2017, prima della nomina del nuovo capo. “Mettermi a dirigere un ufficio sarebbe stato come mettere un pilota da guerra dietro una scrivania. A me piaceva fare i processi”, dice lui - Eppure, una delle malignità di procura è che Nordio non sia mai stato uno stakanovista e che la luce del suo ufficio alle 17 fosse spesso spenta. Voci che Nordio quasi conferma: “Sono del parere che un magistrato non debba mai lavorare troppo. Sa quanti magistrati stanchi ho visto commettere errori tremendi? Meglio prendersi del tempo, piuttosto che fare danni”. Del resto, non ha mai vissuto la magistratura come una missione o un sacerdozio e, al momento della pensione, ha consigliato ai giovani colleghi: “Leggete qualche libro in più e qualche saggio giuridico in meno”. Le inchieste - La carriera di Nordio è legata a due grandi inchieste, che hanno colpito una a sinistra e l’altra a destra. La prima, nel 1993, ha riguardato le cosiddette “coop rosse”. In realtà l’indagine per finanziamento illecito nasceva a carico dei vertici veneti del Psi e della Democrazia cristiana, con le condanne di Gianni De Michelis e Carlo Bernini, e solo dopo si è allargata anche ai comunisti. Partendo dai fallimenti di alcune cooperative agricole venete, Nordio aveva ipotizzato che il meccanismo fosse di creare coop agricole per ottenere finanziamenti pubblici, dirottare il denaro al partito e poi farle fallire. Nordio si è mosso con grande clamore mediatico: ha sequestrato i bilanci delle feste dell’Unità delle sette federazioni del Pds veneto e l’operazione è stata ribattezzata “Braciola pulita”, perchè si indagavano le spese per polenta, vino merlot, salsicce e bigoli. Specularmente, a Milano, lavorava sulla stessa traccia Titti Parenti, la magistrata che nel 1994 lascerà il pool e la toga per candidarsi con Forza Italia. L’uomo chiave è Alberto Fontana, dirigente regionale delle coop venete, che poi è stato condannato a tre anni e otto mesi. Ma a fare più scalpore sono gli avvisi di garanzia a Massimo D’Alema, appena diventato premier, Achille Occhetto e Bettino Craxi. I tre vengono sentiti a Roma e D’Alema liquida l’inchiesta in modo caustico: “È stato un momento importante del dibattito sul surrealismo”. Intanto, il Pds attaccava furiosamente Nordio, accusandolo di aver costruito un teorema sul “non potevano non sapere”. Alla fine, tutto si è sgonfiato ed è finito in rivoli secondari. È stato Nordio stesso a chiedere l’archiviazione per i vertici del Pds, scrivendo che “è inaccettabile l’assioma che chi stava al vertice non potesse non sapere”. Lo strascico finale è stato da commedia all’italiana: agli imputati non è stata mai comunicata l’archiviazione e, nel 2006, D’Alema e Occhetto hanno chiesto un risarcimento per ingiusto ritardo. L’altra grande inchiesta a cui è legato il nome di Nordio è quella sul Mose, il progetto architettonico per proteggere Venezia dall’alta marea. L’indagine del 2014 ha portato a 35 arresti e i domiciliari per l’allora sindaco della città, Giorgio Orsoni (poi assolto). Giancarlo Galan, che per 15 anni era stato presidente della regione Veneto in quota Forza Italia, ha scontato due anni ed è stato condannato al risarcimento di 5,8 milioni di euro. L’inchiesta ha decapitato i vertici politici veneti e rinverdito il filone dei processi per corruzione. Eppure, quella che Nordio ricorda con più orgoglio è una delle sue prime inchieste. Aveva 35 anni e indagava sulle sulle Brigate rosse, azzerando la colonna veneta: tutti i brigatisti condannati e poi pentiti. “Giravo scortato e armato, ricevevo lettere con la stella a cinque punte ma ricordo che sentivo che erano in gioco lo stato e la democrazia”, dice. Gli scontri - Mai avaro di dichiarazioni pubbliche, il vero terreno di scontro tra Nordio e i colleghi, in particolare la procura di Milano, è stato il dibattito su Tangentopoli e la sua eredità culturale. Sul piano processuale la guerra tra lui e Paolo Ielo è arrivata fin davanti al Csm. Milano aveva intercettato Craxi al telefono con il suo avvocato, Salvatore Lo Giudice, che gli diceva che Nordio era un giudice fidato. Ielo aveva avvertito Nordio che era stato tirato in ballo e poi una fuga di notizie aveva portato l’intercettazione sui giornali: Nordio aveva difeso l’avvocato Lo Giudice, sostenendo che l’intercettazione era illegittima perché violava il divieto di ascolto dei colloqui tra legale e assistito, e aveva attaccato l’operato di Milano, che così rischiava di sabotare la sua indagine sulle coop. Milano si era difesa, sostenendo di non sapere che Lo Giudice fosse un avvocato e che l’intercettazione era stata mandata a Nordio per tutelarlo da illazioni. Lo scontro era finito al centro del dibattito pubblico e poi a palazzo dei Marescialli, che aveva archiviato ma senza mai risolvere l’inimicizia tra le due procure. Su quello culturale, Nordio si è scontratp soprattutto con Antonio Di Pietro quando ha proposto di chiudere la stagione di Mani pulite con una frase: “Chi vuole l’amnistia la paghi”. Ovvero, la possibilità per gli imputati di evitare il carcere confessando il reato commesso e pagando ai danni. Il garantismo - La sua cifra di oggi è quella del garantismo, ma l’etichetta non gli è stata sempre propria. Negli anni di Tangentopoli è stato tra quelli che hanno utilizzato in modo diffuso la custodia cautelare in carcere e ha firmato un documento insieme ad altri 200 magistrati contro le norme che restringevano la possibilità di disporla. Solo anni dopo ha ammesso: “Anche io ho fatto i miei bravi arresti e i miei bravi errori giudiziari”. A trent’anni di distanza, Nordio fissa il momento della svolta con un suicidio: un maestro di Treviso, da lui arrestato e poi scarcerato, che un mese dopo si è suicidato. “Mi portò a riflettere su quante misure cautelari potevano essere evitate”. Non a caso lui, magistrato di destra, su questi temi ha scritto il libro In attesa di giustizia, a doppia firma con l’avvocato di sinistra Giuliano Pisapia. Un altro volume lo ha dedicato a Calogero Mannino e alle altre vittime di errori giudiziari. Di lui si ricordano soprattutto le posizioni di minoranza, che ribadisce anche ora che corre in un seggio blindato per il partito dato per vincente: depenalizzazione di molti reati, la necessità di una legge sul suicidio assistito, il ritorno all’immunità parlamentare e la discrezionalità dell’azione penale. Con il rischio dell’eterogenesi dei fini che per la destra Nordio diventi subito più una spina nel fianco che un vantaggio strategico. E che proprio questo gli precluda via Arenula. Csm e Consulta monocolore… “il rischio c’è” di Simona Musco Il Dubbio, 2 settembre 2022 Se la legge elettorale finisse per favorire gravi squilibri, la politica non potrebbe ignorare il problema. Csm e Consulta “monocolore”. Con i sondaggi che attribuiscono al centrodestra due terzi dei seggi parlamentari, l’ipotesi che i due organi finiscano “in mano” alla coalizione composta da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia è tutt’altro che peregrina. Uno scenario confermato ieri sulle colonne dell’Avvenire anche dal presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, secondo cui in senso squisitamente tecnico la maggioranza dei tre quinti, sufficiente a nominare i membri laici del Consiglio superiore della magistratura e i giudici della Corte costituzionale, non ha alcun obbligo a trovare un accordo con le opposizioni. “Ci potrebbe essere la tentazione di cambiare a fondo gli organismi non attraverso riforme costituzionali - ha dichiarato ad Avvenire - impegnative dal punto di vista dei quorum e dei passaggi parlamentari, ma utilizzando la via breve di sostituire i componenti”. Insomma, una sorta di revisione dall’interno, senza affrontare - almeno non subito - il più tortuoso percorso previsto dalla Costituzione per modificare la legge fondamentale dello Stato.Stando ai sondaggi, grazie al Rosatellum, il centrodestra potrebbe riuscire ad aggiudicarsi il 60% dei seggi, grazie al meccanismo che premia, nei collegi uninominali, i partiti che si sono coalizzati. Il primo appuntamento, per le Camere, è quello con la nomina dei membri laici di Palazzo dei Marescialli, che dovrebbe avvenire ad ottobre, quando saranno invece già chiari i nomi dei membri togati, la cui elezione è prevista il 18 e il 19 