“Fermiamo i suicidi dietro le sbarre”, ancora un appello dalle associazioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2022 Da numeri così impressionanti - 65 suicidi dall’inizio dell’anno, uno ogni 4 giorni arriva la denuncia di Sbarre di Zucchero (neo associazione costituita dalle ex detenute del carcere di Verona), Nessuno Tocchi Caino, Voci di dentro, Diritti umani dei detenuti calpestati da uno stato assente, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e la redazione di Ristretti Orizzonti. Una denuncia contro la disumanità di un sistema che non riesce ad avere attenzione e cura degli esseri umani che gli sono affidati. Il carcere non può essere una sorta di pattumiera dove gettare tutti assieme malati, disagiati, disoccupati, emarginati, stranieri, dipendenti da sostanze, giovani vittime di chi li ha trasformati in manovali della criminalità per i suoi profitti. Qui di seguito il loro appello. “Non si ferma la strage nelle carceri italiane. Dall’inizio dell’anno, in questi 8 mesi e 25 giorni, 65 persone si sono uccise nelle loro celle: 16 avevano tra i 20 e i 37 anni, 8 avevano oltre cinquant’anni, tra loro quattro donne. Una persona ogni 4 giorni ha infilato la testa attorno a un cappio o ha inalato il gas del fornellino. Nel solo mese di agosto una persona si è suicidata ogni due giorni. Morti di solitudine, paura, disperazione, angoscia. Perché senza speranza. Morti di galera. Persone diventate vittime di un sistema carcere mantenuto in piedi, nonostante i suoi risultati spesso fallimentari, da chi non vuole vedere e da chi non sa gestire il disagio con i giusti strumenti di una società civile, che dovrebbero essere innanzitutto medici, educatori, insegnanti. E poi con politiche per l’inclusione e per l’inserimento sociale e lavorativo. Morti di galera (certo sappiamo bene che non tutte le carceri sono uguali, ma il dolore è tanto ovunque, e anche la solitudine, e la scarsa attenzione per gli affetti delle persone detenute). Morti in una galera dove con la morte e la sofferenza si convive giorno dopo giorno. Per questo motivo ci facciamo portavoce delle compagne e dei compagni di queste 65 persone che si sono tolte la vita e delle persone che soffrono nelle carceri italiane, bollenti in estate e gelide in inverno, dove è pesante il degrado reso ancor più insopportabile dal sovraffollamento, e denunciamo la disumanità di un sistema che non riesce ad avere attenzione e cura degli esseri umani che gli sono affidati. Chiediamo oggi con forza, come del resto lo facciamo da tanto tempo, che la società non si volti dall’altra parte (non tutta ma tanta parte lo fa) e che si renda conto che, suicidio dopo suicidio, si sta reintroducendo di fatto la pena di morte cancellata con l’entrata in vigore della Costituzione italiana il 1 gennaio 1948. Allo stesso tempo chiediamo che sia finalmente applicato l’articolo 27 della Costituzione al secondo e al terzo comma dove si afferma che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva e che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Vogliamo che il dolore che queste 65 persone hanno manifestato rinunciando alla propria vita sia finalmente ascoltato e sia messa fine a questa strage, che può terminare quando il carcere cesserà di essere una sorta di pattumiera dove gettare tutti assieme malati, disagiati, disoccupati, emarginati, stranieri, dipendenti da sostanze, giovani vittime di chi li ha trasformati in manovali della criminalità per i suoi profitti. Chiediamo innanzitutto che si combatta in tutti i modi l’isolamento del sistema carcere, favorendo sempre di più l’ingresso negli istituti della società civile; che le donne in carcere siano rispettate e non schiacciate in un sistema e una organizzazione prettamente maschili; che diventi realtà l’affermazione che nessuna mamma con bambino deve più stare in cella; lo si è detto troppe volte, è ora di tradurlo in pratica; che sia agevolata l’organizzazione di corsi e laboratori gestiti dalle associazioni di volontariato, e la vita delle carceri non finisca alle tre del pomeriggio, come succede ancora in moltissimi istituti; che il sistema sanitario prenda in carico davvero le persone e le curi come meritano tutti gli esseri umani, e che ci si ricordi sempre che chi è malato gravemente non deve stare in carcere; che vengano aumentate le ore di colloqui settimanali e liberalizzate le telefonate come accade in molti paesi d’Europa, con telefonini personali per ciascun detenuto abilitati a chiamare parenti e avvocati: non si tratta di un lusso, ma di un po’ di umanità e di rispetto della sofferenza, anche quella delle famiglie; che vengano assunti in misura adeguata operatori, come psicologi ed educatori, che oggi sono del tutto insufficienti; che venga depenalizzato il consumo di sostanze stupefacenti, perché la legge attuale sulle droghe porta spesso in carcere persone che non ci dovrebbero stare; che venga posto un limite all’uso della custodia cautelare - un vero e proprio abuso visto che l’Italia è il quinto Paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare, il 31%, ovvero un detenuto ogni tre; che venga rispettato lo stesso Ordinamento penitenziario, che a più di quarant’anni dalla sua emanazione è ancora in parte inapplicato, come ad esempio là dove parla di Consigli di aiuto sociale, che dovrebbero occuparsi del reinserimento delle persone detenute nella società e non sono mai stati istituiti; che vengano sviluppati e rafforzati programmi per il reinserimento delle persone che escono dal carcere con le misure di comunità, che poi sono l’unico modo vero per porre un freno alla recidiva. Potremmo continuare all’infinito, perché tante sono le richieste e altrettanti sono i diritti continuamente violati. Alla base di tutto restano però dei principi di civiltà: la sicurezza si raggiunge facendo prevenzione, la prevenzione si fa migliorando la qualità di vita nelle carceri. La strage di quest’anno deve cessare. Mai più una/uno di meno”. Carceri, diventano la regola le videochiamate dei detenuti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2022 Stabilizzazione delle videochiamate tra i familiari e i detenuti e nuovi percorsi per il sostegno psicologico alla Polizia penitenziaria. Sono i contenuti di due circolari trasmesse dal Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Carlo Renoldi, agli organi centrali e periferici dell’amministrazione. La circolare n. 3696/6146, mira a “favorire il ricorso alle videochiamate, particolarmente idonee ad agevolare il mantenimento delle relazioni familiari - si legge nella nota - e soddisfare le imprescindibili esigenze di sicurezza”. L’esperimento durante l’emergenza pandemica - Lo strumento di comunicazione - introdotto in via sperimentale durante l’emergenza Covid - diventerà ora un modo ordinario, per assicurare il diritto costituzionale di tutti gli individui a mantenere relazioni socio familiari. L’opportunità è estesa a tutti i circuiti penitenziari, a eccezione del regime speciale 41-bis. Nella circolare, vengono individuati alcuni standard per impedire un uso distorto delle videochiamate. Il capo del Dap Renoldi sottolinea come colloqui e telefonate assumano una “funzione fondamentale sul piano trattamentale, quale modalità di conservazione delle relazioni sociali e affettive nel corso dell’esecuzione penale e quale strumento indispensabile - scrive nella circolare - per garantire il benessere psicologico delle persone detenute, al fine di attenuare quel senso di lontananza dal mondo delle relazioni affettive, che è alla base - aggiunge - delle manifestazioni più acute di disagio psichico, spesso difficilmente gestibili dal personale e che, non di rado, possono sfociare in eventi drammatici”. E che gli eventi drammatici non siano un’accezione lo testimoniano i dati e l’allarme lanciato dall’Associazione Antigone. Non ci sono mai stati, infatti, così tanti suicidi in carcere nei primi due terzi dell’anno. Nei primi 8 mesi del 2022, 59 persone si sono tolte la vita in carcere, più di una ogni quattro giorni, con un’età media di 37 anni. Di nuovi “percorsi di sostegno” a beneficio del personale penitenziario si occupa invece la circolare n. 3697/6147, che prevede azioni di supporto psicologico per la Polizia penitenziaria. Previsioni già contemplate nel Documento di programmazione generale emanato l’11 gennaio 2022 dal Dap, dopo l’istituzione di un fondo da 1 milione di euro, finanziabile ogni anno, per consentire un’azione di sostegno psicologico per il personale della Polizia penitenziaria. Un pool di esperti, soprattutto psicologi del lavoro, viene assicurato agli operatori penitenziari. Una rete di supporto, che dovrebbe essere operativa entro il 15 ottobre, per affrontare ed elaborare eventi critici e traumatici, a cui possano essere stati esposti durante il servizio, come suicidi, tentati suicidi. Videochiamate per i detenuti, arrivano le regole dopo la sperimentazione di Maria Carmela Fiumanò dire.it, 28 settembre 2022 Una circolare del Dap per favorire le comunicazioni con le famiglie; escluso dal beneficio chi è al 41bis. Indicazioni per stabilizzare e regolamentare l’uso di videochiamate da parte dei detenuti e nuovi percorsi per il sostegno psicologico alla Polizia penitenziaria. Sono i contenuti di due circolari trasmesse dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi, agli organi centrali e periferici dell’Amministrazione stessa. Con la circolare n. 3696/6146, riguardante “Colloqui, videochiamate e telefonate”, si intende “favorire il ricorso alle videochiamate, particolarmente idonee ad agevolare il mantenimento delle relazioni familiari - si legge - e soddisfare le imprescindibili esigenze di sicurezza”. Questo strumento di comunicazione - introdotto in via sperimentale durante l’emergenza pandemica - “diventa ora una modalità ordinaria, per assicurare - spiega il ministero della Giustizia - il diritto costituzionale di ciascun individuo al mantenimento delle relazioni socio familiari”. Viene esteso a tutti i circuiti penitenziari, ad eccezione del regime speciale previsto dall’art. 41bis. Nella circolare, si individuano alcuni standard per impedire condotte inappropriate delle videochiamate e facilitare al contempo il lavoro del personale penitenziario. Il capo Dap Renoldi sottolinea come colloqui e telefonate assumano una “funzione fondamentale sul piano trattamentale, quale modalità di conservazione delle relazioni sociali e affettive nel corso dell’esecuzione penale e quale strumento indispensabile - scrive nella circolare - per garantire il benessere psicologico delle persone detenute, al fine di attenuare quel senso di lontananza dal mondo delle relazioni affettive, che è alla base - aggiunge - delle manifestazioni più acute di disagio psichico, spesso difficilmente gestibili dal personale e che, non di rado, possono sfociare in eventi drammatici”. Di nuovi “percorsi di sostegno” a beneficio del personale penitenziario si occupa invece la circolare Dap n. 3697/6147, che prevede azioni di supporto psicologico per la Polizia penitenziaria, secondo l’atto di indirizzo della Ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Si tratta di previsioni già contemplate nel Documento di Programmazione generale emanato l’11 gennaio 2022 dal Dap, dopo l’istituzione - per la prima nell’ultima legge di Bilancio - di un fondo da 1 milione di euro, finanziabile ogni anno, per consentire un’azione strutturata e permanente di sostegno psicologico per il personale della Polizia penitenziaria. Con l’intervento di esperti, soprattutto psicologi del lavoro, viene assicurato agli operatori penitenziari una rete di supporto, per affrontare ed elaborare eventi critici e traumatici, a cui possano essere stati esposti durante il servizio, come suicidi, tentati suicidi dei detenuti, aggressioni o evasioni. Con la circolare, il capo Dap Carlo Renoldi invita i Provveditorati ad “attivare con urgenza le azioni necessarie affinché la rete di sostegno sia operativa entro il 15 ottobre, utilizzando - scrive - i fondi già assegnati per l’anno corrente”. Arriva l’aiuto psicologico, ma per gli agenti penitenziari è “offensivo” di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 settembre 2022 Erano attese da tempo, le circolari emesse ieri dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi per stabilizzare e regolamentare l’uso di videochiamate da parte dei detenuti e stabilire nuovi percorsi per il sostegno psicologico alla Polizia penitenziaria. Naturalmente il sostegno è messo a disposizione, non imposto, ma per alcuni sindacati degli agenti - incredibilmente - si tratta di un provvedimento “offensivo”. Un atto di “propaganda”, afferma Uilpa, da parte del Dap che dovrebbe invece preoccuparsi del sottodimensionamento del Corpo (“18 mila unità in meno”, sostiene il sindacato). Renoldi ha spiegato che il ricorso alle videochiamate sperimentate durante la pandemia e introdotte ora come strumento di comunicazione “ordinaria” in tutti i circuiti tranne il 41 bis, sono “particolarmente idonee a soddisfare le imprescindibili esigenze di sicurezza”, oltre ad “assicurare il diritto costituzionale di ciascun individuo al mantenimento delle relazioni socio familiari”. Con una seconda circolare, poi, il Dap “prevede azioni di supporto psicologico” per gli operatori, “secondo l’atto di indirizzo della Ministra Cartabia” e già finanziate con un milione di euro nell’ultima legge di Bilancio. E invece, a protestare c’è anche il Sappe secondo il quale il governo Draghi non dovrebbe intervenire “in zona Cesarini” sull’esecuzione penale e dovrebbe invece lasciar fare al nuovo ministro di Giustizia e al “nuovo Capo Dap, com’è nella logica dello spoil system”. Il sindacato penitenziario conta sul governo Meloni, naturalmente, perché più adatto a “modificare l’insostenibile e pericolosa situazione delle carceri italiane”. In quale direzione, è facile immaginarlo. Codice ristretto, arriva il vademecum per i detenuti: guida per