Più telefonate per i detenuti, ma il nuovo governo cosa farà? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 settembre 2022 Finalmente lunedì scorso è stata diramata la Circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) sulle telefonate e colloqui tra detenuti e famigliari annunciata dal capo del Dap Carlo Renoldi a Radio Radicale. Di fatto è una sorta di stabilizzazione dell’esistente, ribadendo ai direttori del carcere la loro possibilità discrezionale di autorizzare i colloqui visivi o telefonici oltre i limiti stabiliti dal regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario. Di fatto non rivoluziona nulla, ma il contenuto della circolare, soprattutto la parte in cui spiega l’importanza dei colloqui e quindi del mantenimento dell’affettività, può aprire la strada al cambiamento. Ovvero alla modifica del regolamento penitenziario del 2000, dando così, a questa decisione, un quadro regolamentativo ampio e definitivo. Ma questo dovrà essere il compito del nuovo governo capitanato dalla leader di Fratelli D’Italia Giorgia Meloni, che almeno all’apparenza è poco incline all’umanizzazione della pena. La circolare, in premessa, parte dagli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, che tutelano la famiglia e i suoi componenti, e l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, a mente del quale “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”, riconoscono a ciascun individuo il fondamentale diritto al mantenimento delle relazioni socio- familiari. Le limitazioni all’esercizio di tale diritto devono essere previste dalla legge e possono essere giustificate unicamente da esigenze di pubblica sicurezza, di ordine pubblico e di prevenzione dei reati, nonché di protezione della salute o dei diritti e delle libertà di altre persone. Coerentemente con la richiamata cornice costituzionale e convenzionale, l’articolo 28 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (la legge penitenziaria) stabilisce che “particolare cura e dedicata a mantenere, migliorare, o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. E a tal fine, numerose disposizioni dell’ordinamento penitenziario valorizzano i colloqui visivi e la corrispondenza telefonica, quale strumento per l’esercizio del diritto delle persone detenute al mantenimento delle relazioni con i propri congiunti. Uno è quell’articolo 73, comma 3, del regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, che contempla il mantenimento del di ritto ai colloqui con i familiari anche nel caso in cui la persona detenuta venga sottoposta alla sanzione disciplinare della esclusione dalle attività in comune. Dunque - sottolinea la circolare - per tutte le persone detenute o internate, indipendentemente dal regime penitenziario cui sono sottoposte e dal circuito in cui sono inserite, la legge penitenziaria e il relativo regolamento di esecuzione stabiliscono la possibilità di avere contatti con l’ambiente esterno secondo tre modalità fondamentali: i colloqui visivi, telefonici ed epistolari. Quest’ultima, da sempre, è stata per via cartacea, ovvero la classica lettera. Ma da tempo, in alcune carceri si sta diffondendo il ricorso alle e-mail, oggi fruibile dalle persone detenute unicamente attraverso il servizio prestato, dietro corrispettivo, da cooperative ed enti di patronato. Il Dap, in questa circolare, spiega che questa innovazione, nel prossimo futuro, imporrà un intervento regolatore da parte del Dipartimento volto a consentire la fruizione di tale strumento, ormai diffusissimo, in un contesto organizzativo al passo con i tempi, in grado di sfruttare, anche in quest’ambito, le opportunità della moderna società tecnologica, ovviamente in condizioni di piena sicurezza rispetto al rischio di un sempre possibile utilizzo illecito del mezzo. Ma anche qui parliamo delle buone intenzioni visto che il Dap, con il nuovo indirizzo di Governo, potrebbe cambiare radicalmente orientamento. Altra modalità innovativa, introdotta nel 2019 e risultata decisiva durante l’eme rgenza covid 19, è l’utilizzo delle videochiamate consentito tramite la piattaforma Skype for business. Con la circolare del 2019, si è specificato che la videochiamata deve essere equiparata ai “colloqui visivi” previsti dall’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario. Successivamente, con l’emergenza legata al Covid-19 e la conseguente necessita, da un lato, di incentivare le forme di comunicazione a distanza rispetto ai colloqui in presenza e, dall’altro lato, di consentire più frequenti contatti tra le persone detenute e l’ambiente esterno, ha portato all’ introduzione di significative novità normative con riferimento ai colloqui e alle telefonate. La parte più significativa è l’aver stabilito che il ricorso alla videochiamata può essere autorizzato oltre i limiti stabiliti dall’articolo 39 del regolamento dell’esecuzione penale. La circolare del Dap, evidenzia che sul versante delle conversazioni telefoniche non sostitutive dei colloqui in presenza previste dal regolamento, si è stabilito, in primo luogo, che la relativa autorizzazione, quando non riguardi i detenuti al 41 bis, possa essere concessa, oltre i limiti stabiliti dal comma 2 del medesimo articolo 39, in considerazione di motivi di urgenza o di particolare rilevanza, nonché in caso di trasferimento del detenuto e, soprattutto, che essa possa essere disposta, addirittura una volta al giorno, ove la corrispondenza telefonica si svolga con figli minori o figli maggiorenni portatori di una disabilità grave oppure con il coniuge, con l’altra parte dell’unione civile, con persona stabilmente convivente o legata all’internato da relazione stabilmente affettiva, con il padre, la madre, il fratello o la sorella del condannato qualora gli stessi siano ricoverati presso strutture ospedaliere. In sostanza si ribadisce l’ampia discrezionalità che hanno i direttori delle carceri su questo fronte. Il Dap dà anche indicazioni operative per il prossimo futuro. Il ricorso alle videochiamate appare certamente da favorire: il colloquio a distanza, secondo quanto viene evidenziato nella circolare, può essere interrotto in ogni caso di condotte inappropriate, consentendo al contempo di soddisfare le sempre essenziali e imprescindibili esigenze di sicurezza. A maggior ragione, secondo il Dipartimento deve essere estesa anche ai detenuti dell’Alta Sicurezza, tenuto conto degli effetti positivi che, anche rispetto ai soggetti inseriti in quest’ultimo circuito, essa ha comportato sul piano trattamentale. La circolare è sicuramente una buona premessa, ma non fa che stabilizzare il presente e senza una vera riforma del regolamento come dice da tempo l’associazione Antigone, non cambia di fatto quasi nulla. Non solo. Se si vuole applicare al meglio, ciò che già è concesso, bisogna anche attuare un piano di adeguamento strutturale. Il Dubbio, sondando un po’ gli umori di diversi direttori del carcere, rileva che diverse strutture penitenziarie hanno ad esempio poche linee telefoniche. Ci sono carceri che hanno un vecchio centralino, e i direttori non possono autorizzare telefonate giornaliere, altrimenti ci sarebbe il collasso. Quindi per garantire l’affettività in carcere ci vuole una modifica del regolamento dell’esecuzione dell’ordinamento penitenziario e un piano di adeguamento attraverso nuove centraline telefoniche, fibre ottiche e sale adeguate. Ci sarà la volontà? Nel frattempo, nei penitenziari aumentano i suicidi e sale la tensione. La risposta non potrà essere quella repressiva, ma solo quella umanitaria come recita il nostro articolo della costituzione italiana. Articolo che non va modificato come era stato paventato da un deputato di FdI, ma semplicemente attuato. Videochiamate per i detenuti? Sono fondamentali di Fulvio Fulvi Avvenire, 29 settembre 2022 Una circolare del Dap normalizza l’uso del telefonino per parlare coi familiari. Provvedimento anche per il sostegno psicologico degli agenti penitenziari di fronte ai suicidi o alle aggressioni. Troppi suicidi in carcere. Dall’inizio dell’anno ad oggi nei 192 istituti penali italiani si sono tolti la vita 65 detenuti: mai così tanti. Una tragica catena che va spezzata. E in attesa di una riforma del sistema penitenziario, che spetta al Parlamento (e anche il regolamento vigente, del 2000, è da adeguare), ecco una circolare del Dap che “stabilizza” le videochiamate e le telefonate dei “ristretti” ai loro familiari anche se rimane il limite di 10 minuti a settimana. Un utile rimedio antisuicidi, anche se insufficiente. Con il provvedimento numero 3696/6146, infatti, “si intende favorire” il ricorso a questo mezzo di comunicazione, definendolo “particolarmente idoneo ad agevolare il mantenimento delle relazioni socio-familiari e soddisfare le imprescindibili esigenze di sicurezza”. Le videochiamate furono introdotte tre anni fa in via sperimentale durante la crisi pandemica, quando arrivarono nelle carceri italiane oltre mille tra cellulari e tablet, adesso vengono riconosciute come un modo ordinario per assicurare a chi vive dietro le sbarre il diritto all’affettività, cioè al mantenimento delle relazioni con i propri cari e con la società, diritto previsto dalla Costituzione. Le videochiamate vengono così estese a tutti i circuiti penitenziari (54mila circa i soggetti interessati), esclusi quelli del regime speciale previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento che riguarda i condannati per reati più gravi che si trovano in stato di isolamento. La circolare individua inoltre alcuni criteri per impedire ai “furbetti” “condotte inappropriate” delle videochiamate e per facilitare il già gravoso compito del personale penitenziario. Il principio è che in un momento di sconforto, quando un detenuto sta sull’orlo della disperazione, una telefonata a una persona cara, poterne vedere il volto e il sorriso, può salvargli la vita. Il capo della Dap, Carlo Renoldi, sottolinea come colloqui e telefonate assumano una “funzione fondamentale sul piano trattamentale, quale modalità di conservazione delle relazioni sociali e affettive nel corso dell’esecuzione penale e quale strumento indispensabile - scrive nella circolare - per garantire il benessere psicologico delle persone detenute, al fine di attenuare quel senso di lontananza dal mondo delle relazioni affettive, che è alla base - aggiunge - delle manifestazioni più acute di disagio psichico, spesso difficilmente gestibili dal personale e che, non di rado, possono sfociare in eventi drammatici”. Agli agenti carcerari si riferisce invece un’altra circolare emanata dal Dap che prevede interventi e percorsi per il loro sostegno psicologico (secondo l’atto di indirizzo della ministra della Giustizia, Marta Cartabia). Si tratta di disposizioni per l’utilizzo del fondo di un milione di euro istituto nell’ultima legge di Bilancio, “per consentire un’azione strutturata e permanente” di aiuto psicologico a beneficio dei poliziotti penitenziari. Con l’intervento di esperti, soprattutto psicologi del lavoro, viene assicurato agli operatori del settore un sistema di supporto, da attivare entro il 15 ottobre, “per affrontare ed elaborare eventi critici e traumatici a cui possono essere stati esposti durante il servizio”: suicidi, tentati suicidi dei detenuti, ma anche aggressioni, rivolte o evasioni. Riforma delle carceri, una Cenerentola dimenticata. Undici richieste al governo che verrà di Valter Vecellio lindro.it, 29 settembre 2022 Il tema è stato abbondantemente ignorato un po’ da tutte le forze politiche che si sono presentate alle elezioni che ci si è lasciati alle spalle. La Giustizia, lo stato semi-comatoso in cui versa da decenni, le riforme possibili, la situazione delle carceri, continuano a essere una sorta di Cenerentola. Quando poi se ne parla e discute, molto spesso è in toni perentoriamente forcaioli e liberticide, il famoso “sbatteteli in galera e buttate via la chiave”. Preoccupati da questo atteggiamento di stolta indifferenza, alcune organizzazioni da sempre in prima fila nella difesa dei diritti civili e umani (“Sbarre di zucchero”, “Nessuno Tocchi Caino”, “Voci di dentro”, “Diritti umani dei detenuti calpestati da uno stato assente”, “Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia”, “Ristretti Orizzonti”), hanno elaborato un documento, significativamente ignorato dai grandi network e mezzi di informazione e comunicazione. Si rileva con preoccupazione che dall’inizio dell’anno, in questi quasi nove mesi, ben 65 persone si sono uccise nelle loro celle: 16 avevano tra i 20 e i 37 anni, 8 avevano oltre cinquant’anni, tra loro quattro donne. Una persona ogni 4 giorni ha infilato la testa attorno a un cappio o ha inalato il gas del fornellino. Nel solo mese di agosto una persona si è suicidata ogni due giorni. Morti di solitudine, paura, disperazione, angoscia. Perché senza speranza. Morti di galera. “Persone”, si legge nel documento, “diventate vittime di un sistema carcere mantenuto in piedi, nonostante i suoi risultati spesso fallimentari, da chi non vuole vedere e da chi non sa gestire il disagio con i giusti strumenti di una società civile, che dovrebbero essere innanzitutto medici, educatori, insegnanti. E poi con politiche per l’inclusione e per l’inserimento sociale e lavorativo. Morti di galera. Morti in una galera dove con la morte e la sofferenza si convive giorno dopo giorno”. Per questo motivo si chiede “che la società non si volti dall’altra parte (non tutta ma tanta parte lo fa) e che si renda conto che, suicidio dopo suicidio, si sta reintroducendo di fatto la pena di morte cancellata con l’entrata in vigore della Costituzione italiana il 1 gennaio 1948. Allo stesso tempo chiediamo che sia finalmente applicato l’articolo 27 della Costituzione al secondo e al terzo comma dove si afferma che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva e che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In particolare, undici le richieste che si avanzano: che si combatta in tutti i modi l’isolamento del sistema carcere, favorendo sempre di più l’ingresso negli istituti della società civile; che le donne in carcere siano rispettate e non schiacciate in un sistema e una organizzazione prettamente maschili; che diventi realtà l’affermazione che nessuna mamma con bambino deve più stare in cella; lo si è detto troppe volte, è ora di tradurlo in pratica; che sia agevolata l’organizzazione di corsie laboratori gestiti dalle associazioni di volontariato, e la vita delle carceri non finisca alle tre del pomeriggio, come succede ancora in moltissimi istituti; che il sistema sanitario prenda in carico davvero le persone e le curi come meritano tutti gli esseri umani, e che ci si ricordi sempre che chi è malato gravemente non deve stare in carcere; che vengano aumentate le ore di colloqui settimanali e liberalizzate le telefonate