settembre. I due rami del Parlamento dovranno dunque scegliere in seduta comune dieci componenti del Csm - tra docenti universitari e avvocati con almeno 15 anni di esercizio - a scrutinio segreto e con la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’assemblea entro i primi tre scrutini, che dal terzo in poi diventa dei tre quinti dei votanti. Ma la questione si riproporrà anche con i cinque giudici costituzionali di nomina parlamentare, la prima delle quali avverrà nell’autunno del 2023, quando scadranno i nove anni di mandato di Silvana Sciarra. Altri tre - Franco Modugno, Augusto Barbera e Giulio Prosperetti - verranno sostituiti invece a fine 2024. In questo caso, nei primi tre scrutini è necessario raggiungere i due terzi della maggioranza, dal quarto in poi dei tre quinti. Secondo Filippo Donati, membro laico dell’attuale Csm in quota M5S e Ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università di Firenze, bisognerà vedere quali saranno i risultati delle elezioni. Però, aggiunge, in teoria c’è il rischio che una coalizione possa ottenere un numero di seggi sufficiente per nominare da sola i membri del Csm e della Corte costituzionale. Questo è permesso dalla Costituzione. I costituenti, però, avevano come riferimento un sistema elettorale proporzionale. La richiesta di maggioranze qualificate per l’elezione del Capo dello Stato, dei giudici costituzionali e dei membri laici del Csm mira infatti a garantire, su materie di particolare rilevanza, scelte condivise tra maggioranza e opposizione. Se la legge elettorale finisse per consentire ad una coalizione di raggiungere da sola una maggioranza così forte da rendere non necessaria tale condivisione, si aprirebbe un problema che la politica non potrebbe ignorare.Più cauto il commento di un altro laico del Csm in quota Forza Italia, Alessio Lanzi, ordinario di diritto penale presso il Dipartimento di Scienze economico-aziendali e diritto per l’economia di Milano-Bicocca. “Il tema mi sembra scivoloso - dice al Dubbio -. Le maggioranze richieste sono espresse dalla Costituzione e dunque dipenderanno dai numeri oggettivi che si avranno in Parlamento. Ciò al netto degli accordi e delle convergenze politiche sempre possibili e, allo stato, imprevedibili”. Trent’anni fa il suicidio di Sergio Moroni, vittima della gogna di Mani pulite di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 settembre 2022 Il 2 settembre 1992 il deputato socialista si tolse la vita dopo aver ricevuto due avvisi di garanzia. Stefania Craxi al Foglio: “Ricordo ancora le lacrime di mio padre”. “Ricordo giorni di grande angoscia. Ricordo le lacrime di mio padre, non solo quel giorno ma anche tutte le volte che, negli anni successivi, si ebbe modo di parlare del compagno Moroni. Fu un fatto che lo scosse moltissimo dal punto di vista personale per lungo tempo. Vede, mio padre era una persona che si commuoveva”. È con queste parole, rotte dalla medesima commozione, che la senatrice di Forza Italia Stefania Craxi, presidente della commissione Esteri di Palazzo Madama, ricorda al Foglio la morte del deputato socialista Sergio Moroni, di cui oggi ricorre il trentennale. Il 2 settembre 1992, il parlamentare bresciano, membro della direzione nazionale del Psi, si tolse la vita con un colpo di fucile nella cantina del condominio in cui abitava, dopo aver ricevuto due avvisi di garanzia nell’ambito dell’inchiesta di Mani pulite. Il giorno seguente al tragico gesto, Bettino Craxi si recò a Brescia per dare l’ultimo saluto al suo compagno di partito. Uscendo dall’abitazione di Moroni, il segretario socialista apparve sconvolto e, trattenendo a stento le lacrime, davanti ai microfoni rilasciò una sola dichiarazione: “Hanno creato un clima infame”. “Avevano creato un clima infame - ribadisce oggi Stefania Craxi, candidata al Senato per Forza Italia nell’uninominale di Gela - un clima da pogrom. Migliaia di persone persero l’onore, il lavoro, qualcuno la famiglia e qualcuno anche la vita, perché non fu soltanto Moroni, ma furono in tanti a suicidarsi in quel periodo”. Prima di uccidersi, Moroni inviò a Giorgio Napolitano, allora presidente della Camera, una lettera nella quale denunciava “un clima da pogrom nei confronti della classe politica”, caratterizzato da “un processo sommario e violento”. “Ricordo il silenzio di fronte a quella lettera - dice Stefania Craxi - e ricordo le parole terribili di quel magistrato che disse: ‘C’è ancora qualcuno che per la vergogna si suicida’”. Si trattava di Gerardo D’Ambrosio, all’epoca membro di punta del pool milanese di magistrati che indagavano sull’illecito finanziamento ai partiti e sulle tangenti. “Fu una pagina oscura della storia repubblicana su cui ancora il paese deve fare i conti - prosegue Craxi - Nella lettera Moroni fu profetico e la storia di questi trent’anni lo ha dimostrato. Un’intera classe dirigente è stata spazzata via, un intero sistema politico è stato distrutto, ma da allora ancora non ne è stato ricostruito uno in grado di stare in piedi. Purtroppo quel moralismo militante, o se preferisce giustizialismo, inoculato all’epoca nel sistema politico fa danni ancora oggi”. Nella lettera destinata a Napolitano, Moroni fece riferimento anche a “forze oscure che coltivano disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la pulizia”. “Negli anni qualche riga di verità è uscita”, spiega Stefania Craxi. “Quella vicenda costituì il risultato di un grande scontro a livello internazionale. La globalizzazione provoca uno scontro tra la finanza, che diventa il potere preminente, e il primato della politica. D’altronde oggi qual è il potere che conta, la finanza o la politica? Le faccio un’altra domanda: quei giornali che accompagnarono l’azione giudiziaria, creando quella falsa rivoluzione mediatico-giudiziaria, a chi appartenevano? A editori o a poteri finanziari? Anche su questo qualcosa è stato scritto, penso all’invito rivolto da Cuccia a Craxi a prendere la testa di quella rivoluzione. Però Craxi era un democratico e figlio dei partiti, e quell’invito non lo prese nemmeno in considerazione. Alla fine, il pezzo di magistratura politicizzata fu lo strumento di quella rivoluzione, così come il Partito comunista ne fu la sponda politica”. “A Sergio Moroni - conclude Stefania Craxi - va ridato l’onore che merita, perché quella classe dirigente politica, quei parlamentari socialisti, non solo erano persone di competenza e di esperienza, che avevano fatto la gavetta nei partiti, ma la stragrande maggioranza di loro erano persone perbene”. Carlo Alberto dalla Chiesa attraverso le sue parole di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 2 settembre 2022 Il 3 settembre 1982 la strage di via Carini in cui morirono anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’autista Domenico Russo. I suoi pensieri tratti dai suoi Diari e da una celebre intervista a Giorgio Bocca. La strage di via Carini del 3 settembre 1982, nella quale Cosa nostra uccise il generale-prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’autista Domenico Russo, si può ricordare in vari modi. Qui si utilizzano frasi e pensieri dello stesso dalla Chiesa, in prevalenza tratti dai suoi Diari e da una celebre intervista Di Giorgio Bocca su “la Repubblica” del 10 agosto, qualche giorno prima della strage. Ecco dunque le parole di dalla Chiesa, che scolpiscono una figura di straordinaria levatura umana e professionale. E sono parole - in gran parte - ancora attuali. Sono arrivato a Palermo subito dopo l’omicidio del mio amico Pio La Torre. Mi trovai al centro di un’opinione pubblica che ad ampio raggio mi dava l’ossigeno della sua stima e nello stesso tempo di uno Stato che affidava la tranquillità della sua esistenza, non già alla volontà di combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa, ma allo sfruttamento del mio nome. Che poi la mia opera potesse divenire utile, era tutto lasciato al mio entusiasmo di sempre, pronti a buttami al vento non appena determinati interessi fossero toccati o compressi. Occorrevano mezzi e poteri adeguati per vincerla, la mafia, occorreva che gli impegni presi dal Governo nel Consiglio dei Ministri del 2.4.82 fossero codificati. Ero venuto a Palermo per dirigere la lotta alla mafia, non per discutere di competenze e precedenze. Invece