comprendere regole e agevolazioni di Viviana Lanza Il Riformista, 28 settembre 2022 Avrebbe potuto pensarci l’amministrazione, invece lo hanno fatto gli avvocati, con il contributo dei garanti. Poi lo Stato si è accodato. Meglio di niente, si dirà. Sta di fatto che adesso il “Codice ristretto” c’è. È un opuscolo per i detenuti, soprattutto per quelli più soli e più deboli, quelli che hanno meno possibilità di essere informati pur avendo il diritto di esserlo come gli altri. “Codice ristretto” è dunque un vademecum, fornisce informazioni sulle norme che regolano i percorsi di risocializzazione. Si tratta di una rapida guida che serve anche a non ingolfare la Sorveglianza di fascicoli destinati ad essere definiti con provvedimento di inammissibilità, perché indica al detenuto tutta una serie di informazioni per renderlo consapevole dei suoi obblighi e dei suoi diritti, di ciò che può richiedere e di quello che non può essergli concesso in base alla pena che sta scontando: parliamo di liberazione anticipata, lavoro esterno, permessi ordinari e quelli speciali, affidamento in prova ai servizi sociali o affidamento di tossicodipendenti, detenzione domiciliare, semilibertà. Uno strumento di informazione, quindi, che diventa per il detenuto un modo per acquisire maggiore consapevolezza di sé e della realtà, quella penitenziaria, in cui si trova ad essere nel momento in cui varca la soglia di un carcere. Uno strumento utile soprattutto a quei detenuti più soli, più deboli, quelli che non possono permettersi la guida costante di un avvocato, quelli che non hanno famiglia o non hanno una famiglia che li affianca e li aiuta nel percorso detentivo e rieducativo. Quelli, insomma, che pur avendo una condanna da scontare potrebbero avere accesso a dei benefici ma non ne chiedono perché non hanno tutte le informazioni necessarie per avanzare richieste in tal senso. Inoltre, il “Codice ristretto” può rivelarsi un vademecum utile anche per chi opera all’interno di un istituto di pena, quindi per gli operatori della giustizia che intendono conoscere e confrontarsi con i diritti e con le preclusioni previsti dalle norme che regolano l’esecuzione della pena. Sabato il “Codice ristretto” realizzato per gli istituti penitenziari della Campania (e già in parte distribuito) è stato presentato a Santa Maria Capua Vetere, nella sala convegni del Palazzo San Carlo, alla presenza del presidente del Tribunale sammaritano Gabriella Maria Casella, del procuratore della Repubblica Carmine Renzulli, del magistrato di sorveglianza Marco Puglia, dell’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile nazionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione camere penali italiane, del garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Il “Codice ristretto” nasce da un’iniziativa della Camera penale di Bologna con il patrocinio dell’Osservatorio Carcere delle Camere penali. “Valutato il pregio dell’opera - ha sottolineato l’avvocato Polidoro -l’Osservatorio carcere ne ha proposto la diffusione a tuti i presidenti delle Camere penali territoriali. La suddivisione in tre tabelle (una per i detenuti ordinari, una seconda per quelli condannati per delitti inseriti nell’articolo 4bis e una terza per i casi speciali) consente, con l’incrocio dei dati, di comprendere immediatamente se vi sono le condizioni per l’applicazione di una misura alternativa”. “Ho accolto con entusiasmo la proposta dell’Osservatorio Carcere di diffondere in Campania il “Codice ristretto” - ha spiegato il garante Ciambriello -. Questo testo è uno strumento per fornire informazioni comprensibili e immediate. Non vuole sostituite la consultazione delle norme di legge ma esclusivamente agevolare la comprensione del possibile accesso ai benefici. Il supporto del difensore - ha concluso - rimane un riferimento fondamentale e irrinunciabile per la piena tutela dei propri diritti”. Altolà della destra a Cartabia: di carcere ora ci occupiamo noi di Angela Stella Il Riformista, 28 settembre 2022 La Lega mette in guardia su nomine “last minute” al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria C’è chi non esclude il siluramento di Renoldi, che però va avanti: più videochiamate per i detenuti. Tutti sono concentrati sul toto nomi dei prossimi ministri del nuovo Governo. Per la giustizia in pole la leghista Giulia Bongiorno e Carlo Nordio, eletto con Fratelli D’Italia. Dalla nomina del Guardasigilli dipenderà anche il destino del Capo del Dap, Carlo Renoldi. Voluto fortemente dalla Ministra Cartabia, potrebbe dover sloggiare a breve - e sarebbe davvero una grave perdita per il mondo dell’esecuzione penale - perché la sua visione costituzionalmente orientata del carcere non piace ai sostenitori del famoso slogan “certezza della pena è certezza del carcere” che connota i due maggiori azionisti della maggioranza, Fd’I e Carroccio. Proprio un big della Lega, molto attento alle tematiche carcerarie, non ha escluso che ci possa essere un ricambio a largo Luigi Daga. Al contrario, quando la Ministra Cartabia si insediò mantenne i vertici scelti da Bonafede. Intanto ieri Jacopo Morrone, appena rieletto alla Camera nella squadra di Salvini, e il sindacato della polizia penitenziaria Sappe hanno fatto quadrato intorno a possibili nomine last minute da parte di Cartabia: “Mi auguro - ha detto il segretario Donato Capece - che la Ministra della Giustizia non proceda a presentare, in uno degli ultimi CdM, provvedimenti per la nomina, “in zona Cesarini”, di nuovi dirigenti generali del Dap”. Gli ha fatto eco appunto l’ex sottosegretario: “Ha ragione chi mette guardia il Governo in scadenza a non procedere a nuove nomine dirigenziali. Sono certo che la sensibilità istituzionale del ministro uscente Marta Cartabia prevarrà e che ogni nomina sarà consegnata al prossimo Guardasigilli, che, auspichiamo, presti una rinnovata e sollecita attenzione nei confronti del sistema penitenziario e delle riforme di cui necessita”. Cartabia e Renoldi non si lasciano però distrarre dalle polemiche: la prima aspetta che venga convocato un Cdm per mettere il sigillo finale alle riforme del processo penale e civile, essendo arrivati i pareri delle Commissioni parlamentari e qualche giorno fa anche quello del Csm. Il capo del Dap, invece, ha trasmesso due circolari di rilievo agli organi dell’amministrazione. Con la prima circolare si intende “favorire il ricorso alle videochiamate, particolarmente idonee ad agevolare il mantenimento delle relazioni familiari e soddisfare le imprescindibili esigenze di sicurezza”. Questo strumento di comunicazione - introdotto in via sperimentale durante l’emergenza pandemica - diventa ora una modalità ordinaria. Viene esteso a tutti i circuiti penitenziari, ad eccezione del 41bis. Renoldi sottolinea come colloqui e telefonate assumano una “funzione fondamentale sul piano trattamentale, quale modalità di conservazione delle relazioni sociali e affettive nel corso dell’esecuzione penale e quale strumento indispensabile per garantire il benessere psicologico delle persone detenute, al fine di attenuare quel senso di lontananza dal mondo delle relazioni affettive, che è alla base delle manifestazioni più acute di disagio psichico, spesso difficilmente gestibili dal personale e che, non di rado, possono sfociare in eventi drammatici”. Soddisfatta la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini che su Facebook ha scritto: “Quando si mantiene la parola data. Grazie al capo del Dap e a tutti coloro che hanno partecipato alla lotta nonviolenta essendo “speranza”“. Di nuovi “percorsi di sostegno” a beneficio del personale penitenziario si occupa invece l’altra circolare, che prevede azioni di supporto psicologico per la Polizia penitenziaria, secondo l’atto di indirizzo della Ministra Cartabia. Si tratta di previsioni già contemplate nel Documento di Programmazione emanato a gennaio dal Dap, dopo l’istituzione di un fondo da 1 milione di euro, finanziabile ogni anno, per consentire un’azione strutturata e permanente di sostegno psicologico per il personale. Con l’intervento di esperti, soprattutto psicologi del lavoro, viene assicurato agli operatori penitenziari una rete di supporto, per affrontare ed elaborare eventi critici e traumatici, a cui possano essere stati esposti durante il servizio, come suicidi, tentati suicidi dei detenuti, aggressioni o evasioni. Lucia Annibali rieletta alla Camera: “Combatterò perché ci siano alternative al carcere” Il Resto del Carlino, 28 settembre 2022 Lucia Annibali, 45 anni, urbinate, risponde dalla sua casa di Roma ed è felice: “Sono stata rieletta alla Camera grazie ai voti ottenuti a Firenze dove Italia Viva di Matteo Renzi insieme ad Azione di Calenda ha ottenuto un grande risultato, oltre il 15 per cento. È stata una campagna elettorale faticosa ma quanta passione e impegno. Ora ci aspettano cinque anni di opposizione a questa destra con la quale non andremo mai a governare. Ci confronteremo sui vari temi e se ci saranno convergenze non avremo paura nel votarle. Ma dubito, a partire dalle carceri”. Aggiunge Lucia Annibali: “lo lotterò perché gli istituti di pena non siano più luoghi di suicidi e disperazione. Si deve lavorare perché lo scontare la pena possa essere inteso anche in forme diverse dalle attuali, non necessariamente dietro alle sbarre. E rispondo anche alla domanda che riguarda la mia persona e ciò che mi è successo: sono passati quasi dieci anni e il destino carcerario del responsabile è uscito totalmente dalla mia agenda. Lavoro in Parlamento per la comunità intera, guardo avanti e guardo lontano. Mi rivolgo a tutti, c’è ancora tanto da fare per combattere le tante violenze di cui sono vittime le donne, dobbiamo fare grandi passi avanti. Ma voglio dire un’altra cosa: sono orgogliosa di rappresentare la mia terra stando, purtroppo seppur da sola, all’opposizione”. “Abolire Bonafede”, il piano per la giustizia che ha già messo d’accordo il centrodestra di Simona Musco Il Dubbio, 28 settembre 2022 Eliminare del tutto il blocca-prescrizione, rottamare la spazza-corrotti: Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia hanno deciso. E l’autore di quelle leggi invoca la resistenza. “La priorità è proteggere la Spazza-corrotti, il Reddito e il Superbonus”. L’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ne è certo: il governo di centrodestra tenterà di cancellare le tracce del Movimento 5 Stelle. E lo farà, secondo quanto dichiarato in un’intervista al Fatto Quotidiano, mandando in soffitta le leggi bandiera del partito di Giuseppe Conte. Prima fra tutti la Spazzacorrotti, approvata quando a Palazzo Chigi sedevano assieme grillini e leghisti e a via Arenula c’era proprio l’avvocato Bonafede. Quel provvedimento, che tanto fece discutere il mondo degli addetti ai lavori portando alla sospensione della prescrizione e all’assimilazione dei reati contro la pubblica amministrazione ai delitti di criminalità mafiosa o terroristica, provocò non pochi imbarazzi nel Carroccio, tanto da essere definito da Giulia Bongiorno, allora ministro per la Pubblica amministrazione, una “bomba atomica sganciata sul processo penale”. La riforma, alla fine, passò, grazie agli accordi che hanno consentito alla Lega di portare a casa i provvedimenti promessi in campagna elettorale ai propri elettori. E l’imbarazzo, a distanza di quattro anni dall’approvazione della norma, è ormai passato. La Lega, dunque, una volta rinnegati propri trascorsi con i grillini non nasconde l’intenzione di tornare sui propri passi anche rispetto all’era Cartabia, annunciando la volontà di ripristinare la prescrizione sostanziale abolita dalla norma Bonafede. Una posizione che di certo Giorgia Meloni ha sempre fatto propria: Fratelli d’Italia, in sede di approvazione finale della Spazzacorrotti alla Camera, votò contro, quella volta in compagnia di Pd e Forza Italia (quest’ultima propose anche una pregiudiziale di costituzionalità). “Questo provvedimento - aveva detto in aula la deputata meloniana Carolina Varchi - provocherà dei danni incredibili. La tanto paventata e sbandierata lotta alla corruzione in realtà resterà soltanto uno slogan valido fino alle prossime elezioni europee”. Parole precedute da quelle della collega Ylenja Lucaselli, secondo cui “l’idea che viene da questo provvedimento è che bisogna punire tutti, perché in quei tutti prima o poi ritroveremo anche il colpevole e non importa se si è colpevoli veramente o no. Ebbene, questo non è lo Stato di diritto che noi vogliamo e non è lo Stato di diritto che nessun investitore estero vorrebbe”. Oggi, invece, sono Alberto Balboni, vicepresidente della commissione Giustizia del Senato, e Andrea Delmastro Delle Vedove, responsabile giustizia di FdI, a ribadire il concetto. “Fin da quando si è ipotizzato di passare dalla prescrizione di Bonafede all’improcedibilità, noi abbiamo sempre sostenuto che il nuovo istituto avrebbe allungato i tempi dei processi - ha dichiarato Balboni -. Il motivo è semplice: nel momento in cui il giudice di primo grado ha a disposizione tutto il tempo consentito prima che il reato si estingua, tende a utilizzarlo per intero. Prima invece, con la prescrizione, lo stesso giudice sapeva bene che se non avesse lasciato un margine sufficiente per i successivi gradi di giudizio, il reato sarebbe inevitabilmente decaduto, e cercava di affrettarsi”. E Delmastro Delle Vedove, al Dubbio, aveva ricordato che “i diritti incomprimibili dei cittadini rispetto alla forza dello Stato vanno ripristinati”. Insomma, il colpo di spugna è di certo tra i piani di Meloni. Ma non solo. La Lega, in tema di giustizia, punta tutto su “garantismo e certezza della pena”, garanzia del diritto di difesa e della terzietà del giudice e limiti all’appello dell’accusa. Le priorità di Forza Italia sono invece separazione delle carriere e divieto di impugnare le assoluzioni, mentre il possibile ministro della Giustizia del governo Meloni, Carlo Nordio, è più preciso sui primi passi da muovere: modificare il reato di abuso di ufficio, abolire la legge Severino, separare le carriere e ripristinare l’immunità parlamentare, tema sul quale si registrano le prime piccole crepe nel centrodestra. Bonafede non ha nascosto i propri timori per la possibilità che sia proprio l’ex procuratore aggiunto di Venezia a prendere quello che fu il suo posto a via Arenula. “Nordio”, aveva scritto l’ex ministro pochi giorni fa sul suo profilo Facebook, “ha rilasciato un’intervista che svela plasticamente già adesso le intenzioni del centrodestra e da cui emerge la totale assenza di consapevolezza sulle priorità della giustizia: è il ritorno alla cara vecchia “caciara” che mette in secondo piano i problemi veri. Infatti i problemi, per il centrodestra, non sono la lotta alla criminalità organizzata, alle mafie e alla corruzione; loro si concentrano su separazione delle carriere, depenalizzazioni varie e immunità parlamentare. È totalmente fuori da ogni contatto con la realtà parlare delle priorità della giustizia senza fare riferimento ad investimenti concreti in assunzioni, digitalizzazione ecc.”