Nordio, Ministro della Giustizia in pectore: “Abbiamo una grande responsabilità” di Massimo Guerretta Il Mattino di Padova, 26 settembre 2022 L’ex magistrato Carlo Nordio, già considerato il ministro della giustizia in pectore, è stato eletto in Senato con Fratelli d’Italia. 75 anni, magistrato dal 1977 al 2017, è stato procuratore aggiunto di Venezia. Sue le inchieste sul Mose e successivamente quella sulle cooperative rosse. Negli anni Ottanta condusse le indagini sulle Brigate Rosse venete e sui sequestri di persona e negli anni Novanta indagò sui reati di Tangentopoli. È stato anche presidente della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale. Dal 5 dicembre 2018 è componente del consiglio di amministrazione della Fondazione Luigi Einaudi Onlus. Il suo nome circola anche come possibile ministro della Giustizia. Dottor Nordio, che analisi possiamo fare del voto? “Una bella vittoria, che però è mitigata da una forte responsabilità, che noi dobbiamo assumerci. Il Paese versa in una situazione economica drammatica, e quella sociale potrebbe essere anche più grave. Tutto questo andrà affrontato e possibilmente risolto e da questo governo. Mi auguro che la stessa opposizione, che saluto con rispetto perché fa parte della democrazia, sia un’opposizione responsabile, ma sempre in sintonia con l’attività collettiva e con la funzione internazionale dell’Italia manterrà nel solco della tradizione atlantica ed europeista come da sempre sostiene Giorgia Meloni e che non sarà minimamente scalfita. Siamo in una democrazia che funziona, chi vince vince e chi perde perde, sarebbe bene che tutti ne prendessero atto, sempre tenendo conto che il centrodestra sarà estremamente sensibile ai valori democratici della Costituzione, e delle alleanze che sono sempre più solide”. Cambia qualcosa dopo il risultato della Lega? “Non credo che cambi molto. Ci sono sempre delle oscillazioni all’interno delle coalizioni, che riflettono di situazioni particolari. Servirà l’analisi del voto, ma sono certo che la maggioranza resterà compatta e duratura e darà luogo a un governo in grado risolvere questi gravi problemi del paese in un momento così difficile”. L’affluenza al minimo storico. Come la valuta? “Io ho presieduto il comitato della giustizia referendaria e abbiamo visto che in per i referendum è stato molto ridotto. C’è una disaffezione che non è solo nostra, è anche Europea e della civiltà occidentale. Questo non significa che ci siano dei dubbi sulla validità del sistema democratico, secondo me va valutata a metà, disaffezione da una parte e sfiducia da chi va a votare nelle decisioni che prendono gli altri. In democrazia gran parte della gente che non va a votare non si fida di ciò che decidono gli altri”. La selva oscura del linguaggio e delle procedure burocratiche di Tito Lucrezio Rizzo L’Opinione, 26 settembre 2022 In claris non fit interpretatio recita un antico adagio della dottrina giuridica, fatto proprio dai pensatori del periodo illuministico, fautori di un sistema normativo basato su poche, chiare e accessibili norme, onde evitare le oscillazioni interpretative che rendono il cittadino confuso e indifeso al venir meno della certezza della Legge. Le leggi, massimamente quelle costituzionali, debbono essere poche, chiare, coordinate e concise, altrimenti vale il vecchio adagio Plurimae leges, maxima iniuria. Nella seduta dell’11 marzo 1947 all’Assemblea costituente Benedetto Croce rilevò che una delle ragioni per cui la redazione in corso della Costituzione non era del tutto felicemente riuscita, era dovuta dall’essere stata scritta da più persone (75 nel caso di specie); ma non si poteva imporre uno stile uguale per tutti, poiché, disse: “Tutto si potrà collettivizzare o sognar di collettivizzare, ma non certamente l’arte dello scrivere”. Compito del Legislatore dovrebbe essere quello di attenersi al richiamato aureo precetto della chiarezza; ma purtroppo nel nostro Paese, dopo l’esordio di quell’esempio di nitore logico, sistematico ed espressivo - pur con le riserve del Croce - che è stata la Costituzione, si è verificato un progressivo oscuramento del sistema “Legge”, dovuto nei tempi recenti al susseguirsi incalzante di leggi, leggine, regolamenti, decreti e, in ultimo, alla conflittualità tra la legislazione statuale e regionale, e alla necessità di un’armonizzazione con quella europea. “Dalle grandi cose alle cosette”, per dirla ancora con il Croce: parliamo di atti normativi come quelli che a cascata si sono riversati in materia di Coronavirus sul cittadino-suddito. Appare utile qui ricordare che innanzi al noto principio che “la legge non ammette ignoranza”, la Corte Costituzionale in varie sentenze riconobbe opportunamente al cittadino il diritto all’ignoranza della legge, tutte le volte che la stessa risultasse formulata in modo oscuro o contraddittorio. Varie tappe segnarono il percorso dell’auspicata semplificazione lessicale e contenutistica, per la quale si impegnarono a far data da trent’anni or sono, sia esperti giuristi come Sabino Cassese, Franco Bassanini e Franco Frattini, che linguisti come Tullio De Mauro, per la redazione di codici o manuali di stile cui avrebbero dovuto uniformarsi gli apparati pubblici nel loro insieme: si trattò di iniziative volte a dar concretezza ai principi introdotti dalla nota ed ormai remota Legge n. 241, del 7 agosto 1990, mirante alla conoscibilità dell’azione amministrativa ed al diritto di accesso. È generalmente noto che il “burocratese” è un linguaggio oscuro, in parte perché retaggio di antiche formule curiali ereditate dal passato (esempio: “Si significa alla Signoria Vostra…”), ma perlopiù perché la sua voluta inaccessibilità iniziatica, ne nasconde i reconditi significati alle masse, per conferire una maggiore (e sciagurata) autorevolezza ai sacerdoti di ritualità immote nel tempo, consacrate nelle ricorrenti litanie del tipo del “si è sempre fatto cosi”, “non si e mai fatto prima d’ora”, “non ci sono precedenti...”. A partire dagli anni Novanta, grazie alle innovazioni cui si è fatto cenno, sembrò avviarsi l’attesa svolta, accentuata poi dalla direttiva 8 maggio 2002 emanata dall’allora ministro per la Funzione pubblica Franco Frattini, il quale cosi ne spiegò i principi ispiratori: “Le amministrazioni pubbliche utilizzano infatti un linguaggio molto tecnico e specialistico, lontano dalla lingua parlata dai cittadini, che pure ne sono i destinatari. Invece, tutti i testi prodotti dalle Amministrazioni devono essere pensati e scritti per essere compresi da chi li riceve, e per rendere comunque trasparente l’azione amministrativa”. Una delle linee guida provvidamente presenti, era quella della flessibilità della forma, che doveva essere tanto più semplice, quanto meno istruiti sono i destinatari. Sotto il profilo strettamente lessicale, era suggerito di trovare la forma giuridica più semplice ed efficace per la redazione del testo nel suo insieme, anche evitando abbreviazioni e sigle, qualora fossero sconosciute ai più, nonché di scrivere periodi brevi e senza neologismi, parole latine o straniere (il Jobs act era ancora lontano a venire). La semplificazione auspicata, rendendo ancor più il cittadino protagonista attivo e consapevole della “Res publica”, avrebbe potuto consentire di superare quelle limitazioni dovute talora a scarsa cultura, che di fatto potevano discriminarlo nell’esercizio dei diritti e nell’adempimento informato e puntuale dei doveri. Il 17 febbraio 2020 a Firenze la ministra della Funzione pubblica Fabiana Dadone e il presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, firmarono un accordo quadro per favorire il buon uso della lingua italiana nella comunicazione tra l’amministrazione e i cittadini, negli atti, nei documenti e nella corrispondenza dell’Amministrazione pubblica. Tuttavia gli ultimi provvedimenti “a vista” ed “a pioggia” sul Coronavirus, sono stati l’esempio di una legislazione prolissa, oscura, intrinsecamente incoerente, che viene a costituire l’acquitrino ideale dove possono nuotare pesci grandi e piccoli, chiamati ad interpretarla in Malam partem contro il cittadino-suddito, o meglio contro il suddito-cittadino. Last but not least, la proliferazione di procedure defatiganti, come pareri, visti, autorizzazioni, nulla osta, per avviare una qualsivoglia attività imprenditoriale, commerciale, professionale, con le correlate lungaggini di una burocrazia elefantiaca ed autoreferenziale, appaiono di fatto come il terreno di coltura ideale per la mala pianta della corruzione, quale scorciatoia per non restare impantanati nel fango di un’incertezza che comporta pesanti ricadute psicologiche ed economiche per gli ardimentosi che aspirino ad addentrarsi nella selva oscura della burocrazia e del burocratese. “Potenziare la filiera per cambiare il sistema” di Federico Vespa L’Opinione, 26 settembre 2022 Simonetta Matone, dal 1979 al 1980, è vicedirettore del carcere presso Le Murate a Firenze. Dal 1981 al 1982 è giudice presso il Tribunale di Lecco e dal 1983 al 1986 è magistrato di sorveglianza a Roma. Nel 1987 è nominata capo della Segreteria del ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli. Dal 2015 è Sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma. Attualmente è capogruppo della Lega in Campidoglio e candidata alla Camera dei deputati. Con grande gentilezza e disponibilità ci concede una piacevole e illuminante intervista sull’attuale situazione del sistema giuridico in Italia e i suoi futuri - e auspicabili - miglioramenti. Dottoressa, molti pensano che, se vincesse il centrodestra alle elezioni, il tema della giustizia, soprattutto carceraria, sarà affrontato in chiave solamente giustizialista... Io vorrei ricordare che Matteo Salvini è l’artefice della battaglia referendaria: il primo quesito riguardava proprio il mal funzionamento del meccanismo della custodia cautelare. Anche se non è stato raggiunto il quorum, il referendum ha prodotto un risultato importante proprio perché la maggior parte dei votanti (oltre il 65 per cento) ha espresso il desiderio che il sistema giudiziario italiano venga riformato. Ma il problema da risolvere è la gestione degli uffici giudiziari: servono grandi manager, competenti di giustizia ma al di fuori di un certo sistema, per rendere funzionale il pianeta giustizia. A cominciare dallo smaltimento degli arretrati. Il metodo Palamara ha dimostrato che gli uffici direttivi non vengono dati secondo metodi meritocratici ma in base a meccanismi oscuri o quanto meno dubbi, che seguono una logica spartitoria. La stessa non può premiare il merito, ma solo penalizzarlo. Questo è un problema da risolvere alla radice con una vera riforma del Consiglio superiore della magistratura. Per esempio, la proposta del sorteggio tra pari dei magistrati che devono andare al Csm va nella giusta direzione, perché si annullano quegli accordi e correnti che fino ad oggi hanno bloccato il sistema. La riforma attuale purtroppo è all’acqua di rose. Poi l’annoso problema delle custodie cautelari. Cosa ne pensa? I tribunali di sorveglianza sono al collasso, la situazione è drammatica. Come l’immissione di nuovi magistrati va gestita in maniera sensata, perché serve personale a tutti i livelli. Lo svolgersi del processo implica una concatenazione di soggetti che vanno tutti potenziati; oggi l’avvocato è visto come un nemico del sistema giudiziario e non una figura che collabora per ottimizzarne il funzionamento. Mi è stato segnalato che il tribunale di Roma, per esempio, può impiegare fino a 4 anni per pronunciarsi sulle misure alternative per i soggetti liberi, il che non è concepibile. Il tema giustizia ha mille sfaccettature, ma sono tutte interconnesse tra loro. Carlo Nordio ha parlato di depenalizzazione per i reati minori, anche per non intasare inutilmente i tribunali... Io mi riporto alla battaglia referendaria, che credo spieghi molto bene la nostra posizione. Ovviamente, la coalizione del centrodestra ha varie anime al suo interno, unite però da un comune intento. Personalmente, tengo a ribadire la massima stima nei confronti di Nordio: apprezzo il lustro che ha dato alla nostra professione in qualità di magistrato, ne avessimo avuti di giudici come lui. Potenziare le misure alternative è importantissimo. Per farlo, però, è necessario potenziare anche tutta la struttura che ruota intorno alle stesse: quindi gli uffici per l’esecuzione penale del ministero della Giustizia, il servizio di assistenza sociale e tutta la filiera che fa parte del pianeta dell’esecuzione penale, che va resa più forte nella sua totalità. Personalmente, poi, sarei molto favorevole all’uso del concordato: il concordato in appello non è un rito alternativo e ci tengo a specificarlo; lo dice la dottrina, lo stabilisce la giurisprudenza. Una volta accertata la responsabilità del soggetto, presupposto necessario ed imprescindibile, il Pubblico ministero si accorda con la parte sulla quantità di pena da infliggere. Andrebbe utilizzato maggiormente questo strumento in appello anche nel processo penale, come già avviene nel civile. Possiamo spiegare la differenza tra concordato e patteggiamento? La differenza consiste proprio nel fatto che il concordato prevede l’accertamento in primo grado della responsabilità del soggetto incriminato e l’accordo è solo sulla quantità della pena. Tornando al referendum: è stato scritto male e pubblicizzato peggio. Si tenterà nuovamente questa strada? No, va fatta la riforma della giustizia. Si cambierà proprio il sistema e lavoreremo su questo. Silvio Berlusconi ha dichiarato che le sentenze di assoluzione in primo grado dovrebbero essere inappellabili. Che idea si è fatta in merito? Bisogna ragionare molto attentamente su questa soluzione, perché potrebbe astrattamente portare ad un numero più elevato di condanne. Ma questa è una delle tante soluzioni sulla quale ragionare con calma ed in maniera sensata. Giustizia tributaria: una riforma da completare di Angelo Contrino e Francesco Farri L’Opinione, 26 settembre 2022 La giustizia tributaria attende in Italia una riforma compiuta da oltre centosessant’anni. Recenti “congiunzioni astrali” avevano fatto intravvedere la prospettiva concreta di tale compimento, ma la legge n. 130/2022, approvata dal Parlamento il 9 agosto e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 1° settembre, si è mostrata per larga parte una occasione sprecata, poiché è intervenuta soltanto su taluni dei profili che da decenni esigono risposta. Da oggi inizia su questo sito una riflessione che proseguirà con ulteriori approfondimenti. 