fui tradito. Vi fu come un ritiro delle mie credenziali e mi trovai isolato. In quei cento giorni a Palermo, sono andato nelle scuole e nei cantieri navali a parlare con i ragazzi, con i loro insegnanti e con gli operai, ricevendo molto da quegli incontri. In quei cento giorni rifiutai invece, sistematicamente, tutti gli inviti (a cene e galà in mio onore) di ambienti altolocati, intuendo che proprio in quei salotti, ci potessero essere anche contiguità e collusioni. In quei cento giorni ho capito molte cose, alcune molto semplici ma decisive. Si poteva, e si può ancora, sottrarre alla mafia il suo potere. Gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini, non sono altro che i loro elementari diritti: come ad esempio il lavoro e l’assistenza economica. Occorreva e occorre, oggi più che mai, assicuraglieli questi diritti. Così si toglierà potere alla mafia, e i cittadini invece che suoi dipendenti (sudditi), potranno diventare nostri alleati. Attenti, perché la mafia non è un “fatto siciliano”: da decenni la mafia sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e industriali. A me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte, che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato, e trasformano, in case moderne o alberghi e ristoranti a la page. Ma deve interessare soprattutto la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci, magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere. È quello che io chiamo il “polipartito”, della mafia, per indicarne la profonda compenetrazione con pezzi della politica e dell’economia, una compenetrazione utile e proficua alla mafia non meno che ai i suoi complici occulti. Una mafia che mostra - come sempre - due volti: quello militare e quello della mafia degli affari; che si inabissa per poter meglio consolidare una rete di relazioni al servizio di un business mafioso che avvelena (senza clamore, ma in modo profondo) l’economia e la qualità della nostra vita. La mafia militare - anche quando sembra assopita - rimane pronta ad agire. La regola del gioco è sempre la stessa; si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma è isolato. Una regola applicata anche per me il 3 settembre 1982 in via Carini. Il detenuto ha diritto a un’alimentazione sana, sì al reclamo contro il pane di cattiva qualità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2022 Il diritto ad un’alimentazione sana e sufficiente rientra in quello, fondamentale, alla salute. Per questo il magistrato di sorveglianza non può respingere il reclamo senza neppure contraddittorio. Il detenuto ha diritto ad un’alimentazione sana e sufficiente. Un cibo di buona qualità è, infatti, un modo per tutelare il diritto fondamentale alla salute. Per questa ragione il magistrato di sorveglianza non può respingere, senza passare al contraddittorio, il reclamo del carcerato per protestare contro la cattiva qualità del pane, che viene servito nell’istituto nel quale è ristretto. La Corte di cassazione, con la sentenza 32210, accoglie il ricorso del detenuto, classe ‘72. E censura la scelta del giudice di sorveglianza che aveva rigettato “de plano” l’istanza, partendo dal presupposto che la scadente qualità del pane non aveva pregiudicato la salute dei detenuti. Escludendo così la violazione di un loro diritto soggettivo. Per la Suprema corte è una conclusione contraddittoria “poiché implicitamente presuppone, come necessario antecedente logico, proprio la considerazione del tema della tutela di quel diritto (alla salute) - si legge nella sentenza - del quale si vorrebbe poi, incongruamente, negare la valenza di diritto soggettivo, solo perché la salute non sarebbe stata, in quei frangenti, messa concretamente a rischio”. Ad avviso della Cassazione, non è necessario spendere molte parole per riconoscere che ad ogni detenuto va assicurato cibo sano e sufficiente. Un diritto va che ricompreso in quello più ampio alla salute, tutelato dalla Costituzione. Bologna. Suicidio alla Dozza: si impicca con i pantaloni della tuta di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 2 settembre 2022 Un detenuto si è tolto la vita impiccandosi nell’infermeria del carcere della Dozza. La notizia è stata diffusa da fonti sindacali della polizia penitenziaria. L’uomo - secondo una nota della Fp-Cgil - si sarebbe ucciso utilizzando come cappio il pantalone della tuta. Si tratta di un detenuto di 53 anni, di origini slave, con problemi di natura psichiatrica. Elemento che, se fosse confermato, rende “ancora più grave la notizia visto che alcuni detenuti dovrebbero essere controllati con ancora maggiore attenzione”, afferma il garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri. Per il Sinappe “occorre farsi carico del problema dei detenuti con fragilità particolari con un’attenzione particolare”. Salvatore Bianco della Fp-Cgil delle guardie penitenziarie spiega che a questo punto “una delle misure indispensabili è l’aumento delle ore di lavoro all’interno degli istituti degli specialisti psichiatrici, compresi i fine settimana, quando queste figure professionali sono assenti”. Alla Dozza i sanitari in servizio “sono ridotti numericamente ai minimi termini”. La carenza di personale viene segnalata anche da Nicola D’Amore del Sinappe. Per il Sappe, altro sindacato di categoria, si tratta “un fallimento delle istituzioni che dovrebbero garantire equilibrio e legalità nell’esecuzione della pena”. Gianni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe ricorda che lo scorso anno in Emilia-Romagna ci sono stati 4 suicidi e 164 tentativi di suicidio. Caltagirone (Ct). Suicidio in carcere, la famiglia presenta denuncia di Claudia Benassai Gazzetta del Sud, 2 settembre 2022 Sono 58 i suicidi in carcere dall’inizio dell’anno. Due in Sicilia nell’ultima settimana. E fa discutere il caso del catanese Simone Melardi, classe 1978, che si è tolto la vita lo scorso 25 agosto dietro le sbarre della Casa Circondariale di Caltagirone, impiccandosi. a famiglia di Simone, tramite l’avvocato Rita Lucia Faro, ha presentato un esposto alle autorità giudiziarie, al fine di accertare eventuali negligenze da parte del personale dell’istituto penitenziario. La Procura di Caltagirone, attraverso il pm, Samuela Maria Lo Martire, il prossimo mercoledì 7 settembre conferirà l’incarico, al medico legale, per eseguire l’autopsia sul corpo di Melardi. Al momento, cinque persone (quattro donne, un uomo) sono state iscritte nel registro degli indagati. Si tratterebbe, in questo caso, secondo la famiglia Melardi, di abbandono d’incapace, un reato disciplinato dall’articolo 591 del codice penale, previsto nel caso in cui un soggetto debole venga abbandonato da chi ha il compito di accudirlo. E in questo caso, Simone era sotto la tutela dello Stato. Simone Melardi, 44 anni, era stato arrestato solo pochi giorni prima del 25 agosto scorso, perché imputato di furto aggravato, commesso lo scorso 21 agosto. E, nello specifico, del furto di 180 euro, di un cellulare e di un portafogli, sottratti al botteghino del Teatro “Bellini” di Catania, ma subito restituiti ai legittimi proprietari. Melardi era già da tempo in lista d’attesa per essere inserito in CTA (comunità terapeutica assistita), in quanto affetto da “psicosi NAS in soggetto con disturbo di personalità borderline e abuso di alcolici”. E, proprio per questa ragione, nel carcere di Caltagirone, Melardi era sottoposto al regime della cosiddetta “grande sorveglianza”, proprio al fine di evitare e prevenire episodi di autolesionismo. “Nonostante il regime di particolare cautela nei confronti di Simone Melardi - afferma l’avvocato Faro - però, quest’ultimo ha avuto la possibilità di allestire i mezzi per suicidarsi, senza che nessuno se ne accorgesse”. Simone era sottoposto al regime di “sorveglianza a vista”, ma poi, dopo poche ore, è stato sottoposto a una vigilanza speciale, in quanto ritenuto apparentemente tranquillo. “Ma andava sorvegliato a vista. E soprattutto non andava messo da solo in cella”, ribadisce il legale. Ardita: “I detenuti più fragili sottomessi alle gerarchie” - Anche il magistrato catanese Sebastiano Ardita, già direttore generale dell’ufficio detenuti e responsabile dell’attuazione del regime 41bis, in passato Procuratore aggiunto a Messina, ha commentato