. A buttarla in “caciara”, evidentemente, sono bravi tutti. Nordio si autocandida alla Giustizia. E manda per aria il puzzle dei ministri di Valentina Stella Il Dubbio, 28 settembre 2022 L’ex pm si propone per “qualche incarico” nel ministero finora guidato da Cartabia. Ma il suo passo in avanti potrebbe mettere in difficoltà Meloni. Ormai è epidemia da febbre del totoministri. Retroscena e speculazioni abbandonano sul mosaico del prossimo Esecutivo. E anche qui, su questo giornale, abbiamo provato a delineare nei giorni scorsi possibili scenari per il sostituto della professoressa Marta Cartabia al ministero della Giustizia: dai senatori Francesco Paolo Sisto ad Anna Maria Bernini, in quota Forza Italia, passando ovviamente per Giulia Bongiorno, responsabile giustizia della Lega, e Carlo Nordio, appena eletto deputato con Fratelli D’Italia. Ieri hanno fatto la loro entrata in scena persino i bookmaker: per Oddsdealer.net (fornitore di quote per i bookmaker internazionali), il Carroccio sarebbe avanti nelle quote con Giulia Bongiorno a 1,80 davanti a Marcello Pera (a 2,90) e a Carlo Nordio (a 5 volte la scommessa). In realtà Pera è più quotato per essere il prossimo ministro delle Riforme costituzionali e pure la nota penalista sembra re-indirizzata nella direzione del ministero della Pubblica amministrazione. Sempre ufficiosamente è rispuntato il solito evergreen di questi giochi: ossia il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri quale possibile nome che il Carroccio potrebbe mettere sul tavolo per la formazione del nuovo Governo. Sarebbe rispedito al mittente anche questa volta dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, come fece già Giorgio Napolitano, quando a proporlo fu Matteo Renzi? La stessa sorte potrebbe toccare anche Carlo Nordio, solo però in quanto ex magistrato? Insomma, ci muoviamo quasi tra le pagine di un racconto fantascientifico. Tutto questo quadro potrebbe comunque sgretolarsi perché in una intervista rilasciata al Gazzettino a ridosso dell’esito elettorale del 25 settembre proprio Carlo Nordio si è autocandidato non troppo velatamente a fare il Guardasigilli: “La mia cultura è essenzialmente tecnica e giuridica - ha spiegato nel video. E in effetti la carica di ministro sarebbe più politica che tecnica. D’altro canto, dopo aver visto la situazione e sofferto anche la situazione di disagio enorme che hanno gli uffici giudiziari, beh la tentazione di metter piede al ministero di via Arenula con qualche incarico e rimediare rapidamente a questo disastro che sta rallentando i nostri processi c’è”. È vero, è stato modesto nel dire “qualche incarico”, ma per un profilo alto come il suo ci sarebbe solo la poltrona da ministro. Non è un caso che da molti, dall’inizio della campagna elettorale, Nordio è stato incoronato ed è considerato ministro in pectore della Giustizia. Però una cosa è se lo dicono gli altri, altra cosa è se lui stesso lancia un chiaro messaggio - “voglio fare il Guardasigilli” - rompendo, con la naturale schiettezza a cui ci ha abituati, quel riserbo che a tutti spetta in questi giorni, in attesa che siano i leader di partito a sedersi intorno ad un tavolo. Questo slancio dell’ex procuratore, ora scrittore e già primo sostenitore dei referendum “giustizia giusta” promossi da Lega e Partito Radicale, potrebbe mettere in difficoltà la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, qualora avesse altri progetti per lui. Anzi, potrebbe diventare una vera e propria grana. Non perché non possa essere tra i suoi desiderata quello di averlo come ministro della Giustizia, ma perché dovrebbe già considerare quella casella riempita nel complicato scacchiere delle nomine, senza quindi poterla utilizzare nella trattativa con gli alleati, in primis con Matteo Salvini, che sembra aver promesso battaglia per stilare la lista dei nomi dei prossimi ministri, sebbene sia uscito sconfitto dal voto. Paradossalmente per Meloni la gestione dei rapporti con Lega e Forza Italia, dato il divario elettorale, sarà più semplice per un verso ma molto più complicata per un altro. E quindi alla fine ci chiediamo: a questo punto, la leader di Fratelli d’Italia potrebbe mai far finta di non aver sentito o rifiutare la diretta e gentile autocandidatura di Nordio? Potrebbe mai proporgli, ad esempio, di fare il sottosegretario nel dicastero guidato dalla Bongiorno o da un qualsiasi altro ministro? Improbabile. O potrebbe farlo puntare alla presidenza della Commissione Giustizia della Camera? Questo sarebbe un bel ruolo da ricoprire, ma verrebbe accettato con serenità da Nordio dopo che ha espresso chiaramente la sua volontà di guidare il dicastero della Giustizia? E Meloni potrebbe mai tenere in Parlamento un Nordio scontento? Quasi impossibile. I danni irreversibili delle indagini spettacolarizzate di Bruno Ferraro Libero, 28 settembre 2022 Ogni qualvolta l’ipotesi di un fatto corruttivo viene considerata a livello di Procura e finisce immancabilmente sui giornali, si registrano atteggiamenti e reazioni verbali dello stesso tipo. Per i colpevolisti necessità per l’indagato di fare un passo indietro, un plauso sottinteso alla giustizia, l’attacco agli avversari e al partito di appartenenza dell’indagato. Per i garantisti o innocentisti l’affermazione che l’avviso di garanzia non è una condanna, che la partecipazione a cene ed eventi promossi dal presunto corruttore non è prova di colpevolezza, che occorre evitare la gogna mediatica, che le intercettazioni vanno correttamente decrittate. Se poi si guarda alla gamma delle ipotesi accusatorie, le figure di reato sono più o meno le medesime: abuso di ufficio, rivelazioni di segreto di ufficio, falsità varie, fiancheggiamento di un’associazione a delinquere (cosiddetto concorso esterno), finanziamento illecito, peculato, “spese pazze” (a proposito dei rimborsi erogati a parlamentari ed amministratori regionali). Non mancano ovviamente i moralisti (evitare ogni tentativo di avvicinamento di imprenditori), quelli che mettono in guardia dalle “verità” delle intercettazioni (attenzione all’ostentazione strumentale di legami preesistenti) e quelli che sciorinano consigli agli amministratori (attenzione, vigilanza, responsabilità le parole chiave). A livello normativo sono stati fatti nel tempo passi in avanti incoraggianti anche se non risolutivi: autority anti corruzione, falso in bilancio, autoriciclaggio, aumento delle pene, sconti di pena per i corruttori collaboranti. Stenta a decollare una concreta disciplina del conflitto di interessi. È stata innalzata la soglia per evitare le pubbliche gare ed accelerare le procedure nell’ottica dello sblocca cantieri che ha permesso ad esempio la ricostruzione a tempo di record del ponte Morandi a Genova. A livello giudiziario il discorso si fa più articolato. Le indagini vengono spesso spettacolarizzate, le colpevolezze vengono date per certe, si fa un esagerato ricorso alle misure cautelari, i “mostri” vengono sbattuti in prima pagina. A distanza di tempo arrivano le archiviazioni e le assoluzioni, che però non rimediano al danno di carriere politiche interrotte. C’è poi il problema delle notizie che vengono divulgate a ridosso di importanti appuntamenti elettorali. La conclusione, per quanto concerne i rapporti tra mondo politico e mondo giudiziario, è una: equilibrio, moderazione, rispetto delle garanzie individuali, no alla spettacolarizzazione. Racconto un episodio. Un collega gip mi venne a trovare come Presidente del Tribunale e mi chiese un consiglio sull’opportunità di emettere una misura cautelare a pochi giorni di distanza dalle elezioni in cui il soggetto era candidato. Gli suggerii di occuparsene dopo le elezioni per non alterarne il risultato. A distanza di tempo chiesi al collega se vi erano stati sviluppi, mi rispose che aveva soprasseduto e che aveva poi assolto l’indagato con formula piena. Ogni commento è superfluo. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Roma. Detenuto morto a Regina Coeli. Un testimone: “Soffocato con un braccio al collo” di Michela Allegri Il Messaggero, 28 settembre 2022 Indagine per omicidio. Lo hanno trovato steso in terra, nella sua cella di Regina Coeli, la numero 24, in pieno pomeriggio. Carmine Garofalo, 49 anni, detenuto per tentato omicidio e tentata rapina, è morto il 16 agosto scorso, mentre era appoggiato alle sbarre in attesa di un caffè. Un decesso che il carcere ha catalogato come legato a cause naturali, ma sul quale ora indaga la Procura di Roma, dopo la segnalazione della Garante dei detenuti del Campidoglio, Gabriella Stramaccioni: Garofalo sarebbe stato ucciso, preso alle spalle e soffocato, forse dal compagno di cella. A raccontarlo sono stati altri due detenuti, che hanno detto di avere assistito alla scena. Hanno spiegato che nell’ultimo periodo a Garofalo era stato cambiato compagno di reclusione: secondo la loro versione, il secondo letto della cella sarebbe stato occupato da un uomo pericoloso, con problemi psichiatrici e che aveva tentato di uccidere il suo precedente compagno di cella. Lo hanno sentito urlare diverse volte, hanno detto di avere assistito a scontri e liti. Il 49enne è morto verso le 17,30 del 16 agosto: il suo decesso è stato dichiarato dal personale sanitario alle 17,41. È stato trovato disteso al suolo all’interno della cella numero 24, nella settima sezione. Il soccorso e il massaggio cardiaco sono stati inutili, così come la corsa in ambulanza. I medici non hanno potuto fare altro che constatare il decesso, che inizialmente sarebbe stato attribuito a un aneurisma. A distanza di una decina di giorni, la segnalazione dei detenuti: Garofalo sarebbe stato afferrato da dietro, la persona che era insieme a lui gli avrebbe stretto un braccio intorno al collo fino a farlo soffocare. I vicini di cella avrebbero anche detto che, all’arrivo degli agenti penitenziari il compagno di reclusione di Garofalo si sarebbe infilato a letto facendo finta di dormire. Poco prima sarebbe anche stato visto pulire in terra con uno straccio. Alla Garante è stato detto che la versione ufficiale fornita parla di una caduta accidentale, a causa della quale Garofalo avrebbe sbattuto la testa a terra. Subito dopo i fatti, alcuni detenuti avrebbero iniziato a battere le inferriate gridando: “Assassini”. Dopo questo racconto è stata inoltrata una segnalazione alla Procura, che stava già indagando sul decesso. Dalle relazioni sul detenuto e sul suo comportamento all’interno della prigione romana emergono alcuni dettagli: prima della morte, catalogata come “decesso naturale”, c’erano state diverse segnalazioni nelle quali venivano evidenziate problematiche con il compagno di cella e atteggiamenti di protesta e di autolesionismo. Tanto che dal 2 agosto era stato disposto che la stanza venisse sorvegliata a vista. Intanto, dopo il caso, anche il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha disposto un’ispezione all’interno della casa circondariale. Nel mirino degli inquirenti, ora, oltre all’omicidio, potrebbe finire anche la scarsa sorveglianza delle celle, in un carcere alle prese con problemi di sovraffollamento: a Regina Coeli si trovano circa un migliaio di detenuti, mentre i posti a disposizione - secondo i dati diffusi dal ministero della Giustizia - sarebbero poco più di 600. Un problema che riguarda tutta l’Italia, dove tantissime case circondariali sono alle prese con allarmi sicurezza. Oltre al sovraffollamento, altri due dati preoccupano: la presenza di detenuti con malattie psichiatriche che si trovano in carcere, in attesa di venire collocati nelle Rems, e l’alto tasso di suicidi. Dall’inizio dell’anno già sessanta detenuti si sono tolti la vita. Nel mese di agosto si sono uccise all’interno delle prigioni addirittura 15 persone. L’ultimo caso, nel carcere Maresciallo Di Bona, ex Ucciardone, a Palermo. All’interno della nona sezione un detenuto ha cercato di farla finita legandosi le lenzuola attorno al collo. Il 18 settembre, invece, un recluso si è ucciso in bagno nel carcere napoletano di Poggioreale. La famiglia aveva chiesto più volte che venisse trasferito ai domiciliari per problemi di salute. Napoli. Detenuto morto a Poggioreale, slitta l’autopsia. Il fratello: “Soccorso con l’aspirina” quotidiano.net, 28 settembre 2022 L’esame disposto dalla Procura di Napoli è stato rinviato “sine die”, la famiglia del 56enne trovato senza vita in cella chiede di accelerare i tempi: “Questi ritardi preoccupano”. Slitta l’autopsia del detenuto morto a Poggioreale, la famiglia chiede aiuto per far luce sulla vicenda. Il 56enne avrebbe accusato un malore nella notte tra sabato e domenica 18 settembre - e per questo sarebbe stato visitato - per poi morire in cella nel carcere napoletano. La scoperta è stata fatta domenica mattina dagli agenti della polizia penitenziaria. Il garante: “Aveva dolori da