come accade in molti paesi d’Europa, con telefonini personali per ciascun detenuto abilitati a chiamare parenti e avvocati: non si tratta di un lusso, ma di un po’ di umanità e di rispetto della sofferenza, anche quella delle famiglie; che vengano assunti in misura adeguata operatori, come psicologi ed educatori, che oggi sono del tutto insufficienti; che venga depenalizzato il consumo di sostanze stupefacenti, perché la legge attuale sulle droghe porta spesso in carcere persone che non ci dovrebbero stare; che venga posto un limite all’uso della custodia cautelare - un vero e proprio abuso visto che l’Italia è il quinto Paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare, il 31%, ovvero un detenuto ogni tre; che venga rispettato lo stesso Ordinamento penitenziario, che a più di quarant’anni dalla sua emanazione è ancora in parte inapplicato, come ad esempio là dove parla di Consigli di aiuto sociale, che dovrebbero occuparsi del reinserimento delle persone detenute nella società e non sono mai stati istituiti; che vengano sviluppati e rafforzati programmi per il reinserimento delle persone che escono dal carcere con le misure di comunità, che poi sono l’unico modo vero per porre un freno alla recidiva. Chissà se l’esecutivo prossimo, guidato da Giorgia Meloni, presterà almeno ascolto a queste richieste. I promotori ricordano che “alla base di tutto restano però dei principi di civiltà: la sicurezza si raggiunge facendo prevenzione, la prevenzione si fa migliorando la qualità di vita nelle carceri”. Un problema di non poco conto è costituito dalle scarse risorse; per cui nelle carceri rischia di crollare l’essenziale sistema costituito dal volontariato. Negli ultimi due anni si è assistito a crollo verticale del volontariato in carcere che ha fatto crescere il rapporto tra volontari e detenuti, da 1 a 3,1 del 2019 a 1 a 5,4 nel 2020. Le flessioni maggiori per quello che riguarda le attività religiose (- 61,3%), le attività di formazione e lavoro (- 60,5%), le attività sportive, ricreative e culturali (- 56,5%). Sono dati che si ricavano dalla ricerca “Al di là dei muri”, curate dalle Acli. Il presidente Emiliano Manfredonia, nella nota introduttiva segnala che il senso di questo primo report “consiste essenzialmente nel documentare quello che le organizzazioni di quel mondo composito cechiamo Terzo settore stanno già operando all’interno della realtà penitenziaria e di come esse tendano ad accompagnare i detenuti in un percorso che è indubbiamente afflittivo, ma che deve essere finalizzato alla prospettiva della risocializzazione una volta espiata la pena”. Attualmente il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria spende il 97% dei fondi ad esso assegnati per mantenere gli oltre 200 istituti di pena del territorio, quasi 3 miliardi ogni anno. “Un investimento a perdere se si calcola l’altissimo tasso di recidiva, che porta gli stessi soggetti ad affollare nuovamente le stesse strutture dalle quali dovevano uscire invece rieducati e reinseriti nel contesto sociale”, si sottolinea nel rapporto. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, per il 2020, disponeva di un budget di oltre 3 miliardi di euro (un terzo del bilancio complessivo del ministero della Giustizia). Denaro per il 77,98% destinato ai costi del personale; per la voce “Mantenimento, assistenza, rieducazione e trasporto detenuti” stati stanziati 279 milioni di euro (il 9,28% del budget del Dap). A fronte di investimenti così limitati, il ruolo del volontariato diventa cruciale: le organizzazioni del Terzo Settore forniscono una pluralità di servizi, coinvolgendo migliaia di persone. Vanno poi considerati gli interventi realizzati con fonti di finanziamento esterne: enti locali, fondazioni, aziende, che sostengono le attività delle organizzazioni del Terzo Settore nella realizzazione di progetti all’interno delle carceri, in particolare nel settore del lavoro e della cultura. “A Meloni dico: la pena non è una vendetta” di Paolo Comi Il Riformista, 29 settembre 2022 “Speriamo adesso con il nuovo Parlamento di avere voce in capitolo sui temi della giustizia”, afferma l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali che proprio domani celebreranno a Pescara il loro congresso straordinario. Presidente Caiazza, il vostro congresso, “La giustizia oltre il populismo”, arriva all’indomani delle elezioni per il rinnovo del Parlamento. Che scenario si prospetta per la giustizia penale in Italia? Uno scenario completamente nuovo che noi come Ucpi abbiamo anticipato nei mesi scorsi chiedendo a tutte le forze politiche in campo che si pronunciassero in modo esplicito su quelle che riteniamo essere le priorità in materia di giustizia. Quali sono state le risposte? Se stiamo alle risposte dei rappresentanti dei vari schieramenti, che hanno preso un impegno pubblico, ci dovremmo trovare con un Parlamento che, a prescindere dai futuri assetti di governo, è favorevole alla separazione delle carriere dei magistrati, al divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione da parte del pm, al ritorno della prescrizione ante riforma Bonafede. Pensa che dalle parole si passerà ai fatti? In questi anni ne abbiamo viste e sentite troppe. Bisognerà certamente capire come verranno declinate queste riforme. Per la separazione delle carriere dei magistrati, ad esempio, serve una riforma costituzionale altrimenti è inutile discutere. Cosa la preoccupa di più? Siamo molto allarmati da come si vuole affrontare il tema dell’esecuzione della pena e del carcere, ho sentito parole pericolose. Si riferisce a Giorgia Meloni, prossima presidente del Consiglio, che ha affermato di essere garantista nella fase del processo e giustizialista in quella dell’esecuzione della pena? Esatto. Io credo si debbano sempre tener ben presenti i valori costituzionali. La pena va sempre considerata in ottica di recupero sociale. Declinare la certezza della pena con la certezza del carcere va contro la nostra cultura liberale. Può tracciare l’identikit del futuro Guardasigilli? Dovrà essere un giurista che sappia di cosa si parli e che abbia un alto senso delle Istituzioni. Ma soprattutto che sia espressione di una politica indipendente dalla magistratura. Perché la magistratura, se si fanno riforme come la separazione delle carriere, certamente reagirà ed anche duramente. Come è lo stato della giustizia? Negativo. Servono investimenti in personale amministrativo e in nuovi magistrati. Si sente anche una mancanza ‘fisica’ di strutture. È sufficiente farsi un giro in tribunale per capire di cosa parlo. L’Ufficio del processo voluto dalla ministra Marta Cartabia è stato di aiuto a tal proposito? Guardi, noi l’abbiamo contestato fin dal primo giorno. Invece di assumere a tempo determinato 16mila laureati senza una formazione specifica, che alla fine fanno gli aiutanti delle cancellerie e meno male che non vanno a scrivere le sentenze al posto del giudice, si potevano assumere a tempo indeterminato amministrativi e magistrati. La scorsa settimana lei si è recato a Genova dove i penalisti hanno indetto una giornata di astensione dalle udienze per protestare contro il sostanziale blocco dei dibattimenti a causa del concomitante processo per il crollo del ponte Morandi che ha di fatto paralizzato tutto il tribunale... Pensi che il giorno dell’udienza del processo Morandi, guardando lo statino delle udienze, c’era solo quello e le direttissime. Tutto il resto rinviato. Non si capisce perché un processo per reati colposi debba paralizzare tutti gli altri. Non voglio minimizzare assolutamente cosa è accaduto, ci mancherebbe altro, ma si parla sempre dell’aspettativa delle persone offese. E gli imputati di altri processi non hanno diritto anche loro ad un processo celebrato in tempi rapidi? Vorrei poi sapere quale è stato il criterio per cui si è deciso che questo processo, dove non ci sono detenuti e i reati si prescrivono molto avanti, deve essere celebrato prima di tutti gli altri. La rilevanza mediatica? Riforma Giustizia, processo civile e penale, il sì unanime di palazzo Chigi di Liana Milella La Repubblica, 29 settembre 2022 Cartabia: “Una giustizia più vicina ai bisogni dei cittadini”. Rispettati i tempi imposti dal Pnrr. Garantiti all’Italia 2,3 miliardi di euro. Diventa realtà l’ufficio per il processo, la giustizia riparativa e il tribunale della famiglia. Riti civili più semplici e rapidi. Enrico Costa: “Un grande lavoro di sintesi delle diverse posizioni di partenza”. E annuncia un ddl per separare le carriere di giudici e pm. Ultimo sì per le riforme del processo civile e penale della Guardasigilli Marta Cartabia. Arriva da palazzo Chigi. E chiude un lungo iter parlamentare nel quale non sono mancate le polemiche, da ultimo quelle del M5S, nostalgico delle stesure iniziali dell’ex ministro Alfonso Bonafede, soprattutto per le norme penali. Ma alla fine, dal consiglio dei ministri, arriva invece un sì unanime. E alla Camera, un mese fa, anche Fratelli d’Italia, pur all’opposizione del governo, si era astenuta sulla riforma penale. Il definitivo via libera garantisce soprattutto il rispetto dei tempi obbligatori previsti dal Pnrr. Il 19 ottobre per la riforma penale e il 26 novembre per quella civile. In ballo ci sono i 2,3 miliardi di euro che andranno alla giustizia. Uscendo dalla riunione la ministra Cartabia non ha nascosto la sua soddisfazione, ringraziando il suo staff e gli altri tecnici di Palazzo Chigi, per aver “completato tutti i compiti”. Ha ripetuto che “la missione è stata compiuta e all’unanimità”. La Guardasigilli ha parlato di “riforme di sistema per i bisogni dei cittadini”. E le ha definite “importanti e di sistema, che agiscono in profondità e che nel tempo restituiranno al Paese una giustizia più vicina ai bisogni dei cittadini”. Un processo civile più rapido, e soprattutto semplificato, potenziando l’accordo tra le parti in modo di evitare la stessa fase processuale. Un tribunale della famiglia che riunisce tutte le funzioni che riguardano la coppia e i minori. L’ufficio del processo con l’immissione di 1.600 collaboratori di pm e giudici, per metà già assunti, che stanno già andando anche in udienza. E nel penale le nuove regole sulla “messa alla prova” per i reati fino a 6 anni, quelle sulla giustizia riparativa, e cioè l’incontro tra le vittime e l’autore dell’offesa alla presenza di un mediatore. Ancora: le pene sostitutive al carcere, e alcuni obblighi previsti nella fase delle indagini preliminari, come retrodatare la notizia di reato se l’iscrizione è stata fatta troppo tardi dal pm, e sui tempi comunque stretti per gestire le stesse notizie di reato. A questo si aggiunge l’obiettivo prioritario di garantire l’effettiva certezza della pena, anche per le pene fino a quattro anni, i cosiddetti “liberi sospesi”, a cui invece il giudice d’ora in avanti potrà applicare subito le pene sostitutive. La prima reazione al definitivo via libera di palazzo Chigi è quella di Enrico Costa di Azione, che parla di “un importante obiettivo conseguito, pur in una fase politicamente complessa”. Costa invia un “grazie” a Cartabia “per il grande lavoro di impulso e di sintesi delle diverse posizioni di partenza”. Poi uno sguardo al futuro e a quello che potrà accadere con il nuovo governo e la prossima maggioranza: “La riforma non esaurisce ovviamente le esigenze del sistema giustizia - dice Costa - ma costituisce una solida base su cui proseguire in questa legislatura”. Ma proprio Costa annuncia che presenterà subito un disegno di legge per separare le carriere dei giudici e dei pm. Giustizia riparativa, via libera del governo ad una bella novità di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 29 settembre 2022 È una legge nella quale troviamo parole quali “riparazione dell’offesa”, “riconoscimento reciproco”, “responsabilizzazione”, “legami con la comunità”. Sembra l’inveramento di un diritto finalmente fiduciario anziché impositivo, e cioè di un diritto che, anche nelle sue espressioni linguistiche, finalmente riesce a guardare oltre sé stesso. La riforma della giustizia penale e civile, contenuta nei decreti legislativi emanati ieri dal Governo dopo l’approvazione nelle settimane scorse da parte delle Commissioni di Camera e Senato, include anche la giustizia riparativa, a completamento del lavoro svolto per molti mesi da una Commissione ad hoc presieduta da Adolfo Ceretti. Per la verità è da più di vent’anni che in Italia esiste già, la giustizia riparativa - intesa come modello di risoluzione dei conflitti diverso dalla pura e semplice celebrazione di un processo e dalla pura e semplice emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione. Esiste da quando, verso la fine degli anni novanta, a Torino, Milano e Bari erano stati aperti, quasi come un’utopia che cominciava allora a prendere forma, i primi Uffici per la mediazione penale minorile. Però non esisteva ancora una legge che ne regolamentasse il modello, che ne offrisse una disciplina organica e completa, e che quindi le conferisse una legittimazione definitiva, istituzionale, ufficiale. Adesso la legittimazione è arrivata. Adesso la rivoluzione è completa e, potremmo dire, l’utopia realizzata: perché adesso la giustizia riparativa è finalmente diventata una legge a tutti gli effetti. È una legge bellissima. È una legge nella quale troviamo parole quali “riparazione dell’offesa”, “riconoscimento reciproco”, “responsabilizzazione”, “legami con la comunità”. Sembra l’inveramento di un diritto finalmente fiduciario anziché impositivo, e cioè di un diritto che, anche nelle sue espressioni linguistiche, finalmente riesce a guardare oltre sé stesso, verso un orizzonte più lontano, oltre i confini delle norme. Di un diritto che finalmente si ricorda che, dietro i propri elementi tecnici e formali, esistono vite incarnate, persone in carne e ossa: persone con le loro vite, le loro storie, i loro corpi, che desiderano altro che non essere solo sanzionate o minacciate, che chiedono anche di essere accolte, ascoltate, coinvolte. Accade talmente di rado che sembra, anzi, perfino di più: quasi la materializzazione di un diritto che finalmente recupera la sua vera funzione, che dovrebbe essere quella di contribuire a costruire relazioni sociali in una dimensione collettiva, di convivenza e di scambio reciproco delle esistenze, piuttosto che pretendere solo obbedienza secondo una concezione puramente verticale e coercitiva dei rapporti. Un diritto “mite”, per usare una celebre formula di Gustavo Zagrebelsky: davanti al quale non ci si debba sentire per forza soli e disarmati, o addirittura sconfitti. Perché questo è la giustizia riparativa, e la legge lo spiega molto bene (è una legge bellissima anche perché è semplice, chiara e precisa e si lascia capire da chiunque): una giustizia dell’incontro, che offre ad autori e vittime dei