con grande rammarico la tragica morte di Simone: “Un tossicodipendente di 44 anni - dice - si è impiccato nella sua cella del carcere di Caltagirone, dov’era recluso per il furto di 180 euro, di un telefonino e di un portafogli. Mentre si discute del ritorno in libertà dei mafiosi stragisti, questo è il destino della fascia bassa dei detenuti comuni, oramai alla mercé degli altri detenuti con la cosiddetta “autogestione degli spazi”, nel sistema delle cosiddette “celle aperte”. Tossicodipendenti e malati di mente sono una fetta importante del mondo carcerario. Meno Stato è presente in carcere, più saranno sottomessi alle gerarchie criminali, che rendono invivibile la loro detenzione. I deboli continueranno a morire e a suicidarsi. E i mafiosi otterranno, in nome di quei morti, la libertà anticipata”. Ferrara. Basta violenze, va ripensata l’idea di carcere di Pasquale Longobucco* Il Resto del Carlino, 2 settembre 2022 Recentemente sempre più articoli riportano episodi di violenza che si consumerebbero all’interno del carcere della città. Ovviamente non si è in grado di comprendere a pieno la portata di tali episodi, n é le singole cause scatenanti. Si è tuttavia consapevoli del fatto che, per prevenire tali fenomeni, la soluzione non può essere quella di una “restrizione” generalizzata della quotidianità del detenuto. Come penalisti sappiamo anche che sovente i fenomeni di violenza all’interno delle carceri sono causati dalle sempre più precarie condizioni di vita dei detenuti, e dal contesto in cui opera il personale interno. Da tempo sosteniamo inoltre, nonostante i continui richiami della Corte Internazionale per i Diritti dell’Uomo, come le nostre carceri continuino ad essere ambienti criminogeni perché sovraffollate, fatiscenti: costantemente in violazione dei dettami costituzionali. Dove c’ è illegalità si crea altra illegalità! Non è forse un caso che alcuni fenomeni di violenza in carcere si siano verificati con maggiore intensità nel periodo della pandemia? Vale a dire, in un momento in cui si sono dovuti adottare provvedimenti per evitare il più possibile i contatti tra gli stessi detenuti e soprattutto le relazioni con quei piccoli frammenti di umanità esterna, come ad esempio i colloqui con i familiari. Noi penalisti abbiamo sempre pensato che, se si vuole fare una vera riforma carceraria, bisogna prima di tutto pensare ad una nuova idea di carcere. Bisogna incentivare sempre più le misure alterative alla detenzione, perché la certezza della pena non è certezza del carcere. I dati statistici rilevano come la recidiva si manifesti in percentuali molto alte in soggetti che hanno scontato l’intera pena o buona parte di essa in carcere. Al contrario, una percentuale molto più bassa riguarda quei soggetti che hanno beneficiato di misure alternative alla detenzione. Dall’inizio di quest’anno nelle carceri italiane sono stati registrati 58 casi di suicidio. Questi dati interessano a qualcuno? È una vera e propria epidemia per la quale sembra non volersi trovare alcun vaccino. Con una campagna elettorale già alle battute finali, ancora una volta non si può non registrare la pressoché totale assenza dal dibattito pubblico della questione carcere. Tema, ci si rende conto, scomodo che - in un paese oramai bulimico di propaganda - non attira consensi se non quando si invoca il “tintinnar delle manette” e più carcere per tutti. *Presidente della Camera Penale Ferrarese Perugia. Carcere, “Opportunità Lavorative Professionalizzanti” con Frontiera Lavoro perugiatoday.it, 2 settembre 2022 Con l’obiettivo di ridonare alle detenute del carcere di Perugia il piacere della cura di se stesse e del prendersi cura della bellezza degli altri, si è svolto nei mesi scorsi un progetto davvero singolare. Dal mese di luglio, infatti, presso il Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia, la cooperativa sociale Frontiera Lavoro ha dato avvio al progetto “Opportunità Lavorative Professionalizzanti”, finanziato con 70 mila euro dal Ministero della Giustizia, che sarà articolato in tre percorsi formativi: “Acconciatore” presso la sezione femminile, “Addetto alla cucina” e “Idraulico” presso la sezione maschile, prevedendo il coinvolgimento di 47 detenuti di cui 15 donne. “Non saprei raccontare a parole cosa è questo corso, spiega Simona Sensi, docente del corso per Acconciatore. Io ho la tentazione di andare a insegnare, ma me ne torno sempre carica di meraviglie. Fa strano i primi giorni, spiegare a delle donne che hanno perso il senso del loro vivere e della loro bellezza, cosa può significare ritrovarle, andare a ricercarle. Si tratta, innanzitutto, di un’esperienza che vede le detenute lavorare sulla loro persona, un lavoro di autostima”. Tutti e tre i percorsi formativi avranno la durata di 200 ore e si concluderanno con un esame finale per il conseguimento del relativo attestato. “Recuperare la fiducia in sé stessi, sostiene Luca Verdolini, coordinatore del progetto, è la cosa più difficile, all’inizio. Molte volte, queste persone, che hanno delle storie difficili, devono avere un’opportunità, la possibilità di un carcere alternativo, perché almeno possano cercare un minimo di senso nella loro esistenza”. E allora la cura della persona, farsi belle, volersi agghindare, sebbene per incontri che difficilmente si potranno realizzare, diventa l’unico modo per continuare a credere. In se stessi, prima di tutto. “Nella vita si sbaglia per scelta o per disperazione, dice Rachela, una delle allieve. In entrambi i casi se ne pagano le conseguenze. Grazie a queste attività formative la detenzione può diventare anche speranza nella possibilità di un riscatto”. Un progetto per la sezione maschile - Dalla sezione maschile invece emana un profumo buono di ragù, carni arrostite, zucchero e caramello. “Dal nostro laboratorio - racconta Stefano, padre di 45 anni ed allievo del corso di cucina - escono solo cose di qualità. Ho letto l’avviso in sezione ed ho fatto subito la domanda. Ero sicuro che mi prendevano. Dopotutto a casa cucino io”. Lezioni di cucina per incentivare il lavoro di squadra e i momenti di aggregazione, ma anche competenze che possano servire al reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti. “Nel corso dei diversi appuntamenti - spiega lo chef Paolo Staiano, uno dei sei docenti del corso - sfrutteremo tutte le attrezzature insegnando ai partecipanti come maneggiare al meglio le materie prime a disposizione. Mostreremo come realizzare un pangrattato aromatico, come preparare uno spaghetto alle vongole cremoso e come rendere più gustosa una verdura aggiungendo semplicemente del pomodoro e pecorino”. Alla proposta formativa i detenuti hanno risposto con entusiasmo. “Si ricomincia, dice Federico, allievo del corso per idraulico, se c’è qualcuno che crede in te. Qualcuno ha creduto in me, ma prima mi ha fatto comprendere la gravità del mio errore. Non puoi iniziare di nuovo se sei ancora convinto che quanto hai commesso era giusto. Io non ho fatto una cosa giusta”. E delle competenze acquisite durante l’intervento progettuale, le allieve e gli allievi del carcere di Perugia ne daranno un saggio con due eventi aperti alla cittadinanza che si svolgeranno nel mese di ottobre. Una cena di gala, “Le Golose Evasioni”, allestita dai partecipanti al corso di cucina e una sfilata di acconciature, “Stile ricercato”, organizzata dalle aspiranti parrucchiere della sezione femminile. Due appuntamenti molto attesi per comprendere che la bellezza è qualcosa che sta dentro, e che se si vuole, si può modellare fuori. Venezia. Giallo per la morte di “Sissy” Trovato, terzo no alla richiesta di archiviazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 settembre 2022 I famigliari si sono sempre opposti alla tesi del suicidio della procura di Venezia. Per la terza volta il gip di Venezia riapre l’inchiesta sul giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza, la giovane agente di Polizia penitenziaria uccisa da un colpo di pistola alla testa nell’ascensore dell’ospedale civile di Venezia dove si trovava in servizio esterno per verificare la situazione di una detenuta che aveva partorito. Dopo l’udienza di inizio luglio, in cui per l’ennesima volta i famigliari si erano opposti alla tesi della procura di Venezia che sia stato un