giorni” - Era prevista per oggi al Policlinico, dove è stata portata la salma, l’autopsia disposta dalla Procura di Napoli per fare luce sulla morte di un detenuto, ma l’esame è slittato “sine die”. Il detenuto è morto probabilmente per infarto. “Ho incontrato in mattinata i suoi quattro compagni di cella, che mi hanno raccontato dei suoi dolori, da giorni: dolore al braccio, vomito, degli interventi fatti dal medico di turno in nottata”, ha raccontato il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello. Il magistrato di turno ha sequestrato la sua cartella clinica. Il fratello: “Aveva problemi di salute” - “Mi preoccupano questi i ritardi: noi vogliamo che sia chiarita la vicenda, mio fratello era in carcere ma soffriva di gravi problemi di salute “, si sfoga Gennaro Perrone, fratello della vittima. “La notte in cui è venuto a mancare - continua - per tre volte è stato soccorso, ma con l’aspirina e poi con l’ossigeno, e noi solo alle 6 del mattino abbiamo saputo che erano morto. È morto per un infarto, questo noi già lo sappiamo, perché soffriva di questo”. La famiglia, rappresenta dal penalista napoletano Domenico De Rosa, ha più volte chiesto che il detenuto fosse trasferito ai domiciliari per problemi di salute, richiesta che non è stata accolta. Torino. Giustizia riparativa, approvati due progetti per l’inclusione lavorativa dei detenuti audiopress.it, 28 settembre 2022 Sono stati approvati dalla Giunta Comunale due progetti per l’inserimento al lavoro di persone private della libertà personale. Si tratta di iniziative promosse dall’assessorato al Lavoro, nella logica della giustizia ‘riparativa’ prevista dall’Ordinamento Penitenziario che offre la possibilità ai detenuti di prestare la propria attività all’esterno nell’ambito di progetti di pubblica utilità in favore della collettività, da svolgere negli Enti pubblici. L’Esecutivo di Palazzo Civico ha quindi deciso di istituire un nuovo cantiere di lavoro della durata di 12 mesi (dal 2 novembre 2022 al 31 ottobre 2023) per 14 disoccupati sottoposti a misure restrittive della libertà personale e segnalati dalla Casa Circondariale di Torino, dall’Ufficio Esecuzione Pena Esterna di Torino e Asti e dall’Istituto penale minorile “Ferrante Aporti”. A questo si affiancherà un altro cantiere di lavoro in autofinanziamento per la durata di 12 mesi (dal 2 novembre 2022 al 31 ottobre 2023) per 4 disoccupati sottoposti a misure restrittive della libertà personale e segnalati dalla Casa Circondariale di Torino. Entrambi i progetti saranno presentati alla Regione Piemonte per la necessaria autorizzazione. I progetti prevedono, inoltre, azioni di consulenza, orientamento, formazione e supporto per la ricerca attiva di un’occupazione per 10 disoccupati, mentre per i rimanenti 8 è in fase di predisposizione un ulteriore affidamento. Eboli (Sa). Detenuti fuori dal carcere per attività socialmente utili: firmata l’intesa salernotoday.it, 28 settembre 2022 Il Garante Ciambriello, successivamente, ha incontrato i ristretti - 40 ad oggi - ed ha visitato le sezioni detentive, insieme al magistrato di sorveglianza Oriana Iuliano, in Istituto per colloquio individuali con i detenuti. Nella mattinata di ieri, il Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale si è recato nella Casa di reclusione di Eboli per siglare un protocollo d’intesa per lo svolgimento di attività di lavoro volontario per progetti di pubblica utilità. Il protocollo, che prevede per otto detenuti la possibilità di essere impiegati in lavori socialmente utili di distribuzione dei viveri ai poveri e di accoglienza e ascolto degli indigenti, attraverso anche il supporto di un pastore evangelico, è stato firmato dal Garante campano, Samuele Ciambriello, dal direttore dell’Istituto a custodia attenuata e per il trattamento delle tossicodipendenze di Eboli, Paolo Pastena e dal presidente dell’associazione “Acp”, Giovanni Tagliaferri. Il Garante Ciambriello, successivamente, ha incontrato i ristretti - 40 ad oggi -, ed ha visitato le sezioni detentive, insieme al magistrato di sorveglianza Oriana Iuliano, in Istituto per colloquio individuali con i detenuti. Poi, ha incontrato i rappresentanti delle associazioni “Socrates”, “Filiverdi” e “Ogliara” di Salerno, che, in base ad un progetto del Garante finanziato da Cassa Ammende, hanno avviato per 20 detenuti un laboratorio di restauro e teatrale. Il Garante campano: “Il carcere di Eboli è un luogo speciale, dove si vive l’inclusione e non solo la reclusione. Oggi è stato firmato un ulteriore protocollo per attività di pubblica utilità per fare uscire dal carcere i ristrettì, ma è anche attivo un protocollo, da me promosso, per tre detenuti che si recano a lavorare nel museo di Eboli. Dalla conversazione con i diversamente liberi è emerso come ci sia stato un cambio di rotta nella magistratura di sorveglianza, che in provincia di Salerno adesso conta quattro magistrati di sorveglianza, che fissano periodicamente i colloqui con i detenuti. Il dato che mi preoccupa, in relazione a Eboli, è la possibilità concreta di un deficit nell’area educativa: il capo educatori ha cambiato incarico, un’altra educatrice andrà in pensione a dicembre e la terza è in assegnazione provvisoria per un solo semestre. Spero quanto prima vengano coperti i posti di educatori in maniera definitiva, così da consentire un percorso di continuità trattamentale per i detenuti” Bologna. Pratello pieno, ragazzi trasferiti Il Resto del Carlino, 28 settembre 2022 Numeri record al carcere minorile del Pratello, dove ieri i giovanissimi detenuti accolti nella struttura sono arrivati a essere addirittura 49, sui 40 posti (aumentati a 44) disponibili tra il primo piano destinato ai minorenni e il secondo, riservato ai giovani adulti fino a 25 anni. Prima di ieri, a luglio si era toccata quota 47 ragazzi. Una situazione complessa che ha costretto al trasferimento di un ragazzo al carcere di Nisida, a Napoli, “perché - come spiega il sindacato Sinappe - a nord le strutture sono tutte al collasso: Treviso, Milano e Torino sono interessate da interventi di restauro e dunque non a ‘pieno servizio’. Questi trasferimenti però fanno venire meno il contatto tra i giovanissimi detenuti e le famiglie, fondamentale nel loro percorso rieducativo”. Il punto, per il sindacato, non è la qualità del lavoro svolto all’interno del minorile, “dove servizi educativi e attività sono di altissimo livello, ma la carenza, a fronte di questi numeri, di spazi comuni per i ragazzi”. Numeri dovuti a un incremento spaventoso della criminalità minorile, che porta alla necessità di rivedere gli spazi, come auspicato dallo stesso direttore del Pratello Alfonso Paggiarino, che aveva proposto la riapertura di carceri più piccole in altre città così da riuscire a rispondere a questo fenomeno. “Senza gravare ulteriormente - aggiunge il Sinappe - sul già pesante lavoro del personale di polizia penitenziaria”. Milano. Ritratti in udienza come in Usa, prima sperimentazione in Italia Adnkronos, 28 settembre 2022 Prima sperimentazione in Italia di ritratti dal vivo in tribunale a Milano (courtroom sketching). Lunedì 19 settembre, durante la fase dibattimentale di un processo per omicidio in corte d’Assise del Palazzo di Giustizia milanese, l’artista Andrea Spinelli ha messo in atto la prima sperimentazione di ritratti dal vivo in un tribunale italiano. Si tratta di una assoluta novità per il processo penale italiano che nasce dalla volontà dell’artista Spinelli e trova l’accoglimento e l’avallo del presidente vicario del tribunale Fabio Roia con la collaborazione del presidente della Corte di Assise di Milano Ilio Mannucci Pacini. Il progetto ha l’ambizione di riproporre la tradizione Usa del courtroom sketching, ovvero la pratica di ritrarre dal vivo attraverso mezzi pittorici ciò che accade di giornalisticamente rilevante durante le udienze. Negli Stati Uniti tale pratica viene adoperata dal diciannovesimo secolo ed è spesso utilizzata in modo parallelo o alternativo alle moderne riprese fotografiche o televisive. Durante l’udienza, l’artista ha realizzato sei ritratti dal vivo, utilizzando una tecnica pittorica mista (inchiostro e acquerello su carta), creando così di fatto un precedente assoluto nel processo penale italiano e confermandosi primo courtroom artist in Italia. Busto Arsizio. “Migliorare le condizioni delle carceri”, studenti alla ricerca di una soluzione varesenews.it, 28 settembre 2022 L’associazione Politics Hub organizza “Hackatraz” una rassegna di quattro giorni rivolta a studenti delle scuole superiori di tutta Italia. Due i temi principali: la finalità rieducativa della pena e uno sguardo sul futuro delle città. L’associazione Politics Hub organizza a Busto Arsizio “Hackatraz” una rassegna di quattro giorni rivolta a studenti delle scuole superiori di tutta Italia. Due i temi principali: la finalità rieducativa della pena e uno sguardo sul futuro delle città. Stimolare una riflessione nel pubblico più giovane sul tema del carcere e della finalità rieducativa della pena e gettare uno sguardo sul futuro della città. Focalizzandosi su questi due obiettivi l’associazione Politics Hub, in collaborazione con l’assessorato alle Politiche educative, la rete nazionale S@LT Steam Academy, l’Istituto di Istruzione Secondaria “Daniele Crespi” e l’associazione Amanetta, ha organizzato un hackathon, che si sta svolgendo fino al 29 settembre nelle sale del Museo del Tessile. L’hackaton è una sfida progettuale in cui squadre composte da studenti provenienti da scuole diverse cercano di risolvere un problema della realtà che li circonda proponendo una progettualità attuabile e sostenibile sotto diversi livelli (economico, temporale, ambientale…). Questo tipo di confronto, importato dagli Stati Uniti e dalle regole ben precise, permette il raggiungimento di più obiettivi educativi: da un lato, spinge i ragazzi ad una cittadinanza più attiva e alla riflessione su tematiche sociali di cui ciascuno dovrebbe sentirsi investito personalmente; dall’altro, permette lo sviluppo di competenze trasversali, oggi più che mai fondamentali nella formazione degli studenti, come il team working, la ricerca di informazioni, il project management e la creatività. Dopo il successo riscosso dalla prima edizione dell’hackathon che ha portato più di 50 ragazzi a redigere un modello di Costituzione Europea, l’associazione Politics Hub ne propone una nuova versione, dedicata a due temi: l’Hackatraz, che andrà ad affrontare il rispetto dell’articolo 27 del dettato costituzionale, la lotta alla recidiva e la garanzia di migliori condizioni di vita ai carcerati, e “Design your city”, sfida che chiamerà i ragazzi a immaginare la Busto del 2050, la città in cui vorranno vivere da grandi, partendo da un’analisi urbanistica e dai progetti di rigenerazione urbana. In particolare, per la prima tematica si prevede una visita presso il Carcere di Busto Arsizio; nei due giorni successivi, i lavori delle diverse squadre saranno intervallati da interventi da parte di esperti, tra cui il direttore del Carcere di Bollate, Giorgio Leggieri, la presidente della sezione lombarda dell’Associazione “Antigone”, Valeria Verdolini, una psicologa esperta della tematica, dott.ssa Teruzzi, e un ex-carcerato, Carmelo Musumeci. Per la seconda tematica saranno invece presenti gli assessori all’Urbanistica e allo Sviluppo Sostenibile. Le testimonianze dirette da parte di protagonisti del settore sono dei momenti fondamentali all’interno della sfida, in quanto permettono ai ragazzi di far aderire quanto più possibile le loro soluzioni alle problematiche reali, sciogliendo nodi di discussione all’interno dei gruppi e ricevendo dei consigli da parte di sguardi esterni alla competizione. Infine, l’ultimo giorno, le squadre (6 team composti da 8 studenti) esporranno i propri lavori di fronte a una giuria composta da membri dell’organizzazione e da esperti in materia e verranno premiati durante la cerimonia di chiusura. Grazie alla rete S@LT, parteciperanno, oltre ai ragazzi del Crespi e dell’ITE Tosi, anche gli studenti di alcune scuole dislocate sull’intero territorio nazionale, così da garantire un confronto che vada al di là delle contingenze delle singole realtà locali. Si tratta di istituti di Biella, Aqui Terme, Pescara, Bergamo e Campobasso. Reggio Calabria. Lo scrittore Mencarelli: “Il dolore dei detenuti dimenticato dalla società” di Rosa Cambara conmagazine.it, 28 settembre 2022 “I detenuti mi hanno raccontato le loro difficoltà nel vivere la pena come possibilità di espiazione della propria colpa, per poi rientrare nel mondo del lavoro, nella società. Il nostro Paese su questo è ancora molto indietro”. Ce ne parla lo scrittore Daniele Mencarelli, che ha incontrato i detenuti della casa circondariale “Panzera” di Reggio Calabria per “Adotta uno scrittore”, il progetto del Salone del libro di Torino, sostenuto dall’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte in collaborazione con la Fondazione Con Il Sud. Mencarelli nei suoi libri ha indagato a fondo l’animo umano, raccontando il suo personale percorso di sofferenza e redenzione. In carcere ha presentato il suo ultimo libro “Sempre tornare”, che completa la trilogia autobiografica dopo “La casa degli sguardi” e “Tutto chiede salvezza”. Nei tre libri l’autore romano ha raccontato momenti della sua vita che hanno contribuito alla sua formazione e crescita, tra il riconoscimento del dolore, la ricerca di un equilibrio e l’accettazione di sé. Ne “La casa degli sguardi” Mencarelli ha raccontato la sua esperienza lavorativa all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, svolta in un momento di profonda crisi personale. In questa “casa” speciale, abitata dai bambini segnati dalla malattia, è riuscito a trovare la forza di riprendere in mano la sua vita e costruire qualcosa, affrontando la sofferenza per uscirne con nuove consapevolezze. Nel successivo “Tutto chiede salvezza”, vincitore