reati un’occasione, che nessun altro luogo dell’ordinamento prevede, per superare insieme le conseguenze generate dal reato, al di là dei singoli ruoli processuali. Il senso della giustizia riparativa, se si vuole, è tutto qui: sembra forse poco ed è invece moltissimo, è la costruzione di un tempo e di uno spazio riservati e confidenziali all’interno dei quali, alla presenza di un mediatore imparziale ed “equiprossimo”, ciascuno si vede garantito un uguale diritto di parlare e di essere ascoltato. Certo, la legge contempla la possibilità di un “esito riparativo”: ma questo esito può avere il contenuto più vario, materiale o simbolico, e non deve consistere a tutti i costi in una riconciliazione. Da parte sua l’autorità giudiziaria potrà sempre valutarlo liberamente, senza esserne vincolata; così come la mancata adesione al programma o la sua interruzione anticipata o anche lo stesso mancato raggiungimento di un esito non potranno avere ricadute negative sull’autore del reato. A conferma del fatto, appunto, che la giustizia riparativa non intende sovrapporsi al processo, né sostituire una sentenza con un accordo: il piano su cui opera è diverso, quel che le interessa è esattamente ciò che nel processo non entra - le ferite, i vuoti, le mancanze. Qualcuno obietta: sono solo bei sogni, solo belle intenzioni. Ma la replica è facile. Sia perché è da più di vent’anni che alle belle intenzioni corrispondono già risultati concreti, e soddisfacenti. Sia perché non è forse proprio questo che il diritto dovrebbe fare, o fare di più? Coltivare sogni, e trasformarli in leggi. Il Centrodestra: riforma Cartabia non convince, pronti a rivederla di Barbara Fiammeri Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2022 La decisione non è stata ancora ufficializzata. Ma sulla Giustizia il centrodestra è pronto a rimettere pesantemente mano alla Riforma Cartabia. Il via libera definitivo, ieri, ai decreti attuativi sul processo penale e civile, fondamentali per il raggiungimento degli obiettivi di fine anno legati al Pnrr, non esauriscono infatti la riforma messa a punto dalla Guardasigilli uscente. All’appello mancano ancora le norme sull’ordinamento giudiziario. La Legge delega ha messo a disposizione del Governo un anno di tempo (la scadenza è 21 giugno 2023) per licenziare i provvedimenti di attuazione. Non è detto però che il futuro esecutivo a guida Meloni decida di esercitare la delega. La ragione è che per il centrodestra la riforma Cartabia “non è sufficiente”. Lo confermano anche due degli esponenti che più di altri vengono indicati tra i papabili al ministero di via Arenula: la leghista Giulia Bongiorno e il neo deputato di Fratelli d’Italia, l’ex magistrato Carlo Nordio, che pubblicamente si sono espressi più volte in modo critico. Al primo punto c’è la separazione delle carriere ritenuta essenziale da tutti i partiti del centrodestra. In realtà già la legge delega limita fortemente il passaggio da Pm a giudice visto che consente un solo trasferimento tra requirente e giudicante entro io anni dall’assegnazione della prima sede. Una formulazione che non convince però i partiti della nuova maggioranza. Vale la pena ricordare che il via libera alla riforma arrivò alla fine di una lunga trattativa nella maggioranza. Come spesso avviene si è trattato di un compromesso di sintesi tra le richieste che arrivavano da M5s e quelle del centrodestra al governo, Lega e Forza Italia, chiamato a fronteggiare anche le critiche dure di Fratelli d’Italia. Andrea Delmastro, responsabile Giustizia del partito di Giorgia Meloni definì allora la riforma “un pannicello caldo”. Il giudizio dentro Fdi non è cambiato. Carlo Nordio di recente è tornato a indicare nella separazione delle carriere ma anche nella soppressione dell’obbligatorietà dell’azione penale due obiettivi da realizzare in questa legislatura. Così la pensano anche gli alleati e infatti è stato messo nero su bianco nel programma di governo. Questo però comporta un intervento di carattere costituzionale e quindi un iter certamente più complesso. Ad alleggerirlo però ci sono le affinità elettive con il terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi. Convergenze emerse già in occasione del confronto sulla riforma Cartabia. Al punto che i renziani arrivarono ad astenersi: “La sua è una riforma più inutile che dannosa”, disse in Aula Renzi. Una linea condivisa anche da Calenda. Gli interventi sul fronte della giustizia potrebbero rientrare in quella riforma costituzionale che il centrodestra ha nel suo programma di Governo e sulla quale i centristi di Azione e Italia Viva proprio in questi giorni hanno manifestato pubblicamente la disponibilità al confronto “per scrivere assieme le regole”. L’obiettivo non è solo la separazione delle carriere confermata anche dal programma elettorale del cosiddetto terzo polo ma anche un nuovo intervento sul Csm per “superare il sistema delle correnti”. È esattamente quanto sostiene il centrodestra che punta a riproporre anche l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione di primo grado. Una strada già tentata nel 2006 e però bocciata dalla Corte costituzionale. “Nordio sarebbe un ottimo ministro della Giustizia”. Parla Caiazza di Ermes Antonucci Il Foglio, 29 settembre 2022 Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali: “Questo nuovo Parlamento ha una maggioranza assoluta favorevole a realizzare riforme in senso garantista”. “Naturalmente non voglio mettermi a dare pagelle, ma certo è che con il dottor Nordio abbiamo sempre registrato una comunanza di punti di vista, di lettura complessiva della giustizia penale, che mi fa dire che sarebbe certamente un ottimo ministro della Giustizia. Poi sarà chi di dovere a fare le scelte”. Intervistato dal Foglio, il presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza, accoglie con favore l’ipotesi della nomina di Carlo Nordio come prossimo ministro della Giustizia. E sulle riforme del futuro, alla luce dei risultati elettorali, dice: “Se stiamo alle risposte pubbliche che sono state date in campagna elettorale alle nostre proposte, questo nuovo Parlamento ha una maggioranza assoluta favorevole a realizzare riforme in senso garantista”. La prima risposta positiva dei partiti di centrodestra è arrivata sulla proposta di separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. “È chiaro - specifica Caiazza - che l’unica riforma seria che può portare alla separazione delle carriere è una riforma di tipo costituzionale. Qualunque tentativo si volesse realizzare in un contesto di legge ordinaria significherebbe nient’altro che la solita e inutile separazione delle funzioni, mentre la magistratura ha bisogno di una separazione ordinamentale, di due Consigli superiori, due concorsi, due scuole di formazione diverse. Tra l’altro ricordo a tutte le forze politiche che è già disponibile un testo di riforma costituzionale: la nostra legge di iniziativa popolare, sottoscritta da 70 mila cittadini”. “La seconda risposta che ci è parsa largamente condivisa è quella sulla riforma dell’appello del pubblico ministero contro le sentenze di assoluzione”, aggiunge il presidente dell’Ucpi, che da domani a domenica terrà a Pescara un congresso straordinario. “Anche su questo mi pare ci sia una forte maggioranza parlamentare. Vorrei ricordare che anche la commissione presieduta da Giorgio Lattanzi, ex presidente della Corte costituzionale, ha riproposto questo intervento, tenendo conto delle censure espresse a suo tempo dalla Corte contro la legge Pecorella”. Poi c’è il tema della prescrizione. “L’introduzione dell’improcedibilità in appello è una soluzione che non apparteneva a nessuno, fu adottata perché i Cinque stelle si impuntarono pur di salvare, almeno formalmente, la riforma Bonafede che sospende la prescrizione dopo una sentenza di primo grado. Bisogna ripristinare l’istituto della prescrizione dei reati, e non del processo, quale indispensabile rimedio all’incivile gogna del ‘fine processo mai’”. Anche su questa proposta il programma di Fratelli d’Italia si dichiara esplicitamente favorevole. “Grande freddezza, se si esclude ancora una volta FdI - prosegue Caiazza - l’abbiamo invece registrata sul tema del distacco dei fuori ruolo presso il governo, in particolare presso il ministero della Giustizia. Siamo l’unico paese al mondo in cui viene questa commistione fisica tra potere esecutivo e potere giudiziario”. Insomma, domandiamo provocatoriamente a Caiazza, la forza politica più garantista del centrodestra ora è diventata FdI? “Qui dobbiamo aprire le note dolenti”, replica il presidente dell’Ucpi, “perché sul tema dell’esecuzione della pena la posizione sia di FdI che della Lega sembra essere molto lontana dalla nostra. Il responsabile giustizia di FdI, Andrea Delmastro Delle Vedove, ha espresso chiaramente la posizione del partito: ‘garantisti nel processo, giustizialisti nell’esecuzione della pena’. Una formula che sembra veramente inaccettabile per chi crede nei valori costituzionali, fra i quali vi è quello della finalità della rieducativa della pena. Ma forse questo riaffacciarsi del populismo del ‘buttare via la chiave’ è più un tributo a un certo elettorato, che desidera ascoltare slogan di taglio securitario”. “Su questo occorre con molta pazienza aprire una riflessione comune - spiega Caiazza - Se la questione è che le misure alternative al carcere devono essere effettive allora è tutto un altro discorso. Ricordo che le conclusioni degli Stati generali dell’esecuzione penale, coordinati da Glauco Giostra, prevedevano un potenziamento delle misure alternative, ma anche un grande investimento di personale e strutture tali da rendere le misure alternative una forma seria e impegnativa di espiazione della pena, e di apertura di un percorso di recupero”. “Insomma - conclude Caiazza - condividiamo l’esigenza che le misure alternative non siano alla fine una elusione della pena. Su questo mi auguro sia possibile creare un filo di confronto”. La vecchia idea di Marcello Pera per riformare la giustizia: carriere separate e giurisdizione unica di Valentina Stella Il Dubbio, 29 settembre 2022 L’ex presidente del Senato, nel lontano 1997 sottoscrisse un disegno di legge costituzionale che, se approvato, avrebbe modificato due importanti assetti del sistema ordinamentale. Francesco Lollobrigida, capogruppo uscente di Fratelli d’Italia alla Camera, a Repubblica ha spiegato come il suo partito abbia intenzione di modificare la Costituzione: “Senza stravolgerla e con la collaborazione di tutti”. Tra le riforme più discusse quelle del presidenzialismo e dei rapporti con la Unione Europea. Non si parla invece di giustizia. Tuttavia, tra i possibili ministri del prossimo Governo di centrodestra, c’è il neo senatore di Fratelli d’Italia, Marcello Pera, quotato sia come Guardasigilli ma soprattutto come ministro delle Riforme Costituzionali. Proprio l’ex presidente di Palazzo Madama nel lontano 1997 sottoscrisse, quando era ancora in Forza Italia, insieme ai vecchi colleghi Grillo e Greco, un disegno di legge costituzionale (Modifiche agli articoli da 100 a 113 della Costituzione) che, se approvato, avrebbe modificato due importanti assetti del sistema ordinamentale. Due obiettivi: “Unicità della giurisdizione” e “Separazione delle carriere. Diversificazione del Consiglio superiore della magistratura. Fissazione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale”. Torneranno in auge, causando grandi mal di pancia soprattutto tra i pubblici ministeri? Sì, se le promesse elettorali del centrodestra verranno mantenute. Intanto ricordiamo il vecchio progetto. Con il primo obiettivo si sarebbero voluti razionalizzare e ottimizzare mezzi e risorse umane, ed evitare “crescenti incertezze e di conseguenti conflitti di giurisdizione o di attivazione di contemporanee azioni di fronte al giudice speciale ed al giudice ordinario”. Oltre alla soppressione dei tribunali militari in tempo di pace, si suggeriva di riscrivere in tal modo l’articolo 102: “La giurisdizione è unica e articolata in Sezioni: civili, penali, amministrative e contabili. La funzione giurisdizionale è esercitata dai giudici istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali”. Il secondo obiettivo, come leggiamo dalla Relazione introduttiva, consisteva nella separazione delle carriere e nella “riconducibilità, per quanto possibile, nell’ambito del processo democratico delle rilevantissime scelte di politica criminale che, allo stato, sono di fatto delegate, senza trasparenza alcuna, alla non trasparente e non responsabile scelta dei pubblici ministeri”. Due temi molto invisi alla magistratura associata che già ha scioperato contro i progetti di modifica, seppur blandi, adottati nella riforma di mediazione Cartabia, che non è di tipo costituzionale però. Scrivevano Pera e colleghi: “Una ragione diffusamente avvertita è la necessità di garantire, anche nell’immagine, la sicurezza del cittadino circa la imparzialità del giudice, come figura nettamente distinta e terza rispetto ai soggetti inquirenti, non coinvolta nelle strategie accusatorie, né nelle opzioni di politica criminale del pubblico ministero stesso”. Lo stesso messaggio trasmesso nella pdl di iniziativa popolare delle Camere Penali che prende polvere anch’essa nella Commissione. Infine, per quanto concerne l’obbligatorietà dell’azione penale, “mentre negli altri Paesi a consolidata tradizione demo- costituzionale si dà per scontata la natura ineliminabilmente discrezionale dell’azione penale e si pongono perciò in essere meccanismi di tipo dinamico per stimolare, verificare ed eventualmente correggere il suo esercizio, così da assicurare che un potere tanto rilevante, quale quello che fa capo agli organi inquirenti, per la libertà, per la rispettabilità, per la sicurezza del cittadino, nonché per il rispetto della legalità e per l’efficacia delle politiche contro i fenomeni criminali, venga esercitato secondo criteri per quanto possibile uniformi ed uguali per tutti, efficaci ed al tempo stesso rispettosi della dignità umana, nel nostro Paese, negandosi alla radice tale presupposto, si è data una soluzione assolutamente rigida e non soggetta ad alcuna verifica quanto alla sua efficacia operativa di assicurare l’effettiva attuazione generalizzata al principio della obbligatorietà dell’azione penale”. In pratica, denunciavano i proponenti, il sistema ha prodotto col tempo una “rilevanza politica del pubblic o ministero sempre più marcata”. Se è vero che l’articolo 112 prevede che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, in realtà, sostenevano i firmatari del ddl, il pm ha acquisito sempre più potere nel decidere quali reati perseguire, dando origine ad “un effettivo ostacolo alla concreta attuazione del principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, cioè di quel principio