1. Fin dall’unità d’Italia gli organi investiti di competenza a conoscere le controversie tributarie, chiamati “Commissioni Tributarie”, hanno dato vita a vere e proprie eccezioni rispetto al sistema giurisdizionale nel suo complesso, e rispetto al sistema di giustizia nei confronti degli atti della pubblica amministrazione in particolare. Sfuggite alla generalizzata abolizione dei tribunali del contenzioso amministrativo degli Stati preunitari, realizzata con la storica legge n. 2248/1865 allegato E, per effetto della clausola di salvezza contenuta nell’art. 12 di essa, le Commissioni Tributarie hanno passato indenne anche l’introduzione della Costituzione repubblicana, per effetto della lettura conservativa che la Corte Costituzionale ha offerto della VI disposizione finale, nel senso che i giudici speciali preesistenti non dovessero essere necessariamente aboliti, ma semplicemente riorganizzati. Tale riorganizzazione naturalmente non avvenne, al punto che alcune pronunce della Corte Costituzionale hanno addirittura negato alle Commissioni tributarie il carattere di veri e propri giudici, ciò che avrebbe privato l’intero comparto tributario della presenza di un giudice in senso tecnico, facendo tornare la situazione di questa branca dei rapporti con la pubblica amministrazione alla condizione preunitaria, e comunque anteriore all’istituzione della Quarte Sezione del Consiglio di Stato nel 1889, quando il rapporto tra il cittadino e l’amministrazione non poteva essere conosciuto da un giudice terzo e imparziale, ma soltanto da organi interni alla stessa amministrazione. Essendo stata ritenuta sufficiente una miniriforma (quella di cui al d.P.R. n. 636/1972 e, poi, al d.lgs. n. 545/1992) per riabilitare le Commissioni come giudici speciali, esse si sono conservate sostanzialmente indenni con le loro radici nei sistemi preunitari. Ciò ha comportato che, fino a oggi, le controversie aventi ad oggetto la legittimità e la fondatezza degli atti impositivi non sono state decise nei gradi di merito da giudici pienamente indipendenti e imparziali, quanto meno nella percezione esterna, trattandosi di giudici non professionali, cioè che svolgono l’attività essenzialmente nel tempo libero da altri impegni, e incardinati in una struttura organizzativa del Ministero dell’Economia e delle Finanze. 2. Considerato che la maggior parte delle controversie tributarie riguarda proprio rapporti di debito-credito di cui è titolare il Ministero dell’Economia e delle Finanze, tramite la gestione dell’Agenzia delle Entrate e dell’Agenzia delle Entrate Riscossione, è immediato avvedersi del cortocircuito che da decenni si ingenera: le cause tributarie sono state decise da un giudice incardinato nella struttura organizzativa di una delle parti in causa. Ovviamente, si sono adottati accorgimenti per tamponare la situazione, come il rafforzamento del ruolo del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e la progressiva riduzione del ruolo del Ministro, ma è evidente il vulnus al principio dell’indipendenza, sicuramente quella percepita, che tale situazione si presta a generare. Ciò si è tradotto da anni - come ammesso in recenti convegni da taluni giudici tributari di lungo corso e con posizioni apicali in senso all’organo di autogoverno - in una eccessiva attenzione della giustizia tributaria verso le istanze provenienti dall’amministrazione finanziaria. La circostanza, poi, che giudici tributari potessero essere nominati anche persone che nella vita svolgono l’attività di PM ha acuito tale tendenza, per i possibili condizionamenti “professionali” derivanti dalla particolare funzione svolta. Per converso, la circostanza che giudici tributari potessero essere nominati anche geometri, ingegneri, periti agrari, architetti ha contribuito a ridurre la qualità giuridica delle decisioni, moltiplicando il contenzioso pendente nel grado di legittimità. La mancanza di giudici tributari professionali di merito ha generato, altresì, la conseguenza che in Cassazione la materia tributaria sia trattata da magistrati, stavolta professionali, ma che nella vita giudicante si erano nella maggior parte dei casi trovati a trattare tutt’altre materie ed erano privi di esperienza specifica in materia tributaria, con la conseguenza che anche nel grado supremo la qualità delle decisioni non è stata sempre impeccabile. Il che ha comportato, specie negli ultimi anni di clima di guerra all’evasione, una forma di deferenza che si è talora manifestata, anche da parte loro, verso le istanze provenienti dall’amministrazione finanziaria, ma in quanto parte, in questa prospettiva, dello stesso Stato cui appartengono i medesimi magistrati di legittimità, ponendo sovente su un gradino superiore l’interesse fiscale rispetto ai diritti dei contribuenti. 3. In definitiva, si possono ricondurre a tre gruppi i profili dell’ordinamento della giustizia tributaria che richiedevano (e richiedono) un urgente intervento: l’introduzione di magistrati tributari professionali e a tempo pieno, al posto dei giudici tributari onorari; la possibilità per i magistrati tributari di accedere agli organici della Corte di Cassazione, in modo da costituire una sezione specializzata in materia tributaria che non sia tale soltanto nel nomen (come l’attuale Quinta Sezione Civile) ma anche nella competenza dei giudici; la recisione del cordone ombelicale che lega gli organi di giustizia tributaria a una delle parti in causa e, quindi, l’incardinamento degli organi della giustizia tributaria, non più nell’ambito del Ministero dell’Economia e delle Finanza, bensì in quello del Ministero della Giustizia, come i Tribunali ordinari, o quanto meno della Presidenza del Consiglio dei Ministri, al pari degli altri giudici speciali come TAR e Corte dei Conti. A questi aspetti strutturali, tra quelli più urgentemente bisognevoli di riforma si aggiunge uno di carattere processuale, ossia il superamento di un ormai incomprensibile divieto di assunzione di testimonianze da parte del giudice tributario. La legge n. 130/2022 ha affrontato unicamente il primo e gli ultimi di tali aspetti, ma ha totalmente trascurato di misurarsi con gli altri due. Essa ha finalmente introdotto la figura del giudice tributario professionale a tempo pieno, selezionato per concorso al pari degli altri magistrati di carriera, ma non ha tranciato il legame col Ministero dell’Economia e delle Finanze, e non ha posto le basi affinché in Cassazione si occupino di tributi giudici realmente esperti della materia. Le Commissioni Tributarie, così, cambiano nome, divenendo Corti di Giustizia Tributaria, ma non cambiano natura: non vengono risolti né i denunciati e oramai da tutti riconosciuti problemi di indipendenza e imparzialità percepita della giustizia tributaria, né i problemi attinenti alla composizione dei collegi giudicanti nel supremo grado di giudizio. Si è di fronte a una riforma che coloro i quali hanno a cuore la giustizia in Italia non possono che salutare con soddisfazione per gli aspetti che ha affrontato, ma che è risultata timida e incompiuta, per non aver affrontato altri aspetti altrettanto urgenti e centrali che affliggono la struttura della giustizia tributaria. 4. L’occasione di approvazione di questa riforma, inoltre, richiede di compiere alcune riflessioni. La prima è che, se lo vuole, il Parlamento Italiano riesce a funzionare e ad approvare riforme anche senza bisogno di ricorrere allo strumento, ormai immancabile, della delega al Governo. La seconda è che in materia tributaria i rapporti di forza tra Parlamento e Governo sono ancora sbilanciati a favore del secondo. Secoli di riserva di legge in materia tributaria, a partire dalla Magna Charta Libertatum, non sono bastati né a rompere gli indugi delle burocrazie fiscali ad accettare la giurisdizione come ogni altra pubblica autorità, né a far sì che il Parlamento liberasse il sistema da vecchi privilegia fisci (il giudice tributario incardinato nello stesso Ministero titolare del credito tributario) senza aver prima ottenuto il placet dell’amministrazione finanziaria stessa. Invece, il Parlamento dovrebbe tornare a svolgere il proprio ruolo di garante dei cittadini contro gli ingiusti privilegi dell’amministrazione. La terza riflessione si collega al fatto che la spinta all’approvazione di questa riforma, che comunque come si è detto risolve alcuni, ma purtroppo non tutti, i problemi più annosi della giustizia tributaria, è giunta dall’attesa dei fondi del Recovery Fund Europeo. Tra le riforme che l’Italia doveva approvare in tempi rapidi per godere di una importante tranche dei fondi europei vi era, appunto, quella volta a migliorare la giustizia tributaria, e questa è stata la molla che ha convinto un Governo ormai dimissionario ad accelerare i tempi e un Parlamento ormai sciolto ad approvare una legge di riforma quanto meno con un giudice tributario professionale di carriera. 5. Tutto ciò non rende grande onore alla gestione dei rapporti fisco-contribuenti che siamo stati in grado di garantire in Italia negli ultimi anni. In uno dei pochi ambiti della politica economica rimasto di pertinenza degli Stati, soltanto l’intervento europeo ha fatto muovere (almeno in parte) in quella giusta direzione che le istituzioni nazionali ben avrebbero potuto percorrere da sole, come da decenni i tributaristi richiedono. Così non è stato perché, specialmente dagli anni della crisi del debito del 2011, si è rafforzata smisuratamente - anche stavolta per stimolo europeo, a testimoniare una sorta di subalternità delle politiche nazionali pure in materia fiscale - la componente di strumenti di lotta all’evasione, senza porre adeguata attenzione alla garanzia dei contribuenti. Dove si sono recepiti istituti di garanzia del contribuente, come il contraddittorio preaccertativo, lo si è fatto in una prospettiva - quella della definizione “transattiva” della pendenza - a tutto vantaggio del fisco. In questo modo il sistema tributario rischia di risultare sbilanciato, come un corpo tutto muscoli e niente (poche) difese immunitarie: se nell’immediato l’approccio muscolare può produrre dei risultati, a regime occorre un riposizionamento dell’equilibrio, per evitare disarmonie che a lungo andare danneggiano il corpo sociale. Il rapporto fisco-contribuenti, infatti, è al cuore del vivere civile ed è particolarmente delicato per la legittimazione delle istituzioni: così, il giusto contrasto a chi omette di compiere il proprio dovere di solidarietà nei confronti della collettività deve sempre svolgersi nel pieno rispetto delle garanzie e dei diritti che si deve a ogni amministrato, per evitare l’ingenerarsi di conseguenze controproducenti, di cui la storia della fiscalità è assai ricca. Soltanto un rapporto tributario socialmente percepito come giusto ed equo è in grado di garantire, al di là della minaccia della sanzione, quell’adesione sociale spontanea agli obblighi di contribuzione che è alla base del vivere civile delle società evolute, e può garantire quell’afflusso delle risorse necessarie per far fronte alle pubbliche spese che la rincorsa poliziesca all’evasione mai riuscirà a raggiungere stabilmente. 