del Premio Strega Giovani nel 2020, l’autore ha parlato del trattamento sanitario obbligatorio a cui è stato sottoposto a 20 anni in seguito a una violenta esplosione di rabbia. Durante la settimana trascorsa in un reparto di psichiatria insieme ad altri cinque uomini, ha sentito nascere nei loro confronti, giorno dopo giorno, un profondo senso di fratellanza e un bisogno reciproco di sostegno. “Sempre tornare” completa il ciclo raccontando di un Daniele adolescente, ma con uno sguardo sulle cose e sulle persone molto più profondo di quanto ci si possa aspettare da un ragazzo. La capacità di capire gli altri, di immergersi nei loro racconti, di sentire sulla propria pelle le emozioni e la sofferenza che provano è venuta fuori anche nell’incontro con i detenuti di Reggio Calabria. “Un incontro - spiega - che ha fatto percepire soprattutto a me quanto sia grande l’umanità, quanto sia toccata, sfiorata, colpita da mille temi che tendenzialmente si tendono a dimenticare: il tema del dolore, della libertà, della pena”. Reggio Calabria. Garante dei detenuti: “L’albero della legalità è un forte segnale per il futuro” ilreggino.it, 28 settembre 2022 Per la Russo: “Si deve raccontare perché la verità non è solo un fatto di coscienza, ma una condotta irrinunciabile per costruire su valori forti”. “Il ruolo delle Istituzioni nel 2022 è certamente quello di saper assolvere ai propri doveri scevri da bandiere e futili personalismi. Essere Istituzioni, rappresentare uno specifico mondo, significa assumersi una grande responsabilità e compiere un passo indietro rispetto al proprio “Io” per un maggiore lavoro di squadra, di sinergie e di sinodalità”. Queste le parole del garante dei detenuti di Reggio Calabria Giovanna Francesca Russo. “Sulla base di queste premesse scrivo sentitamente il presente ringraziamento volto ad esprimere riconoscenza a quanti hanno permesso che ad Arghillà si potesse realizzare l’aiuola della legalità. Su proposta del Garante mediante richiesta su piattaforma ministeriale nell’ambito del progetto “Un albero per il futuro” è iniziata una storia di lavoro di squadra. Sento a tal riguardo di voler rivolgere un grazie ed un particolare riconoscimento al Raggruppamento Comando dei Carabinieri per la Biodiversità di Reggio Calabria guidati dal Tenente Colonnello Giuseppe Micalizzi. Se giorno 19 settembre c.a. è stata messa a dimora la talea dell’albero di Falcone è grazie al loro preziosissimo contributo. Si parla di sinergie perché ospitare l’Albero di Falcone non sarebbe mai stato possibile se la Polizia Penitenziaria di Arghillà guidata dalla Comandante Dirigente Aggiunto Maria Luisa Alessi non avesse lavorato con grandissimo e reciproco rispetto tra forze dell’ordine. I lavori sono stati eseguiti nel mese di luglio e agosto scorso su autorizzazione dell’allora Direttore reggente Dott.ssa Patrizia Delfino, oggi direttore della Casa Circondariale Catanzaro. E si vuole raccontare di più affinché la società civile si abitui alla verità per amare e custodire ciò che abbiamo. Si deve raccontare perché la verità non è solo un fatto di coscienza, ma una condotta irrinunciabile per costruire su valori forti. Artefici della realizzazione dell’aiuola sono state sette persone recluse, tutti lavoranti. I signori: Rappazzo Domenico, Cacciola Giuseppe, Alampi Paolo, Gerace Emanuele, Ceravolo Giuseppe, Zampaglione Giuseppe e Amato Andrea guidati nei lavori dalla squadra MOF dell’Istituto di Arghillà in particolare dall’Assistente Capo Coordinatore e Coordinatore Unità Operativa Roberto Costantino e dagli Assistenti Capo Coordinatori Fortugno Saverio e Labate Giuseppe hanno realizzato un vero e proprio ornamento di legalità dentro un Istituto Penitenziario. L’evento è un segnale forte che prova quanto la legalità sia un concetto che si costruisce in concreto e si tinge di ulteriore bellezza quando sono le Istituzioni del nostro territorio a lavorare in sinergia per restituire alla società uomini e donne rinnovati. Nulla si sarebbe potuto realizzare se, istituzioni, professionisti, Rappresentanti dello Stato non avessero dialogato e edificato facendo ciascuno la propria parte. Giunti anche i saluti del Prof. Antonio Stango assente per impegni istituzionali, il quale sarà presto presente a Reggio e con il quale l’Ufficio del Garante ha già siglato un protocollo etico a maggior tutela dei diritti dei detenuti. Presenti anche i funzionari dell’amministrazione penitenziaria, l’area educativa, il personale medico e infermieristico. Il mio grazie a tutti perché una società “rinnovata” si realizza lavorando in squadra, ricordandosi di assolvere fedelmente al proprio ruolo. Reinserire è restituire al mondo donne e uomini rinnovati. Tutto questo passa per la responsabilità delle Istituzioni e della società civile tutta”. Milano. In carcere, a conversare di Gesù di Annamaria Braccini chiesadimilano.it, 28 settembre 2022 Il volume di Andrea Tornielli “Vita di Gesù” alla base dell’incontro nella Casa di reclusione, che ha visto l’autore dialogare con l’Arcivescovo, il cantautore Roberto Vecchioni e alcuni detenuti su temi come il perdono e la speranza. Il perdono, la speranza, il rapporto con Gesù, lo stupore di scoprirsi, magari dopo tanti errori, capaci di amare e di essere buoni. Questioni, sentimenti, aspirazioni che appartengono a tutti, ma che, declinate in un carcere di massima sicurezza come quello di Opera, alle porte di Milano, assumono un significato e un sapore molto diversi. Per questo la presentazione del libro di Andrea Tornielli “Vita di Gesù”, con commento e introduzione di papa Francesco (Piemme), è stato qualcosa di molto diverso da un semplice appuntamento editoriale. Anzitutto per la presenza di chi ne ha discusso con l’autore: l’Arcivescovo, il cantautore Roberto Vecchioni e alcuni ospiti della Casa di reclusione, moderati da Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, attiva dal 2018 a Opera con iniziative a sostegno dei detenuti. Particolarmente interessante la struttura delle pagine di Tornielli, direttore editoriale dei media vaticani presso il Dicastero della Comunicazione della Santa Sede, giornalista di molte testate nazionali, vaticanista di lungo corso. Una narrazione - come lui stesso spiega -, la cui ideazione nasce al tempo del lockdown, nell’ascolto della Messa quotidiana del Papa da Santa Marta e dalle brevi omelie proposte in quelle celebrazioni, accostate alla ricostruzione della vita cronologica del Signore, attraverso un’immersione nelle scene, nei personaggi, nelle vicende che lo videro protagonista. Un metodo che ha affascinato e convinto i reclusi chiamati a dialogare con i relatori, come hanno testimoniato i molti applausi che hanno costellato la serata, dal primo che scatta spontaneo quando il direttore della struttura, Silvio Di Gregorio, dice all’Arcivescovo: “La sua presenza è un’occasione di festa, abbiamo bisogno della sua consolazione, della sua parola”. E le parole, tre nello specifico, arrivano subito. Gesù compagno di viaggio - “Gesù non è un libro - sottolinea l’Arcivescovo - ma un compagno di viaggio e la sua vita è un racconto che non vuole essere un romanzo, non una cronaca che racconta, ma che testimonia. È una vita scritta nella carne e nei sentimenti. Il Papa raccomanda un contatto diretto e quotidiano con i Vangeli e anche questo libro è un amico che propone una conversazione, non unicamente una lettura”. La seconda parola è appunto conversazione, che è un gradevole sostare, dedicare tempo, aspettandosi qualcosa di interessante: “Un momento di confidenza e di conforto: nella conversazione a proposito di Gesù si colgono inviti a conversione”. Terzo, la centralità della figura di Cristo: “I Vangeli hanno una tale importanza che vengono letti per moltissimi motivi, ma in questo volume, che pure ha ricostruito il contorno, interessa unicamente Gesù, che ha percorso le strade della sua terra, ha vissuto come un povero, accettato, esaltato, umiliato, condannato”. Poi le domande che arrivano da Claudio, Vincenzo e Carlo. Il primo chiede a Vecchioni come mai la figura di Gesù ha ispirato tanti artisti. Chiara la risposta del cantautore: “Perché l’artista è la persona umana forse più vicina a Dio. Gesù è un grande artista: pensiamo alle parabole che raccontano un fatto in modo immediato e popolare, rimandando ad altro. L’artista nasce e vive per gli altri, è anche “artistra”“. L’intervento di Roberto Vecchioni - E, ancora, “come è possibile che le scene descritte nei Vangeli accadano ancora oggi?”. “È possibile se manteniamo lo stupore - osserva monsignor Delpini - che diventa scelta di fare del bene. Lo stupore di essere buoni, anche se abbiamo l’etichetta dei cattivi: questo è il primo passo della fede, che non è solo un pensiero, ma una decisione. Guardando Gesù e le sue ferite, scoprendo il suo amore per noi, ci scopriamo capaci di amare”. Il pensiero va agli sguardi del Signore che il Papa più volte richiama nella prefazione al libro. Nota Tornielli che spiega di aver cercato di essere lui stesso un personaggio presente agli episodi raccontati: “Tanto nel Vangelo è affidato agli sguardi”, basti pensare al miracolo delle nozze di Cana, a Zaccheo (di cui Vecchioni legge la parabola dell’incontro con il Cristo) o “all’incrocio degli sguardi di Gesù e di Pietro che, pur avendolo rinnegato tre volte, si sente perdonato e piange. L’incontro con Gesù non è una teoria, un’idea, ma passa attraverso i suoi sguardi di amore e di misericordia immensa. Il Vangelo diventa attuale se abbiamo di fronte ai nostri occhi fatti di Vangelo. Non basta la descrizione, il Vangelo deve diventare qualcosa che accade oggi, magari dove o da chi meno ce lo aspettiamo”. L’intervento di Andrea Tornielli - Una relazione di amore e di perdono - questa - che Vecchioni ha cantato in una composizione musicale scritta appositamente, su richiesta di Mosca Mondadori, per papa Francesco e che recita: “Non c’è niente di così grande come il perdono, di così infinito come un perdono”. Il riferimento è anche a un’altra canzone, La stazione di Zima, con cui il cantante ha voluto delineare il suo rapporto con Gesù: “Bisogna vivere completamente e sempre, amando la terra, meglio se nella prospettiva di qualcosa di più grande. Non si può avere fede solo nell’aldilà, ma anche nell’al di qua”, sottolinea. Il perdono e la speranza - Santino, che si definisce un capro espiatorio, chiede all’Arcivescovo come poter perdonare: “Il perdono è una parola che deve essere chiarita, è il desiderio che il peccatore sia felice, che l’uomo sia ricostruito. Non è nascondere la verità, ma è la verità vista in radice; non è un fatto burocratico o psicologico, il non avere sentimenti di vendetta, ma il desiderio che chi ha fatto il male diventi capace di fare il bene, riconoscendo il male che ha fatto. Perdonare non è dimenticare il male subito, ma è la verità di chi si dispiace di aver sbagliato, desiderando il bene di colui che ci ha fatto del male: Questo è il paradosso del perdono cristiano. Quando perdoniamo assomigliamo a Dio, siamo come lui”. Si può chiedere perdono anche a chi non c’è più? È l’ultima domanda di un altro detenuto che ammette di aver fatto del male: “Le persone che muoiono sono presso Dio, e se chiedi perdono con intensità vedrai come una luce amica, un sorriso, che arriva da un luogo che non riusciamo a immaginare e che dice: “Sei perdonato”, conclude l’Arcivescovo Mario, prima che, suggellando l’incontro, ognuno dica cosa sia la speranza. Per Vecchioni, l’amore. Per un recluso, “fare le ostie” (a cura della Fondazione da tempo a Opera vi è un laboratorio di produzione). Per un altro, la famiglia. Per Tornielli, “sapere che c’è qualcuno che mi vuole bene così come sono”. Per Mosca Mondadori, “la pace con se stessi”. Per l’Arcivescovo, “una promessa che chiama, che fa sì che il tempo sia luogo di responsabilità, una promessa fatta da Dio che responsabilizza sul presente”. Quel presente e futuro, dove “forse il carcere non dovrebbe esistere” e dove, anche se “sarà un percorso lungo, la riabilitazione attraverso il lavoro, la cultura, il servizio, possano far considerare i detenuti non un peso o un pericolo, ma collaboratori per una società migliore”, conclude monsignor Delpini. “Everyday Shoes”, emozioni libere oltre le sbarre di Manuela De Leonardis Il Manifesto, 28 settembre 2022 Fotografia. Il libro firmato dal fotografo romano Guido Gazzilli con Ludovica Rosi e pubblicato da Nfc Edizioni. Il “racconto senza pause” del progetto iniziato nel 2015 in giro per le carceri italiane: le foto di 22 autrici e autori internazionali (tra loro Michael Ackerman, Roger Ballen, Adam Cohen, Massimo Nicolaci, Veronica D’altri, Angelo Turetta) mostrate ai detenuti hanno dato vita ad un incontro con loro fuori dagli schemi. Sul tavolo di legno, tra un raggio di luce e l’ombra, è poggiato un quarto di melagrana con i suoi grani rossi: la foto è dello svedese J.H.Engström. A Daniele ricorda l’estate e “l’anguria o il cocomero, come si dice a Roma, la prima estate che ho fatto fuori dopo 7 anni dentro, perché mangiarlo dentro è una cosa, mangiarlo fuori tutta un’altra. Ha tutto un altro sapore”. Frammenti del vissuto di un uomo stimolati dall’osservazione di un’immagine a lui estranea ma condivisibile: la fotografia come dispositivo per attivare memorie personali, stimolare associazioni, osservazioni, ma soprattutto permettere alle emozioni di affiorare libere, incondizionate. Obiettivo perseguito dal fotografo romano Guido Gazzilli che, insieme a Ludovica Rosi, è autore del libro Everyday Shoes (Nfc Edizioni, pp. 224, euro 48). “La prima foto è quella dove si vedono le nuvole, l’ho scelta perché rappresenta la mia vita, sempre confusa, le mie fragilità; l’incapacità di prendere una decisione”, scrive Antonio. “Salve a tutti mi chiamo Alberto. Io non ho mai guardato le fotografie degli altri e questo progetto all’inizio mi faceva un po’ paura. Mi ha spinto ad andare avanti il fatto che non ci è stata