che l’obbligatorietà era intesa a tutelare”. La soluzione per Pera? “Il ministro della Giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura requirente e il ministro dell’Interno, pro e le priorità al fine dell’esercizio dell’azione penale”. pone al Parlamento ogni anno i criteri. Magistrati Vs centrodestra: così può riaccendersi lo scontro totale di Errico Novi Il Dubbio, 29 settembre 2022 Uno scenario da primi anni duemila. Le “riforme di rottura” possono riaccendere il vecchio conflitto, con un nodo chiave: la separazione delle carriere. Michele Vietti. Giovanni Legnini. David Ermini. Sono gli ultimi tre vicepresidenti del Csm. Nomi espressi dalla politica. E che hanno saputo trovare un equilibrio nel rapporto fra componente laica e magistratura. È chiaro che l’attuale centrodestra ha figure assolutamente all’altezza del compito. Ma parte da una condizione inconsueta: è abbastanza unito su alcune riforme “di rottura”. Innanzitutto sulla separazione delle carriere. Che per qualche voce autorevole della coalizione appena uscita vincitrice dalle urne, vedi Carlo Nordio, potrebbe declinarsi anche in forme “estreme”, per esempio con l’eleggibilità dei pubblici ministeri. Non è tramontata l’idea, comune a Forza Italia, FdI e Lega, di superare l’ultima riforma del Csm, e di introdurre l’elezione dei togati mediante “sorteggio temperato”, cioè la selezione random dei candidabili tra i quali verrebbero poi eletti i futuri consiglieri. Ecco: immaginate un vicepresidente del Csm, tanto per fare un esempio, che fosse scelto fra i laici indicati dal centrodestra: sarebbe in una posizione molto, ma molto diversa da quella in cui si sono trovati Vietti, Legnini ed Ermini. Sarebbe un vertice in una posizione di conflitto con le toghe Addirittura con gli altri due componenti del Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli, di cui fanno parte anche il primo presidente e il pg della Cassazione. Cariche attualmente ricoperte da Pietro Curzio, considerato vicino alla magistratura progressista di Area e di Md, e Luigi Salvato, di Unicost. Tutti gruppi dell’Anm che non vogliono sentir parlare di carriere separate né di sorteggio. Sarebbe quella che i francesi chiamano coabitazione, quando Capo dello Stato e Assemblea non sono omogenei politicamente. Naturalmente il nodo non è solo la vicepresidenza del Csm. Sul cui “colore politico” al momento, tutte le congetture sono possibili. Incluso lo scenario di una componente togata che decida di votare, compatta, per un laico di minoranza, espresso dal Pd (si era parlato di Anna Rossomando) o dal Movimento 5 Stelle (che non indicherà ex parlamentari). Certo, il nodo “cohabitation” si scioglierebbe. Ma si creerebbe comunque una tensione fortissima fra la nuova maggioranza di governo e l’ordine giudiziario. E così, dopo una campagna elettorale in cui si è parlato poco di giustizia, il conflitto fra partiti e magistrati torna all’orizzonte. Inatteso. O quanto meno sottovalutato. Naturalmente la via d’uscita ci sarebbe: il centrodestra dovrebbe accantonare i propri propositi riformatori, rimettere nel solito cassetto la separazione delle carriere. Ma è una soluzione credibile? Può, un’alleanza che proprio sulla giustizia trova uno dei più tranquillizzanti punti di coesione, censurarsi pur di non sommare, alle altre paurose incognite che pesano sul futuro, la grana di un conflitto con la magistratura? Molto potrà dipendere da Giorgia Meloni. Non è da escludere che la probabile futura presidente del Consiglio eviti di calcare troppo la mano sulle contrapposizioni con le toghe. Non è la sua priorità, l’argomento non è mai stato al centro della sua agenda. Ma la dinamica che sembra profilarsi non è facile da disinnescare. Anche per un motivo che riguarda i magistrati e che non può essere sottovalutato: una legislatura di conflitto con la maggioranza di governo aiuterebbe le toghe a ritrovare compattezza, e a far scivolare almeno un po’ nell’oblio gli scandali degli anni passati. Come non essere tentati da una simile opportunità? Di certo, i segnali che arrivano dal gruppo della magistratura che più di altri sembra idealmente lontano dal centrodestra, la progressista “Area”, fa capire come tra i togati non si abbia intenzione di fare sconti ala politica. “Questo quadro generale rafforza il nostro impegno affinché si garantisca la conservazione del modello costituzionale di giurisdizione e magistratura”, si legge nel comunicato diffuso due giorni fa dalla componente “di sinistra”. Può voler dire anche schierarsi apertamente contro riforme dell’ordinamento giudiziario che richiederebbero modifiche della Carta, quali appunto la separazione delle carriere e il sorteggio. C’è un paradigma che incombe: quello dei lunghi anni di conflitto fra l’allora premier Silvio Berlusconi e l’Anm. Un’epopea distruttiva, in cui il centrosinistra dell’epoca giocò di sponda con le toghe. Quello schema non può riproporsi integralmente, è chiaro. Non ci sono più di mezzo le vicende giudiziarie personali di un leader. Ma seppur in forma di surrogato, il contrasto fra la destra e i magistrati può riemergere. E rendere più complicato del previsto anche sulla giustizia, il cammino di un futuro governo Meloni. Il nuovo Csm e il (solito) peso delle correnti di Giuseppe Corasaniti Il Messaggero, 29 settembre 2022 I magistrati hanno votato per il rinnovo del Csm, e hanno votato con le nuove regole elettorali definite dalla recente riforma, che ha sostituito al collegio unico nazionale con un insieme di collegi territoriali, ampliando in teoria così le possibilità di raccogliere candidature autonome rispetto alle tradizionali correnti organizzate. Solo in Italia dal 1958 si sono succeduti 15 Consigli con 7 differenti leggi elettorali, sempre alla ricerca di un equilibrio ottimale tra consenso e rappresentatività della magistratura. L’affluenza è risultata molto alta (quasi 80%) il che costituisce un elemento molto importante per ogni valutazione. È stato, infatti, il primo voto espresso dopo una stagione di tensione che ha scosso il sistema giustizia come un terremoto del più alto grado della scala Mercalli. Se le stagioni dei veleni possono dirsi in parte superate, ora sia avvia o comunque ci si aspetta, una stagione di impegno e di lavoro, e sicuramente di avvio e perfezionamento di percorsi di riforma i cui contorni operativi appaiono ancora da ben definire. Clamorose sono state le esclusioni e altrettanto clamorose sono state le affermazioni, certo in parte imprevedibili e impreviste, effetto (non scontato) del nuovo sistema elettorale, ma è sbagliato interpretare come affermazioni “di destra” o al contrario “di sinistra” (giudiziaria) quelle che invece sono le dinamiche dei consensi di una categoria professionale ben inferiore - quanto a numero di votanti (circa 9700) - al più piccolo dei municipi romani o a un altrettanto minuscolo comune italiano. È evidente però che i voti dei magistrati “pesano” molto di più, ed è chiaro che le tecniche di sollecitazione (e mantenimento) del consenso incidono spesso sulla composizione e poi sul funzionamento concreto dell’organo di autogoverno della magistratura, finendo per intaccare anziché garantire autonomia e indipendenza che sono essenziali all’azione giurisdizionale che incide quotidianamente sulla società e sull’economia. La ricerca di una responsabilità “sociale” della magistratura passa attraverso il Csm, nel dialogo tra Csm e Ministro della Giustizia (cui poi competono costituzionalmente le scelte fondamentali di regolamentazione e sui servizi) e singoli uffici giudiziari i cui dirigenti dovrebbero essere selezionati per esclusivi meriti tecnico giuridici e non sulla base di maggioranze di scelte predeterminate e composte. Si dirà che non è facile, che questo è un compito delicatissimo dove si confrontano visioni ed esperienze variegate, ma è certo quanto si aspettano i cittadini italiani che ancora nutrono fiducia nell’ordine giudiziario che la Costituzione all’art. 104 vorrebbe “autonomo e indipendente” da ogni potere (pubblico e privato). Molti hanno visto nel risultato del voto espresso dai magistrati una conferma della immutata forza e vitalità delle correnti della magistratura stessa nel concentrarsi solo su alcuni candidati anziché spingersi nella programmazione dei consensi in modo “composto” nei singoli uffici giudiziari, così come emerge una radicalizzazione delle scelte elettorali, temperata dalla novità di candidati autonomi oggi espressi con metodi differenti. Parafrasando la fisica si può definire e spiegare ciò che è avvenuto con il richiamo alle “correnti di spostamento” che regolano i campi magnetici, in pratica le leggi dell’attrazione (del consenso). Le correnti non sono state affatto ridimensionate, forse hanno solo cambiato metodo, focalizzandosi sui candidati apparentemente più attrattivi, in attesa poi di valutare meglio alla prossima occasione, proprio come fanno tutte le formazioni “politiche” sulla base dell’esperienza pratica, gli effetti del nuovo sistema elettorale. Le elezioni del Csm non dovrebbero essere considerate il culmine o un passaggio cruciale della carriera di ogni magistrato, o l’accesso agognato nella “stanza dei bottoni” del sistema giurisdizionale per realizzare strategie di uno o più magistrati collegati. Si tratta di avere chiaro che il servizio giustizia si realizza umilmente, senza esaltazioni soggettive e collettive, senza coltivare ambizioni e consensi, e soprattutto nel senso e col senso del servizio, come ammoniva Cicerone sine spe nec metu cioè poi senza nutrire speranze personali e senza timori, tutto qui. *Avvocato e docente universitario (già magistrato ordinario) Masi (Cnf): “Sulle riforme la politica non ha ascoltato i nostri appelli” di Simona Musco Il Dubbio, 29 settembre 2022 Approvati i decreti attuativi in Consiglio dei ministri. Il vertice dell’istituzione forense: “Sacrificato il diritto di difesa”. “Gli effetti delle riforme approvate dilatano i tempi dei processi e comprimono il diritto di difesa”. La presidente del Consiglio nazionale forense Maria Masi non nasconde l’amarezza di fronte ai contenuti dei decreti legislativi di attuazione della riforma del processo civile, ieri approvati in via definitiva e all’unanimità ieri dal Consiglio dei ministri, assieme a quelli sulla riforma del processo penale e dell’ufficio del processo. Con risultati, ha sottolineato la numero uno di via del Governo vecchio, “addirittura peggiorativi rispetto agli esiti, non pienamente soddisfacenti della commissione di studio e dei gruppi di lavoro”. L’amarezza è ancora più cocente in virtù del fatto che i suggerimenti arrivati dal mondo dell’avvocatura, ovvero da chi ha a che fare quotidianamente con le aule di giustizia, non sono stati presi in considerazione. E ciò nonostante gli appelli ripetuti da parte di tutto il mondo dell’associazionismo forense, che ha più volte sottolineato le criticità della riforma ponendo l’accento sul rischio di comprimere i diritti in nome di un’efficienza difficilmente raggiungibile. Già a maggio dello scorso anno Masi aveva evidenziato come i tempi ragionevoli e la qualità della giustizia “non sono perseguibili solo con l’ennesima riforma delle norme di rito in cui, ancora una volta, sono i cittadini a rischiare di pagare il tributo più alto. In nome di una presunta riduzione dei tempi del processo il rischio è quello di sacrificare il diritto di accesso alla giustizia e le garanzie di difesa”. E a fine 2020, il Cnf aveva presentato al governo una proposta sull’uso del Pnrr che poneva la “persona al centro”, un piano basato su razionalizzazione normativa, managerialità e formazione dei magistrati. Ma ora che i giochi sono chiusi, il risultato finale appare distante “dai contributi, reiteratamente ignorati, che l’avvocatura ha dato, avendo ben chiare le premesse e le finalità individuate dal Pnrr, ossia, su tutto, la contrazione dei tempi medi dei processi”. L’obiettivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza in tema di giustizia è, infatti, quello di ridurre del 40% in cinque anni la durata dei processi civili e del 25% quella dei processi penali, con impegni analoghi per i processi amministrativi. Ma tale proposito, sottolinea Masi, non potrà essere realizzato, “perché i correttivi apportati sulle singole norme non solo non sono adeguati, ma rischiano di dilatare ulteriormente la durata dei processi, con un inutile sacrificio delle garanzie di difesa e del contraddittorio”. Diversi i punti sui quali la presidente del Cnf pone l’accento. In primo luogo l’insistenza sul regime delle preclusioni, che le Sezioni Unite hanno già affermato essere causa di ritardo della giustizia civile e che comporta un ampliamento degli oneri a carico dei difensori e quindi delle parti. Un punto sul quale più volte l’avvocatura istituzionale aveva messo in guardia la politica, che, di fatto, ha ignorato gli appelli. Il tutto, sottolinea la presidente del Cnf, “trascurando (violando) i princìpi costituzionali del diritto di difesa e l’accesso alla giustizia, così come già ora, sono numerosi i provvedimenti di magistrati che dispongono modalità di trattazione scritta, non considerando o meglio disapplicando norme e princìpi di un codice ancora vigente, laddove dispongono limiti e vincoli al contenuto e alla forma delle note di trattazione”. La nota positiva, per quanto riguarda i decreti attuativi del processo penale, riguarda il “superamento della visione carcerocentrica della pena attraverso il nuovo sistema della giustizia riparativa”, un obiettivo che necessita, però, di un’adeguata formazione dei mediatori penali, per la quale il Cnf ritiene fondamentale il contributo dell’avvocatura, oltre che delle università. Ma i decreti attuativi estendono anche il processo a distanza, lasciando aperti “pericolosi spazi interpretativi” e trasformando “indicazioni normative, determinate dall’emergenza sanitaria, in regole generali”. “L’avvocatura - conclude dunque Masi - oggi è ben consapevole che il suo ruolo e la sua funzione non possono e non devono esaurirsi nella giurisdizione e nel processo, ma proprio nella giurisdizione e nel processo non intendono abdicare alla loro infungibile funzione. Per questo continueremo a rappresentare e a sostenere le ragioni del giusto processo in ogni sede e soprattutto nei confronti di chi nell’immediato futuro avrà la responsabilità di guidare il Paese”. Roma. Detenuto morto a Regina Coeli: nel mirino della Procura la mancata sorveglianza di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 29 settembre 2022 L’ipotesi di una negligenza. Arrestato all’inizio dell’estate per rapina e tentato omicidio Carmine Garofalo era a Regina Coeli in attesa di giudizio. É morto il 16 agosto scorso. Il sospetto di omicidio e l’ipotesi di una sorveglianza lacunosa. Nell’attesa che il medico legale de “La Sapienza” depositi