suicidio, il gip ha respinto richiesta di archiviazione e ordinato nuove indagini sia sul telefonino della donna che sulla dinamica balistica, visto che la perizia di parte dell’ex generale dei Ris Luciano Garofano dimostrerebbe la presenza di un’altra persona. Sissy fu trovata agonizzante il primo novembre 2016 in un ascensore dell’ospedale di Venezia (dove aveva visitato una detenuta), con un proiettile che le aveva trapassato il cranio e rimase in coma fino alla morte, nel gennaio 2019. “Esprimiamo soddisfazione per il provvedimento del gip - commentano i legali - confidiamo che si arrivi alla verità”. Ricordiamo che nell’autunno del 2019 la Procura ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sostenendo che si è trattato di un suicidio e che non vi è alcun mistero da chiarire (la morte della giovane è avvenuta il 12 gennaio del 2019, dopo due anni di calvario). Ma, a gennaio del 2020, una detenuta del carcere della Giudecca, ha rivelato all’allora comandante della polizia penitenziaria, alcuni episodi a sua conoscenza che indicano una collega di Sissy come possibile responsabile dell’uccisione, su mandato di alti vertici del carcere. l tutto perché la ventottenne sarebbe stata considerata una presenza scomoda, alla luce delle ripetute segnalazioni presentate ai superiori su giri di droga nelle celle, ma anche e soprattutto su rapporti sentimentali (e sessuali) tra detenute e agenti di custodia. Da allora il pm Elisabetta Spigarelli ha eseguito una serie di accertamenti alla ricerca di eventuali conferme e riscontri, senza trovarli, e la detenuta è finita sotto accusa per il reato di calunnia per aver accusato l’agente di polizia penitenziaria di omicidio pur sapendola innocente. La Procura ha già chiesto il suo rinvio a giudizio: tra le cose da chiarire al processo vi è il perché la detenuta abbia deciso di fare le sue rivelazioni a distanza di oltre due anni dal fatto. Nel frattempo era uscita dal carcere grazie ad alcuni permessi. Dopo una seconda richiesta di archiviazione respinta, arriva infine una terza: dopo l’udienza di inizio luglio, in cui per l’ennesima volta i famigliari si erano opposti alla tesi della procura di Venezia che sia stato un suicidio, il gip Silvia Varotto ha respinto l’ennesima richiesta di archiviazione e ordinato nuove indagini su due dei punti evidenziati dai legali della famiglia, gli avvocati Eugenio Pini e Girolamo Albanese: il primo è la richiesta di geolocalizzazione del telefono, che venne ritrovato nel suo armadietto ma che secondo i famigliari lei non mollava mai; il secondo è un approfondimento della dinamica balistica dopo che la perizia di parte dell’ex generale dei Ris Luciano Garofano avrebbe dimostrato che non è stato un suicidio, ma che c’era un’altra persona. Edoardo Albinati: istruzioni per uscire dal mondo di Stefania Parmeggiani La Repubblica, 2 settembre 2022 Un detenuto folle, una ragazza con una strana malattia, un artista misantropo. Nel suo libro di racconti lo scrittore si immerge in tre forme di isolamento. E qui ci parla anche delle sue paure. Castiglione della Pescaia (Grosseto). Case di pietra e mattoni immerse nella pineta di Roccamare, chilometri di verde a pochi passi dal mare. Il silenzio, l’odore della salsedine e i fantasmi di alcuni tra i nostri più grandi scrittori. Italo Calvino ambientò qui alcune riflessioni del suo alter ego Palomar e nella sua ultima estate, mentre scriveva quelle Lezioni americane che avrebbe dovuto leggere ad Harvard, passeggiava tra questi viali ombrosi e sulla deserta spiaggia tirrenica a braccetto con Pietro Citati. Fruttero, insieme a Lucentini, vi ambientò il suo Enigma in luogo di mare, tratteggiando tutti i tipi umani che vi avrebbero abitato, eccetto uno di recente arrivo: il russo miliardario che all’eleganza discreta di villette invisibili dalla boscaglia preferisce il lusso ostentato di giardini scolpiti e cubature fuori misura. Oggi a farci strada in un mondo isolato, una nicchia lontana dal turismo festoso dell’Argentario, è Edoardo Albinati, scrittore Premio Strega con La scuola cattolica e insegnante nel carcere romano di Rebibbia. Inforca una vecchia bicicletta e dalla villetta costruita dal padre - figura enigmatica a cui dedicò il memoir Vita e morte di un ingegnere - pedala su una stradina sterrata fino al mare: “Faccio il bagno la mattina presto, quando non c’è nessuno”. È il luogo perfetto per parlare di solitudine, tema sfuggente e mutevole al centro dei tre racconti che Albinati ha raccolto nel suo nuovo libro: Uscire dal mondo (Rizzoli). Un detenuto folle, una ragazza afflitta da una misteriosa malattia, un artista misantropo sono i protagonisti che si muovono tra ossessioni che riguardano tutti: la paura del giudizio altrui, il desiderio di essere compresi, la tentazione della fuga. Albinati lo presenterà il 4 settembre al Festival della Mente di Sarzana. Da dove nasce questo titolo? “Leggendo un libro di Hannah Arendt mi sono imbattuto in un suo pensiero, e cioè che, anche volendolo, è sul serio impossibile uscire dal mondo. Mi è sembrato rispecchiare il senso profondo delle mie novelle, il loro tema comune, cioè l’isolamento, che può essere coatto e quindi sofferto, oppure un desiderio legittimo, quello di essere finalmente lasciati in pace”. I tre racconti sono nati assieme? “No, in tempi diversi. Quello che chiude la raccolta, Oubliette, dal nome di quelle prigioni sotterranee del Medioevo a cui si accedeva solo tramite una botola posta sul soffitto, l’ho scritto e riscritto molte volte, risale a un’era quasi geologica”. È un flusso di pensieri ininterrotti, un’unica frase senza neanche un punto... “Volevo un’unica colata, un getto di parole che prendesse insieme il protagonista, il suo cane spelacchiato, la vecchia zia attrice... Penso che la pretesa della riconoscibilità autoriale vada superata. Insomma, io sono il contrario di Carver, che è sempre il magnifico Carver, io invece adopero per ogni storia uno stile diverso”. Da dove nasce questo compositore che si allontana da tutti? “Mi sono servito come modello di una persona realmente esistita, un caro amico, ma poi il personaggio ha preso vita propria ed è diventato altro. Spesso alla base delle mie storie ci sono personaggi reali che poi spregiudicatamente trattati diventano letterari. In questo non ho scrupoli”. Che idea ha della letteratura? “È l’unico luogo dove la proprietà privata è sul serio abolita. Quando scrissi 19, diversi lettori mi dissero di aver amato una certa pagina, dove si dice che il vero mistero non è perché siamo stati cacciati dal paradiso terrestre, ma perché non riusciamo a farvi ritorno. Be’, in effetti è un pensiero bellissimo, è infatti l’ha scritto Kafka! Non è roba mia. L’ho rubata. La mia idea di scrittura è piuttosto quella di un redattore che trova materiali vitali e poi li assembla, li fa parlare, e inventa perché ci sono buchi da riempire, una trama da costruire. Anche la nostra memoria in fondo funziona così”. La professoressa del primo racconto, Ragazzo A, è una sua collega del carcere di Rebibbia? “Quando l’ho scritto forse pensavo a me stesso. Però io in carcere non ho mai pianto... anche se ne ho avuto voglia. Dunque, quella prof sono io oppure è una mia collega? O è solo un personaggio di finzione?”