6. Vi è bisogno, adesso, di recuperare serenità nei rapporti tra fisco e contribuenti. Il che non vuol dire rilassamento nel contrasto all’evasione e alle frodi, bensì, sul piano sostanziale, definizione di un livello di contribuzione tributaria giusto ed equo per l’attuale contesto storico-sociale e per il difficile equilibrio che esso richiede nei rapporti tra necessaria spesa pubblica e necessaria disponibilità economica dei contribuenti, e sul piano procedurale definizione di un giusto equilibrio tra poteri dell’amministrazione e diritti dei contribuenti. E vi è bisogno che nel recupero della serenità nei rapporti tra fisco e contribuenti le istituzionali nazionali ritrovino quel ruolo di guida che il diritto riconosce loro, ma che negli ultimi anni è obiettivamente mancato. L’auspicio è quindi che la legge n. 130/2022 non sia un punto d’arrivo circoscritto al fine di godere una tranche di fondi del Recovery Fund europeo, ma il preludio di una nuova stagione di garantismo nei rapporti tra fisco e contribuenti: nuova stagione che dovrà comprendere non soltanto il compimento della riforma della giustizia tributaria, rendendo autonomo il giudice tributario dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, e aprendo gli organici della sezione tributaria della Cassazione ai magistrati provenienti dalla giustizia tributaria di merito, ma anche una molteplicità di altri aspetti sostanziali e procedurali che non possono, ormai, essere procrastinati. Ventata rosa a Palazzo dei Marescialli di Antonella Sotira La Discussione, 26 settembre 2022 Il nuovo CSM registra una importante vittoria di genere testimoniata dall’elevato numero di voti riportato da ciascuna delle magistrate elette Mariafrancesca Abenavoli, Paola D’Ovidio, Mimma Miele, Bernadette Nicotra, Maria Vittoria Marchianò e Luisa Mazzola. Incontriamo la neo Consigliera Bernadette Nicotra di Magistratura Indipendente, la prima tra gli eletti nei quattro collegi dei candidati giudicanti, con ben 636 preferenze: una evidente attestazione di fiducia e stima non solo nei valori e nel programma della corrente ma nella donna magistrato, giudice dibattimentale del Tribunale di Roma della sezione specializzata per i reati del Codice Rosso. È sempre stata iscritta a Magistratura Indipendente? O è una conservatrice “a prescindere”? In trenta anni di lavoro ho sempre deciso secondo la legge e tenendo ben presenti la lettera e lo spirito della Costituzione: in questo mi sento orgogliosamente “un giudice conservatore”, non una conservatrice a prescindere. Solo da pochi anni ho condiviso un percorso ideale con Magistratura Indipendente. Mi identifico come un giudice che “conserva” i valori enucleati nella nostra Costituzione... Credo fermamente che ogni giudice debba trovare la propria legittimazione nel decidere secondo le leggi della Repubblica “in nome del popolo italiano” anche quando queste leggi non le condividiamo. Le correnti hanno ostracizzato le candidature degli indipendenti o i magistrati hanno preferito affidarsi ai gruppi associativi? E per quali ragioni? Sono molto soddisfatta dell’alta partecipazione dei colleghi a queste elezioni e ci tengo a dire che le correnti non hanno ostracizzato le candidature degli indipendenti perché ogni candidato ha avuto la possibilità di svolgere la propria campagna elettorale. Piuttosto è il risultato elettorale che ci consegna una rinnovata fiducia dei colleghi nelle correnti legittimandone l’esistenza non quali “centri di potere” ma, al contrario, come aggregazioni e punti di riferimento fisiologiche al dibattito ideale e culturale in magistratura. In una sua recente intervista ha sostenuto che la missione del nuovo CSM è difendere i Tribunali. Vuole spiegare ai cittadini che cosa intende? Oggi l’opinione pubblica e i cittadini sono interessati ad una risposta di giustizia in termini di efficienza e celerità che purtroppo è spesso gravemente condizionata dalla cronica carenza di organico, dalla inadeguatezza delle risorse, e da una normazione processuale che talvolta sembra essere scritta da chi non ha mai frequentato un Tribunale. Sarà dunque priorità assoluta del nuovo Csm la copertura degli organici degli uffici giudiziari, in modo che vi sia sempre numero di magistrati adeguato alle numerose richieste di giustizia. Solo così, potremmo scongiurare il pericolo di una paralisi dei Tribunali Italiani, anche perché solo con risorse di uomini e mezzi la magistratura sarà in grado di recuperare credibilità e autorevolezza ed esprimere la propria indipendenza ed autonomia rispetto agli altri poteri dello Stato. Lei è stato membro di diversi CPO. La magistratura di oggi garantisce pari opportunità nei ruolo direttivi? Il risultato di queste elezioni va nella direzione di una maggiore rappresentanza delle donne nelle Istituzioni, infatti, sono state elette, insieme a me, altre quattro valide colleghe. Certamente il gap della rappresentanza delle donne in magistratura continua ad essere significativo in tema di conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi. La questione si lega indubbiamente al tema della genitorialità. Un tema che nella magistratura assume una complessità particolare perché i modelli di organizzazione sono modelli maschili che non contemplano spazi e tempi per la cura dei figli e dei carichi di famiglia. Quindi spesso le donne magistrato sono “forzatamente “ riluttanti verso la carriera in magistratura. Il prossimo Csm dovrà impegnarsi a promuovere iniziative volte a potenziare gli strumenti di tutela della genitorialità (spesso monoparentale) attraverso la previsione di soluzioni compensative che consentano di coniugare professionalità e maternità /paternità. Il nuovo CSM riuscirà ad evitare l’enfasi mediatica di questi ultimi tempi sulle nomine? E come? Sicuramente un altro tema centrale nell’agenda del prossimo Consiglio Superiore della Magistratura riguarda la carriera dei magistrati perché da quando con la riforma dell’ordinamento giudiziario nel 2006 gli incarichi direttivi e semidirettivi sono stati sganciati dal criterio dell’anzianità, si è diffuso il convincimento, alimentato anche dagli annullamenti del Tar di nomine per importanti uffici giudiziari, che l’assegnazione sia talvolta avvenuta sulla base dell’appartenenza al all’uno o all’altro gruppo associativo. Indipendentemente dalla fondatezza di tale convincimento, vi è un dato certo: ci sono stati dei casi in cui l’organo di autogoverno non ha fatto buon uso della sua discrezionalità eccedendo ed esponendo le nomine alle censure del giudice amministrativo. Pertanto, salvaguardando l’ineliminabile discrezionalità che la Costituzione riconosce all’organo di autogoverno, occorrerà perseguire l’obiettivo di rendere più chiare e intellegibili le regole che presiedono i criteri di nomina dei direttivi e dei semidirettivi. Quindi una maggiore trasparenza delle scelte che devono essere adottate nel rispetto della legge e dei canoni di ragionevolezza. Il rimedio ritengo potrà essere di valorizzare maggiormente l’anzianità rendendola concorrente con il criterio del merito e delle attitudini. Gli avvocati al governo (della giustizia) di Errico Novi Il Dubbio, 26 settembre 2022 Aprire al Foro le “cabine di regia” nei tribunali: è una delle proposte su cui discuterà il congresso di Lecce. Un sistema giudiziario autocratico non può reggere: va avvicinato davvero ai cittadini. Il Gruppo di Lavoro, all’esito della discussione tenuta nelle sessioni dedicate al tema ha evidenziato una possibile indicazione di massima da porre all’attenzione dei colleghi delegati per stimolarne la riflessione e la proposizione di eventuali mozioni nei termini previsti dallo Statuto. In particolare, è stato evidenziato che: - la recente approvazione della Legge 17-6-2022 n. 71, “Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura”, pubblicata nella Gazz. Uff. 20 giugno 2022, n. 142 (di seguito solo “Legge”), tra i suoi fini ha quello di riequilibrare funzioni e poteri degli attori della giurisdizione, Avvocati e Magistrati, pur lasciando irrisolte non trascurabili questioni, alcune peraltro oggetto di materia referendaria; - detta Legge ha, seppur in parte, valorizzato il ruolo dell’Avvocatura in relazione all’esercizio di alcune prerogative finora di appannaggio esclusivo della Magistratura, coinvolgendo gli Avvocati e i Consigli dell’Ordine degli Avvocati a diverso titolo in funzione ausiliaria; - in particolare, dal nuovo assetto di sistema della Legge si ricava: a) quanto ai Consigli dell’ordine degli Avvocati, che: I. essi esprimono il parere nei procedimenti per la copertura dei ruoli direttivi che sarà poi acquisto dalla Commissione competente del Consiglio superiore della magistratura (art. 2, comma 1, lett. c) della Legge); II. essi esprimono le osservazioni, acquisite dal Consiglio Superiore della Magistratura, in merito al procedimento di valutazione degli incarichi semidirettivi e direttivi ai fini della conferma di cui agli articoli 45 e 46 del D.Lgs. n. 160/2006 (art. 2, comma 1, lett. g) della Legge); III. il Presidente del Consiglio dell’Ordine partecipa alla redazione dei documenti organizzativi generali, concernenti l’organizzazione delle risorse e la programmazione degli obiettivi di buon funzionamento degli uffici giudiziari, correlati alle proposte tabellari (art. 2, comma 2, lett. a) della Legge]; IV. raccolgono le segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione (art. 3, comma 1, lett. a) della Legge); V. ricevono dal Consiglio Superiore della Magistratura la comunicazione annuale circa l’indicazione dei nominativi dei magistrati per i quali nell’anno successivo matura uno dei sette quadrienni utili ai fini delle valutazioni di professionalità (art. 3, comma 1, lett. b) della Legge); VI. ricevono dagli Uffici giudiziari la comunicazione circa l’esito del procedimento di accertamento dell’esclusione della ricorrenza dell’incompatibilità per rapporti di parentela o affinità dei magistrati del circondario in cui prestano servizio (art. 8, comma 1, lett. d) della Legge); VII. partecipano alla riorganizzazione quadriennale dell’ufficio del Pubblico ministero (art. 13, comma 1 della Legge); b) quanto agli Avvocati, che: I. quali componenti del Consiglio giudiziario partecipano alle discussioni e assistono alle deliberazioni relative all’esercizio delle competenze del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari riguardo al funzionamento dei Consigli giudiziari stessi e alle valutazioni di professionalità dei magistrati, con l’attribuzione del potere di esprimere un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il Consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione (art. 3, comma 1, lett. a) della Legge). A fronte di tali previsioni normative va altresì considerato che: - le funzioni attribuite all’Avvocatura istituzionale e le conseguenti decisioni, sia in sede di voto sia in sede consultiva, debbano essere esercitate con la massima diligenza, trasparenza e competenza e che tanto sarebbe assicurato dalla possibilità di poter accedere a quante più fonti possibili inerenti all’Ufficio giudiziario e ai magistrati oggetto di valutazione, al pari di quelle a cui hanno accesso i membri togati dei Consigli giudiziari. Tanto sia in considerazione della ridefinizione dei requisiti di accesso alla dirigenza che hanno ridotto il rilievo del requisito, finora quasi esclusivo, dell’anzianità di ruolo in favore di altri quali ‘il merito’ e le ‘attitudini’; sia avuto riguardo alla circostanza che un giudizio competente sull’attività dei magistrati possa essere adottato solo dopo aver conosciuto le analisi tecnico-statistiche dei carichi di lavoro, dei flussi e delle pendenze dei procedimenti e dei processi; - il dovere di competenza della componente dell’Avvocatura in seno ai Consigli giudiziari possa essere meglio assicurato favorendo ed erogando a livello centrale una specifica attività formativa e di aggiornamento nella materia; - al fine di meglio rappresentare in seno ai Consigli giudiziari lo stato di funzionalità e l’organizzazione dell’Ufficio Giudiziario e l’attività dei magistrati facenti parte del distretto debbano essere favorite le segnalazioni, positive e negative, raccolte dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. A tal fine si ritiene che il Congresso debba esaminare la nuova normativa ed il ruolo dell’Avvocato nell’ordinamento giudiziario (in realtà meglio sarebbe parlare di Avvocatura e non di singolo Avvocato, come sempre nel documento) al fine di stimolarne un apporto sempre maggiore anche come partecipazione all’organizzazione della funzione giurisdizionale, di condivisione delle problematiche e delle possibili soluzioni. Si ritiene altresì che sarebbe utile l’approvazione di uno o più deliberati congressuali al fine di impegnare il Consiglio Nazionale Forense e l’Organismo Congressuale Forense ad assumere ogni migliore e opportuna iniziativa e/o azione, al fine di: 1) consentire alla componente forense dei Consigli giudiziari di poter accedere ai dati delle Commissioni per l’analisi dei flussi e delle pendenze (c.d. Commissione Flussi) del distretto di competenza, ai dati del Cosmag e al fascicolo personale del magistrato oggetto di valutazione; 2) stimolare Ordini ed associazioni verso una specifica attività formativa e di aggiornamento delle conoscenze relative alle funzioni attribuite ai Consigli dell’Ordine e alla componente Avvocatura in seno ai Consigli giudiziari, da organizzare ed erogare anche a livello centrale, anche per il tramite della Scuola Superiore dell’Avvocatura, fermo restando il principio di libertà di formazione; 3) favorire le segnalazioni, positive e negative, da parte degli Avvocati del distretto che verranno raccolte dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, assicurando l’anonimato del segnalante, ma anche stimolando nell’offerta formativa l’attenzione su temi ordinamentali e promuovendo la cultura della segnalazione non solo delle criticità ma anche delle note positive come contributo al miglioramento della funzione giurisdizionale ad al riconoscimento del merito; 4) predisporre delle schede di segnalazione e di valutazione omogenee a livello nazionale, individuando criteri oggettivi come parametri di giudizio (ad esempio sulla base di quanto avviene per le valutazioni dei magistrati, che possano consentire la valutazione di “impegno”, “indipendenza ed equilibrio”, “correttezza nei rapporti con gli avvocati e le parti”, “laboriosità e diligenza”) anche con riferimento a quanto previsto nella circolare del Csm n. 20691 dell’ 8.10.2007 sulle valutazioni di professionalità; 5) di coinvolgere il Consiglio Nazionale Forense nel procedimento di verifica dei requisiti per i membri laici avvocati del Consiglio giudiziario, contemplando l’acquisizione di un parere obbligatorio da parte del Consiglio nazionale medesimo in analogia a quanto avviene per l’assunzione di funzioni giudicanti