il risultato degli esami sul corpo di Carmine Garofalo, il detenuto fragile trovato morto il 16 agosto scorso nella sua cella a Regina Coeli, il pm Edoardo De Santis ragiona sulle poche certezze acquisite. Una di queste sarebbe la negligenza dei piantoni disposti dalla direzione carceraria e anche se, al momento, nel fascicolo non sono ipotizzate vere e proprie omissioni la Procura vuole rispondere a un basilare interrogativo: perché nessuno, all’interno della settima sezione, intercettò tempestivamente il suo malore? Due detenuti che avrebbero assistito alla scena (e che si sono rivolti alla garante capitolina dei diritti dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, dalla quale è partita l’inchiesta) sostengono che si sia trattato di un omicidio. Garofalo, dicono, sarebbe stato stretto alla gola con un avambraccio e poi, una volta soffocato, abbandonato sul pavimento della sua cella. La vita non è stata generosa con Carmine Garofalo, 49 anni, avviato sul piano inclinato di un’esistenza precaria. Arrestato all’inizio dell’estate per rapina e tentato omicidio - coltello in pugno aveva cercato di rubare il camper di un tipo salvo colpirlo quando questi aveva tentato di fermarlo - era a Regina Coeli in attesa di giudizio. Nel frattempo, oltre a una serie di risse e devastazioni, aveva tentato il suicidio e dal 2 agosto scorso era piantonato a vista come soggetto fragile. Un’ulteriore possibilità, tutta da esplorare, è che il decesso di Garofalo sia dovuto a stupefacente, teoricamente (ma solo in linea di principio) proibito. Da qui la perizia tossicologica disposta dal pm. Questo aprirebbe un altro scenario. Chi e con quali complicità avrebbe introdotto la sostanza nel perimetro carcerario? La Procura ha disposto un nuovo sequestro del corpo in modo da poter effettuare tutti gli accertamenti del caso. Una misura che ha impedito la cremazione inizialmente richiesta dai familiari fra cui il figlio Samuel Garofalo, attore nella serie “Le fate ignoranti”. Nei giorni scorsi il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha eseguito un’ispezione all’interno della sezione nella quale Garofalo era detenuto. Ispezione che potrebbe raccontare i dettagli di quanto avvenuto e isolare alcune responsabilità all’interno del carcere. I risultati potrebbero essere acquisiti agli atti delle indagini. Roma. Detenuto morto a Regina Coeli, il Garante: “Dentro ci sono spaccio e aggressioni” di Camilla Mozzetti Il Messaggero, 29 settembre 2022 Regina Coeli ha una capienza di 615 persone ne sono detenute 1.017. D’estate, con il caldo d’agosto, da quelle fessure entra l’odore del Tevere ma del Biondo che attraversa Roma non si vede nulla. Anche gli sguardi, come le persone, sono carcerati. Così i platani, la gente che cammina sui marciapiedi, il traffico e quel tratto della Capitale, che pure porta alcuni uomini liberi a fermarsi per guardarlo, resta fuori da via della Lungara. Si può solo immaginare ma per chi sta dall’altra parte, e ci sta da tempo, si è persa pure la fantasia. Infranta su quelle che in gergo chiamano “gelosie”. Sono le lastre metalliche che tutto coprono e nascondono, blindando ogni finestra del carcere di Regina Coeli. Appena una fessura in alto a far entrare aria e luce lasciando fuori tutto il resto. Civico 29 via della Lungara appunto: in quello che a metà del ‘600 nacque come convento c’è oggi il più antico istituto penitenziario della Capitale. Edificio imponente dove il 16 agosto, Carmine Garofalo, 49 anni, detenuto con l’accusa di tentato omicidio e rapina è stato trovato senza vita. Derubricato come “morte naturale”, la Procura ricevute diverse segnalazioni sospette sull’episodio ha aperto un fascicolo per omicidio. Ma capire cosa sia Regina Coeli è difficile anche da spiegare. Al fianco del problema atavico del sovraffollamento c’è anche un allarme controllo, su cosa entra in carcere: droghe ad esempio. La stessa che si sta cercando sul corpo della vittima sottoposta a nuova autopsia lo scorso 8 settembre, e che molto spesso ha varcato, nascosta nei posti più disparati, l’enorme portone del penitenziario. L’ultimo episodio risale a fine luglio quando un uomo, di nazionalità rumena, andato a trovato un parente detenuto è stato fermato con le scarpe imbottite di droga, cellulari e sim. Ma c’è anche una piaga che riguarda “gli oggetti che vengono trovati” spiega il Garante Nazionale dei detenuti Mauro Palma. E che le cronache hanno più volte raccontato perché usati, quegli oggetti, in risse e aggressioni. “Il problema del controllo si lega a quello del personale disponibile - continua Palma - teniamo conto che sui 14 istituti penitenziari presenti nel Lazio l’organico sulla carta è di oltre 3.600 unità quello di fatto non supera i 2.800 agenti”. Un ammanco di personale di 800 uomini che si fa sentire “nonostante l’impegno mostrato dal personale in servizio” prosegue il Garante. Facile perdere il “polso” della situazione in quello che come casa circondariale è considerato “un porto di mare, con un flusso costante di ingressi e uscite di detenuti”. E poi le condizioni insite in un luogo che nonostante l’imponenza del palazzo dovrebbe essere completamente ripensato. Il sovraffollamento non cristallizza solo un problema di numeri, va ad esacerbare condizioni difficili, vite stravolte. Ed alimenta - anziché distruggere - quel rischio di cui parlava lo psichiatra Vittorino Andreoli: “L’assurdo di un luogo dove si accumula la criminalità, che ha un potere endemico maggiore di un virus influenzale”. Come si fa a rieducare un detenuto con manie di autolesionismo che viene posto nella “cella liscia”, senza letti, mobili od oggetti alcuni con un materasso in terra e le finestre chiuse ermeticamente d’estate perché così si crede non si possa ferire? “Regina Coeli ha una capienza - prosegue Palma - di 615 persone, adesso che parliamo ne sono detenute 1.017 e 480 di queste si trovano in stanze tra i tre e i quattro metri quadri”. Condizioni contestate anche “Dall’articolo 3 della Convezione europea dei diritti dell’uomo - aggiunge il Garante - Naturalmente questa difficoltà va vista reparto per reparto, ce ne sono alcuni dove, a fronte di una capienza di 44 persone, ci sono 88 individui”. E lo stesso reparto dove si trovava la vittima, Carmine Garofalo, ovvero quello di Prima accoglienza - che mette insieme persone accusate di tentato omicidio, violenza, spaccio, rapine - con una capienza massima di 43 persone a ieri ne ospitava 93. Roma. Suicidi in carcere, sospetti anche sul caso Levan Mamiseishvili: “Fatte poche indagini” di Andrea Ossino e Giuseppe Scarpa La Repubblica, 29 settembre 2022 Quando è stata diffusa la notizia della morte di Levan Mamiseishvili, nessuno poteva pensare che dietro quello che è stato prontamente bollato come un suicidio, il terzo avvenuto nel carcere di Regina Coeli dall’inizio dell’anno, potesse celarsi una realtà più profonda. Ma i dubbi messi nero su bianco dall’avvocato Francesco Monarca raccontano una storia complessa che adesso è approdata in tribunale, tra le aule riservate alle udienze preliminari. Perché dalle indagini, sostiene il legale, non emerge neanche “lo strumento col quale il detenuto si sia suicidato”. Le testimonianze ripercorrono la vicenda a partire dalle 11 del mattino dello scorso 13 marzo, quando un agente della penitenziaria sente “grida provenire dalla stanza”. Era la numero 7, al primo piano della sesta sezione di Regina Coeli, il carcere in cui 1.000 detenuti provenienti da 70 nazionalità vengono ospitati malgrado una capienza che oscilla tra i 600 e gli 800 posti. Levan era “per terra che si reggeva con la mano la fronte sanguinante”, racconta il secondino. I racconti dei detenuti si alternano tra “una lite con il compagno di cella durante il riposo del mattino”, un “dormivo” e un “avrà sbattuto sul ferro della branda”. Quel che è certo è che Levan, Georgiano di 39 anni, è finito in infermeria, dove sarebbe andato in escandescenza urlando e togliendosi la maglietta. Inutili i tentativi di calmarlo. E a quanto pare anche di sorvegliarlo, visto che è stato trovato “appeso alle grate della finestra”. Per la procura è un suicidio e il caso va archiviato. L’avvocato Monarca, che assiste la famiglia della vittima, si oppone e vuole capire come si sarebbe impiccato Levan e perché non sia stato sorvegliato. Il penalista ipotizza che potrebbe trattarsi di una “morte in conseguenza di un altro reato”, del probabile litigio avvenuto in cella. Una cosa è certa: dall’inizio dell’anno, a Regina Coeli, le criticità sono state diverse. C’è il marocchino di 24 anni morto a febbraio dopo aver inalato gas e il pakistano suicidatosi dopo un soggiorno nella “cella liscia”, la stessa stanza in cui lo scorso agosto un egiziano è stato ristretto in condizioni disumane, con l’unica finestra sigillata nonostante il caldo, il lavabo otturato, il water rotto, le formiche nel pavimento e le pareti sporche di materiale organico, come il corpo dell’uomo. C’è anche la “morte naturale” di Carmine Garofalo, avvenuta lo scorso 16 agosto e adesso oggetto di un’indagine per omicidio. E poi tentativi di suicidio e violenze sessuali. “Oltre al sovraffollamento a Regina Coeli ci sono persone con problemi psichiatrici - spiega la garante dei detenuti, Gabriella Stramaccioni - Vi è carenza di personale. È un carcere obsoleto con tanti detenuti con pene definitive che non dovrebbero essere lì perché non hanno possibilità di fare un percorso rieducativo e lavorativo”. Torino. Morì in cella dopo aver perso 38 chili, la sua testimonianza: “A Ivrea ho visto l’inferno” di Sarah Martinenghi La Repubblica, 29 settembre 2022 La testimonianza shock emerge dalle carte dell’inchiesta sui fatti del 2016: “Schiaffi e manganellate ai detenuti”. A fornirla Antonio Raddi, che fu recluso nel penitenziario eporediese prima di perdere la vita alle Vallette. Gli agenti entravano con i manganelli, uno scudo e un idrante. Il rumore sordo era quello dei colpi inflitti, uno dopo l’altro. Dallo spioncino della cella tre al quarto piano, la visuale era parziale, ma nitida, su cosa stava accadendo poco più in là ad altri due detenuti. Gli occhi che sbirciavano terrorizzati dietro al “blindato” erano quelli di Antonio Raddi, testimone anche lui di violenze e abusi, tali da diventare anni dopo il suo incubo ricorrente. Quell’inferno visto e vissuto la notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016 è stato all’origine della profonda sofferenza che Raddi si è trascinato dentro, il seme della violenza sui fragili che l’ha logorato piano piano, quando nel 2019 ha iniziato a dimagrire sempre di più, arrivando a perdere oltre 30 chili, fino a morire, a 28 anni, nel carcere delle Vallette, per l’indifferenza di chi pensava che stesse solo escogitando uno stratagemma per uscire di galera. Undici Appelli della garante dei detenuti Monica Gallo che implorava attenzione per lui, erano caduti nel vuoto: il viso di Raddi diventava sempre più scavato e il suo corpo, alto un metro e 90, si raggrinziva, ogni giorno più affaticato a reggersi in piedi fino ad afflosciarsi su una sedia a rotelle con cui muoversi tra celle e corridoi. Incapace persino di accendersi una sigaretta. “Non portatemi a Ivrea” continuava a ripetere in carcere Antonio, ossessionato dagli incubi di quel penitenziario. Quello che aveva visto però, l’aveva raccontato: la sua testimonianza è ora tra gli atti dell’inchiesta della procura generale che sta facendo luce sulla catena di abusi fisici e psicologici avvenuti sette anni fa sui detenuti di Ivrea. Raddi il coraggio di parlare l’aveva avuto, consapevole dell’importanza di far emergere la verità, quella che riviveva quando chiudeva gli occhi e che gli tormentava il sonno, mentre affrontava la sua seconda detenzione nel penitenziario delle “Vallette” nel 2019. Ma in aula non potrà più ripetere cosa ha visto, non potrà aggiungere particolari, o riconoscere gli agenti che ha visto quando era nel braccio dove sono avvenuti i pestaggi. Raddi è morto il 30 dicembre 2019 quando l’hanno portato all’ospedale Maria Vittoria ed era troppo tardi. L’accusa sostenuta dai pm Giancarlo Avenati Bassi e Carlo Pellicano (che hanno avocato l’inchiesta su richiesta dell’ex garante Paola Perinetto e dell’avvocata Maria Luisa Rossetti), dovrà usare il verbale rilasciato ai primi di novembre 2016: era trascorsa una settimana da quella notte di acqua, lividi e sangue, la più terribile vissuta dai detenuti, come ritorsione dopo una piccola rivolta. “Li ho visti da uno spioncino parzialmente accostato, il comandante ha contato fino a tre per dare il via al loro ingresso” ha testimoniato Antonio Raddi agli ispettori del dap, che erano stati all’epoca inviati per relazionare sui fatti avvenuti. “Prendilo”, “mettigli le manette” li ha sentiti pronunciare. E poi il rumore: “Tonfi”. Colpi violenti, indiscutibili, quelli dei manganelli. Non poteva vedere le botte, ma le ha sentite. E poi il mattino dopo ha visto i segni su un detenuto: “Aveva il viso gonfio”. Il suo racconto descrive solo la prima parte del pestaggio che poi è proseguito in maniera ancora più aberrante, trascinando i detenuti dalla loro cella al quarto piano fino all’”acquario”, l’anticamera dell’infermeria, usata come cella liscia e punitiva. Una delle vittime aveva raccontato: “Aprirono l’idrante e mi gettarono addosso acqua ghiacciata. Mi buttarono a terra per ammanettarmi e mi colpirono con il manganello”. Poi “nel tragitto al piano terra mi riempirono di schiaffi e manate sulla testa. Mi hanno chiuso nell’acquario e lasciato per ore senza vestiti. Ma davanti al medico mi costrinsero a dire che ero caduto dalle scale”. Raddi l’ha ripetuto anche a suo padre Mario cosa aveva visto. Lui l’aveva aspettato due ore, mentre testimoniava. Ed è per questo che in carcere a Torino aveva paura di essere riportato a Ivrea, subire ritorsioni o violenze. “Tale evento, perpetrato da rappresentanti dell’istituzione pubblica, ha avuto un impatto determinante nella psicologia di Antonio che per gli anni a venire ha rivissuto l’incubo di quella sera e il terrore di essere nuovamente ristretto a Ivrea” si legge nel rapporto di Antigone. Non a caso Raddi inizia a peggiorare dopo un periodo in una cella d’isolamento, e la sua lucidità inizia a oscurarsi: “Tornano alla luce gli incubi di Ivrea e sviluppa una nuova ossessione di essere nuovamente assegnato lì. Diventa sempre più sofferente e a luglio inizia a manifestare inappetenza che gli causa svenimenti”. Tra il 7 agosto 2019 e la fine dell’anno si susseguono le segnalazioni della garante, mentre il carcere ritiene che non mangi per strategia. Il 13 dicembre vomita sangue, e poi entra in coma, ucciso da un’infezione polmonare. La procura ha chiesto l’archiviazione per i 4 sanitari e la famiglia, assistita da Gianluca Vitale, si è opposta. Da un anno e mezzo aspetta