Mai più una/uno di meno di Sbarre di zucchero, Nessuno Tocchi Caino, Voci di dentro, Diritti umani dei detenuti calpestati da uno stato assente, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Ristretti Orizzonti Ristretti Orizzonti, 27 settembre 2022 Non si ferma la strage nelle carceri italiane. Dall’inizio dell’anno, in questi 8 mesi e 25 giorni, 65 persone si sono uccise nelle loro celle: 16 avevano tra i 20 e i 37 anni, 8 avevano oltre cinquant’anni, tra loro quattro donne. Una persona ogni 4 giorni ha infilato la testa attorno a un cappio o ha inalato il gas del fornellino. Nel solo mese di agosto una persona si è suicidata ogni due giorni. Morti di solitudine, paura, disperazione, angoscia. Perché senza speranza. Morti di galera. Persone diventate vittime di un sistema carcere mantenuto in piedi, nonostante i suoi risultati spesso fallimentari, da chi non vuole vedere e da chi non sa gestire il disagio con i giusti strumenti di una società civile, che dovrebbero essere innanzitutto medici, educatori, insegnanti. E poi con politiche per l’inclusione e per l’inserimento sociale e lavorativo. Morti di galera (certo sappiamo bene che non tutte le carceri sono uguali, ma il dolore è tanto ovunque, e anche la solitudine, e la scarsa attenzione per gli affetti delle persone detenute). Morti in una galera dove con la morte e la sofferenza si convive giorno dopo giorno. Per questo motivo ci facciamo portavoce delle compagne e dei compagni di queste 65 persone che si sono tolte la vita e delle persone che soffrono nelle carceri italiane, bollenti in estate e gelide in inverno, dove è pesante il degrado reso ancor più insopportabile dal sovraffollamento, e denunciamo la disumanità di un sistema che non riesce ad avere attenzione e cura degli esseri umani che gli sono affidati. Chiediamo oggi con forza, come del resto lo facciamo da tanto tempo, che la società non si volti dall’altra parte (non tutta ma tanta parte lo fa) e che si renda conto che, suicidio dopo suicidio, si sta reintroducendo di fatto la pena di morte cancellata con l’entrata in vigore della Costituzione italiana il 1 gennaio 1948. Allo stesso tempo chiediamo che sia finalmente applicato l’articolo 27 della Costituzione al secondo e al terzo comma dove si afferma che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva e che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Vogliamo che il dolore che queste 65 persone hanno manifestato rinunciando alla propria vita sia finalmente ascoltato e sia messa fine a questa strage, che può terminare quando il carcere cesserà di essere una sorta di pattumiera dove gettare tutti assieme malati, disagiati, disoccupati, emarginati, stranieri, dipendenti da sostanze, giovani vittime di chi li ha trasformati in manovali della criminalità per i suoi profitti. Chiediamo innanzitutto • che si combatta in tutti i modi l’isolamento del sistema carcere, favorendo sempre di più l’ingresso negli istituti della società civile; • che le donne in carcere siano rispettate e non schiacciate in un sistema e una organizzazione prettamente maschili; • che diventi realtà l’affermazione che nessuna mamma con bambino deve più stare in cella; lo si è detto troppe volte, è ora di tradurlo in pratica; • che sia agevolata l’organizzazione di corsi e laboratori gestiti dalle associazioni di volontariato, e la vita delle carceri non finisca alle tre del pomeriggio, come succede ancora in moltissimi istituti; • che il sistema sanitario prenda in carico davvero le persone e le curi come meritano tutti gli esseri umani, e che ci si ricordi sempre che chi è malato gravemente non deve stare in carcere; • che vengano aumentate le ore di colloqui settimanali e liberalizzate le telefonate come accade in molti paesi d’Europa, con telefonini personali per ciascun detenuto abilitati a chiamare parenti e avvocati: non si tratta di un lusso, ma di un po’ di umanità e di rispetto della sofferenza, anche quella delle famiglie; • che vengano assunti in misura adeguata operatori, come psicologi ed educatori, che oggi sono del tutto insufficienti; • che venga depenalizzato il consumo di sostanze stupefacenti, perché la legge attuale sulle droghe porta spesso in carcere persone che non ci dovrebbero stare; • che venga posto un limite all’uso della custodia cautelare - un vero e proprio abuso visto che l’Italia è il quinto Paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare, il 31%, ovvero un detenuto ogni tre; • che venga rispettato lo stesso Ordinamento penitenziario, che a più di quarant’anni dalla sua emanazione è ancora in parte inapplicato, come ad esempio là dove parla di Consigli di aiuto sociale, che dovrebbero occuparsi del reinserimento delle persone detenute nella società e non sono mai stati istituiti; • che vengano sviluppati e rafforzati programmi per il reinserimento delle persone che escono dal carcere con le misure di comunità, che poi sono l’unico modo vero per porre un freno alla recidiva. Potremmo continuare all’infinito, perché tante sono le richieste e altrettanti sono i diritti continuamente violati. Alla base di tutto restano però dei principi di civiltà: la sicurezza si raggiunge facendo prevenzione, la prevenzione si fa migliorando la qualità di vita nelle carceri. La strage di quest’anno deve cessare. Mai più una/uno di meno. Aderiscono: Associazione (R) esistenza Anticamorra, Movimento madri doppiamente disperate, Associazione Loscarcere OdV, Happy Bridge Odv, Associazione Recidiva Zero, Associazione il Viandante, Associazione Il Coraggio, Gioco di squadra OdV, Cooperativa Sociale OVERLAND. Per adesioni scrivere a: sbarredizucchero@gmail.com Allarme suicidi. Il carcere non sia una galera di Chiara Dama Corriere della Sera, 27 settembre 2022 Il tasso di chi si toglie la vita nel 2022 sarà il più alto del ventennio. La causa va cercata nell’enorme disagio delle condizioni detentive. Urgente incentivare le misure alternative e di recupero. Sessantadue. Dietro a questa cifra ci sono le storie delle persone che si sono tolte la vita in carcere dal primo gennaio al 19 settembre di quest’anno. In neanche nove mesi è stata già superata la quota dei suicidi in cella di tutto il 2021. A denunciato in un dossier l’associazione Antigone, impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti e delle garanzie del sistema penale. “I numeri di quest’anno generano un vero e proprio allarme, non avendo precedenti negli ultimi anni” si legge nel documento. Nel 2018 il tasso di suicidi ogni 10mila persone detenute era di 10,4 casi, sceso a 8,7 nel 2019 per poi risalire a 10 nel 2020 (il decimo più alto del continente secondo l’ultimo rapporto disponibile del Consiglio d’Europa, riferito a quell’anno) e 10,6 nel 2021. Nel 2022, considerato il trend dei decessi in aumento, potrebbe toccare il valore più alto dell’ultimo ventennio. In Italia i detenuti si uccidono 16 volte in più rispetto ai liberi cittadini. Ma “il carcere non è una condanna a morte” ha ricordato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Le morti in prigione si possono prevenire. “In presenza di fragilità e segni di allarme - spiega Michele Miravalle, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione - occorrono degli interventi mirati di supporto e accompagnamento, per diminuire il senso di abbandono e risvegliare gli stimoli verso la vita. Oggi, invece, le situazioni a rischio vengono gestite in un’ottica di sicurezza, disponendo una sorveglianza a vista continua. Ma la rigida logica del controllo non è la soluzione e va appunto superata con quella flessibile dell’ascolto e dell’accoglienza della persona detenuta da parte degli operatori”. L’impatto dell’arresto e della carcerazione è traumatico. “Avere la possibilità di sentire i familiari nei momenti di maggiore angoscia - sottolinea Miravalle - può essere di vitale importanza, allontanando il detenuto dall’intento suicidario. Per questo in estate abbiamo lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, in cui chiediamo di riformare il regolamento del 2000, che stabilisce una telefonata alla settimana di massimo dieci minuti, liberalizzando i colloqui telefonici nei casi in cui la persona possa contare su una rete sociale esterna e in assenza di particolari esigenze di sicurezza”. Vista l’emergenza, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Carlo Renoldi ha messo a punto una circolare per adottare la videochiamate come strumento ordinario in aggiunta ai sei colloqui in presenza al mese concessi. I più giovani e di sesso maschile sono la categoria più colpita. L’età media dei suicidi avvenuti finora è di 37 anni. La maggior parte aveva tra i 3o e 39 anni, seguiti dai ragazzi tra i 20 e 29 anni. Solo otto i casi over 50. Quasi la metà erano di origine straniera. Le case circondariali di Foggia e San Vittore a Milano sono gli istituti con più decessi registrati al momento. “Il suicidio nella quasi totalità dei casi - chiarisce Giuseppe Nese, coordinatore della rete regionale di sanità penitenziaria della Campania - non è mai l’espressione di una patologia psichiatrica e, pertanto, i comportamenti a rischio non vanno medicalizzati e trattati con psicofarmaci, né la persona che li manifesta va trasferita nella sezione psichiatrica del carcere. Le scelte autolesive e suicidarle sono piuttosto da inquadrare come conseguenza delle condizioni detentive che determinano un disagio intollerabile. La pena non deve essere una punizione ma una rieducazione. Per prevenire i gesti estremi bisogna migliorare la qualità di vita ordinaria dei detenuti, offrendo attività che diano senso alle loro giornate e al loro futuro, dallo sport al lavoro, il teatro e lo studio, e che rispondano il più possibile alle esigenze e inclinazioni personali. Per un padre che ha necessità di far campare i suoi figli e non vuole sentirsi un peso - fa un esempio Nese - sarà utile avere un impiego lavorativo. Come già accade in tanti altri Paesi europei, andrebbero poi allestite le cosiddette “camere dell’amore” per le relazioni sentimentali e sessuali”. Altrettanto prioritario, esorta Nese, è “il monitoraggio dei momenti potenzialmente più stressanti, che potrebbero gettare la persona reclusa in un grave sconforto: dall’ingresso in carcere ai colloqui con i familiari, le reazioni in aula di giustizia e al rientro, la