di legittimità per meriti insigni. Ciò in quanto i requisiti prescritti dalla Costituzione attengono strettamente alla materia dell’ordinamento professionale e vengono attualmente scrutinati soltanto in sede referente dalla Commissione interna “verifica titoli” del Consiglio Superiore della Magistratura che non prevede la presenza necessaria, tra i suoi componenti, di avvocati; 6) sollecitare il Ministero della Giustizia affinché ponga fine ai ritardi relativi alle determinazioni di cui all’art. 14 del D.Lgs. n. 25/2006; 7) Impegnare altresì il Consiglio Nazionale Forense, l’Organismo Congressuale Forense e tutte le componenti dell’Avvocatura, istituzionale e associativa, ciascuno per quanto di rispettiva competenza e secondo le diverse funzioni, al proseguimento degli obiettivi evidenziati di maggiore partecipazione e condivisione dell’Avvocatura alle problematiche dell’Organizzazione della Giustizia, offrendo nuovamente la propria disponibilità, come categoria ed attraverso le proprie istituzioni, chiedendo a Governo e Parlamento di introdurre le norme primarie e regolamentari idonee al fine, ed alle rappresentanze, istituzionali ed associative della Magistratura, di sostenere le istanze dell’Avvocatura, al fine di individuare soluzioni condivise alle problematiche organizzative del Tribunale e dell’attività giudiziaria ed in particolare per la sperimentazione dell’Ufficio del processo, dando seguito alle esperienze di buone prassi già esistenti in diversi Tribunali, con l’istituzione di cabine di regia per l’organizzazione dell’esercizio della giurisdizione con particolare riferimento alla gestione ed organizzazione degli Uffici del processo, che, così come altre esperienze quali “Osservatori della giustizia”, di “monitoraggio” e i numerosi “protocolli”, siglati per la gestione delle udienze soprattutto nella recente fase pandemica, dimostrano la possibilità di fattiva collaborazione fra magistratura ed avvocatura, ma anche l’assenza di organicità, affidandosi alle capacità e volontà dei singoli soggetti interessati, a scapito della possibilità di ottenere risultati soddisfacenti su tutto il territorio; 8) impegnare infine le Istituzioni forensi a vigilare sui temi dell’attuazione delle deleghe chiedendo la preventiva conoscenza e la interlocuzione nella consapevolezza che in sede di attuazione potrebbero essere introdotti significativi passi indietro rispetto alle apprezzate innovazioni, e che ulteriori passi in avanti vanno compiuti per assicurare il contributo dell’Avvocatura ad una maggiore efficienza dell’ordinamento giudiziario e della giurisdizione. Uguaglianza di diritto contro uguaglianza di fatto di Pietro Di Muccio de Quattro L’Opinione, 26 settembre 2022 Confesso che non ho alcuna considerazione per l’uguaglianza materiale che i classici del liberalismo considerano “una pura idealizzazione dell’invidia”. Invece ho una fede assoluta e inesausta nell’uguaglianza legale, benché non ne apprezzi l’espressione che sembra alludere o rinviare ad una straordinaria uguaglianza illegale. L’uguaglianza di fronte alla legge non è acquisizione britannica o francese o americana. No, la meravigliosa consapevolezza che agli uomini dovesse applicarsi la stessa legge è appartenuta ai Greci per primi. La chiamarono isonomia, che significò uguaglianza politica ovvero parità di diritti. Non mi stancherò di sottolineare che la democrazia, il potere politico nella polis spettante ugualmente a tutti i cittadini, è figlia dell’isonomia, non viceversa. L’isonomia significa anche eguale ripartizione del diritto di governare, dunque anche equilibrio politico. “Se siamo uguali - dovettero pensare gli Ateniesi passeggiando nell’Agorà - comandare spetta a tutti”. Sia la democrazia diretta, alla maniera dell’antica Atene, sia la democrazia rappresentativa, alla maniera dello Stato moderno, sono organismi che faticano a controllare il carattere genetico che le porta ad inseguire e privilegiare l’uguaglianza materiale pure a discapito dell’uguaglianza legale. Atene non finì male per la peste o la sconfitta ma cominciò ad infiacchirsi allorché i cittadini che l’avevano resa grande in ogni senso incominciarono a mungerla piuttosto che alimentarla. Curiosamente, la degenerazione dell’isonomia in isomoiria, divisione paritaria dei beni, è stata quasi ratificata dall’articolo 3 della Costituzione italiana, dove il primo comma si rifà correttamente all’isonomia classica, mentre il secondo sembra ispirato all’isomoiria: un’assurdità logica e giuridica perché non è possibile perseguire l’uguaglianza materiale o sostanziale, cioè la tendenziale parificazione delle posizioni economiche, senza violare l’uguaglianza legale o formale, a parte riuscirci completamente in un sistema libero. Nessun pensatore liberale classico ha mai negato l’obbligo morale, individuale e pubblico, di sovvenire gli ultimi impossibilitati a sostenersi. Tuttavia, la tutela delle posizioni sostanziali e particolari del “debole” senza la violazione della legge generale ed astratta va rivelandosi la cruna dell’ago che le moderne democrazie non riescono ad infilare. Quasi tutti quelli che lamentano la crisi della democrazia rappresentativa e del Parlamento appartengono, generalmente parlando, a partiti che la fomentano con le migliori intenzioni di aiutare il prossimo, ma non cristianamente o caritatevolmente. Scambiano la giustizia della politica con la giustizia del diritto. Pervertono l’isonomia in isomoiria. Perdono l’una senza ottenere l’altra. La disuguaglianza legale, vituperata a parole od anche sinceramente, in buona fede, prolifera a misura che aumentano i tentativi di realizzare l’uguaglianza materiale. L’uguaglianza di diritto è inconciliabile con l’uguaglianza di fatto in un sistema politico di libertà. Quanto più le azioni positive, che troppi sogliono ricavare non sempre a ragione dal secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, sono determinate dal miraggio dell’uguaglianza sostanziale, tanto più la libertà garantita dall’uguaglianza formale sancita dal primo comma del medesimo articolo viene sacrificata nei risultati a dispetto delle intenzioni e del diritto. “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”, stabilisce il secondo comma. Le azioni positive legittimate da tale disposizione sono quelle, e soltanto quelle, idonee a rimuovere gli ostacoli nel rispetto del primo comma, diversamente il principio di uguaglianza, ispiratore dell’intera Costituzione, viene violato o distorto. Le azioni positive, da considerare costituzionalmente autorizzate, non devono mirare ad un eguale trattamento materiale, ma a conferire pari dignità sociale. Diversamente le azioni positive, oltre a violare l’uguaglianza di diritto, incrementano le disuguaglianze di fatto. Fanno il contrario dello scopo a cui sono preordinate. Inoltre, economicamente parlando, la reale situazione materiale complessiva delle persone è accertabile soltanto nei casi estremi. I limiti di fatto alla libertà e all’uguaglianza, la cui rimozione viene affidata alla Repubblica, nondimeno sono un’indefinibile categoria programmatica. Individuarli specificatamente, caso per caso, eccita la fantasia interventista dei politici piuttosto che contenerne gli eccessi di azioni positive. Le quali, sebbene costituzionalmente ingiustificate, risultano tuttavia elettoralmente vantaggiose a chi le adotta. E perciò adottate senza ritegno. La formulazione del secondo comma sembra, al contrario, frenare anziché incentivare le azioni positive. Come se fosse scritta così: “È compito della Repubblica rimuovere soltanto gli ostacoli”. Insomma, l’uguaglianza di diritto è sostanziale più dell’uguaglianza di fatto. Subordinare completamente la prima alla seconda costituisce del resto un’impresa impossibile nella società libera, dove invece la subordinazione è fomite di discriminazione legale e disuguaglianza materiale. Il declino dello Stato di diritto è concomitante con l’erosione dell’uguaglianza legale. Declino ed erosione sono sotto gli occhi di tutti o, almeno, di chi vede bene e sa dove guardare. Ilaria Cucchi ce l’ha fatta, eletta senatrice a Firenze nella coalizione guidata dal Pd di Azzurra Giorgi La Repubblica, 26 settembre 2022 “Entro in Senato. Stefano sarà con me”. Ilaria Cucchi è senatrice. È stata eletta nel collegio di Firenze, una delle pochissime roccaforti che ancora il centrosinistra può definire tali. Ha vinto col 40,09% dei voti, il 29,7% dei quali arrivati dagli elettori del Pd, il 6,51% dal suo partito, Sinistra Italiana e il 3,4% da +Europa. Così ha battuto Federica Picchi, la candidata pro-vita di FdI, ferma al 30%. Terza quella che per Cucchi poteva essere una spina nel fianco, Stefania Saccardi, vicepresidente della Regione, candidata dal terzo polo in quota Italia Viva, che qui ha superato il 12% senza rosicchiare troppo i voti del centrosinistra. Quarti i Cinquestelle, al 10,6%. Numeri ancora più accentuati a Firenze città, dove Cucchi ha quasi raggiunto la percentuale che nel 2018 fu di Matteo Renzi: 41,74% contro il 43,9% di allora. Di questi, il 29,9% viene dagli elettori del Pd, 7,7% da quelli di SI, il 2,4% da +Europa. In città Picchi non arriva al 27% mentre Saccardi supera il 15%. “Stefano sarà con me” - Ilaria Cucchi celebra la vittoria con un post su Facebook nel quale ricorda la storia del fratello e la sua. “Era il 3/11/2009. Mi trovavo in Senato per ascoltare il ministro Alfano che era stato chiamato a riferire su come e perché fosse morto Stefano Cucchi quando era in stato di arresto, nelle mani dello Stato. Momenti terribili. Ora tornerò lì da senatrice. Sono consapevole della gravità del momento storico che sta vivendo il mio Paese, ma non dovrò avere timore. Stefano sarà con me. So che è fiero di me e che mi sta dicendo che dovrò mantenere le promesse fatte a coloro che hanno avuto fiducia in me. Dovrò continuare ad essere la voce degli ultimi. Siamo umanità in marcia”. Su di lei la scelta di Fratoianni - Prima amministratrice di condomini, poi attivista per i diritti civili e umani, infine Ilaria Cucchi è diventata geometra, come il padre e il fratello Stefano. Aveva passato l’esame a giugno, nei giorni del suo 48° compleanno, un mese prima della caduta del governo. Poi, a metà agosto, ecco che il suo nome aveva cominciato a circolare come papabile candidata di Sinistra Italiana fino alla conferma da parte del leader di Nicola Fratoianni. Per lei era stato scelto il collegio del Senato di Firenze, un posto sicuro, blindato, per il centrosinistra. Rimasto quasi unico puntino rosso in una Toscana in cui la destra è riuscita nel sorpasso. L’imbarazzo nel Pd per l’uscita sull’aeroporto - Ma la sua campagna non è stata priva di scossoni: per le accuse di non essere del territorio, certo, ma soprattutto per alcuni imbarazzi creati nel Pd. Per aveva ammesso di essere stata di centrodestra (poi abbandonata perché “la storia di Stefano e dei suoi diritti calpestati mi ha dato una lezione”) e per la pista dell’aeroporto di Peretola, su cui Sinistra Italiana è contraria, il Pd favorevole così come Italia Viva. Più volte, a domanda precisa, aveva risposto “ne parlerò coi cittadini”, poi, a metà settembre, disse che “la nostra idea sull’aeroporto di Firenze è che non si tocca, che non può essere ampliato e andremo avanti su questa linea”. E via polemiche, mugugni, soprattutto nel Pd, col sindaco Dario Nardella che l’aveva subito chiamata, il presidente Eugenio Giani che si era detto “molto sorpreso. Mi sarei aspettato almeno un contatto preventivo”, e altri pezzi di dem fiorentini che erano corsi a dire che per loro la pista si sarebbe fatta. Poi la retromarcia: “Sul tema dell’aeroporto la linea di Sinistra Italiana è chiara ma io sono Ilaria Cucchi, ho una parola sola e ho accettato di candidarmi perché mi è stata garantita autonomia e libertà di pensiero. Se sarò eletta dovrò tenere conto della volontà degli elettori”. Ora Cucchi è stata eletta, e a ottobre dovrebbe cominciare il dibattito pubblico: il primo passo per la realizzazione della nuova pista, i cui lavori sono previsti dal 2024. Si vedrà allora cosa succederà. Impugnazione penale, motivi aggiunti tramite Pec di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2022 Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 35995 depositata oggi, annullando la sentenza di condanna. Nel ricorso, in appello, sì alla presentazione dei motivi aggiunti a mezzo Pec purché vengano rispettati i termini e le modalità previste dal codice. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 35955 depositata oggi, annullando la decisione di condanna di un uomo che aveva investito due pubblici ufficiali per sottrarsi ad un controllo. La Corte di appello, per un ritardo nella cancelleria, aveva ricevuto la copia cartacea dei nuovi motivi solo a sentenza ormai depositata. La Quinta sezione penale però afferma che avrebbe dovuto esaminarli. Per la Suprema corte il difensore può depositare con Pec qualunque tipo di atto purché non depositabile nel Portale del processo telematico. Va, dunque, superata la precedente impostazione di legittimità che prima della conversione (“con significative modifiche”) del Dl 28 ottobre 2020 n. 137 nella legge 18 dicembre 2020 n. 176 - in vigore dal 25 dicembre 2020 - ne aveva escluso l’applicazione per le impugnazioni, rilevando come in tema di impiego della posta elettronica certificata nel procedimento penale, l’articolo 24, comma 4, del medesimo Dl, dovesse trovare applicazione esclusivamente in relazione agli atti di parte per i quali il codice di rito non disponesse specifiche forme e modalità di presentazione, stante la natura non derogatoria del suddetto comma rispetto alle previsioni sia del codice di procedura penale, sia del Dl 29 dicembre 2009, n. 193 (convertito con modificazioni dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24), e sia anche del regolamento delegato adottato con decreto del ministro della Giustizia 21 febbraio 2011, n. 44, concernente le regole tecniche per il processo civile e penale telematici. Proprio per dissipare i dubbi interpretativi, spiega la decisione, il legislatore della conversione ha introdotto i commi da 6-bis a 6-undecies, che regolano specificamente il regime delle impugnazioni. L’articolo 24 comma 6-decies prevede la possibilità di presentare l’impugnazione da parte del difensore a mezzo pec, ai sensi dei commi da 6-bis a 6-novies, “applicandosi agli atti di impugnazione di qualsiasi tipo, agli atti di opposizione e ai reclami giurisdizionali” e prevede anche che fino alla data dell’entrata in vigore della legge di conversione (25 dicembre 2020) conservino efficacia gli atti di impugnazione già presentati in formato elettronico. Inoltre, l’articolo 24, comma 6-quater, prevede che: “I motivi nuovi e le memorie sono proposti, nei termini rispettivamente previsti, secondo le modalità indicate nei commi 6-bis e 6-ter, con atto in formato elettronico trasmesso tramite posta elettronica certificata dall’indirizzo di posta elettronica certificata del difensore a quello dell’ufficio del giudice dell’impugnazione, individuato ai sensi del comma 4”. Così ricostruito il quadro normativo, il “pacifico riferimento della norma alla presentazione anche dei motivi nuovi a mezzo pec” richiede dunque la verifica nel caso concreto del “rispetto delle forme e dei termini, in via preliminare”. Ebbene, conclude la decisione, “non vi sono dubbi che i motivi ex art. 585, comma 4, cod. proc. pen. siano stati depositati il 15 febbraio 2021, secondo le forme del deposito telematico consentite dalla disciplina in vigore dal 25 dicembre 2020, senza che la cancelleria e la Corte abbiano abbia attestato alcuna ragione di inammissibilità ai sensi dell’art. 24 comma 6-sexies quanto alla firma digitale e agli indirizzi di posta del destinatario e del mittente, nonché tempestivamente, perché nel rispetto del termine dei 15 giorni antecedenti la data di udienza, fissata per il 3 marzo 2021”. L’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede anche per furto in strada bicicletta non legata di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2022 In tal caso non rileva la consuetudine bensì la necessità di lasciarla parcheggiata per un tempo anche prolungato, ma temporaneo. Il ladro di biciclette, che sottragga davanti a un negozio la bicicletta di chi ci lavora o del titolare, commette un furto aggravato dalla circostanza dell’esposizione alla pubblica fede, anche se il mezzo non era assicurato con la catena o il bloccasterzo. In tal caso però l’esposizione nella pubblica via va considerata agita per necessità e non per consuetudine. La conferma dell’aggravante - Così la Corte di cassazione ha confermato la condanna dell’imputato che aveva contestato l’applicazione dell’aggravante, in quanto la consuetudine dei ciclisti è quella di legare o bloccare il velocipede all’atto di parcheggiarlo sulla strada pubblica. Ma con la sentenza n. 35997/2022 i giudici di piazza Cavour hanno confermato il corretto inquadramento dell’aggravante nell’ipotesi - prevista dall’articolo 625, n. 7, del Codice penale - della necessità e non della consuetudine, con cui non è appunto necessario e conferente confrontarsi. Infatti, il difensore dell’imputato in Cassazione sosteneva che si trattasse addirittura di cosa abbandonata, visto il suo posizionamento in strada per tutto il periodo di lavoro giornaliero della proprietaria del mezzo. La necessità dell’esposizione sulla pubblica via - Si può quindi affermare che per la Cassazione recarsi al lavoro e posizionare in strada il mezzo di trasporto impiegato per raggiungerlo effettuando sullo stesso un controllo saltuario - anche se non assicurato con strumenti di blocco - rappresenta una necessità della vita che spinge il proprietario a esporre sulla pubblica via Il rilievo della videosorveglianza - Sull’invocata esclusione dell’aggravante se l’azione è videoripresa la Cassazione ribadisce che per essere rilevante deve essere efficace a impedire il reato. Inoltre, sosteneva la difesa che il giudice - per affermare l’irrilevanza della presenza di una telecamera all’esterno del negozio avesse applicato a contrario un orientamento giurirsprudenziale che sostiene il permanere dell’aggravante anche a fronte di un sistema di videosorveglianza se questo non preveda un utilizzo atto a interrompere l’azione criminosa ripresa. La pena comminata - Sul punto della lamentata carente motivazione in relazione alla pena comminata di 8 mesi e 240 euro di multa la Cassazione risponde che essa risulta al di sotto della media edittale e non necessitava quindi di alcuna ragionamento rafforzato da parte del giudice. La speranza torni in carcere. Affinché altri non commettano i miei stessi errori di Marcello D’Agata imgpress.it, 26 settembre 2022 Il numero dei suicidi è solo uno degli indicatori sulle condizioni carcerarie in Italia, tra sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie estranee a un Paese civile. Il carcere deve avere funzione rieducativa, deterrente e perché no, punitiva. Non dimentichiamo però che i detenuti sono persone. Un sistema carcerario sovraffollato non può essere rieducativo. E’ necessaria allora una riforma del sistema giudiziario e carcerario. Chi è ristretto in carcere è una persona da rieducare, non oggetti: un uomo può sbagliare e pagare con dignità. Ecco perché noi di IMG Press, stiamo dando spazio a un progetto di miglioramento della vita in cella scritto da Marcello D’Agata, per circa dieci anni è stato al 41 bis (il regime di carcere duro riservato alla criminalità organizzata) e oggi è detenuto in Alta sicurezza nel carcere alle porte di Milano. “Lo Stato ha l’obbligo di garantire la sicurezza e la libertà di ogni cittadino e per la realizzazione di questo principio e impegno assoluto, deve dare il massimo delle proprie risorse umane e finanziarie, ma se per un verso lo Stato ha questo obbligo, per altro verso ha tutto il diritto di considerare i delitti in danno della collettività anche contro se stesso. La riparazione del danno non dovrà influire sul trattamento del condannato altrimenti sarebbe discriminante per chi non possiede niente, che comunque, ultimata la pena, sarà obbligato alla riparazione del danno con dei lavori socialmente utili”. La rieducazione del detenuto deve passare attraverso comportamenti e fatti concreti facilmente riscontrabili e non dalla sola condotta personale che può essere ingannevole. Il condannato con il lavoro sarà comunque messo in condizione di riparare il danno recato. D’Agata nel suo scritto non fa sconti a nessuno: “Appare inconfutabile l’esistenza di un fenomeno sociale chiamato microcriminalità e le conseguenze sono preoccupanti e dannose per l’intera collettività…il nostro Paese, oggi più di ieri, è costretto a subire l’assalto della criminalità comune perché non è in grado di assicurare la certezza della pena a tutti i condannati di tali delitti, poiché il numero degli Istituti penitenziari è molto inferiore alle necessità reali. Anche la costruzione di nuove strutture sarebbe solo una soluzione temporanea, giacché la stessa necessità si ripresenterebbe nello spazio di poco tempo. La stampa stessa a conoscenza del grave sovraffollamento, più volte ha scritto di “carceri lager”, inaccettabili e indegne di un Paese civile, in quanto violano precise norme di legge. Infatti, non solo il trattamento rieducativo è di fatto impossibile, ma si sopprimono gli stessi diritti fondamentali della persona: primo fra tutti quello della salute. A mio parere non sarà mai nel numero delle carceri la soluzione del problema. Lo Stato con l’attuale sistema non potrà mai far scontare per intero la pena ai condannati per fatti di microcriminalità, ovvero di delinquenza comune, perché di fatto il sovraffollamento non glielo consente: basti pensare che un giornale ha scritto che nel nostro Paese ci sono circa 10 mila soggetti in detenzione domiciliare, senza contare quelli nelle comunità o degli affidati in prova, ma la gravità di questa situazione così complessa, sta soprattutto nell’insegnamento di impunità che lo Stato incolpevolmente dà a questi detenuti. La facilità con cui questi soggetti possono accedere alla libertà immediata, dopo una breve detenzione, o addirittura senza aver scontato un solo giorno di carcere, lascia nella loro mente la convinzione che delinquere comunque resta un fatto convenientissimo perché si guadagna molto e non si “paga” il prezzo dell’azione delittuosa e tutto questo poi li porterà al grande passo: entrare nel mondo della grande criminalità o di continuare a delinquere sempre con maggiore aggressività”. Come affrontare il problema? La misura penale deve essere affiancata da misure rieducative e riassociative che includano l’aumento dell’inclusione sociale. Occorre un cambio di prospettiva culturale che permetta di investire più risorse verso percorsi formativi che incentivino misure di vario tipo su percorsi con esecuzione penale esterna. Serve una nuova concezione dell’esecuzione della pena, orientata al rispetto della dignità umana, migliorando la condizione di vita dei detenuti senza metterli in condizione di scontare una doppia pena: quella data dalla sua condanna legale e quella, una volta libero, del rifiuto sociale. Quest’ultimo è terreno fertile per i tanti casi di recidività. Papa Francesco ha detto: “Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare. In una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. L’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto. Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni”. Insomma: la speranza non può venire meno. Una cosa, infatti, è ciò che meritiamo per il male compiuto; altra cosa, invece, è il “respiro” della speranza, che non può essere soffocato da niente e da nessuno… Roma. Su Hasib giù dalla finestra il silenzio puzza di omertà di Franco Corleone L’Espresso, 26 settembre 2022 Il volo dalla finestra della sua abitazione di Hasib Omerovic il 25 luglio in pieno giorno a Primavalle, quartiere storico di Roma, presenta degli aspetti sconvolgenti che obbligano a considerazioni di vario segno, culturale, sociale, politico e istituzionale. Colpisce il silenzio assoluto che è stato riservato a una tragedia, perché di questo si tratta, visto che il giovane, così viene definito anche se compirà il mese prossimo 37 anni, è stato a lungo in corna e ancora oggi giace in un letto del Policlinico Gemelli in gravi condizioni. Infatti non si è trattata di una caduta accidentale ma avvenuta in stretta relazione con la presenza in casa di almeno quattro poliziotti per una perquisizione senza mandato e la risibile richiesta di documenti. Pare che la telefonata al 118 per chiamare una ambulanza sia stata effettuata da uno dei poliziotti ma ancora non si conosce il contenuto, neppure che cosa è stato detto agli infermieri e neanche come è stato registrato il ricovero. Pare che tutto il quartiere fosse mobilitato per dare una lezione a un presunto molestatore di ragazze ed è davvero incomprensibile che nessuna reazione - su Facebook o su altri mezzi di comunicazione o nelle chiacchiere al bar il cui proprietario è stato intervistato da un importante quotidiano e sentito il 25 agosto nel commissariato coinvolto - si sia manifestata. In Sicilia si definirebbe omertà. Sembra che la soddisfazione popolare per la solerzia della polizia si esprima con le bocche cucite. D’altronde Ia congiura è fondata su tanti elementi: l’emarginazione, l’integrazione difficile dei diversi e dei rom in particolare, lo stigma, il disprezzo per l’handicap. Hasib, rom e sordomuto, aveva assunto le sembianze del nemico perfetto. Il pm Stefano Luciani è orientato a procedere per tentato omicidio ma anche per falso. Questa accusa, sostanzialmente di depistaggio, richiama alla memoria la vicenda Cucchi e quella di Federico Aldrovandi del quale proprio il 25 settembre ricorre l’anniversario della morte in seguito a un pestaggio immotivato, se non per l’odio verso un giovane (in questo caso davvero, aveva diciotto anni) etichettato come drogato. Anche in quella occasione la gestione della questura di Ferrara fu tutt’altro che limpida, ma ricca di ombre. Più emergono squarci di luce più lo scenario si fa torbido. Domande inquietanti: perché Hasib non è stato chiamato in commissariato in condizioni efficaci per trasmettere un monito relativo alle sollecitazioni di alcune donne? È vero che uno dei poliziotti, animato da rabbia perché Hasib avrebbe molestato una sua nipote, si sarebbe distinto per farsi giustizia, una giustizia sommaria? Giustamente il magistrato della procura di Roma si appresta a nominare un perito per cercare di scoprire le modalità della caduta: spinta da parte dei poliziotti, tentativo di fuga per paura o caduta per effetto di una dura colluttazione. Purtroppo è passato molto tempo e alcuni elementi sono inquinati. C’è da augurarsi solo che non venga riesumata la formula del malore attivo, usata per spiegare la defenestrazione di Pino Pinelli, anarchico, dai locali della questura di Milano. L’omertà è stata rotta per merito del deputato Riccardo Magi con una interrogazione alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, finora senza risposta. Un silenzio inquietante perché il Parlamento esiste e va rispettato. La società civile non può tollerare una collusione o una protezione dei violenti. Ivrea (To). La mamma di un detenuto scrive ai pm: “Mio figlio denudato e picchiato” di Giuseppe Legato La Stampa, 26 settembre 2022 La denuncia di una donna ai magistrati titolari dell’inchiesta sulla Casa circondariale: “È stato riempito di tranquillanti in dosi massicce”. “Sono la voce di mio figlio perché i carcerati non li ascolta nessuno. Fatelo almeno voi perché lui (arrestato il 13 luglio scorso per un cumulo pene di 7 anni e 8 mesi ad Alessandria e di lì trasferito nel penitenziario di Ivrea) è stato picchiato, denudato per una settimana nella cella liscia, riempito di tranquillanti e questo è accaduto in quel carcere a luglio e agosto scorsi”. La lettera (di cui abbiamo copia) indirizzata ai due sostituti procuratori generale di Torino Giancarlo Avenati Bassi e Carlo Maria Pellicano è firmata dalla mamma di un detenuto. L’ha spedita a loro perché titolari dell’inchiesta che vede indagati per lesioni e falso 25 tra agenti, medici e carcerati di quel penitenziario per fatti che sarebbero avvenuti tra il 2015 e il 2016. Si legge nella missiva: “Durante l’ultimo colloquio avvenuto il 31 agosto, avevo notato delle stranezze in mio figlio: era dimagrito di 18 kg perché, mi disse, aveva iniziato lo sciopero della fame per chiedere di essere trasferito in un altro carcere, magari a Milano. Aveva gli occhi aperti, ma sembrava che non mi vedesse. Si reggeva a malapena in piedi. Avevo notato un bernoccolo sulla tempia destra. Mi ripeteva solo di portarlo via da quell’inferno”. Nei giorni successivi, ai primi di settembre, la madre del detenuto veniva avvisata dal carcere di Lecce che il figlio (che intanto aveva già tentato il suicidio cercando di impiccarsi con le lenzuola, motivo per il quale era stato posto in isolamento) era stato spostato da Ivrea in Puglia. “Appena sono riuscita a incontrarlo mi ha raccontato tutto ciò che non voleva dire prima per paura di ritorsioni”. Cosa sarebbe avvenuto la donna lo racconta subito dopo: “Cinque agenti sono entrati nella cella, lo hanno costretto a bere dei tranquillanti in dosi massicce, di molto superiori a quelle che lui assume per una terapia blanda. Mi ha detto: corri a fare denuncia e non farmi tornare mai più a Ivrea. E dici alle forze dell’ordine che saprei riconoscerli se mi facessero vedere le foto. I nomi non li conosco, ma le facce me le ricordo”. La signora Piera Daniela Calcagnile riporta di essersi recata in una stazione dei carabinieri di Lecce: “Mi hanno fatto fare un esposto perché all’inizio ritenevano che non avrei potuto sporgere denuncia direttamente io. Ma mio figlio è recluso e ero l’unica a poter denunciare tutto”. Nella lettera spedita a Torino si fa cenno anche di numerosi telegrammi che il detenuto avrebbe mandato alla mamma durante il periodo trascorso da recluso a Ivrea: “Altri scritti - conclude la donna - ho saputo che non sono mai stati spediti, pur pagati”. Roma. Il cappellano di Rebibbia: “Ogni detenuto si è sentito unico davanti al Papa” di Salvatore Cernuzio vaticannews.va, 26 settembre 2022 Padre Moreno Versolato racconta l’incontro con Francesco a Santa Marta e si fa portavoce dell’emozione di coloro che hanno ricevuto l’abbraccio del Pontefice: “È andato lui incontro a ciascuno, non ha aspettato che ci muovessimo noi. Può sembrare banale ma mi ha ricordato la ‘Chiesa in uscita’ che va incontro alle persone”. “A causa della pandemia, molti sono stati privati della loro affettività. È una situazione pesante”. “È stata un po’ inaspettata questa udienza, un regalo che il Santo Padre ha fatto a questi nostri amici detenuti spesso emarginati, ancora di più durante la pandemia”. Padre Moreno Versolato, 56 anni, cappellano di Rebibbia, è una persona di poche parole, ma sa bene quando usarle. Padre Moreno, quali parole del Papa vi sono rimaste impresse? Il fatto che Papa Francesco ci abbia incoraggiati a non aver paura di affrontare questo tempo della nostra vita. Perché - ci ha detto - è solo un tempo, una parte della vita, quindi affrontatela con coraggio. Quanto è durato l’incontro? Una mezz’oretta. Era previsto per le 9, ma noi eravamo in anticipo e anche lui. In quei momenti lì però non è il tempo che conta, ma la vicinanza, l’accoglienza che il Papa ci ha riservato. Ha accolto ogni detenuto con un abbraccio e una stretta di mano, poi si è lasciato coinvolgere nei selfie perché tutti quanti volevano immortalare il momento con il proprio telefonino. Ci ha raccontato che è ancora in contatto con i detenuti di un carcere di Buenos Aires che conosceva, ai quali dice che telefona ogni quindici giorni. Io poi l’ho sollecitato dicendo che noi lo ricordiamo sempre e lui ha risposto: “Mi raccomando, eh, non ricordatemi come quando si va dalla strega con gli spilli che si porta la fotografia” (Ride). Ci ha fatto sorridere e i detenuti hanno detto: “No, noi la ricordiamo con affetto. Lei chiede di pregare sempre per lei e noi lo facciamo ogni domenica alla celebrazione della messa”. E i detenuti cosa hanno detto di questo colloquio con il Papa? Erano emozionatissimi, molto felici e colpiti dalla semplicità con cui il Santo Padre li ha ricevuti. Soprattutto erano stupiti del fatto che il Papa avesse riservato un momento personale ad ognuno. Eravamo disposti a semicerchio, tutti insieme con la direttrice, due dottoresse della magistratura di sorveglianza, la comandante, l’educatrice e via dicendo, e il Papa è passato a dare la mano a ciascuno. Non ha aspettato che andassimo da lui ma lui è venuto incontro. Può sembrare un gesto semplice, banale, ma a me ha fatto venire in mente quella “Chiesa in uscita” di cui parla sempre. Una Chiesa che va incontro verso le persone, verso “la” persona, perché davvero oggi ognuno di noi si è sentito unico davanti al Papa. Ognuno ha sentito questo rapporto uno ad uno. E poi avete chiuso in bellezza la mattinata nella bellezza dei Musei Vaticani… Sì, siamo stati accolti dalla direttrice Barbara Jatta. Ci è stata messa a disposizione una guida che ci ha accompagnato per circa due ore, facendoci godere di queste meraviglie. Anche quello è stato un dono, visto che non sempre è possibile poter accedere a questi luoghi di cultura che raccolgono e raccontano bellezza. Cioè le opere che gli artisti hanno lasciato con il desiderio di innalzarci verso il Cielo, di farci incontrare Dio. Questo oggi si è toccato con mano… Guardavo l’interesse di questi uomini: così attenti, ognuno con il suo auricolare, guardavano, gustavano queste meraviglie e sembravano distaccarsi dalla realtà. Ecco, qual è la realtà dei detenuti di Rebibbia dopo oltre un anno di Covid? Sappiamo che la pandemia ha creato gravissimi disagi all’interno degli istituti penitenziari, soprattutto per la questione contagi e distanziamenti… È una situazione tuttora pesante, perché a causa della pandemia queste persone sono state private di una cosa importante che è la loro affettività. Anche l’incontro con i propri cari, con le proprie compagne, con i figli, è venuto meno e questo sta veramente pesando. È vero che hanno messo a disposizione dei cellulari per le videochiamate e, in un certo qual modo, il detenuto entra e vede in live direct i suoi familiari, la propria casa, i propri luoghi, però manca l’abbraccio, manca la stretta di mano, il guardarsi negli occhi. Questo sta creando una situazione di forte stress a mio avviso. Lei come cappellano cosa fa in questa situazione? Noi cappellani cerchiamo di stare con loro e di essere una presenza continua, soprattutto durante i momenti più duri della pandemia, quando eravamo tra i pochi a poter entrare negli istituti. Anche, cerchiamo di essere un tramite con le famiglie, di incontrarle quando è possibile, di poter alleviare questa fatica con la nostra presenza facendo da ponte perché tante volte i detenuti si sentono davvero emarginati. Personalmente dall’incontro col Papa di oggi cosa porta a casa? Anche in riferimento alla sua missione Questo continuo incoraggiamento, questa speranza di dire “vai avanti, sii un segno”. A me il Papa in un’altra occasione, un pellegrinaggio di qualche anno fa al quale avevo accompagnato alcuni detenuti, mi disse al momento dei saluti: “Grazie per il tuo servizio’” Non capita spesso di sentire la parola “grazie” oggi, tantomeno di sentirla direttamente dalla bocca del Papa, il nostro pastore che ci sostiene e ci incoraggia a vivere l’esperienza di servizio all’interno della comunità cristiana. Più che mai in una comunità come quella carceraria che vive ai margini della società. Massa Carrara. “Io e la mia associazione aiutiamo i detenuti, ma sono loro a salvarci” di Maria Nudi luce.lanazione.it, 26 settembre 2022 Praticante in uno studio legale e volontaria de “L’Altro Diritto”, Carolina Ginesini si occupa di tutelare i diritti dei carcerati a Massa: “Proviamo a essere utili per chi convive con la sofferenza”. Laureata in giurisprudenza, praticante nello studio legale dell’avvocatessa Cristina Lattanzi, va nel carcere di via Pellegrini a Massa dove da cinque anni insieme a un gruppo di cittadini fa volontariato per i detenuti. Un tipo di volontariato particolare che lei racconta con un pizzico di emozione che regala una atmosfera particolare a questa esperienza. Carolina è stata per cinque anni la referente dell’associazione ‘L’Altro Diritto’ che svolge un ruolo di tutela paralegale per i detenuti, senza sostituirsi ai loro difensori, ma integrandone il ruolo e creando quella finestra sul mondo per chi vive all’interno del carcere. Ora la sua esperienza volge al fine e il testimone passerà nelle mani di Chiara Bertelloni. Ma Carolina continuerà a fare volontariato perché per lei il carcere, ma soprattutto i detenuti, sono diventati parte integrante della sua vita, della sua esperienza giuridica, del suo cuore. Carolina, come nasce questa esperienza? “Ho incontrato quest’associazione quando studiavo giurisprudenza a Pisa e ho voluto capirne di più. In pratica ci occupiamo di sostenere i detenuti per quanto riguarda gli aspetti legali senza sostituirci ai loro difensori. Ad esempio li aiutiamo a fare un’istanza per ottenere un permesso e altre pratiche che non riuscirebbero a fare da soli. E così in questi cinque anni ho avuto modo di conoscere persone che, al di là dei reati commessi, mi hanno regalato emozioni e sentimenti che mi hanno arricchita moltissimo. Ormai li conosco tutti e ricordo i loro nomi. E dico sempre che non siamo noi dell’associazione ad aiutare loro, ma sono loro che ci ‘salvano’”. Ora passa il testimone? “Sì, dopo cinque anni è giusto che questa esperienza abbia un altro referente. Chiara Bertelloni è una persona fantastica che saprà svolgere questo ruolo in modo eccezionale. Ma io continuerò ad andare in carcere. Un detenuto mi ha scritto sul giornalino una lettera di ringraziamento, uno dei regali più belli che abbia mai ricevuto. La nostra associazione si autofinanzia e stiamo facendo una raccolta fondi sulla pagina Facebook. Grazie a chi ci aiuta economicamente siamo in grado di sostenere le spese che affrontiamo per dare una mano ai detenuti. Iniziative finalizzate a far conoscere all’esterno la popolazione carceraria e ad abbattere i pregiudizi. Ci siamo anche attivati per la nomina di un garante comunale dei diritti dei detenuti”. Carolina Ginesini ora sta cercando di intraprendere la carriera di avvocato o di magistrato Qual è il suo sogno nel cassetto? “Vedrò se intraprendere la carriera di avvocato o quella di magistrato. Ma continuerò sempre nella mia attività di volontariato per detenuti. A toccare con mano realtà difficili, con la possibilità di mettersi a disposizione per provare a essere utili a chi vive una situazione di sofferenza come quella della detenzione”. San Gimignano (Si). Suvignano #benecomune, studenti e detenuti insieme per la legalità antennaradioesse.it, 26 settembre 2022 Arci Toscana apre le porte di Suvignano a un nuovo campo della legalità Suvignano #benecomune dal grande valore sociale ed educativo. Da lunedì 26 settembre a sabato 1° ottobre la tenuta confiscata alla mafia ospiterà 16 studenti e studentesse in arrivo da tre scuole secondarie di secondo grado di Siena e Firenze e 3 detenuti provenienti dalla Casa di Reclusione di San Gimignano che stanno portando avanti un percorso di reinserimento sociale. I partecipanti saranno impegnati, al mattino, in attività agricole nella tenuta e in incontri sui temi della legalità con rappresentanti istituzionali, associativi e sindacali del territorio, mentre nel pomeriggio è previsto un laboratorio di costruzione di giochi della legalità in collaborazione con l’associazione Topi Dalmata. I tre detenuti, autorizzati alla partecipazione dal Magistrato di Sorveglianza, stanno seguendo dei programmi individuali di trattamento con misure e attività di positivo reinserimento sociale. La loro presenza al campo Suvignano #benecomune rappresenta un valore sociale aggiunto con una duplice opportunità: impegnarsi attivamente in un progetto di legalità in un bene confiscato alla mafia come occasione di giustizia riparativa indiretta, mettendosi alla pari con un gruppo di giovani studenti, e offrire agli stessi compagni di lavoro il bagaglio delle loro esperienze come elemento di riflessione concreta e reale sulla legalità e sulla decostruzione di eventuali stereotipi inerenti la valenza punitiva e riabilitativa dell’istituto carcerario. Gli studenti e le studentesse