il verdetto del gip, se ci siano responsabilità per la sua morte, annunciata e inascoltata. La voce di Raddi però, in aula sarà forse utile per altri fragili come lui. Viterbo. Omicidio a Mammagialla, rinviato a giudizio un funzionario del carcere di Maria Letizia Riganelli Il Messaggero, 29 settembre 2022 Omicidio a Mammagialla, rinviato a giudizio un funzionario del carcere e assolto uno dei dirigenti. Entrambi erano accusati di omicidio colposo per la morte di Giovanni Delfino, il sessantenne viterbese morto il 29 marzo 2019 per mano di Singh Khan con cui condivideva la cella nel carcere viterbese. Khan è stato già condannato in via definitiva. Ma per quella morte la Procura aveva chiesto che la penitenziaria si assumesse le proprie responsabilità, visto che, per motivi non ancora chiari, Delfino era capitato in cella con un detenuto che avrebbe dovuto essere lasciato da solo. Sotto la lente della magistratura sono finiti i vertici del carcere. Il primo, difeso dall’avvocato Marco Russo, dopo la richiesta di rito abbreviato è stato assolto. Il secondo, assistito dall’avvocato Giuliano Migliorati, rinviato a giudizio. Rispettate le richieste fatte nella precedente udienza dal pm Michele Adragna. Il processo inizierà il 23 giugno prossimo. Secondo la Procura l’imputato non avrebbe preso in considerazione le disposizioni impartite dalla psichiatra e dalla psicologa che avevano chiaramente scritto che Khan non doveva essere messo in cella con altri detenuti e che dove essere tenuto in altissima sorveglianza. Durante l’udienza preliminare non si è costituito parte civile l’avvocato Carmelo Pirrone, che assiste tutta la famiglia di Giovanni Delfino e che fin dal primo momento si batte per portare gli agenti della penitenziaria a giudizio. Venezia. Omicidio di Lilia, il compagno trovato con un manico di scopa infilato nell’occhio di Davide Tamiello Il Gazzettino, 29 settembre 2022 Ufficialmente si è trattato di un atto di autolesionismo, ufficiosamente i dubbi su come Alexandru Ianosi Andreeva Dimitrova si sia ferito in carcere sono più di qualcuno. Il 35enne, accusato di aver ucciso a coltellate la notte tra il 22 e il 23 settembre la compagna Lilia Patranjel, al momento si trova in rianimazione, in prognosi riservata, all’ospedale dell’Angelo: è stato trovato con un manico di scopa infilato in un occhio. Il sospetto che l’uomo possa non aver fatto tutto da solo è venuto anche a qualche medico dell’Ulss, che ha chiesto lumi sulla questione alle autorità. Anche il legale del 35enne romeno, l’avvocato Francesco Neri Nardi, ha chiesto al carcere una relazione completa e dettagliata sull’accaduto. Gli elementi sospetti in questo caso sarebbero due. Il primo è di tipo medico: quel manico di scopa è andato molto a fondo, per conficcarsi così nell’orbita di un uomo ci vuole una certa forza. Inoltre, è decisamente un modo insolito per cercare di togliersi la vita. Il secondo di tipo sociologico: non è un segreto che in carcere ci sia un certo codice d’onore. Chi è dentro per reati violenti contro donne e bambini, solitamente, finisce nel mirino: motivo per cui molto spesso, in certe situazioni, viene applicato l’isolamento per motivi di sicurezza. Le autorità, in questo momento, escludono che il 35enne romeno sia stato vittima di un regolamento di conti. Al momento è ancora prematuro, ma è possibile che i legali di Ianosi chiedano un approfondimento da parte degli inquirenti. Le condizioni - Alexandru è arrivato in ospedale, già intubato, domenica pomeriggio. L’uomo è stato operato d’urgenza e da allora non si è più svegliato: è sempre stato sedato, quindi nessuno ha potuto parlare con lui. Intanto oggi si terrà l’autopsia sulla compagna, come disposto dal sostituto procuratore di Venezia, Alessia Tavarnesi. L’esame autoptico è stato affidato alla dottoressa Barbara Bonvicini, il medico legale intervenuto per i primi rilievi la mattina di venerdì scorso, quando i carabinieri si sono recati in via Mantegna. Pochi dubbi sulle cause della morte, ma l’autopsia servirà a chiarire quante siano state le coltellate inferte dall’uomo alla compagna e se la donna, prima di essere uccisa, sia stata colpita con qualche oggetto sulla testa, per stordirla. Ferrara. Torture in carcere, il giallo delle lesioni sulla schiena del detenuto di Daniele Oppo estense.com, 29 settembre 2022 Per il consulente della difesa, il volto la vittima riportava segni da colluttazione, e sulla parte posteriore ferite riconducibili a un qualcosa con l’estremità acuminata. Lesioni al volto e al collo, compatibili con una colluttazione. Lesioni alla schiena compatibili con l’impatto con un oggetto con un’estremità acuminata, ma non con il ferro di battitura. Sono le conclusioni a cui è giunto il prof Mauro Martini, medico legale e consulente nominato dall’avvocato Alberto Bova, difensore dei due poliziotti penitenziari a processo per aver torturato, queste l’ipotesi accusatoria, il detenuto Antonio Colopi il 30 settembre del 2017 durante un’ispezione nella sezione nuovi giunti dell’Arginone. Martini ha analizzato delle foto fornitegli dal legale e in base a quelle ha provato ad analizzare l’origine delle lesioni riscontrate sul corpo di Colopi (parte civile assistita dall’avvocata Paola Benfenati). Chiare, come detto, quelle al volto e al collo: “Sono contusive e stanno molto bene con una colluttazione, in particolare con pugni e graffiamenti da unghie, dunque uso delle mani”. In base a ciò si può dire con una discreta sicurezza che il detenuto sia stato colpito al volto su entrambe le orbite oculari e graffiato al collo. Da chi e in quale contesto sta al processo stabilirlo. Meno chiara l’origine delle lesioni alla schiena: tre quelle individuate nella consulenza da Martini, che sono salite almeno a cinque in udienza ieri, davanti al collegio giudicante presieduto dalla giudice Piera Tassoni, con la visione di fotografie a risoluzione molto maggiore e più nitide fornite dalla pm Isabella Cavallari. Per il medico legale la conformazione della lesione con un’area centrale che presenta la cute intatta porta a concludere che l’impatto sia avvenuto con l’estremità acuminata di un oggetto non meglio identificato, ma non a sezione rotondeggiante o circolare, come è invece in generale il ferro di battitura, che secondo l’accusa - e secondo il racconto della parte offesa - sarebbe stato usato per picchiare il detenuto. “Potrebbe essere uno spigolo, ad esempio”, ha spiegato il consulente che ha escluso in ogni caso, o almeno lo ha considerato poco probabile, che quel tipo di lesioni sia stato autoinferto da Colopi. Prima di lui sono state chiamate a testimoniare un’infermiera e la medica Giada Sibahi, già sentita e che racconto di essere rimasta scossa dopo aver visto in che condizioni versava Colopi in cella. Le loro testimonianza servono soprattutto per chiarire la posizione di Eva Tonini, la terza imputata di questo processo (assistita dall’avvocato Denis Lovison), accusata di aver scritto il falso nelle comunicazioni infermieristiche e dichiarato il falso ai carabinieri nel Nucleo investigativo nel tentativo di aiutare Casullo, Vertuani e Licari (terzo poliziotto, già condannato in abbreviato) e sviare le indagini nei loro confronti. L’infermiera ha dichiarato di aver letto verso le 11,30 del 30 settembre (i fatti oggetto del processo sono precedenti alle 9) un’annotazione sul diario infermieristico effettuata da Tonini sul fatto che Colopi, durante il giro delle terapie al mattino, fosse “polemico, rivendicativo, trovato che sbatte violentemente la testa sul blindo, continua lo sciopero della fame”. Annotazione non letta e non conosciuta dalla dottoressa, che ha riferito di aver sentito la storia della testa sbattuta contro il blindo solo giorni dopo e da voci di corridoio. Torino. Dal carcere alle biblioteche e agli uffici, il Comune dà lavoro ai detenuti torinoggi.it, 29 settembre 2022 Il progetto costerà 126.396 euro, in gran parte coperto da fondi regionali. Diciotto i disoccupati impiegati, segnalati dalle case circondariali Lorusso e Cutugno e Ferrante Aporti. Dare una prospettiva di futuro ai carcerati, per consentirgli di rifarsi una vita una volta scontata la pena. È questo il senso del progetto contro la disoccupazione dedicato a persone sottoposte a misure restrittive delle libertà personale, che mira a reintrodurre alla vita quei detenuti senza lavoro, offrendogliene uno. Il progetto permetterà a 18 detenuti del carcere Lorusso e Cutugno e della casa circondariale minorile Ferrante Aporti di Torino di essere impiegati in uffici comunali e biblioteche. Sarà il Comune di Torino a garantire loro un’indennità pari a 25,60 euro al giorno, per un massimo di 25 ore settimanali. I disoccupati potranno così mettere da parte qualcosa, ma soprattutto imparare un mestiere e ricominciare a reinserirsi nella società. L’obiettivo - come si legge nella delibera approvata dalla Giunta Lo Russo - è “il recupero sociale di persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale attraverso l’inclusione in percorsi di reinserimento che siano riconosciuti come socialmente utili, per favorire l’opportunità di esperienze sociali accanto alla possibilità di accrescere competenze e conoscenze capaci di migliorare la posizione dei partecipanti sul mercato del lavoro”. I costi coperti per metà da fondi regionali - Il costo totale del progetto (diviso in realtà in due filoni) è di 162.942 euro per il 2022 e il 2023, di cui 86.374 coperti da fondi regionali e i restanti da fondi di spesa corrente del Comune stesso. I carcerati disoccupati lavoreranno in attività comunali, come il servizio biblioteche e il servizio economato. Eboli (Sa). Otto detenuti a servizio dei poveri La Città di Salerno, 29 settembre 2022 Firmato un protocollo d’intesa, gli ospiti dell’Icatt daranno i viveri agli indigenti. All’Icatt è stato siglato un protocollo d’intesa per lo svolgimento di attività di lavoro volontario per progetti di pubblica utilità. Il protocollo, che prevede per otto detenuti la possibilità di essere impiegati in lavori socialmente utili di distribuzione dei viveri ai poveri e di accoglienza e ascolto degli indigenti, attraverso anche il supporto di un pastore evangelico, è stato firmato dal garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, dal direttore dell’istituto a custodia attenuata e per il trattamento delle tossicodipendenze di Eboli, Paolo Pastena, e dal presidente dell’associazione Acp, Giovanni Tagliaferri. Ciambriello, successivamente, ha incontrato i ristretti - 40 ad oggi - e visitato le sezioni detentive, insieme al magistrato di sorveglianza Oriana Iuliano, in istituto per colloquio individuali con i detenuti. Ancora, ha incontrato i rappresentanti delle associazioni Socrates, Filiverdi e Ogliara di Salerno, che, in base ad un progetto del garante finanziato da Cassa Ammende, hanno avviato per 20 detenuti un laboratorio di restauro e teatrale. “Il carcere di Eboli - ha detto Ciambriello - è un luogo speciale, dove si vive l’inclusione e non solo la reclusione. Oggi è stato firmato un ulteriore protocollo per attività di pubblica utilità per fare uscire dal carcere i ristretti, ma è anche attivo un protocollo, da me promosso, per tre detenuti che si recano a lavorare nel museo di Eboli. Dalla conversazione con i diversamente liberi è emerso come ci sia stato un cambio di rotta nella magistratura di sorveglianza, che in provincia di Salerno adesso conta quattro magistrati di sorveglianza, che fissano periodicamente i colloqui con i detenuti. Il dato che mi preoccupa, in relazione a Eboli, è la possibilità concreta di un deficit nell’area educativa: il capo educatori ha cambiato incarico, un’altra educatrice andrà in pensione a dicembre e la terza è in assegnazione provvisoria per un solo semestre. Spero quanto prima vengano coperti i posti di educatori in maniera definitiva”. Siena. Studenti e detenuti insieme a Suvignano di Lodovico Andreucci La Nazioni, 29 settembre 2022 Si conclude sabato il campo della legalità oltre le sbarre. Studenti e detenuti insieme per il campo della legalità Suvignano #benecomune, un progetto che durerà fino a sabato. Un campo della legalità oltre le sbarre, che coinvolgerà 16 studenti e tre detenuti di Ranza, autorizzati dal magistrato di sorveglianza perché inseriti in programmi individuali di attività di reinserimento sociale. “La loro presenza rappresenta un valore sociale aggiunto per il campo della legalità - affermano gli organizzatori - dove potranno impegnarsi lavorando alla pari con un gruppo di giovani studenti e offrire spunti di riflessione sulla legalità e sulla decostruzione di eventuali stereotipi legati al carcere”. Gli studenti invece arrivano dal Liceo ‘Enea Silvio Piccolomini’ di Siena e dal Liceo ‘Guido Castelnuovo’ e IIS ‘Benvenuto Cellini Tornabuoni’ di Firenze. Il campo è organizzato da Arci Toscana con Arci Siena, Comune di Murlo, Circolo Arci Vescovado di Murlo, Cgil, Spi-Cgil e Unicoop Firenze, con il patrocinio della Regione. In settimana sono previste attività agricole nella tenuta confiscata alla mafia, incontri sul tema della legalità. Presente anche Rosy Bindi, presidente della Commissione Parlamentare Antimafia dal 2013 al 2018. A chiudere il campo domani alle 21.15 al Circolo Arci Vescovado di Murlo la presentazione del libro ‘Quando Giovanni diventò Falcone. Ovvero se questo è un uomo’ alla presenza dell’autore Girolamo Lo Verso. Pescara. Anche gli studenti dell’Acerbo protagonisti di “Hackatraz” ilpescara.it, 29 settembre 2022 Per migliorare le condizioni delle carceri italiane. Anche alcuni studenti dell’istituto Acerbo di Pescara hanno partecipato all’iniziativa “Hackatraz” una rassegna di quattro giorni rivolta a studenti delle scuole superiori di tutta Italia che si concluderà oggi 29 settembre a Busto Arsizio ed organizzata dall’associazione “Politics Hub”. L’obiettivo è stimolare una riflessione nel pubblico più giovane sul tema del carcere e della finalità rieducativa della pena e gettare uno sguardo sul futuro della città. L’hackathon è una sfida progettuale in cui squadre composte da studenti provenienti da scuole diverse cercano di risolvere un problema della realtà che li circonda proponendo una progettualità attuabile e sostenibile sotto diversi livelli (economico, temporale, ambientale...). Questo tipo di confronto, importato dagli Stati Uniti e dalle regole ben precise, permette il raggiungimento di più obiettivi educativi: da un lato, spinge i ragazzi ad una cittadinanza più attiva e alla riflessione su tematiche sociali di cui ciascuno dovrebbe sentirsi investito personalmente; dall’altro, permette lo sviluppo di competenze trasversali, oggi più che mai fondamentali nella formazione degli studenti, come il team working, la ricerca di informazioni, il project management e la creatività. I ragazzi hanno visitato il carcere