comunicazione di un lutto o di un evento drammatico che coinvolge amici e parenti, la separazione dal coniuge, la tendenza all’autoisolamento in sezione e all’aggressività verso gli altri. Tutti gli operatori, compresi gli agenti, devono e possono cogliere i segnali di pericolo, non spetta soltanto al personale sanitario farlo”. L’attenzione costante per i traumi che si trova a vivere la persona detenuta è raccomandata anche dal piano nazionale di prevenzione al suicidio in carcere del 2017, che in una circolare dell’8 agosto il capo del Dap invita i direttori degli istituti ad applicare. La condizione degli spazi e del tempo all’interno del carcere è determinante dunque. “Il suicidio - ribadisce Miravalle - è legato al malessere della struttura e al sovraffollamento. Su oltre 55mila reclusi, circa 10mila sono sottoposti al regime di 41 bis e di alta sicurezza per reati di criminalità organizzata, il resto è gente che ha alle spalle storie di marginalità sociale e povertà. Per queste persone afflitte da fragilità la risposta doveva essere un welfare più forte e invece sono finite in galera. È fondamentale incentivare le misure alternative alla detenzione. Quelle 62 persone molto probabilmente fuori dal carcere non si sarebbero mai ammazzate”, conclude Miravalle. Cara Giorgia, ascolta il grido di chi si ammazza in carcere di Tiziana Maiolo Il Riformista, 27 settembre 2022 65 suicidi nel 2022. A Meloni, che si dice garantista nella fase del processo ma giustizialista nella fase di esecuzione della pena, ricordo che c’è chi finisce dentro da innocente. E i colpevoli che dimostrano di saper cambiare. Non è possibile chiudere gli occhi per non vedere, né tapparsi le orecchie per non sentire. Sessantacinque cittadini si sono tolti la vita nelle carceri italiane in questo anno 2022, e temiamo non sarà finita, da qui al 31 dicembre. Giorgia Meloni più di tutti è chiamata oggi a guardare, a sentire, ad ascoltare. A “sentire”, prima di tutto, un grido di sessantacinque voci che chiedono attenzione, che sollecitano un grande fascio di luce su quelle mura, su quella non-vita che è l’esistenza in cattività. E la forza del sottrarsi, dell’andare da un’altra parte, perché lì ti hanno tolto anche l’ultimo respiro, l’ultimo soffio di vita. È all’ascolto di questi ultimi sussurri, che vorrei oggi sollecitare Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia e dell’intero centro-destra che ha vinto le elezioni politiche ed è pronta a ricevere l’incarico di formare un nuovo governo dal presidente Mattarella. Se non ha la possibilità di pensarci subito, visto il futuro immediato che la aspetta, lo potrà fare in un secondo momento, ma sappia che nel frattempo la casa brucia. È vero che, ancora da candidata, Giorgia ha dichiarato di essere, sulla giustizia, “garantista” nella fase del processo, cioè quando ancora vale la presunzione di non colpevolezza, ma “giustizialista” nella fase di esecuzione della pena. Niente più di uno slogan, se mi permetti. Perché tutto quel che capita “dopo” la celebrazione del processo dipende da quel che è successo “prima”. Innanzi tutto: esistono gli errori giudiziari, ma anche sentenze sbagliate come conseguenza di una serie di circostanze, non ultima la cieca fiducia che alcuni organi giudicanti hanno avuto, almeno negli ultimi trent’anni, nell’infallibilità del pubblico ministero. I “piccoli casi” sono decine, ogni giorno. Sono quelli di cui nessuno di noi parla, semplicemente perché dei piccoli nessuno si cura e le notizie non ci arrivano, se non quando sfociano in una fine tragica. Solo allora si scoprono disattenzioni e sciatterie, detenuti “dimenticati” in carcere dopo le scadenze dei termini, malati psichici non curati, tossicodipendenti lasciati nel posto sbagliato. Ma vorrei ricordarti anche due “grandi casi”, quelli di cui tutti parlano, anche se, colpevolmente, solo dopo che la frittata è stata cucinata e mangiata. Primo caso, quello di Enzo Tortora. In pochi ricordano che una delle vittime più clamorose di malagiustizia in Italia fu condannato in primo grado. E ancora meno tutte le anomalie colpevoli della fase istruttoria. Il nome “Tortona” letto su un’agendina con un certo numero telefonico, numero che nessuno mai compilò per verificare se corrispondesse a quello del famoso presentatore. Poi: la testimonianza “fondamentale” di un bulletto che raccontò un episodio ridicolo che sarebbe avvenuto nella toilette di un’emittente privata milanese, con la moglie con l’elastico rotto delle mutandine, e Tortora che spacciava coca tranquillamente nel corridoio. E ancora: diciassette “pentiti” collocati nella stessa caserma a scambiarsi opinioni e a concordare versioni di fantasia utilizzate con disinvoltura dall’accusa. Ricordiamo anche che, se Enzo Tortora, che di tutto questo morirà, perché sono tante e diverse le forme di suicidio, non ha finito i suoi giorni in un carcere, lo dobbiamo alla curiosità di un presidente di corte d’appello. Il quale, al contrario di quanto fanno troppo spesso altri suoi colleghi, ha passato numerose notti a scartabellare carte e testimonianze. E ha scoperto il clamoroso abbaglio collettivo, chiamiamolo così. Non risulta che quel presidente abbia in seguito fatto carriera, ma i suoi colleghi che avevano “sbagliato” invece si, tutti promossi, anche al Csm. E veniamo al secondo “grande caso”, cara Giorgia, di cui, sono sicura, hai già sentito parlare: la morte di Paolo Borsellino e il caso Scarantino, il finto “pentito” costruito a tavolino. Qui non ci sono errori giudiziari. Qui c’è stata volontà politica di trovare capri espiatori, non importa se colpevoli o innocenti, ma subito, da dare in pasto all’opinione pubblica. E che cosa dire di quei quindici che sono rimasti in carcere innocenti per quindici anni a causa di questa operazione politica di uomini dello Stato? Se tu ne avessi incontrato qualcuno, come è capitato a qualche parlamentare come me, mentre subivano vere torture negli istituti speciali di Asinara e Pianosa, forse guarderesti al carcere con occhi diversi. E forse non avresti presentato quella proposta di legge di riforma costituzionale per modificare l’articolo 27 e affiancare al principio della rieducazione del condannato l’esigenza della tutela della sicurezza. Si, perché quelle leggi incostituzionali sull’ergastolo ostativo che sa tanto di pena di morte sono nate proprio in quei giorni emergenziali del 1992, dopo l’assassinio di Paolo Borsellino. E non è mai buona cosa legiferare con una pistola puntata alla tempia. La pistola di dover dare qualcosa in pasto all’opinione pubblica. Ma fino a qui abbiamo parlato solo di persone innocenti. Comodo, starai pensando, ma vogliamo parlare dei colpevoli? Certo, hai ragione, parliamo di Caino, perché su Abele vittima di ingiustizie è facile essere d’accordo. Non so se hai letto sul Riformista dei 23 di questo mese l’articolo di Lea Melandri. Non ha scritto parole in tuo favore, ma neanche contro. Ha soprattutto sviluppato un ragionamento generale, che io personalmente condivido, sulla rinuncia, da parte di molte donne, a quel percorso delle femministe che avevano tentato di attribuire valenza politica al “personale”, la sessualità e la contraddizione donna-uomo. Vi siete accontentate dell’emancipazione, dice Lea, cioè di farvi accettare dal mondo del potere patriarcale omologandovi al modello culturale maschile. Io non so se, come azzarda Melandri, le donne di centro-destra abbiano assimilato il “familismo” italico che relega la donna al suo ruolo di eterna madre di tutti e dedita alla cura di genitori figli e mariti. Ma devo dire che è proprio a questa donna-madre, che personalmente non vedo solo in negativo, che voglio oggi appellarmi. E sono sicura che proprio questa parte di Giorgia saprà ascoltare. E anche “sentire”. Il discorso è questo. La riforma della giustizia è fondamentale per la civiltà di un Paese, o di una Nazione, come tu preferisci dire. La scelta di Carlo Nordio, che conosco personalmente da moltissimi anni, come ministro Guardasigilli, mi trova entusiasta. Il suo programma probabilmente lo condivido ancora più di te. Ma fare giustizia deve voler dire prima di tutto guardare in faccia le persone, credere in loro, soprattutto nella possibilità che, se sapremo trattarle con attenzione ai loro diritti, anche loro, o molte di loro, prima a poi cambieranno. Proprio come prevede l’articolo 27 della Costituzione. Io personalmente non credo che la privazione della libertà sia lo strumento più adatto a cambiare in meglio le persone. Se in sessantacinque si sono tolti la vita nell’arco di nove mesi, il problema non è più individuale, ma è lo strumento-carcere che non funziona. E allora, cara prossima prima ministra, vogliamo partire almeno dal “piccolo”, e risolvere questa ingiustizia che qualcuno chiama sovraffollamento, ma che è solo mancanza d’aria? Nell’attesa che la separazione delle carriere e le altre riforme sulla giustizia risolvano a cascata anche qualche problema del carcere, vogliamo sottrarre a questa tortura almeno i soggetti più fragili come tossicodipendenti e malati psichici? E poi proviamo a fare insieme lo sforzo di convincerci, perché gli esempi sono tanti e molto concreti, che il cambiamento anche nelle persone che hanno tenuto i peggiori comportamenti, è possibile. Più spesso di quel che non credano coloro che vogliono chiudere la cella e buttare la chiave. Io non credo che una donna, quella che il “destino” del patriarcato ha collocato al maternage e alla cura degli altri possa essere tra loro. Credo invece che, se si ferma un attimo a osservarsi, possa trovare in sé una diversa sensibilità, quella di credere alla possibilità di un percorso di revisione e cambiamento. E comportarsi di conseguenza, magari ritirando quella proposta di (contro)riforma costituzionale. Vuoi pensarci? Poche risorse: nelle carceri rischia di crollare pure il volontariato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 settembre 2022 Negli ultimi due anni c’è stato un crollo del volontariato in carcere che ha fatto crescere il rapporto tra volontari e detenuti, da 1 a 3,1 del 2019 a 1 a 5,4 nel 2020. La flessione maggiore si è avuta per le attività religiose (- 61,3%) e per le attività di formazione e lavoro (- 60,5%); anche le attività sportive, ricreative e culturali hanno perso una percentuale consistente