impostata nessuna regola, potevamo dire tutto quello che volevamo. Per noi in carcere questo è importante perché tutti pensano di poterci leggere nel pensiero, noi teniamo tutto dentro. Ho scelto ‘sti sassi, ma che so ‘sti sassi? Invece mi ricorda l’infanzia mia che andavo a raccoglierli, per tantissime ore e poi con la mazzafionda li tiravo dappertutto, a casa non me li sono mai portati. E per assurdo ora, a distanza di 50 anni, sto a raccogliere i sassi un’altra volta”. “Everyday Shoes” è il “racconto senza pause” del progetto iniziato nel 2015 in giro per le carceri italiane: le foto di 22 autrici e autori internazionali (tra loro Michael Ackerman, Roger Ballen, Adam Cohen, Massimo Nicolaci, Veronica Daltri, Angelo Turetta) mostrate ai detenuti hanno dato vita ad un incontro con loro fuori dagli schemi, “durante il quale si sono confidati, fidandosi, forse grazie alla fotografia, di noi, degli altri detenuti e del progetto”, come sottolineano Guido Gazzilli e Ludovica Rosi. Il volume contiene anche una serie di ritratti in bianco e nero dei protagonisti realizzate da Gazzilli. Quanto al titolo Everyday Shoes si riferisce alla prima volta in cui il fotografo è entrato in un carcere: “Ho trovato scarpe pulite. Questa è la cosa che mi colpì. Le scarpe sempre pulitissime dei detenuti. Continuamente mi sono chiesto, come facessero a ricevere sempre tutte queste scarpe nuove. Da chi le ricevessero, e perché proprio le scarpe. Ogni volta che tornavo dentro mi fissavo su questo dettaglio, impossibile da non vedere e duro da accettare. Un giorno durante un incontro con gli ospiti del carcere di Rebibbia chiesi a uno di loro: Perché avete ai piedi delle sneakers perfette? Come fate? Lui mi rispose: Chi è privato della libertà e si trova in questi luoghi ha le scarpe sempre candide e pulite di chi fa pochi passi, di chi non può sporcarle con la pioggia, il fango e la polvere, di chi non cammina più fuori ed è sempre costretto a fare su e giù in un corridoio…”. “Ecco la città lamiera”. Un film-denuncia sull’inferno dei braccianti di Marta Ghezzi Corriere della Sera, 28 settembre 2022 Nelle sale il lavoro del regista Olmo Parenti. La vita a Borgo Mezzanone, nel Foggiano. Le porte in faccia e poi il Premio Cipputi. La voce fuori campo, in inglese, chiede diretta, “da quanto tempo non stai con una donna?”. Un sorriso quasi impercettibile, poi il ragazzo risponde, “molto, molto tempo”. È sera, fuori è buio, la sua casa non ha elettricità e allora per illuminare lui usa una pila frontale. L’inquadratura è spiazzante, è semisdraiato, circondato da abiti e scarpe e con quel faro acceso sopra agli occhi che continua a ballare. Non c’è un tavolo, un divano, un armadio: la casa è un’auto con i sedili reclinati. “Anche se trovassi una ragazza come farei, vivo dentro questa macchina”, aggiunge. Più avanti, lo si vedrà farsi una doccia. All’aria aperta, in una tenda improvvisata, lui che si insapona incurante della temperatura, ogni giorno l’acqua scrosta la terra e rimuove fatica e umiliazioni. “ Se sei pulito la gente ti viene vicino, se sei sporco si allontana, con la distanza non costruisci il futuro”, dice sicuro. Intanto il presente è una città di lamiera, ignobile, dove si dorme e si mangia in ricoveri di fortuna. “It’s hell, è l’inferno”, dice chi ci abita. “Non è l’Italia”, pensa lo spettatore. E invece lo è: Borgo Mezzanone, provincia di Foggia, quattromila migranti, senegalesi, ghanesi, nigeriani, tutti giovani, ventenni, trentenni. Il lungometraggio “One Day One Day”, girato nella baraccopoli più grande del nostro Paese, non è un’inchiesta sul caporalato ma un racconto senza filtri sulla vita dei braccianti agricoli, “è lo sguardo in soggettiva su chi rimane invisibile alla società” dichiara il regista Olmo Parenti. Anche lui è giovane, come i componenti del collettivo “A thing by” co-produttori insieme a Will Studio del documentario, Parenti che compirà 29 anni a fine dicembre è il maggiore d’età. Il progetto è nato durante la manifestazione per George Floyd, l’afroamericano ucciso a Minneapolis nel 2020 dalla polizia. “Mi è scattato qualcosa dentro”, rivela Parenti, “il documentario sulla vita dei migranti che ci fanno arrivare la verdura tutti i giorni sulla tavola è la mia forma di attivismo”. Le riprese in Puglia sono durate un anno, terminate a giugno del 2021. Giusto un paio di mesi per montare e “One day One Day” in autunno era pronto per la distribuzione. “Non era il nostro primo lavoro, sapevamo come muoverci, abbiamo fatto il classico giro, tv, piattaforme, festival, produzioni cinematografiche”, sottolinea Parenti. “La risposta? Univoca: “bravi, lavoro notevole, non ci interessa”“. Sei mesi di porte in faccia, poi la scelta di non tenerlo nel cassetto ma farlo girare nelle scuole, “mostrarlo a chi non ha ancora imparato a voltare lo sguardo, cinquecento richieste in pochi giorni, causa budget abbiamo presenziato solo nei primi quindici istituti, poi proiezioni via zoom”. A quel punto, però, la voce si era sparsa. “Dopo aver tastato il terreno via social, dodicimila risposte positive, abbiamo lanciato una richiesta, fare pressione sui cinema di quartiere, solo così avremmo potuto ovviare alla mancanza di un distributore”. E finalmente il film che descrive la vita durissima nel ghetto foggiano, “l’unica che puoi permetterti se non hai i documenti e non puoi affittare, aprire un conto, avere accesso ai servizi e per forza di cose finisci nel solo posto pronto ad accoglierti, una vergogna che resiste da venti anni”, è uscito nelle sale. Il lungometraggio, che si è aggiudicato il Premio Cipputi, è in tour fino ai primi di ottobre. “Poi ci prendiamo una pausa”, dichiara il regista. “Dobbiamo decidere: continuare a girare e a proporre dibattiti dopo la visione, oppure farlo circolare su una piattaforma, ora c’è interesse, che assicurerebbe un pubblico più ampio”. Flick: “La Costituzione non funziona più? In realtà la politica non l’ha saputa attuare, e cerca alibi” di Massimiliano Nerozzi Corriere della Sera, 28 settembre 2022 L’ex presidente della Corte Costituzionale: “Penso che la Carta richieda una serie di aggiustamenti, ma non un capovolgimento totale”. Non siamo a un funerale, ma a un battesimo, dice a un certo punto Giovanni Maria Flick, giurista, ex ministro della Giustizia e presidente della Corte costituzionale, a proposito di ciò che attende la classe politica e, va da sé, chi ha vinto le elezioni. “Che dovrebbero essere un punto di svolta”, perché le cose da cambiare non mancano: “Non possiamo avere queste carceri; e un sistema elettorale, il Rosatellum, nel quale le segreterie dei partiti scelgono chi mettere in lista”. E di “Legge elettorale e Costituzione”, Flick discuterà stasera, al Collegio Carlo Alberto, insieme a Michele Graziadei, professore di Diritto privato comparato a Torino, Francesco Profumo, presidente della Fondazione Compagnia di San Paolo, e Vladimiro Zagrebelsky, ex giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo. Professor Flick, Fratelli d’Italia sostiene che “La Costituzione è bella, ma ha 70 anni, e si può migliorare”: lei cosa ne pensa? “Sono d’accordo. Penso che la Carta richieda una serie di aggiustamenti, ma non un capovolgimento totale. E, soprattutto, il rispetto delle condizioni che consentono di cambiarla. Cioè tempi particolarmente rallentati, per assicurare il massimo della ponderazione”. Dal tono della voce deduco non sia stato fatto così... “Non mi sembra il modo in cui sono state operate alcune modifiche, come quella del taglio del numero dei parlamentari, motivata con ragioni di taglio della spesa. Ma non è tutto”. Ovvero? “Vanno rispettati i principi fondamentali: uguaglianza, pari dignità sociale, diritti inviolabili e doveri inderogabili, solidarietà, laicità, primato del diritto europeo”. Dio, Patria e famiglia, ripete Fratelli d’Italia: per lei, cosa significa? “Guardi, sulla fede, siamo una democrazia pluralista e laica. Il concetto di patria, invece, è strettamente collegato all’Unione europea, con quell’aspirazione ai valori di uguaglianza, solidarietà e libertà che devono essere difesi. E la famiglia non c’è dubbio che si è modificata, ma qui si tratta di trovare un equilibrio”. Bruno Segre, partigiano e avvocato, 104 anni, ripete che il fascismo non è morto: qual è la sua opinione? “Rispetto la storia di Segre, ma credo che quel fascismo, in senso storico, difficilmente potrà tornare. Piuttosto, attenzione al sovranismo esasperato, alla legittimazione della violenza, alla discriminazione e al rifiuto dei “diversi”, tutte cose che non sono mai condivisibili”. È preoccupato che abbia vinto la destra? “Preoccupato? E perché mai? Lo sono da come si è svolta questa campagna elettorale, con un distacco crescente tra la società e la politica. E sono preoccupato dalla percentuale dell’assenteismo, dall’indifferenza di chi non vuole prendere parte all’attivismo politico. Invece, non mi piace chi invocava catastrofi nel caso avesse vinto una parte politica e non l’altra”. Qualche giornale straniero ha lanciato l’allarme... “Credo che la nostra posizione europea e internazionale sia quella affermata dal Presidente del Consiglio uscente e da Mattarella, persona degna di fiducia e stima”. Perché spesso si dice che la Costituzione non funziona più? “In realtà perché la politica non l’ha saputa attuare, e cerca un alibi”. Il presidente della Camera penale “Vittorio Chiusano” parla di modificare la Costituzione (anche) per separare la carriera dei magistrati: che cosa ne pensa? “Si può fare eh, ma sarebbe un po’ come sparare agli uccellini con un cannone”. Dal fine vita allo ius scholae diciamo addio ai diritti civili di Carlo Lania Il Manifesto, 28 settembre 2022 Destre al governo. Con l’era Meloni stop alle riforme che metterebbero l’Italia al passo con l’Europa. La vittoria delle destre mette fine alla speranza di vedere approvata una serie di riforme che permetterebbero all’Italia di mettersi finalmente al passo con altri Paesi europei. Disegni di legge che già nella passata legislatura hanno avuto vita difficile ma che adesso rischiano di essere definitivamente affossati: dallo ius scholae al ddl Zan contro l’omotransfobia, dal fine vita alla legalizzazione della cannabis. L’inizio dell’era Meloni getta dunque acqua fredda sulle speranze di circa un milione di ragazzi, figli di immigrati che risiedono legalmente e lavorano da anni nel nostro Paese, di poter finalmente diventare cittadini italiani. La riforma che cambierebbe la loro vita, lo ius scholae (cittadinanza al termine di un ciclo scolastico), dopo essere rimasta ferma a lungo in commissione Affari costituzionali lo scorso mese di luglio è finalmente arrivata in aula della Camera per il voto dove però si è arenata di nuovo, ufficialmente per dare la precedenza a una serie di decreti più urgenti. Nonostante qualche voce fuori dal coro in Forza Italia (come Renata Polverini) e seppure con qualche distinguo sempre di Fi, il centrodestra è contrario alla riforma, preferendo di fatto mantenere per ora le cose come sono oggi: si è cittadini italiani se si nasce da almeno un genitore italiano (ius sanguinis) oppure, se straniero, dopo aver risieduto per almeno dieci anni nel nostro Paese. Niente da fare anche per il ddl Zan. Approvata dalla Camera il 4 novembre del 2020, la legge contro l’omotransfobia è stata bloccata al Senato il 27 ottobre del 2021 tra gli applausi e le urla delle destre. A maggio di quest’anno il Pd ha ripresentato il ddl Zan senza però che l’iter della legge iniziasse. L’8 novembre 2022, neppure un mese dopo l’insediamento del nuovo governo, scadrà invece (per la seconda volta) il termine concesso al legislatore dalla Corte costituzionale per riformare l’ergastolo ostativo. Non che il testo di legge licenziato a fine marzo dalla Camera sia proprio in linea con le raccomandazioni della Consulta, anzi. In molti punti va esattamente nella direzione opposta da quella indicata nella sentenza n.97 dell’aprile 2021 con la quale la Corte ha giudicato illegittimo il divieto della libertà condizionale e dei benefici penitenziari ai detenuti mafiosi che non collaborino con la giustizia. E però perfino quel testo a settembre è stato definitivamente affossato in Senato, escluso dalla calendarizzazione di fine legislatura. Una croce andrà messa, nell’era Meloni, pure sopra un’altra serie di leggi riguardante i diritti civili: legalizzazione della cannabis, suicidio assistito, cognome della madre, affettività delle persone detenute, etc. Anche nel caso della “morte volontaria medicalmente assistita” - che Fd’I e la Lega considerano un’apripista all’eutanasia forzata - la Consulta si è già pronunciata dichiarando non punibile l’aiuto al suicidio di chi versa in determinate condizioni psico-fisiche. Anche in questo caso, il testo approvato alla Camera a marzo era in attesa di concludere l’iter al Senato. Doveva invece approdare in Aula a Montecitorio già a luglio scorso la proposta di legge Magi-Licantini che depenalizza la coltivazione domestica a uso personale di quattro piantine di marijuana, ma si è preferito rinviare. Non ci resta che vigilare perlomeno sulla legge 194. Almeno quella. Immigrazione, se i bambini muoiono in mare di Furio Colombo La Repubblica, 28 settembre 2022 La lezione dei naufragi è chiara. Il blocco navale che vuole Giorgia Meloni, nel Mediterraneo vuoto di soccorsi, significa una fine per sete. Credo che Giorgia Meloni possa dichiararsi soddisfatta della sua grande vittoria. La civiltà mediterranea ha già accolto il suo progetto - che a prima vista sembrava campato in aria - di blocco navale. Non c’è più bisogno di perdere tempo con qualche perdigiorno che predica solidarietà in Parlamento. La lezione di questi giorni è chiara ed efficace. Se provi ad attraversare (fosse anche per sfuggire con i tuoi bambini la guerra in Siria, in Iraq, in Afghanistan, in Yemen, nel Darfour, in Libano) un mare troppo grande e del tutto vuoto di soccorsi, con barche troppo