di Busto Assizio per poi avviare i lavori e le riflessioni assieme ad esperti, fra cui il direttore del Carcere di Bollate, Giorgio Leggieri, la presidente della sezione lombarda dell’associazione “Antigone” Valeria Verdolini, la psicologa esperta della tematica Teruzzi, e un ex-carcerato Carmelo Musumeci. Per la seconda tematica saranno invece presenti gli assessori all’urbanistica e allo sviluppo sostenibile. Le testimonianze dirette da parte di protagonisti del settore sono dei momenti fondamentali all’interno della sfida, in quanto permettono ai ragazzi di far aderire quanto più possibile le loro soluzioni alle problematiche reali, sciogliendo nodi di discussione all’interno dei gruppi e ricevendo dei consigli da parte di sguardi esterni alla competizione. Infine, l’ultimo giorno, le squadre (6 team composti da 10 studenti) esporranno i propri lavori di fronte a una giuria composta da membri dell’organizzazione e da esperti in materia e verranno premiati durante la cerimonia di chiusura. Gli studenti provengono Biella, Aqui Terme, Pescara, Bergamo e Campobasso. Castelfranco Emilia (Mo). Dopo le ostie per il Papa, ora nasce il marchio alimentare dei detenuti dire.it, 29 settembre 2022 Dopo l’ostificio aperto due anni fa, nella casa di reclusione di Castelfranco maturano nuovi progetti. Ha prodotto le 35.000 ostie che sono state usate nelle celebrazioni del Congresso Eucaristico nazionale, che si è aperto a Matera giovedì scorso e si è concluso domenica scorsa, 25 settembre, con la messa presieduta da papa Francesco. Ma non solo. Adesso, sta maturando una linea di prodotti alimentari con un marchio proprio, “Giorni Nuovi”, che coinvolga anche gli stessi detenuti in alcune fasi di lavorazione. Si tratta della casa di reclusione di Castelfranco Emilia, a metà strada tra Modena e Bologna: dopo essere stata coinvolta nella super fornitura di particole dall’Ispettore generale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi, ora si apre a nuove strade. A partire dall’ostificio creato due anni e mezzo fa, si occupa di tutto la cooperativa sociale Giorni Nuovi di Modena: targata Confcooperative, è stata fondata nel 2015 da cinque volontari che operano nelle carceri modenesi da una decina d’anni. “All’inizio il nostro impegno era di natura squisitamente religiosa, ma i detenuti ci chiedevano con insistenza un lavoro e una casa”, assicura Francesco Pagano, presidente di Giorni Nuovi. Il progetto dell’ostificio è stato appoggiato fin dall’inizio dalla direttrice della casa di reclusione di Castelfranco, Maria Martone, e dall’arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Maria Zuppi, che ha finanziato l’acquisto dei macchinari, poi donati al carcere dalla cooperativa. Ed è proprio qui che è nata anche l’idea del marchio alimentare ‘partecipato’ dai detenuti. “Abbiamo già venduto prodotti col nuovo marchio- approfondisce Pagano parlando all’agenzia ‘Dire’- e tutto è partito, prima del Covid in realtà, quando la direzione del carcere Sant’Anna di Modena ci propose di reimpiegare le mele in eccesso coltivate sul posto, nell’ambito di altre attività dedicate ai detenuti”. Via via, così, “abbiamo realizzato succhi di frutta e omogeneizzati per arrivare alla produzione di composte, naturali e senza conservanti, a inizio 2022. Ma ‘sforniamo’ prodotti fatti in casa anche usando mele, prugne, ciliegie, more e albicocche”, aggiunge Pagano, che ricorda come all’origine della missione “Giorni Nuovi” ci sia, più in generale, anche una battaglia di legalità, visto che la cooperativa si prepara ad imbottigliare in Emilia l’olio extravergine di oliva nelle terre, nel Mezzogiorno, strappate a ‘ndrangheta e mafia. Intanto, a Castelfranco cresce l’ostificio. Comprende un’impastatrice, una macchina per le cialde, un umidificatore, una taglierina e una sigillatrice. Alla produzione attualmente lavorano due detenuti, che presto diventeranno tre, assunti dalla cooperativa (per quattro ore al giorno). “Le nostre materie prime- racconta ancora Pagano- sono farina doppio zero e acqua. La produzione quotidiana è di 25 pacchi da 500 particole e 15 confezioni da 25 ostie usate dal celebrante. Sembra un lavoro facile, invece richiede molta attenzione e scrupolo”, ed è questo che, a quanto pare, sta appassionando molto diversi detenuti. Il progetto della coop Giorni Nuovi ha già ricevuto il plauso delle diocesi di Modena e Bologna, “sempre attente ai bisogni degli ultimi e dei carcerati”, e del resto gli stessi vescovi don Erio Castellucci e Zuppi “insistono molto sulle opere di assistenza e sostegno”, ricorda il presidente di Giorni Nuovi. In ogni caso, le ostie e il nuovo marchio in progress non rappresentano l’unico progetto gestito dalla cooperativa nelle carceri di Modena e Castelfranco. I detenuti qui, infatti, realizzano anche presepi artigianali, lavorazioni tessili e assemblaggi per alcune aziende locali. Tiene quindi a rimarcare Pagano: “I soci e volontari della cooperativa Giorni Nuovi sono impegnati ad aiutare l’uomo che soffre, anche se rinchiuso in un carcere per i reati più diversi, senza però mai giudicare. Diceva don Oreste Benzi che ‘l’uomo non è il suo errore’. Il nostro l’impegno comprende anche attività di volontariato e sostegno a vasto raggio”. Non semplice assistenzialismo o carità, dunque, “ma cerchiamo di creare occasioni di lavoro come strumento di recupero dei detenuti alimentando i loro sogni e speranze”, conclude il cooperatore. “Le ultime parole del boss”, la storia di Giuseppe Salvia rai.it, 29 settembre 2022 A quarant’anni di distanza dalla morte di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, Rai Documentari propone “Le ultime parole del boss” venerdì 30 settembre alle 21.25 su Rai2, dedicato alla storia di questo “piccolo” eroe dimenticato, ucciso dalla camorra semplicemente perché svolgeva le sue funzioni. Una coproduzione Rai Documentari e B&B Film, per la regia di Raffaele Brunetti che lo ha scritto insieme ad Antonio Mattone ed Enrico Nocera, tratto dal libro “La Vendetta del Boss” di Antonio Mattone, con il contributo di Regione Campania e Mic - Ministero della Cultura, Direzione generale cinema e audiovisivo e il sostegno di Fondazione Film Commission Regione Campania. Realizzato con sensazionali materiali di repertorio e interviste inedite, il documentario ripercorre con il ritmo incalzante del noir la vicenda del vicedirettore del più noto penitenziario di Napoli, Poggioreale, che il 14 aprile 1981 venne crivellato di colpi di pistola sulla tangenziale di Napoli, per ordine del boss della camorra, Raffaele Cutolo. Nella sua inarrestabile ascesa al potere dall’interno del carcere, Raffaele Cutolo detto ‘o professore incontrò un ostacolo in Giuseppe Salvia che, svolgendo il suo lavoro nel rispetto delle regole, non gli riconosceva i privilegi a cui era abituato. In quegli anni nel carcere di Poggioreale, purtroppo non erano le istituzioni a governare, ma Cutolo. E fu per questo che il 6 novembre 1980, dopo aver avuto l’ardire di insistere per una perquisizione di routine davanti a detenuti e agenti, Salvia venne schiaffeggiato dal boss della camorra che ebbe modo così di accrescere ulteriormente il proprio potere all’interno del carcere. Il trasferimento per motivi di sicurezza chiesto dal vicedirettore non fu concesso. Solo cinque mesi dopo, mentre era alla guida senza nessuna scorta, Salvia venne ucciso. Aveva 38 anni. La storia di Giuseppe Salvia e il dolore della sua famiglia sono stati ben presto dimenticati dall’opinione pubblica, dalla cronaca e soprattutto dallo Stato. È lo scrittore Antonio Mattone che, dopo un incontro con il figlio di Salvia, decide di riportare alla luce questa vicenda e cercare la verità: studia documenti nei sotterranei del carcere, incontra la famiglia e chi ha lavorato a fianco di Giuseppe Salvia, colleghi, guardie carcerarie, cappellani, l’avvocato del boss e, soprattutto, parla con il mandante dell’omicidio, Raffaele Cutolo. A quarant’anni dall’omicidio, il boss di Ottaviano, unico detenuto in Italia in perenne isolamento, ormai vecchio e malato ma ancora con quell’atteggiamento spavaldo che lo ha sempre contraddistinto, concede un’intervista ad Antonio Mattone, la prima dopo decenni e l’ultima prima di morire. A Mattone non è permesso registrare e neanche prendere appunti. La sua mente acquisirà tutto, impressioni, emozioni, fatti, durante un tempo indefinito: il racconto dei “bei tempi” del carcere di Poggioreale, di cui diventò il boss e da cui governò il più potente clan criminale, gli incontri con lo Stato, con le Brigate Rosse, il peso per le numerose morti causate e una vita intera dietro le sbarre. E alla fine, per la prima volta, la più grande ammissione: “Sì, l’omicidio Salvia l’ho fatto io”. Quando l’agente di custodia entra nella saletta per comunicare che il tempo è scaduto a Antonio non rimane che salutare il boss, che ricambia con un “Mi raccomando parli bene di Salvia”, e correre a trovare un posto dove scrivere gli appunti. Sale in auto e alla prima stazione di servizio tira fuori il registratore e con calma e determinazione registra i ricordi della conversazione. Ricordi che sono il filo portante di questo documentario. “Il duello sul reddito di cittadinanza è la lotta dei penultimi contro gli ultimi” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 29 settembre 2022 “Per capire bisogna assumere uno sguardo sottostante: guardare la base della piramide, quelli che stanno sotto”. Aldo Bonomi, sociologo e coordinatore del Consorzio Aaster da anni indaga le pieghe del rapporto tra economia e società, la relazione tra flussi e luoghi dentro la globalizzazione. Da questa prospettiva ha descritto la fine del fordismo e la nascita prima del capitalismo molecolare e poi di quello delle piattaforme. Ora accetta di discutere con il manifesto dei risultati delle elezioni politiche. Dunque, cosa vede dal lato dei sottostanti? Osservo la scomposizione e ricomposizione dei soggetti sociali, studio la composizione tecnica dei processi produttivi. Lo schema che adopero prevede che i flussi abbiano in impatto sui luoghi e sulle vite minuscole. Le cambiano socialmente, culturalmente, antropologicamente e direi anche politicamente. Seguendo questo schema traggo la prima conclusione: queste elezioni sono il fallimento delle élite, che non sono più in grado di produrre egemonia culturale e tranquillità sociale. Questo mi pare il primo dato dato su cui ragionare. Cosa ha prodotto questo fallimento? I flussi prima erano rappresentati da cose diverse tra loro ma molto chiare: la finanza, le reti hard-soft (come l’Alta velocità, Amazon o internet), le migrazioni. Poi sono arrivati altri tre flussi che non sono solo economici e che impattano sulla composizione sociale: la pandemia, la guerra e il gap ambientale. Aggiungo anche il Pnrr, che era stato presentato come il flusso della speranza. Tutto ciò che effetti ha prodotto nelle urne? Bisogna guardare ai ceti medi impauriti e in crisi. Sono i tanti penultimi che temono di diventare ultimi. Tra questi, facendo una forzatura dal punto di vista della lettura ideologica, ci metto anche le piccole e medie imprese, i capitalisti molecolari, i lavoratori autonomi, i precari, i lavoratori della conoscenza, la classe creative e le partite Iva. Ora, ragionando in termini politologici anche se non è il mio campo, sa dove vedo la dimensione degli ultimi? Stanno in quel 37 per cento di astensione. La politica ha sottovalutato questo tipo di fenomeni? È lo iato di cui parlavo tra le élite e i sottostanti. Da anni succedono cose che ne sono l’effetto. Il leghismo e il grillismo sono stati segnali forti. Anche quello di oggi, il melonismo, è altrettanto forte e va interpretato. Per farlo bisogna ragionare in termini gramsciani di blocco sociale ed egemonia culturale. Se uno scompone e ricompone questo blocco sociale ritrova le piattaforme territoriali e quelle digitali, fatte di piccoli comuni e territori in polvere. Ci sono anche le città-distretto, lì dove c’è la crisi della Lega. È lì che Salvini ha perso i suoi penultimi. E poi bisogna considerare i cambiamenti delle città medie e delle città metropolitane, dove è finita l’egemonia della Ztl, a proposito di élite. Dentro le città metropolitane c’è la composizione dei nuovi ultimi, ci sono quelli che non hanno reddito di sopravvivenza. Ecco: nella guerra tra i penultimi e gli ultimi la posta in palio era il reddito di cittadinanza. Che fare? Bisogna fare società, bisogna dare vita a politiche e forme di rappresentanza che si interpongano tra gli ultimi e i penultimi. Tra economia e politica, rimettere in mezzo la società. Bisogna lavorare sulle dissolvenze, sulla dissolvenza della Lega sul territorio e la dissolvenza dei partiti della sinistra. La povertà politica a sinistra contrasta con la ricchezza delle esperienze sociali sui territori... È così. Faccio un esempio: durante la pandemia ci siamo accorti che avevamo costruito un welfare verticale, ci siamo accorti che lo Stato non aveva la capacità di percorrere l’ultimo miglio. Quello spazio per fortuna era coperto da un tessuto orizzontale di militanza sociale. Ma la politica non ha capito nulla e ha continuato come prima, pensando che fosse sufficiente delegare tutto ciò alla Caritas. Invece queste pratiche sono centrali? Sono distretti sociali evoluti, interrogano l’economia e i modelli di sviluppo. Questa nebulosa è effervescenza sociale, è quella che chiamo la comunità di cura larga. Non è solo l’associazionismo, il volontariato o il terzo settore. È anche la medicina di territorio, le scuole, gli psicologi, il sindacato e le nuove rappresentanze, le organizzazioni delle piccole partite Iva e dei lavoratori creativi. Si riparte da qua, altrimenti vince la comunità rancorosa. Il rapporto tra sfera sociale e dimensione politica è il nodo irrisolto di questi anni di crisi della sinistra. Che nesso c’è tra il fare società e il potere costituente? Le esperienze di cui parlavo prima sono oasi. Noi dobbiamo capire come fare carovana tra le oasi. Prima di ripartire per il deserto, per attraversarlo e fare esodo, ci si ritrova per il caravanserraglio. Di oasi in oasi, si fa carovana. La carovana non ha a che fare la forma-partito. Basta andare in giro per l’Italia, è tutto un pullulare di fermenti che rimangono chiusi e autoreferenziali e che devono fare carovana. È questa, adesso, la grande questione politica. Sudan. “Colpevole” di adulterio: ventenne condannata a morte per lapidazione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 settembre 2022 Mariam Tirab, una donna sudanese di 20 anni, rischia di essere messa a morte mediante lapidazione. È stata giudicata “colpevole” di adulterio, ai sensi dell’articolo 146.2 del codice penale, da un tribunale dello stato del Nilo bianco. Tirab è stata interrogata e persino processata in assenza di un avvocato. L’articolo 