di volontari (- 56,5%), più bassa è la flessione rilevata tra i volontari impegnati in attività di sostegno alle persone e alle famiglie, diminuiti del 31%. Questo e altro ancora emerge da una ricerca dal titolo “Al di là dei muri”, realizzata dalle Acli nazionali, in collaborazione con le Acli Lombardia, quelle di Varese e la Fondazione Enaip Lombardia. Si tratta di un’analisi approfondita sul ruolo fondamentale del Terzo settore nel mondo del carcere. Come si legge nella prefazione a cura del presidente nazionale Acli Emiliano Manfredonia, il senso di questo primo report consiste essenzialmente nel documentare quello che le organizzazioni di quel mondo composito che chiama Terzo settore stanno già operando all’interno della realtà penitenziaria e di come esse tendano ad accompagnare i detenuti in un percorso che è indubbiamente afflittivo, ma che deve essere finalizzato alla prospettiva della risocializzazione una volta espiata la pena. Il presidente delle Acli ha anche evocato la figura di Aldo Moro e quanto la questione dell’umanità della pena, del recupero della centralità della persona anche nel diritto penale, sia stata al centro della riflessione filosofica e giuridica della sua persona. Anche come professore universitario (Moro non interruppe mai la sua attività di docente) manteneva questo interesse, accompagnando i suoi studenti a visitare le carceri. Per Moro la pena “è privazione della libertà, ma è soltanto privazione della libertà, non più di questo”. Da qui il suo rifiuto incondizionato della pena di morte, “vergogna inimmaginabile” in una democrazia costituzionale. Da qui anche - sottolinea Manfredonia nella relazione e ciò può sorprendere i più - l’altrettanto netto rifiuto dell’ergastolo, appellato come il “fatto agghiacciante della pena perpetua”, più crudele e disumana della stessa pena capitale. Il report ribadisce l’importanza del Terzo Settore, soprattutto per l’accoglienza esterna dei detenuti, utile per le misure alternative al carcere, ovvero le misure di comunità. Attualmente il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria spende il 97% dei fondi ad esso assegnati per mantenere gli oltre 200 istituti di pena del territorio, quasi 3 miliardi ogni anno. “Un investimento a perdere se si calcola l’altissimo tasso di recidiva, che porta gli stessi soggetti ad affollare nuovamente le stesse strutture dalle quali dovevano uscire invece rieducati e reinseriti nel contesto sociale”, sottolinea sempre il report. L’esecuzione penale esterna è quella che riceve meno soldi di tutti. Investire in esecuzione esterna significa anche non lasciare soli gli autori e le vittime, mentre nel sistema attuale i primi spesso sviluppano sentimenti di vittimizzazione e i secondi si sentono abbandonati dalle istituzioni preposte a difenderle. Va dato atto che c’è una crescita esponenziale delle misure di comunità grazie al Terzo Settore. Incrementarle, sia completando la riforma dell’ordinamento penitenziaria sia con i fondi, vuol dire poter fare a meno di costruire nuove carceri. Il passaggio dal volontariato individuale al volontariato organizzato coincide con la diffusione della cooperazione sociale e l’evoluzione del welfare mix. Oltre ai volontari, il carcere ha quindi cominciato ad ospitare operatori professionali di cooperative e organizzazioni no profit, impegnate nella gestione di progetti e iniziative di sostegno di varia natura. Oggi la maggior parte delle attività trattamentali e rieducative viene realizzata con il sostegno, spesso completo, di organizzazioni del Terzo Settore. Un dato aiuta a comprendere la situazione. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, per il 2020, disponeva di un budget di oltre 3 miliardi di euro (un terzo del bilancio complessivo del ministero della Giustizia). Questa somma è assorbita per il 77,98% dai costi del personale; per la voce “Mantenimento, assistenza, rieducazione e trasporto detenuti” sono stati stanziati 279 milioni di euro (il 9,28% del budget del Dap). A fronte di investimenti così limitati, è evidente che il ruolo del volontariato diventi cruciale: le organizzazioni del Terzo Settore forniscono una grande varietà di servizi, coinvolgendo decine di migliaia di persone. A ciò occorre aggiungere, gli interventi realizzati con fonti di finanziamento esterne: enti locali, fondazioni bancarie, aziende, supportano economicamente le organizzazioni del Terzo Settore nella realizzazione di progettualità sociali all’interno delle carceri, soprattutto nel settore del lavoro e della cultura. Ma quali sono le criticità di queste organizzazioni del Terzo Settore? Dal report emerge che, talvolta, i progetti sono intermittenti a causa di eventi straordinari all’interno delle case circondariali (rivolte, evasioni, ecc.) o esterni come la pandemia. Ma la maggior parte delle volte i progetti mancano di continuità perché i finanziamenti sono scarsi e a breve termine. Sono proprio le associazioni più piccole e le cooperative ad essere maggiormente vulnerabili rispetto alla continuità, poiché, in quanto poco strutturate, non sempre hanno i requisiti o i contatti dovuti per trovare ulteriori opportunità di ri-finanziamento. Un altro elemento che il report tiene in considerazione è la formazione specifica dei volontari. Talvolta l’entusiasmo e la volontà di fare qualcosa di utile non sono accompagnati da un’effettiva capacità di gestione di alcune delicate situazioni che possono venirsi a creare con i detenuti, ma anche con lo stesso personale degli istituti penali, che può vedere con sospetto e come un “intralcio” il lavoro dei volontari. Infine, un importante elemento di criticità è dato dal fatto che non sempre le organizzazioni di Terzo settore impegnate nel mondo del carcere sono in grado di provare l’efficacia del loro contributo e di dimostrare risultati tangibili attraverso analisi anche longitudinali. Infatti, la mancanza di monitoraggi sistematici sulle attività svolte all’interno e all’esterno degli istituti penali, purtroppo, non valorizza l’importante ruolo che il Terzo settore svolge in questi luoghi. La ricerca “Al di là dei muri” è solo un primo passo. Come spiega Antonio Russo, vice presidente nazionale, “le Acli ritengono importante approfondire il ruolo del Terzo settore nel carcere, non una tantum, ma attraverso un’analisi cadenzata e regolare, capace di monitorare negli anni l’importante ruolo che esso svolge in questi luoghi. Il rapporto ci consegna un primo punto sull’impegno del mondo non profit in tema di detenzione e ci consente di individuare piste di lavoro per le successive edizioni del Rapporto con un focus particolare sull’importante tema della re-entry”. Elezioni, chi entra e chi esce: ecco tutti i nomi del pianeta Giustizia di Valentina Stella Il Dubbio, 27 settembre 2022 Bongiorno e Nordio in pole per il ministero della Giustizia, saltano Pillon e Perantoni: la nuova geografia del Parlamento. Su queste pagine li abbiamo intervistati spesso, ci hanno guidati tra i provvedimenti delle commissioni di competenza, hanno tracciato i possibili scenari su giustizia e carceri: erano - e lo saranno sicuramente ancora per qualche giorno - i deputati e senatori frontman/frontwoman dei partiti sui temi a noi cari. Ma sono stati rieletti? Chi ritroveremo nel nuovo Parlamento? Quali, dunque, saranno i nostri prossimi interlocutori? Prima di rispondere è bene ribadire che col taglio dei parlamentari il numero dei membri delle commissioni cambierà, ma conosceremo i dettagli nelle prossime settimane. Intanto il Senato ha già cambiato il regolamento, riducendo da 14 a 10 le commissioni permanenti (la Commissione giustizia tuttavia non verrà accorpata ad altre). Cosa che però non ha ancora fatto la Camera. Un altro problema che si porrà è quello delle commissioni bicamerali, che non sarà facile far funzionare con un terzo degli eletti in meno. Tornando ai nostri interlocutori, per Fratelli d’Italia abbiamo la riconferma alla Camera del responsabile giustizia Andrea Delmastro delle Vedove e dell’onorevole Carolina Varchi, e di Alberto Balboni al Senato. Per la Lega sono stati confermati la responsabile giustizia Giulia Bongiorno, possibile futura Guardasigilli, il senatore Andrea Ostellari, attuale presidente della commissione, Jacopo Morrone alla Camera, Manfredi Potenti che approda invece a Palazzo Madama. Non ci sarà più il senatore Simone Pillon. Infine, per la coalizione di centrodestra, resistono in Forza Italia Francesco Paolo Sisto, attuale sottosegretario alla giustizia, eletto in Senato, così come il suo collega, attualmente deputato, Pierantonio Zanettin e l’avvocato Anna Maria Bernini, sempre alla Camera Alta. Sisto e Bernini circolano anche tra i nuovi possibili responsabili del Ministero della Giustizia, come successori di Marta Cartabia. Non ce la fa invece la senatrice Fiammetta Modena. Il Partito Democratico perde Monica Cirinnà ma la “squadra giustizia” dovrebbe essere tutta confermata: si trasferisce al Senato l’attuale deputato Walter Verini, tesoriere dem, che troverà Anna Rossomando, riconfermata insieme ad Andrea Giorgis, sottosegretario alla giustizia del Conte 1, tra i pochissimi democratici ad essere eletto all’uninominale, e a Dario Parrini, primo firmatario di un disegno di legge per la modifica dell’abuso d’ufficio. Dovrebbero essere senatori, ma manca ufficialità, anche Alfredo Bazoli e Franco Mirabelli. Torna a Montecitorio per un altro mandato Enza Bruno Bossio, sostenitrice, anche spesso in una posizione diversa da quella ufficiale del partito, di una riforma dell’ergastolo ostativo pienamente rispondente alle indicazioni della Corte Costituzionale. Invece il deputato uscente di Leu Federico Conte, salernitano, aveva rinunciato alla possibilità di un bis. Sempre di Leu, non si è ricandidato l’ex magistrato Pietro Grasso. Per quanto concerne il Movimento Cinque Stelle: non ce l’ha fatta l’attuale presidente della Commissione giustizia della Camera, Mario Perantoni, e il suo collega Eugenio Saitta. Giulia Sarti, Alfonso Bonafede e Vittorio Ferraresi, come già vi avevamo raccontato, non si sono candidati per il vincolo del doppio mandato. Confermate le deputate Stefania Ascari, Carla Giuliano, Valentina D’Orso e il senatore della commissione antimafia Marco Pellegrini che rientra da deputato. Per il Terzo Polo viene