. Com’è cambiata la sua percezione del carcere dai tempi di Maggio selvaggio, diario del suo primo anno di docenza a Rebibbia, a oggi? “È triste dirlo, ma dopo ventotto anni di lavoro lì dentro la mia percezione è rimasta la stessa, e dunque è peggiorata perché da allora si è perso quel po’ di speranza che le cose potessero migliorare”. Il secondo racconto, invece, è una storia corale. Qual è stata la scintilla? “L’idea della malattia inspiegabile. Colpisce la protagonista come fosse un castigo divino, e da qui per associazione è nata la figura del prete. E poi il suo alter ego laico, un farmacista per cui ho preso a modello il monsieur Homais di Madame Bovary”. Non possiamo anticiparla, ma possiamo soffermarci sulla predica del sacerdote, un ragionamento sul confine sottile tra la vita e la morte... “Sono affascinato dall’idea della resurrezione. Esiste una possibilità che non si muoia veramente, e del resto, anche se così non fosse, se morirò io qualcun altro vivrà. Si viene sostituiti, la vitalità non ha fine”. Che cosa l’affascina della religione cattolica oltre alla resurrezione? “Sembrerà strano, ma è la razionalità. Credo che la logica con cui ho imparato a ragionare si debba ai miei anni alla scuola cattolica. E forse i preti sono tra gli ultimi a provare a fare dei ragionamenti”. I ragionamenti sono scomparsi dalla scena pubblica? “Sono anni che non sento fare un ragionamento articolato, che seppur non condivido sia in grado di farmi riflettere. La politica attuale ha sostituito qualsiasi pensiero con gli slogan e le promesse, ma adesso sinceramente preferirei non parlare di politica. Siamo in campagna elettorale, non mi va di entrare nella canea”. Torniamo alla solitudine. La cerca o la rifugge? “Sono una persona poco socievole, però terrorizzata dalla solitudine. Non amo stare da solo e soffro con gli altri, però ho imparato a starci. Mi sono sporto fuori da me stesso con un enorme forzo e oggi oscillo continuamente tra i due poli. Non ho timore di dichiararmi totalmente incoerente. Del resto, se ho una tipicità come persona, è proprio quella di attraversare continuamente una soglia, faccio la spola tra mondi opposti: da un lato il carcere, l’estrema povertà, i rifugiati, dall’altro la vita borghese e le aspirazioni intellettuali. Il concreto e l’astratto”. Per scrivere ha bisogno di isolarsi? “Ma no! Ricordo Giambattista Vico che scrisse la Scienza Nuova in un tugurio con i bambini attaccati alle gambe. Non ho bisogno di nulla se non della mia energia, quando c’è attorno a me può infuriare anche la tempesta”. E come scrive? D’impulso, rileggendosi subito, tornando sulle frasi? “Scrivo a mano e vado come una freccia perché non ho distrazioni e non ho la tentazione di fermarmi e correggere. La scrittura a mano ha una sua fisicità, come quando corri o nuoti, dopo un po’ rompi il fiato”. Nel libro scrive i trans, plurale maschile. Non è politicamente scorretto? “Forse, ma in galera si dice così. Avrei dovuto scrivere “le persone transessuali”? Sono sensibile ai temi di genere nella realtà sociale, ma trovo ipocrita risolverli in chiave del linguaggio, come se fosse il linguaggio a comandare la realtà e non la realtà il linguaggio. La lingua non si impone per legge”. Che cosa pensa dello schwa? “Per gli usi burocratici va benissimo. Però se ho qualcosa di scritto devo anche essere in grado di leggerlo a voce alta. Viene prima la voce e poi la scrittura. Il linguaggio naturale e quello letterario potranno pure infastidire, ma pazienza, non sono mica fatti per coccolare. Se no andrebbe censurato il 90 per cento della letteratura”. Cosa che in parte sta accadendo... “La cancel culture è espressione di movimenti neopuritani, mentre la letteratura è il regno del desiderio e della libertà e dunque anche del rischio. Che qualcuno possa offendersi leggendo un libro è un segno di vitalità. Immaginiamo una letteratura del tutto inoffensiva: che orrore! Gli unici problemi per un artista sono di natura artistica. Essere un pessimo artista, un pessimo scrittore, questo sì che è offensivo”. Lo scrittore è apolitico? “Non in quanto cittadino, ma in quanto scrittore è impolitico. Io quando scrivo non voglio essere il paladino di niente. Perché se vuoi fare il paladino, fai un’azione politica”. È sicuro? In Cronistoria di un pensiero infame ha parlato di immigrazione. E non è stato l’unico caso... “Certo, ma l’ho fatto solo per chiarire un po’ di cose, diciamo, per un puntiglio illuminista. Adesso, per esempio, qualcuno invoca il blocco navale contro l’immigrazione, ma sapete cosa significa, nella pratica? Che se una barca prova ad aggirare il blocco va speronata e affondata. In mare funziona così, in mare non ci sono strade segnate. Dunque, questa mia sarebbe una posizione ideologica? Non credo”. La protesta e la censura di Concita De Gregorio La Repubblica, 2 settembre 2022 A proposito di parlarne prima e non piangerci dopo. È vero che i sondaggi sono fatti della materia delle intenzioni, impalpabile e mutevole, dunque valgono soprattutto per passare il tempo a discuterne in attesa di vedere davvero come va. Ma se ne possono fare di propri, possibilmente a campione casuale - cioè non fra gli amici e conoscenti, che sono quasi sempre una bolla di omologhi, ma fra gli sconosciuti che si incontrano alla fermata dell’autobus, le persone in fila dal tabaccaio, al bancone del bar. Così, in quella specie di confidenza che si genera nella comune attesa, far cadere un “che momento, eh?”, e vedere la conversazione dove va. Io, nel mio piccolo sondaggio, non ho ancora trovato nessuno, ma proprio nessuno che mi abbia detto con sicurezza: vado a votare, so per chi. Quasi tutti, al contrario, hanno detto: non so proprio chi votare, forse non vado. La categoria degli astenuti, che si annuncia di gran lunga il primo partito italiano, è composta da persone di ogni genere: ci sono quelli mossi da antica e pervicace convinzione, veri militanti dell’assenza, ci sono gli indolenti, gli impossibilitati, gli indifferenti, i confusi. Fra i confusi, appunto, gli indecisi. Che di solito all’ultimo decidono, però. Mi sento di dire che questa volta all’abituale categoria degli indecisi generici se ne aggiunge una di indecisi specifici, incazzatissimi. Non è che tentennino fra varie opzioni: è che le trovano tutte scadenti (non usano questo aggettivo, lo dicono peggio di così). Qualcuno mi ha chiesto se abbia ancora senso votare scheda bianca: se sia una forma di protesta utile. Mi hanno detto: in fondo, è l’unica forma di censura che abbiamo. Questo sento dire, questo vi riporto. Pietro Bartolo: “Salvini e Meloni usano i migranti per distrarre gli elettori” di Luca Attanasio Il Domani, 2 settembre 2022 Dopo gli studi di medicina a Catania, Pietro Bartolo è diventato, agli inizi degli anni 90, responsabile del poliambulatorio di Lampedusa. La sua vicenda ha fatto il giro del mondo grazie al documentario di Gianfranco Rosi Fuocoammare, orso d’oro a Berlino. Nel 2019, ha fatto il pieno di voti alle elezioni europee, raccogliendo oltre 270mila preferenze nelle circoscrizioni Italia insulare e Italia centrale. Oggi è vicepresidente della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del parlamento europeo. “La retorica dei salvatori della patria, con slogan tipo “zero immigrati” distrae gli elettori facendogli credere che zero migranti significhi zero problemi”. Figlio di pescatori lampedusani, pescatore a sua volte in giovinezza, Pietro Bartolo conosce molto bene il mare, le sue ricchezze e i drammi che avvolge e inabissa. La solidarietà profonda verso gli esuli dei nostri tempi la sviluppa fin da giovanissimo quando, a bordo del peschereccio del padre, ha sperimentato il terrore del naufragio: “Tornato miracolosamente salvo a casa, la mia famiglia decise che avrei dovuto fare un altro lavoro”. Dopo gli studi di medicina a Catania, è diventato, agli inizi degli anni ‘90, responsabile del poliambulatorio di Lampedusa. La sua vicenda ha fatto il giro del mondo grazie al documentario di Gianfranco Rosi Fuocoammare, orso d’oro a Berlino, una candidatura agli Oscar e premi di ogni ordine e grado. Nel 2019, ha fatto il pieno di voti alle elezioni europee, raccogliendo oltre 270mila preferenze nelle circoscrizioni Italia insulare e Italia centrale. È il medico che ha visitato il numero più alto di persone (350mila) sul molo della sua amata isola e quello ad aver fatto il maggior numero di ispezioni cadaveriche. A contatto con l’umanità dolente, sa che la questione delle migrazioni sembra un fenomeno irrisolvibile solo a causa di politiche nazionali ed europee ingiuste frutto di retoriche improponibili. In caso di vittoria Giorgia Meloni ha promesso che tra le prime misure di urgenza adotterebbe un blocco navale, lei cosa ne pensa? “Come sempre sia Meloni che Salvini ogni volta che c’è odore di elezioni cominciano a far credere ai cittadini che il primo problema d’Italia siano qualche decina di migliaia di migranti. Immagino che la leader di FdI non sappia esattamente cosa comporti un blocco navale, un intervento militare gravissimo che mira ad affondare le navi in caso di attacco nemico. Oltre che inapplicabile per accordi sarebbe una spesa che creerebbe, quella sì, problemi agli italiani. Salvini invece invoca una difesa dei confini come se fossimo davanti a