146 del codice penale, ispirato alle leggi della shari’a, punisce le donne sposate che hanno commesso adulterio con la lapidazione, quelle non sposate con 100 frustate. Nonostante le riforme legislative del 2020, che tra l’altro misero fuorilegge le punizioni corporali, la legislazione in materia di adulterio è rimasta intatta. Le avvocate e le organizzazioni per i diritti delle donne del Sudan si stanno mobilitando e hanno chiesto una revisione della sentenza. In altri casi analoghi, il processo d’appello ha portato all’annullamento della condanna. Dal colpo di stato militare del 25 ottobre 2021, che ha frantumato le speranze di cambiamento suscitate dalla fine della dittatura di Omar el-Bashir nell’aprile 2019, gli attacchi contro i diritti delle donne sono all’ordine del giorno. La “polizia sociale” è costantemente all’opera per controllare come le donne vestono e come appaiono in pubblico. Nelle università sono stati introdotti rigorosi codici d’abbigliamento e le studentesse possono accedere alle lezioni solo se velate. Molti spazi pubblici sono inibiti alle donne. Tirab è detenuta in condizioni inumane nella prigione di Kosty. Negli ultimi giorni, un giudice ha emesso un divieto di visitarla in carcere. Messico. La verità sulla strage dei 43 studenti di Ayotzinapa di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 29 settembre 2022 Dopo depistaggi e minacce, emerge il vero motivo del misterioso massacro del 2014: un carico di droga nascosto dai narcos nell’autobus su cui viaggiavano gli ignari ragazzi. Lo sostiene la commissione incaricata dal governo. Dietro le bugie esercito, polizia e magistrati. Un carico di eroina. Trenta chili, forse 50. E una montagna di soldi. Lo aveva adombrato nel 2015 la Commissione internazionale di esperti forensi e giuristi della Iachr, la Corte Interamericana dei Diritti Umani. Lo sostiene adesso la Commissione per la Verità e l’accesso alla Giustizia (Cova) creata dal governo di Andrés Manuel López Obrador sin dalla sua elezione nel 2018. Sarebbe questo il movente di un mistero che l’ultimo rapporto dell’organismo messicano definisce senza mezzi termini un “crimine di Stato”: l’inseguimento, il fermo, l’arresto e la scomparsa di 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa, borgo contadino della città di Iguala, Stato di Guerrero, sudovest del Messico. Otto anni di bugie - Ci sono voluti 8 anni per sollevare il velo omertoso, pieno di bugie e depistaggi avallati anche dai più alti vertici delle Istituzioni, compreso l’allora presidente Enrique Peña Nieto, per tracciare una prima verità su un caso che ha scosso il mondo e su cui decine di famiglie hanno continuato a lottare per chiedere giustizia. Ma soprattutto placare l’angoscia che le tiene inchiodate alla speranza di saperli ancora in vita. Arresti eccellenti - Un giallo infinito. La vergognosa montatura di una tragedia che polizia, autorità politiche, esercito, magistratura hanno cercato di liquidare come un regolamento di conti tra Cartelli rivali. Ma che invece indica intrecci e connivenze tra narcotraffico e istituzioni: l’esempio più eclatante di una realtà che tutti conoscono e tutti fanno finta di ignorare. L’inchiesta avviata dalla magistratura ha portato a oltre 150 arresti. Settanta restano ancora in carcere. Ci sono tutti: poliziotti, soldati, ufficiali, giudici, sindaci, criminali, narcotrafficanti. Con alcuni detenuti eccellenti: l’ex Procuratore generale, l’ex segretario alla Sicurezza, un ex generale dell’esercito in pensione che la sera della strage comandava la 35° Zona Militare, quella di Guerrero. Lo chiamano, a ragione, “il generale della notte di Iguala”. È accusato di aver fatto uccidere 6 dei 43 studenti fermati due giorni dopo la loro scomparsa. Padri e madri li cercavano, mentre le autorità li davano per morti. In realtà erano ancora vivi. Cosa accadde il 26 settembre 2014 - Poco dopo le 17 del 26 settembre 2014 oltre 100 studenti della Raúl Isidro Burgos, un istituto che alleva i futuri professori delle medie superiori, si radunano sotto scuola per fare quello che fanno ogni anno. Impossessarsi degli autobus di trasporto pubblico e andare a Città del Messico per partecipare alla manifestazione che commemora la strage studentesca di Tlatelolco avvenuta nel 1968. Potevano concentrarsi nel vicino comune di Chilpancingo. Scelgono Ayotzinapa per aggirare la polizia con cui, anche in passato, si sono spesso scontrati. Sono considerati dei “rossi”, combattivi, rivoluzionari. Hanno dato filo da torcere alle autorità con i loro scioperi e le loro rivendicazioni. Ma sono decisi, ostinati figli di contadini. Poveri. Non hanno i soldi per il biglietto. Arrivano al deposito e dopo qualche spintone con i custodi si impossessano di cinque bus. Tre vanno verso nord, due a sud. I primi sfiorano il comizio elettorale che la moglie del sindaco sta tenendo in vista del voto. Ma lo evitano. A loro non interessa, hanno un altro obiettivo. Poco prima dell’imbocco dell’autostrada trovano un blocco. Ci sono cinque furgoni carichi di agenti della polizia locale, provinciale e persino federale. Vengono investiti da una pioggia di proiettili. Uno studente, Aldo Gutiérrez, è colpito alla testa che lo lascia in coma. Molti sono feriti. Venti sono fermati e portati via. Gli altri due bus riescono ad uscire dalla città ma davanti al Palazzo di Giustizia subiscono un assalto. Sono crivellati di colpi. Per farli scendere i poliziotti lanciano all’interno del mezzo delle bombe lacrimogene. Una quindicina è presa, gli altri fuggono tra le viuzze della periferia. Uno dei pochi che ha ancora il cellulare con i soldi chatta alla madre: “Ci vogliono ammazzare”. Chiamano amici e altri studenti, organizzano una conferenza stampa che viene di nuovo assaltata dalle forze dell’ordine. Ormai è il caos. Il terrore si fa strada in piena notte. Ci sono già tre studenti morti, gli altri cercano scampo dove possono. Gli altri tre bus continuano ad essere bersagliati di colpi. Cecchini sparano dai cavalcavia, moriranno anche cinque persone a bordo di un taxi e di un’auto di passaggio raggiunti dai proiettili. Solo all’alba si placa la vera guerra ingaggiata da un apparato militare abnorme, compreso l’esercito e i servizi segreti. Tutti cercano chi manca all’appello e tutti si rivolgono alla polizia che farfuglia qualche scusa ma dice di non sapere nulla. La tesi ufficiale - Quaranta giorni dopo, la svolta. Il 7 novembre il pm Murillo Karam si presenta davanti ai media e dice che i 43 studenti scomparsi sono stati consegnati dalla polizia locale agli uomini del Cartello Guerreros Unidos. Affiancato da uno stuolo di investigatori mostra un video nel quale tre sicari del gruppo confessano il misfatto: li hanno portati a bordo di alcuni camion nella discarica vicina di Cocula e qui si sono liberati dei corpi con un grande falò. Sono stati bruciati e i resti calcinati gettati in sacchi nel San Juan, il fiume che scorre a fianco. Grande clamore sulla stampa mondiale, orrore per una fine che mette all’angolo il Messico di Peña Nieto. Il presidente tace ma fa sapere che sostiene la versione. Per mesi, quasi due anni, solo i parenti dei ragazzi si sgolano dicendo che si tratta di una montatura. Spiegano che per bruciare tanti corpi il falò della morte avrebbe dovuto ardere per due giorni e che nessuno ha notato alcuna fiamma nella discarica. Ogni tesi diversa da quella ufficiale viene smontata, ogni protesta trattata come comprensibile reazione di parenti che non si rassegnano alla realtà. Il lavoro della Commissione - Viene incaricata una Commissione internazionale che lavora, tra mille difficoltà e boicottaggi, e conclude smantellando la tesi governativa. I tre sicari denunciano di essere stati torturati per ammettere qualcosa che non hanno fatto. Resta il dubbio che sanno più di quello che dicono di ignorare. Ma solo nel 2018, con l’elezione di Andrés Manuel López Obrador, il caso Ayotzinapa riesce a farsi largo tra i depistaggi. Una Commissione governativa approda alle stesse conclusioni di quella dei periti internazionali. Il rapporto di 400 pagine ripercorre nel dettaglio la notte del 26 settembre. Non ci sono tracce degli studenti nella discarica di Iguala; solo un frammento di osso, grazie al dna, identifica un ragazzo: ma è rinvenuto a un chilometro dalla presunta pira. Qualcuno lo ha messo sul posto. Un burrone vicino a La Carniceria, un vecchio mattatoio. Nessuno parla, confessa, ammette. Crescono le incongruenze, le contraddizioni. Ma un muro granitico di menzogne si oppone all’evidenza delle nuove indagini. Cambiano gli inquirenti, vengono arrestati il sindaco e la moglie di Iguala nel frattempo fuggiti. L’aria si fa pesante. La verità sta emergendo e chi può scappa, ricatta, minaccia, nel silenzio di un imbarazzo sempre più forte. Due mesi fa l’arresto più clamoroso: l’ex procuratore generale Jesús Murillo. Una settimana dopo, altra picconata alla barriera di bugie: finisce in manette l’ex generale Alejandro Saavedra Hernández. Nel 2014 comandava l’esercito a Iguala. Sa quello che è accaduto. Era collegato in diretta con chi operava sul campo. Ha forti protezioni ma il clamore della nuova svolta ha costretto la magistratura a metterlo in carcere. Una settimana dopo l’emissione di un ordine di cattura che nessuno osava applicare. Grazie alle intercettazioni della Dea a Chicago si è aggiunto l’ultimo tassello alla verità di questa orrenda strage. I 43 studenti di Ayotzinapa sono stati fatti fuori, un po’ dai Guerreros Unidos, un po’ dalla polizia e dai militari perché avevano preso l’autobus sbagliato. Il quinto, quello fatto sparire dalle carte ufficiali che parlavano solo di 4 mezzi. Nascosto in un sottofondo c’era il carico di eroina destinato proprio al mercato nel nord degli Usa. Si dice che appartenesse al Chapo Guzmán. Perderlo significava subire la ritorsione del boss del Cartello di Sinaloa, l’allora re della cocaina nel mondo che non disdegnava trafficare anche eroina. Lo chiedeva il mercato americano. Guerrero è sempre stato lo snodo per il traffico di droga verso gli Stati Uniti. Per sfuggire all’affronto, tutti si sono imposti il silenzio. Con la complicità di ogni apparato. Il caso andava chiuso. A pagare dovevano essere solo 43 studenti ignari di tutto. Sedevano sopra un tesoro trasformato nella bomba che li ha uccisi. Le iraniane sognano il vento tra i capelli di Eva Morletto Grazia, 29 settembre 2022 Teheran è in rivolta dopo la morte di Mahsa Amini, massacrata dalla polizia perché non si era coperta il capo. Un’altra ragazza è stata uccisa per essersi tolta il velo islamico durante una manifestazione. E la protesta si allarga ad altre città. La storia di Mahsa Amini, 22 anni, massacrata di botte e uccisa perché una ciocca di capelli sfuggiva all’hijab, il velo che copre il capo delle donne, ha forse avviato una nuova rivoluzione in Iran. La sorte toccata alla giovane iraniana non è solo un episodio di cronaca, ma ha ricordato a tutte la minaccia che incombe quando un Paese è in balia del fondamentalismo islamico. Simbolo di questa violenza è diventata anche l’attivista Hadith Najafi, 20, scesa in piazza per ricordare Mahsa e uccisa dalla polizia. Il suo gesto di legarsi i capelli in segno di sfida è diventato l’immagine della rivolta. Qualcosa sta cambiando in Iran. Le donne e tanti uomini stanno dicendo basta alla repressione e le loro immagini sono diventate virali a livello globale grazie ai social. “Non ho mai visto così tante persone scendere in strada a manifestare”, racconta emozionata l’attrice e regista iraniana Shaghayegh Norouzi, cofondatrice del movimento antimolestie #MeToo nel Paese islamico e da sempre in prima fila nella lotta per i diritti femminili. “Ieri una mia amica è scesa in strada dopo aver postato un messaggio su internet. Le ho chiesto come mai non mettesse filtri alla propria voce, come mai non si proteggesse. Mi ha risposto che avrebbe messo anche il suo nome, che non temeva più niente, che era ora di alzare la testa”. La polizia, che vigila sui comportamenti degli iraniani, si dota ormai di tecnologie sofisticate per individuare i manifestanti. “L’Iran è un Paese dove vengono spesi budget enormi per finanziare una polizia che può arrestarti se mostri una ciocca di capelli o se la tua gonna non copre la caviglia per intero. Hanno messo a punto sistemi di riconoscimento facciale. Per questo tipo di iniziative non sembrano esserci limiti economici. Invece, quando si tratta di proteggere le donne, lo Stato non mette un soldo: non c’è quasi nulla per finanziare programmi contro la violenza di genere, non c’è nulla per prevenire le aggressioni sessuali, che sono frequenti. D’altra parte, il ragionamento degli islamisti è questo: se tu ti vesti come prescritto dalle leggi islamiche, non c’è alcun motivo perché tu venga aggredita. Se ti violentano, se ti fai molestare, è perché hai sbagliato qualcosa, quindi la colpa è tua. La realtà è molto lontana da questo ragionamento, per questo è nato anche qui il movimento #MeToo”. A chi le chiede se non abbia paura, se la polizia religiosa non la consideri un bersaglio, l’attrice risponde: “Tutte le donne in Iran possono essere un bersaglio della polizia morale. Esci di casa e puoi essere arrestata senza nemmeno saperne il motivo. Attualmente in Iran ci sono sette donne in prigione, sette donne poco più che ventenni, che rischiano ognuna dieci anni di carcere per non aver indossato bene l’hijab. La loro vita sarà rovinata”. In questi giorni nel Paese internet non è facilmente accessibile e i social network sono più che mai sotto il controllo delle autorità. “Se queste manifestazioni sono state possibili, è anche grazie all’enorme solidarietà ricevuta da tutto il mondo sui social network. Da tre anni a questa parte i movimenti femministi hanno acquistato una nuova forza. La reazione delle iraniane è stata alimentata da un’opinione pubblica internazionale”. C’è chi pensa che il velo islamico sia anche una libera scelta. “In Iran le donne sfidano la morte per liberarsi da questo simbolo di oppressione, ma rispetto l’idea di libertà di scelta”, dice Shaghayegh. “Bisogna però chiedersi che cosa ci sia dietro quella “libertà”. Le donne che scelgono il velo possono amare chi vogliono? Possono andare dove vogliono? Possono fare il lavoro che desiderano e che le rende economicamente indipendenti? Va considerato tutto questo prima di usare la parola “libertà”. Da qualche anno, Shaghayegh Norouzi vive tra l’Iran e Barcellona. “Essere un’attrice in Iran significa che davanti alla telecamera non puoi mostrare la bocca, non puoi sdraiarti, non puoi fare nulla che richiami anche lontanamente la seduzione. Dietro la telecamera invece, gli uomini che lavorano con te non ci pensano due volte se vogliono farti delle avance pesanti e molestarti. Essere attrice in Iran vuol dire questo. Preferisco partire”.