confermato Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, alla Camera, insieme a Maria Elena Boschi, Avvocato e Presidente dei Deputati di Italia Viva, e Roberto Giachetti, assiduo presentatore di interrogazioni parlamentari sulle carceri su mandato della radicale Rita Bernardini. Per conoscere i destini di Lucia Annibali e Cosimo Ferri bisognerà attendere i risultati definitivi, per eventuali effetti ‘flipper’. Eletti anche Riccardo Magi, attuale membro della commissione Affari Costituzionali, per +Europa. In questa commissione si dovrebbe giocare la partita per la separazione delle carriere, riprendendo la discussione della proposta di legge di iniziativa popolare dell’Unione Camere Penali. Mentre della stessa commissione non passa il professor Stefano Ceccanti del Pd. Invece, tra le new entry, coloro che potrebbero occuparsi di giustizia, esecuzione penale, antimafia ci sono Ilaria Cucchi, eletta al Senato nella coalizione di centro sinistra, l’ex magistrata Simonetta Matone che lascia il Campidoglio per sbarcare alla Camera nelle fila della Lega, l’ex procuratore Carlo Nordio eletto con Fratelli d’Italia a Montecitorio che, se non diventa Ministro a Via Arenula, potrebbe puntare alla presidenza della Commissione Giustizia. Ma anche i pentastellati e ex magistrati Federico Cafiero De Raho e Roberto Scarpinato, eletti rispettivamente alla Camera e al Senato. E il centrodestra scopre che sulla giustizia parte da zero: il garantismo di Forza Italia peserà di Errico Novi Il Dubbio, 27 settembre 2022 Siamo proprio sicuri che Meloni potrà ridurre Nordio a un prezioso cameo, “unfit” ad assumere il controllo di via Arenula? Nella storia del centrodestra non esiste un paradigma che venga in soccorso, nella notte della vittoria prevista e straniante. Certamente non c’è un modello a portata di mano sulla giustizia. I primi dati proiettano con una certa chiarezza la coalizione verso il governo del Paese, a 14 anni dall’ultimo successo nelle urne, nel 2008, e a 11 anni dalla caduta dell’esecutivo Berlusconi nella tempesta dello spread, anno 2011. E se tantissimo è cambiato rispetto agli equilibri interni di quell’epoca, forse ancora di più è destinata a trasformarsi l’identità che l’alleanza potrà assumere nel campo della giustizia. Allora tutto ruotava attorno a Silvio Berlusconi, alla grande epopea della persecuzione giudiziaria, del conflitto con l’Anm e con il centrosinistra, e gli ultimi due player sembravano alleati di fatto. Ma quello schema oggi suona preistorico. Ne va creato un altro. Va definito un assetto del centrodestra sui diritti a partire dal dato nuovo: la vittoria debordante di Giorgia Meloni. Si parte dal “siamo garantisti rispetto al processo, ma rigorosi nella certezza della pena”, lo slogan di Fratelli d’Italia. Ma reggerà un modello simile? I primi commenti, i memo simpatizzanti nei confronti del centrodestra e di FdI, suggeriscono che la divisione dei seggi accentuerà il peso decisivo di Forza Italia. Non è cosa da poco. E si può prevedere che fra le questioni calde, su cui potrà svilupparsi la dialettica nella coalizione del futuro governo, il partito del Cavaliere farà pesare molto la propria storia, la propria identità garantista, rispetto alla matrice così diversa di Fratelli d’Italia, oltre che della Lega. È immaginabile una scelta “dominante” di Meloni sulla giustizia? Sembra rischioso. E anzi forse fin da ora si può dire che sulla capacità di rispettare la minoranza interna, e cioè innanzitutto Forza Italia, la probabile nuova premier si giocherà gran parte della stabilità del proprio governo. E dunque, la giustizia sarà sì un paradigma, ma nel senso che il nuovo equilibrio del centrodestra sulla questione potrà forse essere emblematico rispetto al metodo complessivo. Saper bilanciare forza dei numeri e ragionevolezza, saper dunque coniugare aspettative securitarie dell’immaginario di destra e cultura liberale tipica dei moderati, sarà la vera difficoltà di Meloni. Inventare un modello che non esiste: nella giustizia la sfida è più chiara che altrove. E il tema cosi sottovalutato in campagna elettorale rischia di diventare, se il Cav sarà abbastanza astuto, cartina di tornasole e snodo cruciale per il futuro governo. E poi un problema, a volerlo definire tale, riguarderà l’uso delle risorse politiche interne. Una su tutte: Carlo Nordio. Il centrodestra può contare su un vero intellettuale del garantismo, uno che ha militato nella magistratura senza mai assecondare l’Anm, un conoscitore profondo dell’intera macchina giudiziaria. Ecco, viste le incertezze di cui sopra, adesso che i risultati del voto “parlano chiaro” e però si profila pure quella strada tutta da disegnare anche sulla giustizia, siamo proprio sicuri che Meloni potrà ridurre Nordio a un prezioso cameo, “unfit” ad assumere il controllo di via Arenula? Un conto sono le previsioni, il dibattito pre-elettorale. Altro è il peso di una sfida che si presenta assai più nuova di quanto si potesse intuire alla viglia. Perché è vero, un centrodestra esiste dal 1994, da quasi trent’anni. Ma è una truffa delle etichette: un centrodestra come quello appena uscito dalle urne è un inedito assoluto, non si è mai visto. E mettere a posto tutti i tasselli, giustizia compresa, richiederà inventiva, lavoro e una notevole dose di umiltà. Il governo alla prova dei diritti civili di Felice Manti Il Giornale, 27 settembre 2022 Aborto, maternità, Lgbt+, fine vita: da riscrivere la giurisprudenza “creativa”. La sfida più difficile per il centrodestra si gioca nel campo dei diritti civili. Al Paese serve una risposta netta del Parlamento che demolisca la giurisprudenza creativa in materia di omotransfobia, utero in affitto ed eutanasia, le storture sulla schwa e le forzature sullo Ius scholae. Battaglie che la sinistra ha colpevolmente strumentalizzato, grazie a un’informazione mainstream completamente asservita, mentre il Paese chiedeva riforme su giustizia, fisco e ambiente. “I ceti popolari l’hanno mollata - dice lo scrittore gay Walter Siti. La scala delle priorità va ripensata”. Partiamo dall’aborto. “La Meloni vuole assicurare il valore sociale della maternità”, dicono le femministe di Non una di meno, Dacia Maraini e Monica Guerritore si candidano al ruolo di ancelle dell’ortodossia abortista, Vladimir Luxuria preconizza una “controffensiva reazionaria, conservatrice e oscurantista”, la “nuova stella nascente della sinistra italiana” (copyright Guardian) Elly Schlein minaccia sfracelli. Ma sarà veramente così? “Fdi non toccherà la 194”, assicura Fabio Rampelli. “Certo, è più facile semplicemente non applicarla, aumentando il numero di obiettori”, replica Emma Bonino di +Europa, rimasta fuori per uno zero virgola, assieme all’altra paladina Lgbt+ Monica Cirinnà e del pasdaran prolife leghista Simone Pillon. Ma non fare un tagliando a tutela della maternità, visto l’inverno demografico che ci attende sarebbe un’occasione persa. D’altronde, lo aveva scritto Norberto Bobbio sul Corriere - come ha ricordato Alessandro Gnocchi sul Giornale - nell’aborto ci sono due diritti in conflitto, quello della madre e quello del nascituro, ugualmente meritevoli di attenzione. “Dopo le istanze ideologiche e dannose si rimettano al centro i valori: vita, famiglia e libertà educativa”, avverte Jacopo Coghe di Pro Vita e Famiglia. Compito difficile, anche perché la colpevole inerzia del Parlamento su questi temi eticamente sensibili ha partorito una giurisprudenza creativa. Basti pensare all’utero in affitto, pratica odiosa dalla quale sempre più femministe prendono le distanze. Sul testo scritto proprio dalla leader Fdi, che punisce severamente chiunque mercifichi la gravidanza, ci sono resistenze ma anche aperture importanti. L’escamotage della stepchild adoption nascosto nella sentenza delle Sezioni unite della Cassazione 12.193 del 2019 aggira la maternità surrogata e le sue delicate implicazioni legali e psicologiche. Grande attenzione merita anche l’ultimatum lanciato dalla Consulta con la sentenza 32/2021 (relatrice guarda caso la neo presidente della Consulta Silvana Sciarra) che definisce “intollerabile” il vuoto di tutela per i figli delle famiglie arcobaleno dopo la mancata trascrizione all’anagrafe di due mamme e due papà. Già il suo predecessore Giuliano Amato invocava “parità di diritti vista l’evoluzione scientifica e tecnologica nell’ambito della filiazione”. Anche il fine vita merita una riflessione. La legge in discussione riconosce la morte volontaria medicalmente assistita, equiparata a quella naturale, ma si presta a tanti rischi e snobba la strada delle cure palliative. Il centrodestra se ne faccia carico, anche per smentire le sedicenti Cassandre rosse. Nordio: “La riforma della giustizia permetterà di risparmiare 40 miliardi l’anno” veneziatoday.it, 27 settembre 2022 L’ex magistrato è stato eletto alla Camera dei Deputati con Fratelli d’Italia. Per lui si parla con insistenza del Ministero della Giustizia. L’ex magistrato Carlo Nordio, ministro della Giustizia “in pectore” eletto alla Camera con Fratelli d’Italia, esprime grande soddisfazione per i risultati delle elezioni politiche che hanno visto trionfare Giorgia Meloni, e al contempo la necessità di assumere un forte senso di responsabilità: “La coalizione che formerà il nuovo Governo, - ha commentato - dovrà affrontare problemi di ordine economico e finanziario, forse i più gravi della storia della Repubblica italiana”. Nordio non nasconde “un certo tremore” di fronte a una situazione estremamente delicata, “che speriamo di affrontare con professionalità”. La crisi economica è la priorità, che può essere affrontata anche con la riforma della giustizia: “Da modesto esperto del settore e da ex magistrato, - ha ribadito - la riduzione della durata dei processi può interferire favorevolmente. La lentezza della giustizia ci costa 2 punti di Pil all’anno, tra i 30 e 40 miliardi di euro che possono essere indirizzati alla risoluzione di problemi più gravi”. Il Csm chiede modifiche alle riforme processuali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2022 Il plenum del Consiglio superiore della magistratura interviene sulla riforma del processo penale, ma anche di quello civile con due densi pareri in attesa che il Governo uscente approvi definitivamente i testi dei decreti legislativi. Proroga