piccole perché nessuno presta un passaggio più umano (compresi i mercantili che tirano dritto), il blocco navale, voluto con crudele sincerità dalla aspirante nuova leader donna dell’Italia, e dal silenzio di tutti, è la morte per sete. S’intende che la morte per sete, in mezzo a un mare bollente e senza il problema di penose testimonianze, è la parte atroce e finale di una lunga agonia predisposta per ragioni di buon senso. “Gli emigranti esagerano. Adesso basta. La natura del cielo, del mare, del sole provvede. L’importante è che non ci caschi addosso la cronaca dei fatti mentre avvengono”. E qui si inserisce una tremenda fiaba italiana. Una fiaba preparata e diffusa proprio per far sapere che queste cose accadono (abbandonare in mare uomini, donne e bambini in fuga da eventi insopportabili), ma ci sono ben altri colpevoli. Come tutte le fiabe, è basata su spunti di verità. Una verità è che i governi del Mediterraneo si sono accordati, chi in silenzio, chi con grandi esibizioni di potere (Orbán, Salvini, Morawiecki) per essere certi che non vi siano vie di fuga legali. I profughi disperatamente affollati su barconi troppo piccoli e pronti a rompersi, qualunque sia la causa della loro ricerca di salvezza, sono i clandestini. Dunque non li conosci e non li vedi, non possono passare nessuna frontiera, e se un impatto inevitabile ti obbliga, li consegni ai libici, che hanno strumenti per provvedere. Ma questo espediente della illegalità totale e permanente di certi esseri umani da abbandonare in acqua (un ministro italiano, Salvini, lo ha fatto persino bloccando navi della marina militare italiana) era stato violato coraggiosamente dalle cosiddette Ong (navi di organizzazioni non governative con equipaggi e comandanti normali) che volontariamente, a loro spese (con l’aiuto di altri normali esseri umani) hanno salvato e portato a terra migliaia di adulti e bambini che non erano clandestini, erano in fuga. La storia di questi anni ricorderà Medici senza Frontiere, Sea Watch, Sos Méditerranée, Aquarius, Open Arms, Mission Lifeline. Ma è accaduta una cosa strana. Alcuni giudici, mentre la gente moriva in mare, e il Papa ha gettato in acqua, per loro, una corona di fiori, hanno aperto strane inchieste giudiziarie, le prime dal 1945, che accusano di reati gravissimi i salvatori di esseri umani mentre sono in pericolo estremo. È importante confrontare le accuse (associazione a delinquere, favoreggiamento all’immigrazione clandestina) insieme con la crescente legittimazione della Guardia costiera libica. L’indagine sul lavoro svolto in mare dalle Ong (Procura di Catania) non ha mai portato a nulla. Benché avesse sollevato sospetti su come le Ong potessero sopportare costi così elevati “senza un rientro economico” e su chi forniva le informazioni relative alle richieste di soccorso in mare. Tutto ciò, privo com’era di rapporto con la realtà (nessuna delle accuse è diventata incriminazione o processo) e animato da un forte spirito di antagonismo contro il dovere, ma anche l’impulso umano e naturale del salvataggio estremo, ha però avuto una conseguenza vasta e grave: ha sgombrato il mare. E così quasi ogni telegiornale ci dà notizie di barche che stanno affondando in mare aperto, prive di comunicazioni e senza traccia di soccorsi. E ci elenca numero ed età dei bambini dai 2 ai 12 anni che sono morti di sete e di fame, mentre il mondo mediterraneo (cominciando dall’Italia) che avrebbe dovuto salvarli e accoglierli non ha mai risposto alle chiamate disperate e ha lasciato morire di quella morte che il sindaco-medico di Pozzallo ha paragonato alla morte nazista. Sarà importante ricordare, quando si farà l’inventario di queste morti disperate alle porte di casa nostra, che il mare era vuoto di ogni tipo di presenza e soccorso per volontà di certa politica, e per uno strano travolgimento della realtà nella visione di alcuni magistrati. La prova è arrivata adesso. Canapa, a Ferrara è l’ora dei cannoni di Antonella Soldo Il Manifesto, 28 settembre 2022 Giorgia Meloni ha vinto le elezioni e questa non è una buona notizia per il mondo antiproibizionista. La leader di Fratelli d’Italia ha cominciato la sua campagna elettorale parlando della necessità di diminuire le “devianze” nel nostro paese - tra le quali annoverava in primis il consumo di cannabis e altre sostanze - e ha finito col parlare della possibilità per molti di “rialzare la testa” per sostenere le proprie idee. Con chiaro riferimento alle idee di estrema destra. Tutto questo non facilita certamente una battaglia per la legalizzazione. Non è un fulmine a ciel sereno, e a situazioni come queste non ci si ritrova improvvisamente da un giorno all’altro. Nel caso specifico diciamo pure che a costruire questo scenario ha contribuito molto l’inerzia di chi poteva fare e non ha fatto, soprattutto nella legislatura appena chiusa. Serve una strategia, dunque. E forse è proprio a quella di Giorgia Me loni che possiamo guardare per trarre qualche spunto. Tanto per cominciare potremmo ispirarci al suo tentativo di accreditarsi a livello internazionale per poter essere più forte in Italia. E porre il tema della cannabis in una cornice internazionale sicuramente può aiutarci a uscire dai rigidi schemi nostrani. Un’occasione preziosa per questo sarà un incontro all’interno del Festival di Internazionale a Ferrara, venerdì 30 settembre alle ore 16:30 presso il Teatro Comunale. “Segnali di fumo” è un panel alla cui realizzazione Meglio Legale ha dato il suo contributo per fare il punto su cosa accade nel mondo sulla cannabis, chiamando al confronto ospiti internazionali. L’evento ospiterà l’avvocata maltese Désirée Attard, il giornalista olandese Derrick Bergman e Jonathan Hiltz, giornalista canadese. Canada, Malta e Olanda non tre paesi casuali, ma tre stati che sulla legalizzazione della cannabis hanno molto da dire, da mostrarci - a noi italiani - e da farci riflettere. Per esempio, su come si possa parlare di cannabis non più come “devianza” ma come tema collegato al lavoro. Il Canada su questo è l’esempio più sbalorditivo. Nel 2022 l’industria della cannabis ha generato nel paese profitti enormi: 43.5 miliardi di dollari canadesi, contribuendo alla creazione di quasi 100mila posti di lavoro. Come già riportato in questa rubrica (12 gennaio 2022), la regolamentazione legale non ha portato ad un incremento sostanziale dei consumatori di cannabis in Canada. Dopo un aumento iniziale dell’uso dovuto all’effetto novità e alla maggiore sincerità nelle rilevazioni, questo è tornato sui trend pre-legalizzazione. Il consumo abituale è invariato, e l’età media del primo uso aumenta. I nuovi consumatori sono in gran parte adulti mentre, tolto l’effetto tabù, il consumo negli adolescenti diminuisce. A fronte di informazioni più trasparenti e credibili, la percezione del rischio è aumentata e sono diminuiti i comportamenti a rischio, come guidare dopo aver usato cannabis (-38%). La revisione quinquennale del Cannabis Act, iniziata in questi giorni, sarà basata anche su queste evidenze. Sarebbe un sogno poter cambiare il racconto sulla cannabis anche in Italia. E invece ci ritroviamo ancora a difendere i pazienti nei tribunali. Giovedì scorso eravamo a Paola a difendere Cristian Filippo - un ragazzo di 25 anni, paziente affetto da fibromialgia, accusato per aver coltivato due piante di cannabis che utilizzava per lenire i dolori causati dalla sua malattia. Dopo 1200 giorni di processo Cristian è stato assolto con formula piena. Ma quanta paura, quanto stigma, quanta incertezza in oltre tre anni di attesa nella vita di una persona che aveva solo bisogno di curarsi. E quanto inutile spreco di risorse dello stato per combattere una guerra ideologica che ha fatto già tante vittime innocenti. E che non possiamo permettere si inasprisca ancora. La missione di suor Gabriella: “La mia lotta alla tratta, assistite 20mila vittime” di Irene Soave Corriere della Sera, 28 settembre 2022 Suor Gabriella Bottani è la coordinatrice di Talitha Kum che dal Brasile all’Indonesia, dall’Italia al Canada coordina 55 reti locali. La zia suora uccisa in Mozambico. “La vita spirituale permette di lavorare non solo su quello che si pensa, ma anche sul proprio cuore. Ci va la pazienza di fare spazio. Così qualcosa di diverso può prendere forma dentro di noi e agire in modo trasformativo. Per me c’è stato un insegnamento in questo senso anche nell’incontro interculturale. Con la favela, con l’Amazzonia, con i laici, con l’Islam. Non è allontanando i portatori di diversità che si risolvono i problemi, per esempio quelli di convivenza. È capendo come dar loro spazio, come l’incontro con loro può trasformarci e farci progredire”. Vita spirituale e servizio di comunità si intrecciano nelle parole di suor Gabriella Bottani, 58 anni, ufficiale al merito della Repubblica e coordinatrice di Talitha Kum, che dal Brasile all’Indonesia, dall’Italia al Canada, coordina 55 reti locali nella lotta alla tratta. Dipende anche da noi - Talitha Kum, motto evangelico che viene da Marco 5,41: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”, è coordinata da suore cattoliche, fondata nel 2009, con base a Roma. Ha raggiunto finora 260 mila persone, assistito 19.993 vittime di tratta, curandone 13.400 e offrendo a 6.600 accesso alla giustizia. Una lotta che si conduce “a partire da noi stessi, perché ogni violenza riguarda tutti noi e la dignità umana nel suo insieme. E non si sconfigge senza cambi di mentalità”. Ancora lavoro interiore. Per tratta si intende non solo lo sfruttamento sessuale. Ma anche quello lavorativo, quello nell’accattonaggio, e quello tra le mura domestiche. “Stavo per dire privato”, si ferma, “ma non mi piace questo termine usato sulla violenza. La violenza, appunto, ci riguarda tutti”. E dunque: “Quando diciamo che la prostituzione è il lavoro più vecchio del mondo omettendo quanto possa ferire la persona che è forzata a questa pratica. O quando troviamo i pomodori a un euro e ci rallegriamo perché costano poco. Ma li producono spesso persone in condizione di schiavitù”. Tratta è anche quella che recluta i mendicanti nelle nostre città: come aiutarli? “Domanda difficilissima. Anche il dialogo non sempre hanno tempo né competenze per saperlo instaurare. Ma è proprio per questo che è necessario fermarsi a riflettere”.. Così, racconta suor Gabriella Bottani, ha iniziato a collaborare con Talitha Kum. “In Brasile, a Fortaleza, un gruppo di donne di cui io facevo parte si ritrovava e parlava, si confrontava. Noi miriamo a creare cellule locali dove fermarsi, riflettere — per noi anche pregare — e fare rete con ong e gruppi locali”. Come svuotare con un cucchiaino paziente un mare di male. “Grandi risultati? No, non se ne ottengono. Ci si scontra con la disfunzionalità dei sistemi, delle leggi. Con la difficoltà, per esempio, di produrre prove a sostegno delle vittime, o di tutelarne le famiglie, che spesso i trafficanti minacciano. Con la corruzione”. Tra i risultati: “Tutti gli incontri che facevamo, nel ricordo che ne ho — suor Gabriella ha lasciato il Brasile nel 2014 — terminavano con qualcuno che ci diceva di aver preso coscienza. Non dimenticherò mai una donna venuta a dirmi “io sono stata schiava, da bambina, senza mai rendermene conto”. Non istruita, quasi non pagata; con l’età adulta è riuscita a emanciparsi, ma ho incontrato tante donne come lei nelle favelas che visitavo”. La vocazione missionaria, lei giovane impegnata negli scout, è coltivata anche nella profonda relazione con la zia missionaria comboniana: suor Maria De Coppi, classe 1939, di Vittorio Veneto. Una vita spesa per il Mozambico e interrottasi bruscamente ai primi di settembre. “Ho conosciuto la zia a otto anni, era partita per il Mozambico l’anno prima della mia nascita: molto di quello che ho conosciuto di lei è stato tramite mia mamma, sua sorella maggiore. Era innamorata del popolo mozambicano, di quella terra, è una donna che si è sentita parte di questo popolo, ha chiesto la cittadinanza mozambicana, e ci ha portato questo mondo. Io ho condiviso con lei la fede radicata nella quotidianità. Ero con lei quando è stata uccisa”. La voce si abbassa impercettibilmente. Gabriella era a Roma, Maria a Chitene, villaggio mozambicano nella provincia di Nampula, sempre più bersagliato dalle razzie dei terroristi. “Stavamo parlando al telefono e mi raccontava del dolore dei bambini che fuggivano, delle donne in strada coi panni avvolti in testa, lei sapeva piangere insieme agli altri. Poi ho proprio sentito gli spari. Mi hanno poi detto che lei è morta al primo, e penso che sia vero perché c’è stato il silenzio subito, il silenzio della morte”. Una telefonata indimenticabile, purtroppo. “Ma lei è morta, secondo me, con una profonda pace del cuore, senza odio, e questa pace ce la lascia. Aveva gli occhi aperti: vedeva il dolore provocato dalle ingiustizie e dalla violenza che portano, ma non ci si piegava mai. Non per candore: è il lavoro di una vita, di educarsi, di lasciarsi trasformare dalla forza... del bene, per usare un termine comprensibile a tutti. Per noi: la forza del Vangelo”. Georgia. Carceri e salute mentale di Marilisa Lorusso balcanicaucaso.org, 28 settembre 2022 In Georgia un doloroso fatto di cronaca ha riportato all’attenzione il tema della tutela della salute mentale delle persone fragili e in particolare dei detenuti. Nelle carceri mancano assistenti sociali qualificati, psicologi, psichiatri e personale di reparto. In agosto un fatto di cronaca ha scosso la Georgia. Il 18 di quel mese un detenuto è stato trasferito dal carcere al Centro di Salute Mentale e di Lotta contro le Tossicodipendenze. Dopo 2 giorni una pattuglia lo ha prelevato per riportarlo in carcere ma il giovane è riuscito a sottrarre un’arma a un agente di scorta e a sparare un colpo agli agenti - senza ferirli - e uno a se stesso. È finito in coma, per poi morire in ospedale. Disperata la madre che ha dichiarato: “Come ha fatto una pistola a