arriveranno dal Liceo “Enea Silvio Piccolomini” di Siena (indirizzo Scienze umane opzione economico sociale) e dal Liceo “Guido Castelnuovo” e IIS “Benvenuto Cellini Tornabuoni” di Firenze e parteciperanno al campo della legalità nell’ambito delle attività di PCTO, Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento. Il campo della legalità Suvignano #benecomune è organizzato da Arci Toscana in collaborazione con Arci Siena, Comune di Murlo, Circolo Arci Vescovado di Murlo, Cgil, Spi-Cgil e Unicoop Firenze, con il patrocinio della Regione Toscana. Bergamo. Mostra Galeotta, una collettiva di “art mail” dalle carceri italiane di Lavinia Beni e Mafalda Chiostri luce.lanazione.it, 26 settembre 2022 L’evento espositivo, promosso da Artisti Dentro Onlus, si terrà dal 7 al 16 ottobre a Bergamo, a ingresso gratuito. Le opere sono costruite anche con materiali trovati all’interno delle celle. “L’obiettivo è creare un ponte fra dentro e fuori: i detenuti ci mandano dei messaggi e noi li esponiamo all’esterno. È un’occasione per parlarne”. Sibyl von der Schulenburg è imprenditrice, scrittrice e presidente di Artisti Dentro Onlus, un progetto che coinvolge i detenuti di tutta Italia. “Mostra Galeotta ha come scopo quello di far uscire l’ultima energia rimasta da persone che vivono nella noia e nella disperazione carceraria”. L’associazione si adopera per promuovere diverse attività di tipo rieducativo per portare in carcere mezzi di svago e crescita. L’idea di coinvolgere i detenuti nell’arte della mail (decorazione di cartoline con matite, pastelli, acquerelli, collage e qualsiasi altro tipo di strumento per disegnare, dipingere e costruire su un foglio) fa parte di un progetto più ampio. Nel 2014 l’associazione Artisti Dentro propose il concorso di scrittura creativa (poesia, narrativa e testi rap), nel 2015 la gara di arte culinaria e nel 2016 la prima iniziativa di Mostra Galeotta. Tutti i progetti riservano dei premi ai vincitori. Per i primi tre classificati sono previsti riconoscimenti in denaro: 250 euro per il primo posto, 150 per il secondo e 100 per il terzo. Vengono assegnati anche premi speciali, dal valore di 100 euro, per permettere di avere una distribuzione più omogenea. “La gara di mail art è quella che più riscuote successo e partecipazione, proprio per il suo linguaggio universale. Molti all’interno delle carceri non sono italofoni, perciò non sanno scrivere in italiano”. All’edizione di quest’anno della Mostra Galeotta hanno partecipato 150 autori per un totale di 400 opere. I vincitori sono già stati selezionati dalla giuria presieduta dal dottor Domenico Piraina, direttore di Palazzo Reale a Milano. Ma tutte le cartoline saranno visibili all’esposizione prevista a Bergamo, presso la Sala Civica Sant’Agata, dal 7 ottobre fino al 16 ottobre. “La pittura, il collage, l’arte in generale utilizzano un linguaggio universale e noi cerchiamo di far parlare coloro che non possono comunicare con il mondo esterno. Per chi è in carcere la mail art è l’unico modo per raggiungere la società al di fuori delle mura”. La particolarità delle opere è che sono state inviate da decine di carceri italiane da Agrigento a Trieste e sono state realizzate con ogni genere di tecnica pittorica e non solo, anche con materiali che i detenuti hanno trovato in cella (caffè, pasta, dentifricio o colori estratti dai vegetali). Altra particolarità è il viaggio delle cartoline: le mail non vengono imbustate, ma sono lasciate libere di consumarsi e di vivere. Per gli autori è stato già importante poter partecipare: “Non sono molte le carceri che offrono corsi di pittura creativa - aggiunge la presidente von der Schulenburg -. Per loro è un modo per comunicare con l’altro, per far capire e sentire che loro esistono”. Coloro che partecipano vengono inseriti all’interno di un piccolo catalogo e ricevono un attestato, importante per mostrare al sistema carcerario che partecipano ad un’attività sociale. Inoltre, la partecipazione viene inserita all’interno del loro curriculum, fondamentale nel percorso di reinserimento nella società fuori dalla prigione. Due gli obiettivi principali: favorire il recupero dei detenuti e creare un ponte tra coloro che vivono dentro e chi sta fuori. Per Sibyl von der Schulenburg è un modo per non farli sentire abbandonati: “Purtroppo il carcere è un luogo trascurato. Di una città si sa dov’è l’aeroporto, la stazione, i monumenti principali, ma nessuno sa dove siano le carceri. Per la società libera non esistono”. Le mail art sono a tema libero: “Abbiamo ricevuto anche tante lettere di ringraziamento. Questo significa che abbiamo intrapreso la strada giusta”. La presidente di Artisti Dentro Onlus conclude: “Speriamo che con questo progetto le persone inizino a riflettere su chi sta dentro alle carceri e non tanto al motivo per cui sono detenuti. Anche perché un giorno usciranno e riabilitarli è il percorso migliore”. Milano. Ri-Scatti. il carcere fotografato dai detenuti e dalla polizia penitenziaria di Muna Dell’Acqua Guarino vivereconlentezza.it, 26 settembre 2022 Ri-Scatti è un’associazione di volontariato che realizza attraverso la fotografia progetti culturali per aiutare chi è rimasto indietro e promuove i valori della solidarietà, oltre a sensibilizzare l’opinione pubblica sui valori della solidarietà. L’8 ottobre 2022 inaugurano una nuova mostra: per me si va tra la perduta gente, Il carcere fotografato dai detenuti e dalla polizia penitenziaria, che sarà esposta al Padiglione di Arte Contemporanea dal 9 ottobre al 6 novembre 2022. La mostra è curata da Diego Sileo, il percorso è stato possibile grazie alla collaborazione con il Politecnico di Milano e il Provveditorato Regionale Lombardia del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. I protagonisti sono detenuti e agenti della polizia penitenziaria dei quattro istituti di detenzione milanesi: Casa di Reclusione di Opera, Casa di Reclusione di Bollate, Casa Circondariale F. Di Cataldo, IPM C. Beccaria. Si raccontano le complessità, le difficoltà, ma anche le opportunità della vita negli istituti di reclusione. Undici mesi di corso, cento partecipanti, 800 scatti esposti, materiali video inediti ed esclusivi per raccontare la realtà delle carceri dal punto di vista diretto di chi le abita e di chi le vive per lavoro. Dietro le quinte ricordiamo anche Federica Balestrieri, da anni sostenitrice di Vivere con Lentezza, nell’estate del 2013 infatti Federica, giornalista che da anni opera nel sociale, crea il progetto che chiama Ri-scatti, fotografi senza fissa dimora. 15 senzatetto, un corso di fotogiornalismo, un concorso, l’opportunità per il vincitore di lavorare per un anno in una grande agenzia fotografica, una mostra in uno spazio museale prestigioso come il PAC, Padiglione d’arte contemporanea, 5mila visitatori in due settimane, una grande raccolta fondi per i senza fissa dimora. Cosi un’idea di successo si trasforma in un’associazione di volontariato per continuare a creare progetti di riscatto sociale. Vi aspettiamo in via Palestro 14 a Milano. Nuoro. A Orgosolo un murale per Aldo Scardella, suicida in carcere da innocente di Massimiliano Rais L’Unione Sarda, 26 settembre 2022 L’opera dedicata al giovane cagliaritano arrestato negli anni Ottanta per un delitto che non aveva commesso. Un murale a Orgosolo, la tradizione che nel paese del Nuorese viene costantemente rinnovata. Un’opera nel ricordo di una vicenda umana e giudiziaria che non può essere dimenticata. In memoria di Aldo Scardella, giovane cagliaritano accusato di un delitto che non aveva commesso. Recluso nel carcere di Buoncammino, con un gesto estremo, Aldo pone fine alla sua vita nei primi giorni di luglio del 1986. Aveva 25 anni. Il murale è stato realizzato da Teresa Podda e Maria Luisa Monni in corso Repubblica, davanti alla chiesa parrocchiale di San Salvatore. Un luogo centrale della vita della comunità, dove si conserva e tramanda la memoria di un giovane che coltivava sogni e utopie bruscamente interrotte. Sulla parete, sotto il titolo “Il dramma di un innocente, quel giovane sognatore morto suicida”, il volto di Aldo, quello tramandato da una foto ormai familiare, e le sbarre della cella che è stato l’orizzonte tragico dei suoi ultimi giorni. Poi i pensieri che esprimono il senso di una storia privata e collettiva che Cristiano, il fratello di Aldo, continua a perpetuare alla ricerca di una verità piena e di una giustizia finalmente riparatrice. Le parole del murale, a futura memoria: “Aldo had cumpresu e aiad sa crai de cussa cella chi non aperid mai. Come ch’est foras”. E ancora: “Poveru innocente! Non supportavad un’accusa umiliante ma pro sos caros ses semper vivente” e “Menzus unu culpevole in foras, hi no unu nossente in intro”. Nicola Dettori ha promosso l’iniziativa: “Ho conosciuto Aldo a Cagliari nei primi anni Ottanta del secolo scorso. È nata un’amicizia. Gli ho scritto alcune lettere dopo il suo arresto. Non mi hai mai risposto. La tragedia che ha vissuto deve essere conosciuta anche dai giovani. Un dovere della memoria, il ricordo, come si legge nel murale, di “una stella ferita che brilla lassù nel cielo”. Arienzo (Ce). Sfilata di moda maschile in carcere di Rosaria Varrella* Ristretti Orizzonti, 26 settembre 2022 L’art. 17 dell’ordinamento penitenziario regolamenta la partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa e con il progetto di portamento, nato all’interno dell’offerta trattamentale individuata dagli operatori dell’area giuridico pedagogica per l’anno 2022 come attività da promuovere finalizzata a favorire il reinserimento sociale dei ristretti presenti nella C.C. “G. De Angelis” di Arienzo (Ce), si è realizzato un ponte tra il dentro e il fuori in funzione delle partnership instaurate con realtà esterne impegnate in progetti sociali. La scelta di effettuare un corso di portamento all’interno delle mura detentive si è proposta di essere un fattore di promozione e di riscatto per i partecipanti attraverso l’acquisizione di una diversa immagine di sé e catalizzatore di abilità sopite. Il progetto ha previsto a conclusione del percorso tenuto dalla titolare dell’agenzia casertana “New talent artist” di Cinzia Imparato come saggio finale una sfilata di moda maschile, il 19 settembre 2022 all’interno dell’istituto. Essa si è posta come ulteriore suggello di incontro tra la realtà detentiva e la società esterna anche attraverso la presenza di quanti hanno partecipato alle varie fasi relative alla realizzazione del progetto e di graditi ospiti. La Direzione dell’istituto nella persona della Dott.ssa Annalaura de Fusco in coordinamento con il corpo di polizia penitenziaria dell’istituto ha accolto e sostenuto il progetto in tutte le sue fasi insieme agli uffici superiori e l’ufficio di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere (Ce) che hanno autorizzato le riprese foto e video dell’evento. La Fondazione Isaia & Pepillo onlus nella persona del Dott. D’alterio ha aderito con entusiasmo al progetto fornendo gli abiti per la sfilata dell’azienda manifatturiera del comparto luxury Isaia di Napoli. Dodici modelli d’eccezione hanno sfilato con disinvoltura e professionalità ricevendo numerosi applausi dal pubblico presente. Il progetto ha visto coinvolti ben sedici ristretti tra modelli e dresser a dimostrazione che proporre e promuovere attività favorisce il reinserimento sociale dei detenuti sopratutto attraverso concreti rapporti con la società esterna. L’evento finale, infatti, ha potuto prendere forma grazie alla collaborazione di professionisti ed associazioni che hanno prestato la loro opera a titolo gratuito e di volontariato. Ogni idea ha bisogno di sostegno e di collaborazione per prendere forma, insieme si possono costruire ponti inimmaginabili. Ognuno con il proprio contributo può contribuire a costruire una società migliore, basta volerlo. *Esperto ex art. 80 o.p. La bimba che leggeva Oscar Wilde nell’America razzista degli anni Settanta di Simona Siri Corriere della Sera, 26 settembre 2022 L’autrice afroamericana Jacqueline Woodson racconta la sua infanzia in versi dalla segregazione razziale all’emancipazione attraverso la letteratura. Jacqueline Woodson sapeva che sarebbe diventata una scrittrice sin da quando era molto piccola. Cresciuta tra Greenville, nella Carolina del Sud, dove trascorreva le estati con i nonni materni a Brooklyn, dove la madre rimasta single aveva trasferito lei e gli altri due figli lasciando l’Ohio, già da piccola aveva l’abitudine di inventare storie, spesso mettendosi nei guai. “Smettila di sognare ad occhi aperti!”, le dice a un certo punto la mamma, aggiungendo “se dici le bugie, un giorno ti metterai a rubare”. In quarta elementare, la prima volta che la maestra legge in classe Il gigante egoista di Oscar Wilde, rimane così colpita da piangere tutto il giorno. Quel racconto diventa un’ossessione. Quando le viene chiesto di leggere la storia in classe, Jacqueline la ripete a memoria, senza neanche dover guardare le pagine. I compagni, stupiti e sorpresi, le chiedono come abbia fatto a imparare tutte quelle parole, ma lei non sa cosa rispondere. “Come posso spiegare a qualcuno che le storie per me/sono come l’aria/le inspiro e le espiro/tutto il tempo”, scrive in Bambina Nera Sogna. Bravissima dice la maestra, sorridendo. “Jackie, è stato davvero bellissimo. E adesso so/che le parole sono il mio Tingalayo. Le parole mi fanno brillare”. Pubblicato negli Stati Uniti nel 2014 e insignito di diversi premi tra cui il National Book Award, Bambina Nera Sogna viene