dei termini per le indagini da estendere; discovery anticipata con effetti potenziali assai gravi; difficoltà attuative di passaggi chiave come la nuova udienza predibattimentale e il maggiore utilizzo delle videoregistrazioni; problematico allargamento dell’inappellabilità. Il plenum del Consiglio superiore della magistratura interviene sulla riforma del processo penale, ma anche di quello civile con due densi pareri in attesa che il Governo uscente approvi definitivamente i testi dei decreti legislativi. Sul versante penale il parere condivide la generale intenzione del legislatore di razionalizzare i termini di durata delle indagini e di semplificare le procedure, riducendo il numero di proroghe ammesse, ma segnala che il decreto delegato circoscrive di fatto le ipotesi in cui può essere richiestala proroga delle indagini ai soli casi in cui queste ultime si rivelano complesse, non essendo considerati i casi, ora previsti, in cui, per le ragioni più diverse ed indipendenti dalla volontà del pubblico ministero, può rilevare una oggettiva impossibilità di concluderle nei termini di legge. Inoltre se il pm non ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, non ha esercitato l’azione penale o non ha avanzato richiesta di archiviazione, opera una discovery automatica delle indagini effettuate. Ma “la discovery obbligata può avere “un effetto disastroso sulle indagini espletate (essendo idonea a vanificare sforzi investigativi impegnativi e a frustrare le esigenze cautelari evidenziate eventualmente in una richiesta di misura. Analogamente è a dirsi per il caso in cui l’omessa assunzione di una formale determinazione conclusiva delle indagini dipenda dalla necessità di coordinare le indagini del procedimento con quelle, connesse, in atto presso altri uffici giudiziari nazionali o esteri. Tra gli altri rilevi critici, la relativa diffusione di apparecchiature idonee alla videoregistrazione delle udienze che rischia di vanificare alcune misure della riforma come quella sulla rinnovazione delle dichiarazioni, l’introduzione dell’udienza filtro predibattimentale per numerosi procedimenti, che moltiplicherà i casi di incompatibilità, l’allargamento dei casi proscioglimento inappellabili con conseguente aggravio per la Cassazione. Sul fronte civile il parere, oltre a ribadire uno scetticismo di fondo sul fatto che le modifiche processuali siano in grado di raggiungere gli obiettivi di taglio di durata, si sofferma sulla fase introduttiva, largamente rivista, per sottolineare come a uscirne penalizzato sarà soprattutto il convenuto: “quest’ultimo, infatti, sebbene ormai citato a comparire non più a 9o, ma a no giorni, è onerato a costituirsi almeno 7o giorni (e non più 20) prima dell’udienza, sicché il suo spatium deliberandi risulta ridotto rispetto al passato”. Di più. In un quadro in cui la controversia non è prevedibilmente destinata ad essere definita solo in pochi mesi, appare incongruo, avverte il Csm, ancorare le verifiche preliminari (anche su aspetti cruciali del procedimento) ad un momento anteriore anche allo svolgimento della prima udienza e, quindi, all’instaurazione di un contraddittorio non solo cartolare tra le parti; analogamente incongruo risulta imporre, per qualsiasi attività istruttoria di qualsiasi controversia, un termine “iniziale” di svolgimento dell’istruttoria, quando invece più opportunamente il giudice dovrebbe poter dosare l’urgenza della prova e in generale la tempistica del suo espletamento in rapporto al tempo della decisione. Reggio Calabria. Dignità calpestata dentro le carceri? di Federico Minniti Avvenire di Calabria, 27 settembre 2022 Pagare una colpa, anche grave, non vuol dire essere costretti a subire costanti mortificazioni e danni, a volte, irreversibili. Due detenuti, due vite. Una spezzata, l’altra piagata dall’abbandono in riva allo Stretto. Per entrambi, giustizia e società civile invocano attenzione. Ma basterà? Pagare una colpa, anche grave, non vuol dire essere costretti a subire costanti mortificazioni. Carceri a Reggio Calabria, s’indaga su più casi irrisolti - Chi vive la comunità carceraria è solito definirla come “una città nella città”. Una sorta di dimensione “altra”, troppo spesso scollata (o addirittura nascosta!) da quella ordinaria. Questi aspetti non fanno altro che rafforzare la dicotomia tra libertà e detenzione col serio rischio di far cadere nell’oblio i destini di quanti si ritrovano ristretti. Negli ultimi giorni, sono, però, balzate agli onori della cronaca due vicende che riguardano altrettanti detenuti reggini. La prima, purtroppo, ha registrato una vittima. Ci stiamo riferendo ad Antonino Saladino, giovane detenuto morto quattro anni fa a causa di un’infezione interna mentre era detenuto presso la Casa circondariale di Arghillà. Nella mattinata di mercoledì, il Gip di Reggio Calabria, Antonino Foti, all’esito dell’udienza di discussione dell’opposizione alla richiesta di archiviazione, ha disposto la restituzione degli atti al Pm per la prosecuzione delle indagini dirette ad accertare le cause della morte del giovane. Già nel marzo 2021, il Gip aveva, infatti, ordinato l’espletamento di nuove attività investigative al fine di accertare eventuali responsabilità nel tragico evento, ma il Pubblico ministero, a distanza di un anno, aveva avanzato una nuova richiesta di archiviazione. Nella stessa giornata, poi, il Garante per i diritti dei detenuti della Città metropolitana di Reggio Calabria, Paolo Praticò, ha diffuso una denuncia inquietante: “Desidero portare all’attenzione pubblica il caso di un detenuto disabile psichiatrico ristretto presso il carcere di via San Pietro a Reggio Calabria; il soggetto in questione versa in uno stato di totale degrado, vivendo seminudo tra i propri escrementi che per quanto ripuliti periodicamente dal personale addetto, tuttavia non è sufficiente a consentirgli una detenzione normale”. “Le urla lamentose - prosegue Praticò - si avvertono da tutti i reparti. Il personale sanitario e gli agenti penitenziari fanno il possibile per contenerlo ma risulta inutile”. Il Garante metropolitano nella sua lettera aperta ha spiegato come sia “stato chiesto il trasferimento in una struttura adeguata. La risposta è stata che appena si libererà il posto verrà trasferito e questo dura da circa sei mesi”. Conclude Praticò: “Questo ufficio ha deciso di fare un esposto alla Procura della Repubblica perché accerti eventuali responsabilità e di costituirsi parte civile nel caso venissero individuate o la situazione dovesse precipitare”. Palermo. Nel carcere di Pagliarelli votano solo due boss. Dietro le sbarre i clan si astengono di Salvo Palazzolo La Repubblica, 27 settembre 2022 Cambiano i rapporti fra mafia e politica. Non ci sarebbero più indicazioni di cosca per un partito o un candidato, come accadeva nei ruggenti anni Ottanta. Piuttosto, i mafiosi offrono il proprio potenziale elettorale ai candidati che si fanno avanti con la promessa di soldi o futuri favori. Nel seggio speciale istituito all’interno del grande carcere palermitano di Pagliarelli hanno votato solo quattro detenuti, due sono accusati di associazione mafiosa. I 400 dell’Alta sorveglianza, il reparto che ospita indagati per “416 bis” provenienti da tutta la Sicilia, hanno scelto di astenersi. Un campione indicativo di come sono cambiati i rapporti fra mafia e politica. Non ci sarebbero più indicazioni di cosca per un partito o un candidato, come accadeva nei ruggenti anni Ottanta. Piuttosto, i boss offrono il proprio potenziale elettorale ai candidati che si fanno avanti con la promessa di soldi o futuri favori. Lo raccontano le ultime indagini della procura distrettuale antimafia di Palermo: venerdì scorso, i carabinieri del nucleo Investigativo hanno arrestato il candidato Salvatore Ferrigno, in corsa all’Assemblea regionale con i Popolari Autonomisti, si era rivolto tramite un’intermediaria al boss di Carini Giuseppe Lo Duca. Avevano pattuito il pagamento di 5.000 euro per ottocento voti raccolti in quattro paesi. Sei euro a voto. Così diceva il boss finito in manette: “Tu pensi che noialtri andiamo a fare una campagna elettorale senza guadagnare una lira?”. Ecco la “filosofia” dei mafiosi oggi. Diceva ancora il boss: “Io posso corrispondere al momento di tre, al massimo quattro paesi. Carini, Torretta. Cinisi, Terrasini”. È anche il segno dei minori spazi di intervento di una Cosa nostra fiaccata da arresti e processi. Ma i padrini scarcerati negli ultimi tempi, come Lo Duca, non si rassegnano. E provano a riprendere i contatti con il territorio. Mentre i mafiosi in carcere sono più prudenti, stanno un passo indietro. Anche per le elezioni amministrative di giugno avevano scelto sostanzialmente l’astensionismo: solo in nove votarono a Pagliarelli, sei provenivano dal reparto dell’Alta sorveglianza. Poi, c’è un’altra variabile. Probabilmente, in questa fase, un pezzo consistente di organizzazione mafiosa sta a guardare. In attesa di aperture, segnali, ammiccamenti da parte della politica. In campo, ci anche nuovi soggetti criminali, o meglio, vecchie presenze tornate forti: “Per quanto riguarda le borgate — diceva ancora Lo Duca — problemi non ne abbiamo, c’è Passo di Rigano... ce ne sono, ce ne sono”. Passo di Rigano, ovvero il regno degli Inzerillo, gli “scappati” della seconda guerra di mafia che dopo la morte di Totò Riina nel 2017 sono tornati dagli Stati Uniti e vogliono riprendersi Palermo. Attraverso una nuova presenza sul territorio. Padova. Detenuti e permesso di soggiorno: due seminari in Provincia padovaoggi.it, 27 settembre 2022 Il questore Antonio Sbordone ha sottolineato: “Il confronto fra Amministrazioni è stato più che proficuo e teso al raggiungimento delle finalità della pena detentiva così come indicate dalla nostra Costituzione”. La settimana scorsa in Provincia si sono svolti due seminari sull’immigrazione ai quali hanno partecipato magistrati di Sorveglianza, i garanti comunali delle persone private della libertà personale, i direttori della Casa di Reclusione e Circondariale di Padova, i comandanti ed il personale di Polizia Penitenziaria di Padova e Venezia e, in videoconferenza, anche degli altri istituti del Triveneto, i funzionari giuridico pedagogici, il personale degli uffici di Esecuzione Penale Esterna, i mediatori