un’invasione nemica in numeri sproporzionati. Non ha alcun senso, primo perché non c’è alcuna invasione e secondo perché non c’è alcuna intenzione bellicosa tra chi arriva nelle nostre coste. Eppure su una narrazione totalmente lontana dalla verità, si passa all’incasso di facili voti. Ma la gente non ha colpa, la responsabilità risiede in chi semina odio e paura, come quando si insiste sulle presunte malattie che diffonderebbero i migranti: in 30 anni di attività e 350mila visite, non ho mai riscontrato una malattia infettiva grave. La retorica dei salvatori della patria, con slogan tipo “zero immigrati” distrae gli elettori facendogli credere che zero migranti significhi zero problemi”. Dieci giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’Ue, ha dato attuazione, per la prima volta in 21 anni, alla direttiva sulla “protezione temporanea”. Grazie a quella scelta, sei milioni circa di cittadini ucraini sono potuti entrare legalmente in Ue e hanno usufruito di un permesso temporaneo di un anno con proroga automatica per un altro anno. Ciò ha azzerato le attività dei trafficanti e ha permesso a milioni di persone essere accolte e integrarsi senza particolari sofferenze nel sistema. Perché non si riesce a immaginare qualcosa di simile per profughi di altre provenienze? “In quella occasione l’Ue all’unanimità ha attivato la direttiva 55 che non era stata mai attivata prima sebbene continuiamo a richiederlo da tento tempo. Ci dicevano “i numeri sono troppo esigui per attivarla”, ma come? Non siete voi che dite che siamo invasi? È assurdo. L’Ue che accoglie sei milioni di persone in sei mesi è l’Europa che vogliamo tutti, quella che sogniamo, che compie il mandato per cui è nata. La Polonia, sempre contraria alle politiche migratorie di accoglienza, è stata straordinaria. È impossibile allora non chiedersi: come ci comportiamo verso poche decine di migliaia di persone che richiedono di entrare a sud del Mediterraneo o a est, proprio al confine tra Bielorussia e Polonia? Sono stato di persona ai confini tra Polonia e Bielorussia e tra Croazia e Bosnia e ho visto persone torturate, lasciate morire all’addiaccio d’inverno dalle polizie europee. Vogliamo parlare di quelle ricacciate nei lager libici? Inutile girarci intorno, questo è razzismo verso chi è appena diverso da noi perché non europeo, non cristiano, non bianco”. Da anni si parla di riforma di Dublino, di nuovi approcci della Ue alle migrazioni, ma al momento, se si eccettuano gli ucraini, l’Unione si segnala per la costruzione di muri ai confini, per maltrattamenti e torture delle polizie di frontiera e, soprattutto, per un sistema di gestione dei flussi che fa la ricchezza dei trafficanti e genera morte. Lei è vicepresidente della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del parlamento europeo, può dirci a che punto è il dibattito a Bruxelles? “Sono andato a Bruxelles proprio per occuparmi della questione, per cercare di cambiare il sistema di Dublino che, attraverso una risoluzione, è stato giudicato un fallimento. Il Patto europeo su migrazione e asilo del 2020, che avrebbe dovuto rivoluzionare le politiche migratorie segue in realtà la stessa strada addirittura con incombenze maggiori a carico dei paesi di primo ingresso (in maggioranza dei casi, Italia, Cipro, Malta, Spagna e Grecia, ndr) che devono accollarsi il peso dell’accoglienza mentre il sistema dei ricollocamenti è un flop totale. Come relatore ombra sto cercando arrivare a un compromesso e di far diventare il caso “accoglienza ucraina” un precedente da cui partire. Bisogna puntare sul cambiamento del principio del primo ingresso e sul rendere quello del ricollocamento, oltre che efficace, obbligatorio. È un fenomeno che necessità di una risposta comune esattamente come è avvento per l’Ucraina, per la pandemia, per i vaccini o il Recovery fund”. Migranti. Quindicenne torturato in Libia, il video choc di Fabio Tonacci La Repubblica, 2 settembre 2022 Un telefonino riprende l’ennesimo sopruso ai danni di un migrante. Questa volta tocca al giovanissimo Mazin, proveniente dal Darfur, preso a bastonate e minacciato con un mitra. L’attivista, capomissione di Mediterranea, ai leader di Lega e FdI: “Decidendo di lasciare lì donne, uomini e bambini ne ordinate la crocifissione”. Di cosa parliamo quando parliamo dei richiedenti asilo in Libia? Di Mazin in ginocchio che piange. Di un ragazzo di quindici anni proveniente dal Darfur che la vita ha messo all’angolo e, peggio ancora, di fronte a un carceriere libico che lo minaccia e lo pesta con un bastone. Non bastano le lacrime di Mazin a fermare lo spettacolo osceno. Non bastano le braccia protese verso il suo aguzzino, come una preghiera, perché la violenza si interrompa. Di là dal mare, nei centri di detenzione, non c’è pietà e non c’è redenzione. Queste torture accadono ogni giorno, ogni ora. Su donne, bambini, uomini inermi. Un filmato rubato chissà come e chissà come consegnato agli attivisti, che è ovviamente choc e ovviamente disturbante, ogni tanto appare sulla Rete per ricordarcelo. Il video dell’ennesimo sopruso nelle prigioni libiche questa volta lo diffonde su Twitter Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans, la piattaforma civica di salvataggi in mare. Casarini lo posta con un messaggio rivolto a chi, in queste ore, vedendosi già a Palazzo Chigi evoca blocchi navali a sud della Sicilia e il ritorno a decreti sicurezza definiti illegittimi dai giudici italiani. “Fallo vedere ai tuoi figli, Matteo Salvini, dove vuoi lasciare queste donne, uomini e bambini. E anche tu, Giorgia Meloni, faglielo vedere, tu che sei cristiana, cosa vuol dire ordinare la crocifissione per migliaia di poveri cristi”, scrive Casarini. “Un giorno ci sarà una Norimberga per questi signori”. Quel ragazzo a terra, seminudo, minacciato con un fucile e colpito con un bastone, è nato nel Darfur, in Sudan. “Uno di quei Paesi per cui dovrebbe essere automatico il riconoscimento dell’asilo”. Mazin ha vissuto a Gargaresh, quartiere di Tripoli per metà dormitorio per metà nascondiglio per migliaia di profughi e migranti. È anche un’attivista, in Libia ha lottato per tutelare i diritti di ragazzi e ragazze come lui. Dopo la retata delle forze speciali libiche a Gargaresh, è stato per tre mesi davanti alla sede tripolitana dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. L’hanno chiamata “la protesta dei 100 giorni”. Con lui c’erano centinaia di migranti. Inutilmente. Ai leader della mobilitazione stanno ancora dando la caccia. “Lui lo hanno preso, arrestato e condotto nel campo di Ain Zara”, sostiene Casarini, entrato in possesso di quei pochi secondi di filmato girato con un telefonino grazie alla rete “Refugees in Libya”. Aggiunge delle cifre: “L’anno scorso 32 mila persone catturate in mare e rinchiuse nei campi di concentramento libici, il 20 per cento sono bambini e minori, deportati grazie anche alla collaborazione e al finanziamento del Governo italiano alla cosiddetta guardia costiera libica”. I numeri sono difficili da verificare, nel marasma libico sconvolto da lotte di potere e quotidiani scontri a fuoco tra milizie. Migliaia di richiedenti asilo, migliaia di Mazin imploranti aiuto, sono in trappola. E assistono alla costruzione di muri invisibili, nel tratto di mare che li separa dalla salvezza. Stati Uniti. Hanno crocifisso James, ed io ero con lui di Don Heath* Il Riformista, 2 settembre 2022 Il governatore dell’Oklahoma gli ha negato clemenza 24 ore prima dell’esecuzione senza fornire una ragione. Sono stato al suo fianco fino alla fine e vi dico: è morto da uomo cambiato. Mettendo a morte James Coddington il 25 agosto scorso, l’Oklahoma ha effettuato la prima delle 25 esecuzioni dei prossimi due anni. Il Governatore Kevin Stitt, Repubblicano, gli ha negato quella clemenza che lo stesso Pardon and Parole Board dello Stato aveva raccomandato. Invece, nelle sue ultime parole sul lettino dell’esecuzione, Coddington lo ha perdonato. Dopo di lui, la macabra danza della morte ha fissato i passi successivi: le date di esecuzione sono state già decise per altri 24 uomini entro la fine del 2024. Ora ci sono 42 uomini e una donna nel braccio della morte dell’Oklahoma. Se non cambierà nulla ne rimarranno meno della metà. Il Rev. Don Heath, ministro dei Discepoli