finire in mano a mio figlio. Come si è sparato? Spiegatemelo”. “Hanno deciso che in un giorno il ragazzo era guarito, ma il ragazzo non stava bene, non era pronto per essere riportato in prigione”. Sull’incidente sono partire delle indagini, che hanno coinvolto innanzitutto l’agente a cui è stata sottratta l’arma. Quest’ultimo è stato arrestato ai sensi dell’articolo 342, paragrafo 2, del Codice penale della Georgia, cioè per negligenza dei doveri d’ufficio con conseguente morte o gravi conseguenze. Le accuse comportano una possibile condanna a 2-5 anni di reclusione. Bacho Kvaratskhelia, capo della divisione investigativa, ha specificato che l’ufficiale avrebbe grosse responsabilità perché si muoveva con un’arma personale senza dovuta tutela il che avrebbe reso possibile al detenuto, persona in condizione di vulnerabilità psichiatrica e suscettibile a comportamenti non prevedibili, di comparirgli alle spalle e sottrargliela. L’episodio è sintomatico non solo di un comportamento individuale che andrà accertato in sede processuale, ma anche dei problemi che riguardano le persone con disturbi mentali in Georgia. La salute in carcere - La madre del detenuto ha innanzitutto criticato la scelta di trasferire il ragazzo. Uno dei problemi della Georgia che nemmeno le riforme del sistema carcerario hanno saputo risolvere è che hanno ereditato l’obsoleto modello sovietico: carceri pollaio dove rimane scarsissima la qualità dell’assistenza medica e soprattutto psichiatrica. La questione è riemersa anche nel quadro della carcerazione di Mikheil Saakashvili, quando le sue condizioni di salute ne hanno imposto il trasferimento perché il carcere in cui stava scontando la condanna non era una struttura adeguata. Nel più recente rapporto del Dipartimento di Stato americano sulla protezione dei diritti umani si sottolinea che la tutela della salute mentale rimane inadeguata all’interno del sistema penitenziario, dove lo screening iniziale della salute mentale dei detenuti è presente solo in due carceri nell’ambito di un progetto pilota sostenuto dal Consiglio d’Europa. Il sistema carcerario manca di assistenti sociali qualificati, psicologi, psichiatri e personale di reparto. I detenuti ottengono di essere visitati soltanto in caso di emergenza, per la dialisi programmata, per la chemioterapia o trattamenti medici post-operatori. Insomma, categorie vulnerabili come i borderline o le persone con disturbi psicologi o psichiatrici non trovano una adeguata assistenza. La salute mentale, una sfida - Ma non è solo in carcere che la tutela della salute mentale in Georgia rimane una sfida. Due studi, di cui uno sugli effetti della pandemia di Covid-19 sul settore della sanità in categorie vulnerabili, hanno evidenziato che la Georgia rimane su questo tema molto indietro rispetto ad altri paesi. Anche qui il punto di partenza è il sistema sovietico. Nell’Urss le persone con disturbi mentali venivano internate in grandi manicomi, e l’approccio terapeutico era farmacologico e non strutturato intorno alle esigenze del singolo degente. Dopo l’indipendenza la Georgia si è instradata verso una riforma del sistema e i vecchi manicomi sovietici sono stati progressivamente smantellati con il progetto di creare realtà più piccole, più concentrate sui bisogni dei singoli pazienti, adottando un approccio più in linea con le terapie contemporanee. Ma è una transizione resa molto difficile dai costi, dalla carenza di personale, dalla difficoltà a oltrepassare il paradigma di rinchiudere la persona con dei disturbi in una struttura. Uno studio pone a confronto il sistema inglese con quello georgiano. Il Regno Unito investe molto di più nella salute mentale della Georgia. Comparandolo con la spesa sanitaria dei due paesi il Regno Unito spende 5 volte in più. Gran parte di questo budget va a cure non ospedaliere, mentre le cure ospedaliere in Georgia assorbono oltre il 70% del totale speso per la salute mentale. Questo lascia le persone affette da disturbi mentali con pochissime opzioni tranne il ricovero in ospedale. Le cure in istituzioni ancora non riformate drenano il budget per i trattamenti di salute mentale, mentre le terapie ambulatoriali, o lo sviluppo di una rete di Centri di igiene mentale sul territorio, quali per esempio presenti in Italia, rimangono il tallone d’Achille della tutela della salute mentale nel paese. Gli interventi di emergenza da soli assorbono il 20% del budget stanziato per gli ambulatori e sono un servizio disponibile in un numero limitato di regioni. Il servizio di riabilitazione psico-sociale che è finalizzato a promuovere l’integrazione sociale e le condizioni di adattamento per le persone con disturbi mentali, è anch’esso limitato a poche istituzioni nell’intero paese e copre quindi un numero esiguo di beneficiari. La tutela dell’igiene mentale è sempre un tema delicato, in vari paesi. Il diritto ad essere accolti e messi in condizione di vivere in società per le persone con disturbi mentali e psichiatrici è un percorso relativamente recente e che combatte contro pregiudizi, ostacoli di varia natura, e molto spesso contro una volontà politica limitata che si concretizza in investimenti inadeguati. La Georgia ha dimostrato di volersi instradare verso questa rivoluzione di civiltà, ma rimangono carenti i fondi, le strutture, il personale. Questo nuovo, tragico fatto di cronaca, ricorda quanta strada ancora c’è da fare. Iran. La libertà delle donne una spina nel fianco del regime degli ayatollah di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 28 settembre 2022 È successo nel 1999, nel 2003, nel 2006, nell’onda verde del 2009, nel 2018. E adesso. Sono più di vent’anni che l’Iran è scosso, quasi con frequenza regolare, da proteste di piazza. A volte, sono i “mostazafin”, i più poveri delle classi medie, a scendere in piazza, a volte sono i giovani delle università; a volte si chiede pane, per le condizioni di vita che diventano sempre più difficili, a volte si chiede libertà; a volte è Teheran a protestare, a volte Mashad, che è la seconda città per abitanti, o città di province lontane: l’Isfahan, il Lorestan, l’Hamadan. Stavolta è pane e libertà, stavolta è l’Iran tutto in piazza - oltre cinquanta città sono attraversate dalle proteste, iniziate nel Kurdistan iraniano. Quarantuno già i morti “ufficiali”, settantacinque, secondo le stime al ribasso di organizzazioni per i diritti civili. Il fatto è che le autorità hanno rallentato Internet, bloccato l’accesso a Instagram e WhatsApp, e raccogliere notizie diventa sempre più difficile. Tutto è cominciato a Teheran. Il 13 settembre, Mahsa Amini, 22 anni, originaria del Rojhelat, il Kurdistan iraniano, stava passeggiando insieme a suo fratello diciassettenne per le strade di Teheran dove si trovava in vacanza con la famiglia. Il nome di battesimo di Mahsa era Jina, un nome curdo; Mahsa era il nome persiano sul suo passaporto in base a leggi pensate per oscurare l’esistenza del suo popolo. All’improvviso, Mahsa viene bloccata e caricata su una camionetta della polizia morale dell’Iran, portata in commissariato dove - così fu detto ai familiari - sarebbe stata sottoposta a un “breve corso sull’hijab”, visto che non lo indossava correttamente, e rilasciata entro un’ora. Invece fu picchiata duramente. Dopo tre giorni di coma, il 16 settembre, Mahsa è morta. Le autorità hanno parlato di malattie pregresse come causa della morte, smentite però dai familiari. Il padre di Mahsa ha dichiarato di non aver potuto vedere il cadavere della figlia né leggere i risultati dell’autopsia: “Ho potuto vedere di sfuggita il viso e i piedi nel momento in cui l’abbiamo seppellita. I piedi erano segnati dalle ferite. Mahsa godeva di ottima salute”. Le autorità avevano fatto pressione affinché la sepoltura avvenisse di notte. Ma non è andata così. Ritorno a Saqqez, la città dove Mahsa era nata. Il 17 settembre i funerali della ragazza sono sfociati in scontri con la polizia, con un morto e decine di feriti. Le proteste e la repressione si sono poi estese al resto del paese. Il 19 settembre, a Teheran, gli studenti di tre università sono scesi in piazza. Da allora, la protesta non si è più fermata. Questa storia delle morti di chi finisce nelle mani della polizia, non è certo nuova. Nelle proteste del 2018 furono almeno due: Vahid Heidari ad Arak e Sina Ghanbari a Teheran. Le autorità sostenevano che si fossero suicidati, ma non ci credeva nessuno. ? “Vahid faceva il venditore al bazar di Arak. È stato arrestato per aver partecipato alle proteste contro il carovita”, raccontava lo zio del ragazzo. Secondo la famiglia, ricevettero una telefonata dalla prigione: “Si è suicidato, venite a prendere il corpo”. Poi però non sono stati consegnati ai familiari né il cadavere né il referto del medico legale; e sono stati costretti a seppellirlo in una fossa già preparata. Ma era successo lo stesso nel 2009, quando migliaia di giovani furono imprigionati dopo le manifestazioni del Movimento verde, rinchiusi in centri di detenzione non ufficiali come Kahrizak e sottoposti a torture e violenze sessuali: tre furono uccisi. Anche questa storia delle violenze sessuali non è nuova: nei mesi successivi alla repressione del 2009 si cominciò a parlare di stupri sistematici compiuti dalle forze di sicurezza e da altri detenuti nei confronti di donne e uomini incarcerati per ragioni politiche. “Le guardie carcerarie stanno distribuendo preservativi ai criminali e li stanno incoraggiando a violentare sistematicamente i giovani attivisti che si trovano in carcere con loro”, scrisse nel giugno 2011 il giornalista del “Guardian” Saeed Kamali Dehghan, citando diverse lettere e testimonianze di persone detenute nelle prigioni iraniane. È una vera ossessione per il regime teocratico iraniano - questa del controllo del corpo delle donne, l’orrore per la libertà dei costumi, sessuale. Da quando è arrivato al potere Ebrahim Raisi, nell’agosto 2021, le autorità sono diventate più severe, imponendo nuove misure per controllare la popolazione. In particolare le donne. Il 5 luglio 2022 Il governo approva una direttiva che impone nuove restrizioni sull’abbigliamento femminile: prevede punizioni per chi usa l’hijab “in modo improprio”, per esempio lasciando uscire ciocche di capelli. È esattamente il motivo per il quale la polizia morale fermò Mahsa Amini. Inoltre stabilisce che il velo deve coprire anche il collo e le spalle e vieta alle dipendenti pubbliche di indossare calze e scarpe con il tacco. Il 12 luglio è istituita la “giornata dell’hijab e della castità”. Il 15 agosto un nuovo decreto impone ulteriori obblighi e punizioni per chi non si conforma al codice di abbigliamento. Il 30 agosto in un’intervista in tv il segretario dell’Organizzazione per la promozione della virtù e per la repressione del vizio annuncia che il governo prevede di usare il riconoscimento facciale per individuare le donne vestite in modo improprio nei luoghi pubblici. Il 5 settembre alcune organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno rivelato che la settimana precedente, nella città di Urmia, sono state condannate a morte due attiviste della comunità lgbt, Zahra Sedighi Hamedani, 31 anni, ed Elham Chubdar, 24, accusate di diffondere “corruzione sulla Terra”. La corruzione sulla Terra - questo sono le donne per il regime iraniano. È dal 1979 dalla rivoluzione di Khomeini che le donne non possono cantare in pubblico - questo spiega anche la moltiplicazione dei video diffuse sui social, come forma di protesta. Come il gesto, praticato in questi giorni da decine e decine di ragazze, spesso in pubblico, di tagliarsi i capelli - un rito di lutto, praticato ancora in alcune province, proprio come accadde durante i funerali di Mahsa, e ora diventata una forma di protesta. “Jin Jiyan Azadî” (che in persiano diventa “zan zandegi azadi”), “Donna, vita, libertà” - è questo lo slogan di questi giorni. Nel nome delle donne. Neda Agha- Soltan aveva 26 anni. Nel giugno 2009 partecipava alle proteste dell’onda verde. Neda fu uccisa da un cecchino delle forze di sicurezza iraniane mentre andava a una delle tante manifestazioni che si stavano tenendo per protestare contro i presunti brogli elettorali che avevano permesso la vittoria alle elezioni presidenziali del conservatore Mahmud Ahmadinejad contro il riformista Hossein Mousavi. Circolò subito un video che durava meno di 40 secondi: si vedeva una giovane donna gravemente ferita, in strada, circondata da alcuni uomini che tentavano di prestarle soccorso. La donna guardava verso il cellulare che stava filmando, con gli occhi spalancati, prima di cominciare a perdere molto sangue dalle orecchie e dal naso, e morire. Si chiamava Neda. Narges Hosseini: nel 2018, salì su un muretto durante le proteste di piazza, si tolse il velo e lo appese a uno stecco, come a farne una bandiera. La foto fece immediatamente il giro del mondo. Venne arrestata. L’accusa era (articolo 638 del Codice penale islamico) di avere “commesso apertamente un atto peccaminoso e aver violato la pubblica moralità” e di avere così (articolo 639) “incoraggiato l’immoralità e la prostituzione”. Rischiava fino a dieci anni di carcere, gliene diedero otto, ne scontò cinque. Oggi è di nuovo in prima fila nelle proteste, di nuovo arrestata. Hadis Najafi, uccisa da sei proiettili della polizia. Sembrava fosse lei la “ragazza con la coda”, che si vedeva in un video raccogliere i capelli con un elastico e poi andare a unirsi ai manifestanti. Invece, la “ragazza con la coda” è viva, è apparsa in un video della BBC per dire: “Non sono Hadis Najafi, ma combatto per tutte le Hadis e le Mahsa. Non abbiamo paura che ci uccidiate”. Molti commentatori e conoscitori dell’Iran invitano alla cautela - la repressione sarà durissima, il regime è ancora forte. Noi speriamo che abbia ragione Tara Sepehri Far, ricercatrice di Human Rights Watch: “Le donne si sono tolte il velo e hanno camminato per strada. Non si può tornare indietro”.