culturali, assistenti sociali, rappresentanti di associazioni di volontariato e del terzo settore che operano all’interno degli istituti penitenziari patavini. Il confronto con i dirigenti dell’Ufficio Immigrazione della Questura, Sabrina Stefani e Barbara Nori, ha approfondito le tematiche relative al rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno per le persone straniere extra UE all’atto della scarcerazione o comunque durante la detenzione, le espulsioni e la normativa in materia di protezione internazionale. I seminari - La prima parte dei seminari ha riguardato la disamina dei quadri giuridici di riferimento e, successivamente si sono affrontati casi “tipo” ed approfondimenti sulla tematica delle espulsioni. Il questore di Padova, Antonio Sbordone, ha espresso soddisfazione per l’esito degli incontri: “Il confronto fra Amministrazioni, in questo caso quella della Pubblica Sicurezza e quella Penitenziaria, con il coinvolgimento degli Enti e delle Associazioni di volontariato che operano nelle strutture carcerarie è stato più che proficuo e teso al raggiungimento delle finalità della pena detentiva così come indicate dalla nostra Costituzione”. Dal canto suo, il provveditore regionale per il Triveneto, Maria Milano Franco d’Aragona, ha così commentato: “L’esigenza di offrire a tutti i profili professionali dell’Amministrazione Penitenziaria, nonché degli operatori del terzo settore, approfondimenti sull’importante tematica della legislazione nazionale in materia di immigrazione, anche al fine di dare una pronta restituzione alla popolazione detenuta, è stata raccolta con responsabilità e coinvolgimento dal personale, che ha prontamente aderito alla proposta. Ciò a dimostrazione di un ben avviato percorso condiviso di intenti, animato dalla volontà di attuare i principi ed i valori del mandato istituzionale. La funzione rieducativa della pena infatti, per concretizzarsi, deve passare anche attraverso un percorso di legalità e dunque, ove possibile, di regolarizzazione della posizione di persone straniere, alla base di concreti programmi di reinserimento sociale, inclusione e integrazione”. Cosenza. 18 detenuti di Alta Sicurezza coinvolti in un laboratorio di scrittura lagazzettadicalabria.it, 27 settembre 2022 Si è svolto, nel mese di settembre, nella Casa circondariale di Cosenza, un laboratorio di scrittura autobiografica promosso dall’associazione di volontariato “LiberaMente”, dal Polo universitario dell’Università della Calabria e dall’associazione piacentina “Verso Itaca APS”. Sono state coinvolte 18 persone recluse in alta sicurezza. “Insieme a voi - ha detto Antonio, uno dei detenuti - ho scritto cose che non ho detto quasi mai a voce; come, ad esempio, dire ti voglio bene ai miei genitori. Vi dirò, il primo giorno che ho frequentato questo corso, non riuscivo a capire il nesso o a cosa servisse ma poi ho capito che con la scrittura e scrivendo insieme a voi i ricordi del mio passato sono venuti fuori e credo che, se non fosse stato per voi, non sarebbero usciti. Così come i sentimenti perché’ secondo me c’è un nesso tra cuore e scrittura”. Il laboratorio è stato condotto da Carla Chiappini secondo la metodologia proposta dal professor Duccio Demetrio e dalla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. “Nel teatro del carcere - sottolineano gli organizzatori - per qualche momento molto intenso si sono incontrati errori, domande esistenziali, lutti, riflessioni ma anche momenti di felicità e tanta nostalgia. La proposta autobiografia è una proposta profonda ma delicata, non invasiva. Ognuno scende dentro di sé e dentro la sua storia fino a dove trova le parole, fino a quando ce la può fare. Nel momento della condivisione degli scritti, solo ascolto e silenzio. Nessun commento, nessun giudizio, a volte gli occhi si inumidiscono, a volte si ride insieme, a volte si tace semplicemente quando si intuisce che le parole sono scese fino in fondo, al centro di una vita. È una proposta di libertà e, nello stesso tempo, di responsabilità, un momento importante per celebrare la dignità di ogni essere umano, oltre la colpa e oltre la pena”. Firenze. Scrittrici e scrittori dal carcere cultura.comune.fi.it, 27 settembre 2022 Sabato 8 ottobre a BiblioteCaNova Isolotto un convegno per confrontarsi sulle varie esperienze di diffusione della scrittura nei penitenziari italiani. Nell’ambito del progetto “Storie Liberate”, promosso dal Collettivo Informacarcere del Centro Sociale Evangelico di Firenze, sabato 8 ottobre 2022, dalle ore 10 alle 18, si svolgerà presso la BiblioteCaNova Isolotto il convegno “Scrittrici e scrittori dal carcere”. L’incontro vuol essere l’occasione per un confronto tra varie esperienze di diffusione della scrittura nei penitenziari italiani e per l’individuazione di possibili collaborazioni con le realtà della società civile che vogliono prendersi cura delle storie private che “evadono” dalle carceri per farle diventare preziose testimonianze pubbliche. Il convegno sarà aperto da una riflessione iniziale sul tema “Perché la scrittura in carcere” e proseguirà con la presentazione di esperienze significative di laboratori di scrittura e pubblicazioni editoriali anche con la partecipazione in presenza di scrittrici e scrittori, per concludersi con una tavola rotonda sul tema “Carcere e comunità”. La giornata sarà attraversata da un reading di letture scelte in relazione ai vari temi trattati e ospiterà una mostra di materiale documentario proveniente dal “Fondo Bruno Borghi” della BiblioteCanova, gestito in collaborazione con il Collettivo Informacarcere. Il progetto “Storie liberate: raccontarsi dal carcere come azione di promozione umana”: Il Centro Sociale Evangelico di Firenze ha sempre avuto una particolare attenzione verso il carcere e, proprio in questi ultimi anni di isolamento dovuti all’emergenza Covid19, al suo interno è nato un gruppo, il “Collettivo Informacarcere”, per realizzare azioni concrete finalizzate a far conoscere a tutta la società questa realtà così complessa, contraddittoria e ancora troppo invisibile. Da qualche mese il collettivo sta realizzando il progetto “Storie liberate: raccontarsi dal carcere come azione di promozione umana”, finanziato con l’8xmille della Chiesa Valdese e Metodista, con l’obiettivo di costruire un sistema integrato di azioni, basate sulla valorizzazione della narrazione di esperienze personali in carcere, per favorire il benessere psicofisico dei detenuti, promuovere percorsi d’inclusione e far conoscere all’esterno la realtà del carcere. Il progetto si sviluppa nelle seguenti azioni principali: sviluppo della collana editoriale “L’evasione possibile”, catalogazione e sviluppo del “Fondo Bruno Borghi”, organizzazione di un convegno sulla scrittura in carcere. L’Evasione possibile: la collana editoriale è centrata, in particolare, sulle testimonianze riguardo le difficili condizioni di vita in carcere con il regime del 41 bis. Al suo interno finora sono stati pubblicati, da Contrabbandiera Editrice, L’inferno dei regimi differenziati (41-bis, aree riservate, 14.bis, AS) di Alessio Attanasio e Poesie d’amore dal carcere di Giovanni Farina. Programma del convegno * ore 10: Introduzione e saluto rappresentante Chiesa Valdese * ore 10.15: Pietro Clemente (Antropologo), Perché la scrittura in carcere * ore 11,00: Paolo Martinino (Volontario Collettivo Informacarcere), Il progetto Storie Liberate * ore 11.15: Emiliano Rolle (Responsabile BiblioteCaNova), La biblioteca sociale in carcere * ore 11.45: Esperienze di laboratori di scrittura in carcere a cura di Patrizia Barbanotti (Volontaria Collettivo Informacarcere) * ore 13: Buffet * ore 14: Un confronto tra scrittrici e scrittori in carcere, a cura di Francesca De Carolis (Giornalista, curatrice di pubblicazioni dal carcere) * ore 15.30: Tavola rotonda su “Carcere e comunità” a cura di Luciana Breggia (già Presidente di sezione al Tribunale di Firenze) * ore 17. 15: Conclusioni Per maggiori informazioni sul convegno “Scrittrici e scrittori dal carcere” e il progetto “Storie liberate” o per richiedere informazioni sulle pubblicazioni della collana editoriale “L’evasione possibile” contattare il: Centro Sociale Evangelico - Via Manzoni, 21 - 50121 Firenze - Tel. 055/2478476 - collettivocse.informacarcere@gmail.com. Catania. Fai tua la nostra città con la giustizia riparativa dalsociale24.it, 27 settembre 2022 I volontari Fai di Catania, appositamente formati, seguiranno il percorso curato di inserimento di dodici persone che svolgeranno così la pena alternativa. “La giustizia riparativa non è una forma di clemenza, un condono, un risarcimento del danno, un indulto, un’amnistia: è una realtà che sta dando forma al diritto. È terreno nuovo per la nostra cultura penalistica, contemporanea, tutta da comprendere e da esplorare”. Lo aveva detto qualche giorno fa alla Scuola superiore della magistratura il ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Esu questo nuovo terreno si muovono i percorso della giustizia riparativa. Come quello che vede la collaborazione tra l’Ufficio Distrettuale Esecuzione penale esterna ed il Fondo Ambiente Italiano di Catania. Fai tua la nostra città vuole creare percorsi di restituzione e risocializzazione per quanti sono destinatari di una condanna per reati che hanno danneggiato la comunità. Il primo viaggio vede protagoniste dodici persone che dovranno scontare la pena alternativa. Il percorso, curato dai servizi sociali, appositamente formati, sarà seguito dai volontari Fai di Catania che hanno competenze specifiche in materia. Dopo questa prima fase di formazione, queste dodici persone saranno dei ciceroni che potranno raccontare a turisti e scolaresche i luoghi della cultura etnea. Nello specifico la Cripta di Sant’Euplio e la Chiesa di San Nicolò La Rena. “Un’esperienza di cittadinanza attiva che promuove comportamenti di difesa ambientale e di consapevolezza dei beni culturali, favorendo la conoscenza delle materie legate alla tutela, conservazione e promozione del patrimonio e stimolando l’acquisizione di competenze specifiche in ambito comunicativo. Un progetto che mira alla promozione di attività risarcitorie che, secondo i principi del nostro ordinamento, devono passare dalla creazione di motivazioni che spingano a comportamenti socialmente corretti. Il