di Cristo della Edmond Trinity Christian Church e presidente della Coalizione dell’Oklahoma per l’Abolizione della Pena di Morte, era presente come consigliere spirituale di Coddington durante l’esecuzione nel Penitenziario di McAlester. Quella che segue è la sua testimonianza pubblicata sul The Oklahoman il 28 agosto scorso. Sono stato nella camera della morte con James Coddington negli ultimi 45 minuti della sua vita. Quando sono entrato, era già legato a una barella con le braccia tese, come se fosse su una croce, solo che era sdraiato sulla schiena. Aveva una flebo attaccata al braccio. La sua unica preoccupazione nell’ultima settimana era che il Governatore Kevin Stitt decidesse sulla clemenza. “Vorrei che il Governatore prendesse una decisione… in un senso o nell’altro”. Il 3 agosto, il Pardon and Parole Board aveva raccomandato di commutare la condanna a morte in ergastolo senza possibilità di uscita, ma l’ultima parola spettava al Governatore. Stitt ha preso la sua decisione meno di 24 ore prima dell’esecuzione con un comunicato in cui non ha fornito una ragione per negare la clemenza. Per i primi 10 o 15 minuti, James ne ha parlato. Non capiva perché Stitt avesse aspettato così a lungo. Era turbato dal fatto che non avesse dato una spiegazione. Era deluso ma accettava il suo destino. Ha detto che era stato punito per aver ucciso il suo amico Albert Hale e lo ha accettato. Pensava però di avere molto di più da dare, di poter aiutare la comunità in carcere, ma se quella era la volontà del Governatore, non poteva farci niente. Ho tenuto per lui una breve funzione religiosa negli ultimi 10 minuti prima dell’inizio dell’esecuzione. Ho detto a James che era un amato figlio di Dio, che ogni uomo nel braccio della morte è un amato figlio di Dio, che il Governatore Stitt è un amato figlio di Dio e che Dio perdona i suoi peccati. Ho pronunciato le parole che i ministri dicono sulla tomba: “dalla cenere alla cenere, dalla polvere alla polvere”. Ho pregato per lui e gli ho parlato delle persone che lo amano. Quando alle 10 la tendina si è alzata per far vedere la scena ai testimoni, le sue ultime parole sono state di amore per la sua fidanzata e i suoi tre figli, per suo fratello e sua nipote, per il suo avvocato e il suo investigatore, per me, per le altre persone che lo hanno sostenuto. Una volta partita la procedura letale, gli ho letto le Scritture. Ho iniziato con le Beatitudini. Poi ho letto da Isaia 40 e Geremia 31 le parole sul perdono di Dio dei peccati dei suoi figli. James era stato tranquillo fino a quel punto, poi aveva avuto un’ultima ondata di energia, come a volte hanno i morenti. Ha detto: “Padre, perdona i miei peccati”. Ho detto: “I tuoi peccati sono perdonati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Quelle sono state le sue ultime parole. Ho continuato a leggere la Scrittura e lui ha iniziato a russare. Alle 10:15 Scott Crow, direttore del Dipartimento di correzione dell’Oklahoma, è entrato nella stanza e lo ha dichiarato morto. James è morto da uomo cambiato. È stato un prigioniero modello per 15 anni. L’ho visitato nel braccio della morte per diverse ore nell’ultimo mese. Non l’ho mai visto amareggiato o arrabbiato. Ha ripetutamente riconosciuto il suo crimine e ha espresso rimorso per aver ucciso Albert Hale. Il Pardon and Parole Board lo ha riconosciuto. Il Governatore Stitt no. Lo Stato dell’Oklahoma ha programmato altre 24 esecuzioni nei prossimi 29 mesi. La mia speranza non sta in questo Governatore o questo Procuratore Generale. Mi pare non siano in grado di avere pietà per i condannati a morte, a meno che non ci sia una motivazione politica. La mia speranza è che il popolo dell’Oklahoma manifesti ripulsa e riconosca che la pena di morte è un omicidio senza senso di una persona indifesa che ha commesso un crimine 25 anni fa. Non penso che i detenuti nel braccio della morte siano il peggio del peggio, sono gli ultimi degli ultimi. Il peggio del peggio sono coloro che usano la macchina statale della morte per uccidere persone inermi. E temo che continueranno su questa strada fino a quando la gente non dirà: “Basta”. *Cappellano del carcere di McAlester (Oklahoma) Cina. L’Onu: “Abusi in Xinjiang”. Ma non è un genocidio di Alessandra Colarizi Il Manifesto, 2 settembre 2022 Cina. L’atteso rapporto dell’Onu sulle condizioni della regione dove vive la minoranza musulmana degli uiguri chiede alle autorità cinesi provvedimenti per chiudere i centri di rieducazione. Pechino risponde: menzogne. Ma l’intenzione di cambiare strategia, usando l’economia, è già in fieri. Nella regione cinese del Xinjiang sono in corso “gravi violazioni dei diritti umani”. È quanto emerge dall’atteso rapporto dell’Onu sui presunti abusi subiti dalle minoranze islamiche nelle aree di confine tra la Cina e l’Asia centrale. L’indagine, rilasciata intorno alla mezzanotte di mercoledì, cita resoconti “credibili” di tortura, lavoro coatto, violenze sessuali, sterilizzazioni forzate e altre forme di trattamento disumano tra il 2017 e il 2019. Il corposo report - 48 pagine - si basa su documenti ufficiali, racconti di ex detenuti nonché su quanto osservato da Michelle Bachelet durante una controversa visita in Cina nel mese di maggio. La prima di un Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani dal 2005, sebbene avvenuta sotto stretto controllo delle autorità cinesi. Da tempo studi indipendenti attestano l’esistenza di un sistema di centri di detenzione extragiudiziale e lavoro forzato per le minoranze musulmane, che Pechino chiama “scuole” per la “rieducazione” degli elementi radicalizzati. Il rapporto dell’Onu definisce la campagna antiterrorismo del governo cinese “profondamente problematica secondo gli standard internazionali sui diritti umani” e accenna al rischio di “crimini contro l’umanità”. Ma non conferma le accuse di “genocidio” supportate da Washington e alcuni parlamenti europei. Le autorità cinesi sono state invitate a prendere “prontamente provvedimenti per rilasciare tutte le persone arbitrariamente private della loro libertà” e a intraprendere “una revisione completa del quadro giuridico che disciplina la sicurezza nazionale, l’antiterrorismo e i diritti delle minoranze”. L’indagine sembra così riconoscere l’esistenza di un problema di estremismo nel Xinjiang, ma considera deplorevoli i metodi coercitivi impiegati da Pechino per sradicare il fenomeno su base etnica e religiosa. Commentando il report, la Cina ha definito le accuse “menzogne fabbricate da forze anti-Cina”, e sostiene che il programma sia terminato nel 2019. Il rapporto - che Bachelet definì “in fase finale” un anno fa - è stato divulgato in versione edulcorata solo pochi minuti prima della scadenza del suo mandato. Tempistiche su cui pare abbiano inciso le pressioni cinesi e di alcuni paesi “amici”. Negli ultimi anni la crescente influenza all’interno dell’Onu ha permesso a Pechino di stemperare alcune delle mozioni più critiche. A metà agosto la Cina ha presentato i documenti di ratifica di due Convenzioni dell’Ilo sul lavoro forzato. Mossa che è parsa voler creare un clima distensivo proprio in vista del report e di un possibile inasprimento delle regole sulle importazioni nell’Ue - il Xinjiang è uno dei principali produttori mondiali di cotone e materiali per pannelli solari. Sotto il pressing internazionale, da tempo Pechino dà cenni di voler cambiare la propria strategia in Xinjiang, puntando di più sull’economia. A luglio il presidente Xi Jinping è tornato nella regione occidentale a otto anni dalla sua ultima visita. Stavolta il leader non ha parlato di terrorismo, bensì di nuova via della seta e “unità” etnica, descrivendo il Xinjiang come uno snodo chiave per i commerci verso l’Europa. Tra le righe, tuttavia, si scorge il non meno preoccupante tentativo di cancellare le radici culturali delle minoranze centroasiatiche. Mentre era in viaggio Xi è ricorso con insistenza al termine Zhonghua (“civiltà cinese”), concetto inclusivo seppur vago che riconduce a millenni prima della fondazione della Repubblica popolare l’esistenza di un’identità cinese astorica, a cui fanno capo tutte le etnie. Segno che nel Xinjiang il processo di sommersione etnica probabilmente continuerà. Con modalità nuove, forse meno aggressive, ma continuerà.