tutto grazie alla rete con associazioni virtuose e attive sul territorio”, ha detto il direttore dell’Ufficio di esecuzione penale esterna di Catania, Antonio Gelardi. “Da una parte i ciceroni si sentono coinvolti nella vita sociale, culturale ed economica della comunità, restituendo conoscenza e divenendo esempio per altri in uno scambio educativo; dall’altra, due veri e propri tesori di Catania avranno l’opportunità di essere valorizzati, potenziati e restituiti al pubblico. Tale progetto, fortemente voluto dalla precedente Giunta, non sarebbe stato possibile senza il supporto della direzione culturale e rete museale del Comune di Catania. Cultura e legalità insieme: una strada da percorrere per restituire valore al nostro territorio”, ha sottolineato il capo delegazione Fai Catania, Maria Licata. Matera. Quella carezza di Francesco ai detenuti ospiti della mensa di Donato Mastrangelo Gazzetta del Mezzogiorno, 27 settembre 2022 Per otto detenuti in permesso premio avrebbe dovuto essere una domenica all’insegna della libertà ritrovata, sia pure limitata ad alcune ore. Ed invece nella nuova mensa di Piccianello, accompagnati dal cappellano della Casa Circondariale di Via delle Cererie don Gianparide Nappi, hanno ricevuto il dono inaspettato di incontrare Papa Francesco. Una giornata memorabile per loro che anelano ad una vita nuova oltre le sbarre. Lo sguardo di tenerezza di mons. Antonio Giuseppe Caiazzo, arcivescovo di Matera, rivolto verso Papa Francesco che saluta i fedeli davanti alla nuova mensa di Piccianello è la cifra di una giornata memorabile che pone l’Eucarestia come valore fondante del Cristianesimo, di una Chiesa protesa verso l’ascolto degli ultimi, dei più fragili troppo spesso ai margini della società. È la Chiesa di Bergoglio il quale chiede di “andare verso le periferie non solo geografiche, ma anche quelle esistenziali”. Ed è anche la Chiesa di don Pino, che dopo trent’anni da prete di frontiera nella sua parrocchia di San Paolo Apostolo a Crotone, ha fatto dell’aiuto alle persone più sofferenti uno dei cardini del suo ministero episcopale nella Diocesi di Matera - Irsina. Il pontefice dopo la Santa Messa e l’Angelus, a conclusione del Congresso Eucaristico Nazionale, ha portato la sua carezza anche nella nuova mensa Casa della Fraternità - Don Giovanni Mele tra lo stupore e l’emozione dei volontari della struttura dell’associazione intitolata proprio al parroco di Piccianello che fondò la mensa venti anni fa. “Si è avverato un sogno - ha detto Giulia Mele, 88 anni sorella del compianto parroco e volontaria assidua da 22 anni della mensa. Mio fratello desiderava un luogo accogliente in cui le persone potessero condividere il pasto e ritrovarsi insieme. Cosa ho detto a Papa Francesco? Grazie Santità, grazie di tutto”. Visibilmente commossa Maria Rosaria Di Muro, presidente dell’associazione don Giovanni Mele. “È stata una grande grazia per noi ricevere Sua Santità. La nuova mensa aveva bisogno della benedizione del Papa e tutto questo è stato possibile grazie a don Pino, il nostro vescovo che teneva particolarmente a cuore alla nostra struttura. Ho ringraziato Papa Francesco e lui ha risposto: Grazie per tutto quello che fate. Ha salutato tutti i presenti, donandoci una coroncina del Rosario”. Modena. Dall’ostificio della Casa Reclusione di Castelfranco le particole per la Messa del Papa modenatoday.it, 27 settembre 2022 Il lavoro della cooperativa sociale Giorni Nuovi a servizio del Congresso Eucaristico della Cei che si è tenuto nei giorni scorsi. Sono state prodotte anche nella Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia le 35mila ostie e particole usate nelle celebrazioni del Congresso Eucaristico nazionale, che si è aperto a Matera giovedì scorso e si è concluso ieri - domenica 25 settembre - con la messa presieduta da papa Francesco. La struttura di Castelfranco è stata coinvolta nella fornitura dall’Ispettore generale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi, a conoscenza dell’ostificio creato due anni e mezzo fa dalla cooperativa sociale Giorni Nuovi di Modena. Aderente a Confcooperative Modena, la cooperativa è stata costituita nel 2015 da cinque persone che prestano volontariato nelle carceri modenesi da una decina d’anni. “All’inizio il nostro impegno era squisitamente di natura religiosa, ma i detenuti ci chiedevano con insistenza un lavoro e una casa - spiega Francesco Pagano, presidente di Giorni Nuovi - Il progetto dell’ostificio è stato appoggiato fin dall’inizio dalla direttrice della Casa di Reclusione di Castelfranco Maria Martone e dall’arcivescovo di Bologna cardinale Matteo Maria Zuppi, che ha finanziato l’acquisto dei macchinari, successivamente donati al carcere dalla cooperativa”. L’ostificio comprende un’impastatrice, una macchina per le cialde, un umidificatore, una taglierina e una sigillatrice. Alla produzione attualmente lavorano due detenuti (ma presto saranno tre), assunti dalla cooperativa: entrambi sono impegnati per quattro ore al giorno. “Le nostre materie prime sono farina doppio zero e acqua - aggiunge Pagano - La produzione quotidiana è di circa 25 pacchi da 500 particole e quindici confezioni da 25 ostie usate dal celebrante. Sembra un lavoro facile, invece richiede molta attenzione e scrupolo”. Il progetto della cooperativa Giorni Nuovi ha ricevuto una buona accoglienza dalle diocesi di Modena e Bologna, sempre attente ai bisogni degli ultimi e dei carcerati. Del resto gli stessi vescovi Castellucci e Zuppi insistono molto sulle opere di assistenza e sostegno. La produzione e consegna delle ostie e particole non è l’unico progetto gestito dalla cooperativa nelle carceri di Modena e Castelfranco. I detenuti, infatti, realizzano anche presepi artigianali, lavorazioni tessili e assemblaggi per aziende locali. “Adesso abbiamo l’obiettivo di creare una linea di prodotti alimentari con un marchio proprio che coinvolga anche i detenuti in alcune fasi di lavorazioni - aggiunge Pagano - I soci e volontari della cooperativa Giorni Nuovi sono impegnati ad aiutare l’uomo che soffre, anche se rinchiuso in un carcere per i reati più diversi, senza però mai giudicare. Diceva don Oreste Benzi che “ l’uomo non è il suo errore”. Il nostro l’impegno comprende anche attività di volontariato e sostegno a vasto raggio. Non facciamo, quindi, del semplice assistenzialismo o della carità, ma cerchiamo di creare occasioni di lavoro come strumento di recupero dei detenuti alimentando - conclude il presidente della cooperativa sociale Giorni Nuovo di Modena - i loro sogni e speranze di uomini alla ricerca di un senso della loro esistenza”. Quei fantastici ragazzi che con Pannella scompaginarono la sinistra di Fabrizio Cicchitto Il Riformista, 27 settembre 2022 La caratteristica di Gianfranco Spadaccia, tutta sua, era la assoluta serietà e il rigore. Che non gli impedì di guidare le battaglie sfrontate del suo partito. Poi finì emarginato, perché era troppo libero. Nella sostanza di partiti radicali ce ne sono stati due: il primo fu fondato nel 1955 in seguito alla scissione dal PLI della sinistra liberale di Villabruna, Mario Pannunzio, Leone Cattani, Niccolò Carandini. Costoro insieme ai liberal-socialisti-azionisti di Ernesto Rossi e agli esponenti dell’UGI guidati da Marco Pannella e Sergio Stanzani diedero vita al Partito Radicale. Per molti aspetti quel partito era un sofisticato salotto nel quale si confrontavano intelligenze di alto livello ma di scarso impatto mediatico. Quel partito implose nel 1961 per il “caso Piccardi” che determinò una crisi alla fine della quale fra il 1963 e il 1964 il partito si disgregò in una serie di scissioni e a quel punto, con un percorso abbastanza tortuoso, Marco Pannella lo prese in mano. Pannella rifondò un Partito Radicale totalmente diverso da quello del passato: un partito tutto proiettato verso l’esterno, sia nelle piazze sia nei confronti del parlamento e del governo impegnato in una serie di battaglie sui diritti civili. La battaglia più grande fu quella sul divorzio, condotta insieme al PSI, protagonisti Marco Pannella, Loris Fortuna e il liberale Baslini. Quella battaglia fu certamente condotta contro le gerarchie ecclesiastiche e la DC, ma quando, dopo l’approvazione della legge (1970) si profilò la possibilità di un referendum (intorno al 1973, il referendum poi si sovlse nel 1974) la battaglia dei radicali registrò il dissenso sostanziale del gruppo dirigente del PCI, che allora era in totale controtendenza con una battaglia di quel tipo, visto che Enrico Berlinguer stava proprio lanciando la strategia del “compromesso storico” e quindi ricercando in tutti i modi l’alleanza con il mondo cattolico e la DC. Il dirigente comunista Paolo Bufalini, rivolto ai socialisti e ai radicali, sviluppò una autentica requisitoria, anche se essa formalmente fu fatta con garbo: “voi socialisti e radicali siete un po’ pazzi, non conoscete la società italiana. Le masse cattoliche sono contro il divorzio e voi rischiate di spostarle a destra. La classe operaia ha ben altri problemi che questi, per cui si asterrà. Rischiate una sconfitta disastrosa”. Invece era il gruppo dirigente del PCI che non si era accorto che la società italiana era cambiata e con essa la stessa base comunista che quando la battaglia referendaria di scatenò fu in prima linea anche perché la considerò una sorta di rivincita nei confronti di quella Dc che aveva stravinto il 18 aprile del 1948. Pannella da un lato espresse tutta la sua forza carismatica, dall’altro lato provocò la formazione di un gruppo dirigente del Partito Radicale di straordinario livello politico: in prima fila c’era proprio Gianfranco Spadaccia, purtroppo deceduto l’altro ieri, e del quale qui celebriamo il ricordo, Mario Mellini, Angelo Bandinelli, Massimo Teodori, Adelaide Aglietta, Franco Roccella, Emma Bonino. Ad essi poi si aggiunsero dirigenti di una seconda generazione: Beppino Calderisi, Massimo Crivellini, Roberto Cicciomessere, Marco Boato, Elio Vito, Valter Vecelio, e colui che poi fu il direttore di Radio Radicale Massimo Bordin. Si trattava di gente di straordinario livello, davvero capace di tutto, di condizionare in modo profondo i lavori parlamentari, anche con micidiali ostruzionismi, di fare manifestazioni di piazza, di provocare durissime polemiche su questioni specifiche, di sviluppare sulla giustizia e sulle carceri grandi battaglie garantiste. In quel gruppo dirigente Gianfranco Spadaccia si è sempre caratterizzato per una cifra personale che si distingueva da quella degli altri: la sua era una linea improntata alla serietà, al rigore, ad una grande capacità di analisi politica. Egli non esitava anche a distinguersi da Pannella quando non era d’accordo. Non a caso recentemente Gianfranco Spadaccia ha scritto per Sellerio un libro che ripercorre in modo assai minuzioso tutta la storia del Partito Radicale. Se però vogliamo mettere da parte una visione abbastanza acritica e agiografica del partito radicale, dobbiamo dire che Pannella da un certo momento in poi non ha più accettato il condizionamento e la capacità critica del gruppo dirigente che egli stesso aveva formato. Con il pretesto di dar vita ad un singolare partito “transazionale e transpartito”, di fatto egli sostanzialmente emarginò questa classe dirigente, sostituendola con la continua scoperta di giovanissimi dirigenti molti dei quali successivamente sono scomparsi. Quella iniziativa provocò la rottura di Mauro Mellini e di Massimo Teodori, ma non quella di Gianfranco Spadaccia che rimase sempre nel partito radicale anche se negli ultimi anni era totalmente emarginato. Stiamo parlando di una persona di grande spessore culturale e di grande serietà comportamentale. E sempre impegnato nelle grandi battaglie radicali per i diritti civili. Un grande abbraccio Gianfranco. I nuovi diritti nel mondo che cambia di Loredana Lipperini La Stampa, 27 settembre 2022 C’è una poesia di Wislawa Szymborska, Il giorno dopo - senza di noi, che comincia così: “La mattinata si preannuncia fredda e nebbiosa/In arrivo da ovest/nuvole cariche di pioggia”. Infatti piove. E il giorno dopo, qui, è quello delle accuse reciproche: colpa degli intellettuali, della classe dirigente, dei social, dei giornali. Intanto piove. Però in quello stesso giorno, guardando fuori dalla finestra, si scopre che non sta piovendo dappertutto. Infatti: a Cuba il 67% dei votanti al referendum (poca astensione, era al seggio il 74% degli elettori) ha detto sì alla riforma del Codice della Famiglia. Approvando, fra l’altro, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, le adozioni per coppie omosessuali, l’apertura (e la regolamentazione) della maternità surrogata, la lotta alla violenza di genere, il divieto al matrimonio infantile. “L’amore è legge”, ha twittato il presidente Miguel Díaz-Canel Bermùdez: “Il sì ha vinto, giustizia è fatta. Approvare il Código De Las Familias significa rendere giustizia e saldare un debito con diverse generazioni di uomini e donne cubani, i cui progetti familiari aspettano da anni questa legge. Da oggi, saremo una nazione migliore”. Perché occuparsi di Cuba? Semplice. In non pochi commenti post-voto si legge che, insomma, le sinistre pensano troppo ai diritti e per questo non arrivano al cuore, alla pancia, all’organo che volete voi dell’elettorato. Non sono questi gli argomenti, vien detto. Le persone vogliono certezze, lavoro, case, prospettive. Ecco: chi scrive a metà degli Anni 70 militava nel Partito radicale. Quello di cui era segretario, al tempo, Gianfranco Spadaccia, che è morto domenica prima di vedere l’Italia consegnata alla destra. All’epoca, l’allora Pci rimproverava i radicali di pensare ai diritti e non alla casa e al lavoro: come se fossero entità separate, il diritto e la vita quotidiana, come se avere la possibilità di decidere se essere madri o se porre fine a un matrimonio infelice non facesse parte della vita quotidiana, come se, infine, non fossero quel che sono, due lingue della stessa fiamma, la possibilità, in entrambe i casi, di sognare e ottenere una vita meno ingiusta. “Il mondo sta cambiando; lo sento nell’acqua, lo sento nella terra, lo fiuto nell’aria”: è una delle frasi più citate de Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien, quello di cui la destra si è appropriata durante la campagna elettorale (perché i miti servono alle narrazioni politiche: e fagocitare un capolavoro del Novecento è osceno quanto l’averlo rifiutato in favore del realismo capitalista, come è avvenuto a sinistra). Ed è così. Non basteranno l’indifferenza o lo scherno o leggi restrittive per farci tornare indietro. Ci saranno sempre luoghi dove il cambiamento è evidente, e altri che resteranno al passo per poi capire che è inutile, come è avvenuto proprio in Italia, e proprio grazie ai radicali, con il referendum sul divorzio. “La giornata di domani si annuncia soleggiata”, scrive Wislawa Szymborska in quella stessa poesia. Anche se l’ombrello, aggiunge, torna sempre utile. Festival per migranti e rifugiati: 280 milioni nel mondo, quarto Paese del Pianeta di Paolo Seghedoni* Corriere della Sera, 27 settembre 2022 Presentato il Festival della Migrazione che si terrà a Modena. Monsignor Perego (Fondazione Migrantes): “Sbagliato negare la cittadinanza a un milione e mezzo di giovani nati e cresciuti in Italia”. Sono 280 milioni i migranti e rifugiati nel mondo, idealmente il quarto Paese più popoloso dopo Cina, India e Stati Uniti. Duecentottanta milioni di persone che si sono messe in cammino per sfuggire a guerre (quelle note e la trentina di conflitti dimenticati dall’indifferenza e distrazione che caratterizza tanti), carestie, persecuzioni, che fuggono dalla tratta di esseri umani, dalla violenza, dallo sfruttamento. Saranno 90 milioni i richiedenti asilo nel solo 2022, un numero enorme, molti dei quali rimarranno senza tutele. Sono solo alcuni dei dati che Fondazione Migrantes della Cei ha messo in evidenza in occasione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato che si è svolta domenica 25 settembre. Una Giornata che intende rimettere al centro le migrazioni e i quattro verbi che, come sottolinea l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio mons. Giancarlo Perego, che di Fondazione Migrantes è presidente, dovrebbero caratterizzare tutti e in special modo un’Europa e un Italia sempre più stanche e anziane: accogliere, tutelare, promuovere, integrare. “Le nostre città - osserva mons. Perego - non sono aperte e accoglienti. Li lasciamo ancora fuori dalla città, dalla partecipazione alla vita politica, alla cittadinanza attiva, negando ancora a un milione e mezzo di ragazzi e giovani, che sono nati e hanno studiato in Italia, il dono della cittadinanza”. Ma non manca chi, nel nostro Paese, si spende per sostenere i cammini di accoglienza e integrazione sia dal punto di vista pratico (gli esempi di volontariato e di realtà che lavorano in questo senso si sprecano in tutte le città italiane) sia sotto il profilo culturale, dello sviluppo delle idee e del racconto di buone pratiche che possono andare oltre il timore e la tentazione di respingere, per promuovere una vera cultura dell’accoglienza e dell’integrazione che non può che far bene a tutti. In questo senso si pone l’esperienza del Festival della Migrazione di Modena, che nel 2022 giunge alla sesta edizione. Tre giorni di Festival, preceduti e seguiti da tante altre iniziative e proposte, che si terranno il 24, 25 e 26 novembre tra Modena, Carpi e, quest’anno, Ferrara. Un appuntamento fatto di convegni e seminari tematici e, anche, di contaminazioni e incontri concreti, perché far conoscere le persone e dare un nome ai volti è il primo e fondamentale passo da fare verso una autentica fraternità da vivere. L’appuntamento con il festival modenese di cui si sta componendo il programma in questi giorni, vuole anche fornire chiavi di lettura originali e offrire un’agenda sulle questioni aperte, di natura politica e culturale. Infine il Festival della Migrazione si sta aprendo a collaborazioni e incontri con altre occasioni di confronto che, in altre realtà del Paese, riflettono e cercano soluzioni adeguate ai tempi. *Festival della Migrazione Iran. Almeno 14 giornalisti arrestati nel corso delle proteste. Ifj: “Rilasciarli subito” fnsi.it, 27 settembre 2022 Il sindacato internazionale esorta anche le autorità di Teheran a ripristinare la libera circolazione dell’informazione dopo le restrizioni imposte all’accesso a internet e ai social media. Almeno 14 giornalisti sono stati arrestati in Iran durante le manifestazioni di protesta seguite alla morte di Mahsa Amini e alle restrizioni imposte da Teheran all’accesso a internet e ai sociali media. È quanto denuncia la Federazione internazionale dei giornalisti che, in una nota pubblicata sul proprio sito web, esorta le autorità iraniane a “rilasciare immediatamente i giornalisti e ripristinare la libera circolazione delle informazioni”. Secondo l’Associazione dei giornalisti Iraniani, affiliata alla Ifj, la metà dei 14 giornalisti fermati dall’inizio delle proteste sono freelance. Sulla vicenda è intervenuta due volte l’Associazione dei giornalisti della provincia di Teheran, che ha rivendicato il diritto dei professionisti dell’informazione a raccontare quanto sta accadendo in tutto il Paese e chiesto la scarcerazione degli operatori dei media. Anche il segretario generale della Ifj, Anthony Bellanger, ha rinnovato l’appello per il rilascio immediato di tutti i giornalisti detenuti e ha ricordato alle autorità di Teheran il loro “obbligo di difendere il diritto fondamentale alla libertà di espressione per tutti i cittadini iraniani, compresi i giornalisti”. Russia. Putin concede cittadinanza a Edward Snowden. Gli Usa: “Non cambia nulla” La Repubblica, 27 settembre 2022 E’ la “gola profonda” dell’Nsa americana. Edward Snowden ha ottenuto la cittadinanza russa: lo sostiene l’agenzia di stampa statale russa Tass citando un decreto emesso oggi da Putin. “Edward Joseph Snowden, nato il 21 giugno 1983 negli Stati Uniti d’America, è indicato nell’elenco di coloro che hanno ricevuto la cittadinanza russa”, scrive la Tass. Snowden è la ‘gola profonda’ dell’Nsa americana, l’uomo che nel 2013 ha rivelato al mondo i dettagli dei segretissimi programmi di sorveglianza di massa del governo statunitense e quello britannico. Per gli Usa la concessione della cittadinanza russa all’ex analista della Nsa Edward Snowden “non cambia nulla”: lo ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price, assicurando che la giustizia americana continuerà a perseguirlo per la diffusione di informazioni classificate.