etichettato come letteratura per giovani adulti, ma è in realtà un libro per tutti. Un romanzo autobiografico in versi liberi, un memoir che intreccia pubblico e privato, storia con la s minuscola e Storia con la S maiuscola dal momento che ripercorre la vita dell’autrice partendo dall’infanzia - è nata nel 1963, anno della famosa marcia su Washington e del discorso di Martin Luther King, I Have a Dream - per arrivare ai giorni nostri, alla quotidianità di Bushwick, alla scoperta del potere della parola e del proprio talento. I capitoli sono brevi, qualche pagina al massimo, e hanno titoli apparentemente effimeri come “viaggio” o “i cugini” o “casa” o “serata capelli”. Ma è proprio dentro questa apparente quotidiana semplicità che Woodson giunge alla realizzazione del famoso detto per cui il privato è sempre politico. La Carolina del Sud, dove trascorre le estati con i suoi nonni, è la terra della segregazione, delle marce per i diritti civili, dove i neri per paura si siedono ancora nei sedili posteriori dell’autobus - “Preferisco questo, dice la nonna/ai bianchi che ci guardano come se fossimo la feccia” - nonostante il nonno le dica che loro hanno il diritto di “camminare, sedersi e sognare dove vogliamo”. In un altro capitolo scrive: “Abbiamo tutti lo stesso sogno, dice la nonna/Di essere uguali in un paese che dovrebbe essere/la terra della libertà”. Brooklyn è il posto delle possibilità, ma anche della nostalgia, dove l’asfalto d’estate brucia i piedi e dove la sua migliore amica Maria viene da Porto Rico, ed è anche la scoperta di Angela Davis, delle Black Panther e dei primi pugni alzati. Raccontare la sua storia in versi consente a Woodson di condensare gli eventi e di concentrarsi solo sui momenti più significativi usando immagini vivide, emozioni sincere, riflessioni profonde. Tutto è necessario, nulla è superfluo, neppure le virgole e gli a capo. Come ha spiegato lei stessa durante una visita in una scuola - un’attività che fa di frequente e che farà anche in Italia grazie al progetto WY Fandango per le Scuole dal nome dell’omonima collana Weird Young nata nel 2020 - la scelta di scrivere una autobiografia in versi è dettata dal modo in cui i ricordi della sua infanzia si sono presentati a lei, in “piccoli, intensi momenti, ma con tutto uno spazio bianco intorno ad essi. Non sai cosa sia successo prima o dopo”. Scriverlo come una narrativa diretta sarebbe stato disonesto, dice Woodson, perché non è così che sono strutturati i suoi ricordi. Questo formato facilita invece la lettura, le righe sono snelle, i capitoli brevi e il linguaggio accessibile, raccontato dal punto di vista di un bambino. Le idee e le emozioni espresse non sono però meno complesse: la semplicità delle ossa nude del linguaggio implica molto di più di quanto non affermi apertamente. Alla fine del libro scrive: “Spesso mi chiedono se ho avuto un’infanzia difficile. Penso che la mia vita sia stata molto complicata e molto ricca. Guardandomi indietro, credo che la mia storia sia al contempo banalissima e straordinaria. Non potrei immaginarne un’altra”. Woodson è consapevole di aver avuto la fortuna di essere nata in un periodo in cui nel mondo avvenivano cambiamenti epocali, e di essere stata parte di quei cambiamenti. Il suo dovere era condividerli, raccontarli. Il nostro, di leggerli. Il diritto europeo e la Costituzione di Andrea Manzella Corriere della Sera, 26 settembre 2022 Le connessioni stabilite dall’articolo 11 tra ordine italiano e ordine europeo che legittimano i poteri di garanzia del “sistema” propri della Corte costituzionale e, soprattutto, del Presidente della Repubblica. Sembrava che schierarsi contro l’aggressione russa bastasse a Polonia e Ungheria per sanare le loro devianze dalle regole comuni dell’Unione. Non è così. Il parlamento europeo ora, e prima il cancelliere tedesco Scholz nel suo gran discorso di Praga sul futuro dell’Europa hanno chiarito le cose. I risultati delle elezioni 2022 in diretta - L’intransigente difesa della indipendenza europea non esenta dai vincoli per cui l’Unione può dirsi davvero una “unione”. Primo fra tutti, l’obbligo di riconoscere la supremazia del diritto europeo su quelli nazionali. Naturalmente, solo in quei campi dove gli Stati membri hanno, con i Trattati, limitato la propria sovranità. La nostra Corte costituzionale ha precisato benissimo la situazione. Il “primato” del diritto dell’Unione è necessario perché si realizzi un “ordinamento europeo come unità”: con la “rinuncia a spazi di sovranità persino se definiti da norme costituzionali”. Ma non significa, però, “rinuncia ai principi supremi dell’ordine costituzionale”: quelli che esprimono l’identità nazionale (C. cost., ord. n. 24/2017). Questo bilanciamento tra limitazioni di sovranità e controlimiti identitari è rifiutato dai governi polacco e ungherese. A loro sono perciò rivolti i moniti dell’Unione, con le parole di Scholz: “la democrazia illiberale nel cuore dell’Europea è una contraddizione in termini”. Inevitabili pure le conseguenze economiche: “è ragionevole vincolare coerentemente i pagamenti dei fondi europei al mantenimento” dei principi dello Stato di diritto liberamente accettati con l’adesione. La campana non suona però solo per l’Est. A pochi giorni dalle nostre elezioni - ovunque ritenute anche un test europeo - erano ancora pendenti alla Camera due proposte legislative che vogliono eliminare dalla Costituzione ogni obbligo di osservanza del diritto dell’Unione: come se fosse diritto “straniero” e non da noi condiviso fin dalle origini. Sono i progetti n. 291 e n. 298 del 23 marzo 2018 (prima firma: l’on. Meloni) che mirano a “devitalizzare” l’art. 11 della Costituzione, facendogli dire il contrario di quanto dice: il diritto europeo (che “nasce” proprio dalle “limitazioni di sovranità”) potrebbe essere applicato solo “in quanto compatibile” con il principio di sovranità. Propongono, quindi, di sopprimere quelle parti della Costituzione che, “in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea” (art. 97) specificano i vincoli giuridici, economici e finanziari derivanti da quell’ordinamento (art. 117 e 119). Una operazione di cancel culture di portata piuttosto radicale: diretta a far saltare quelle connessioni costituzionali tra ordine italiano e ordine europeo che legittimano i poteri di garanzia del “sistema” propri della Corte costituzionale e, soprattutto, del Presidente della Repubblica. Sono gli stessi legami su cui si fonda il Pnrr che assorbirà il lavoro dei nostri governi, di qualunque colore, sino al 2026. (Limitate revisioni sono possibili, ma strettamente concordate con l’Unione - che paga “a fattura” - e tenendo conto, come ha scritto Luca Bartolucci, che la corretta attuazione del Pnrr è ora condizione necessaria per l’attivazione da parte della Bce del nuovo, e per noi vitale, meccanismo anti-spread). A parte garanzie istituzionali e soldi a rischio, la manomissione dell’art.11 colpirebbe anche la nostra identità repubblicana. Collocato tra i “principi supremi” della Costituzione, esso segna il punto preciso del tempo in cui la nostra storia nazionale si congiunse e in un certo senso precorse la complessiva storia europea. La Costituente “trascrisse”, in effetti, nell’art. 11 quello che era stato pensato, durante la seconda guerra civile europea, da poche persone, confinate a Ventotene. Era il convincimento che la radice dei conflitti andava ricercata nel sovranismo assoluto degli Stati. La grande idea di Nazione era stata usata per coprire il loro espansionismo bellicista. Solo limitazioni reciproche e paritarie di sovranità, necessarie per un ordinamento sovrastatale, avrebbero potuto “assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Quando si cominciò a costruire l’unione degli europei, l’Italia, in forza dell’art. 11, non vi “aderì” ma propriamente la “fondò”. Dalle ultime cronache politiche si potrebbe sperare che quei progetti siano già sepolti. Se fossero davvero realizzati, sarebbe un atto anti-italiano più che anti-europeo. Ventotene diventerebbe, per la Costituzione, l’”isola che non c’è più”. La nazionalizzazione del diritto va contro gli interessi italiani di Alessandro De Nicola La Repubblica, 26 settembre 2022 La nazionalizzazione del diritto va contro gli interessi italiani. “Ce lo chiede l’Europa” è stata una delle frasi più infelici coniate dalla politica negli ultimi anni. Infatti, la naturale reazione di una parte consistente dell’opinione pubblica è stata che riforme e misure di risparmio decise dai governi di Roma non fossero veramente necessari ma imposti da eurocrati in alcuni casi mossi da malanimo verso il Belpaese. L’eccezione più rilevante a questo trucchetto retorico è stato Draghi, il quale ha sempre difeso le decisioni del suo esecutivo sulla base della loro bontà, non perché imposte dallo straniero. Purtroppo una certa attitudine sovranista alle vongole non ha più i toni virulenti di qualche anno fa, ma permane ed è tuttora visibile. Una delle proposte che può avere effetti deflagranti rispetto alla collocazione dell’Italia in Europa è riconoscere al diritto italiano la supremazia rispetto al diritto europeo. In realtà, come tante cose che si dicono prima delle elezioni, l’idea viene elaborata in termini dubitativi e confusi. Ad esempio, Giorgia Meloni ha recentemente dichiarato che “il tema nel nostro ordinamento obbiettivamente c’è, per la natura della nostra democrazia, perché gli organismi europei decisionali sono organismi di governo”, mentre in una Repubblica parlamentare “la sovranità appartiene al popolo che si manifesta nelle scelte parlamentari prima che nelle scelte di governo”. Il ragionamento è un po’ circonvoluto ma si capisce meglio alla luce del disegno di legge 291/18, presentato da Meloni e altri il 23 marzo 2018 durante quest’ultima legislatura. Il Ddl sopprimerebbe l’art. 117 della Costituzione, secondo il quale la potestà legislativa si esercita nel rispetto della “Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Abolito anche l’art. 11, famoso per il ripudio della guerra ma che consente altresì “limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” sostituendolo con paragrafo che recita “Le norme dei Trattati e degli altri atti dell’Unione Europea sono applicabili a condizione di parità e solo in quanto compatibili con i principi di sovranità, democrazia e sussidiarietà, nonché con gli altri principi della Costituzione italiana”. Le conseguenze di fratelli d’Italia - Insomma, il senso delle iniziative di Fratelli d’Italia è chiaro, togliere al diritto dell’Unione europea il primato sul diritto nazionale. Orbene, vediamo le conseguenze di una tale presa di posizione. In primis è bene ricordare che il dibattito sui confini tra diritto nazionale e comunitario non è nuovo. Anche la nostra Corte Costituzionale ha posto un limite, ossia l’inviolabilità dei diritti fondamentali protetti dalla Costituzione italiana, con la saggia adesione all’art. 267 dei Trattati europei che prevede una consultazione preventiva tra Corte di Giustizia Europea e Corte Costituzionale nel caso di dubbi applicativi. Finora, grazie alla reciproca prudenza e al fatto che i Trattati europei sono basati su principi liberaldemocratici e garantisti, non si è registrato alcun contrasto. Più puntuta è stata la Corte Suprema tedesca che si arroga il diritto, previa decisione della Corte di Giustizia Europea che però sembra considerare alla stregua di un parere, di valutare se gli atti comunitari non vadano al di là delle competenze stabilite nei trattati o siano stati interpretati non seguendo il principio di proporzionalità. Il Consiglio di Stato francese, poi, in un caso relativo a regolamenti in materia di privacy, ha recentemente proposto una lettura del diritto europeo secondo le norme costituzionali francesi. Insomma, si accetta che il diritto Ue regoli alcune materie, ma la sua interpretazione deve seguire i canoni costituzionali francesi per capire se le istituzioni e i tribunali comunitari stiano travalicando le loro competenze. La nazionalizzazione del diritto europeo - Come si vede c’è una tendenza in atto nel Continente ad una “nazionalizzazione” del diritto europeo che ne mina l’uniformità e quindi la supremazia. Purtuttavia si tratta sempre di un contrasto tra l’interpretazione giudiziale nazionale secondo la Costituzione del Paese e quella dei giudici europei sull’estensione della competenza comunitaria al di là di quanto consentito dai Trattati stessi. Tendenza pericolosa, ma limitata. La proposta di legge FdI, invece, vedrebbe soccombere i Trattati europei di fronte alla “sovranità popolare”. Se democraticamente il Parlamento abolisse le norme sulla concorrenza o sugli aiuti di Stato consentendoli senza limiti, le norme europee non varrebbero più. Liberalizzazione del mercato elettrico cancellata? Nulla potrebbe fare l’Europa, magari persino rispetto all’imposizione di quote o tariffe intra comunitari per ragioni di sicurezza nazionale. L’appartenenza all’Unione europea non significherebbe più niente ma, ahimé, chi di spada ferisce di spada perisce. Sapete su cosa verteva una delle decisoni della Corte Suprema tedesca del 2020? Sull’opposizione a far sì che l’Europa finanziasse a spese della Germania il Next Generation plan, negando così, tra gli altri, i finanziamenti all’Italia. Dovremmo aver imparato che siamo parte dell’Europa e delle sue istituzioni e che già ora possiamo contribuire alle sue decisioni in modo lineare, tenendo conto delle convenienze nazionali: dire “dell’Europa me ne frego!” è contrario proprio a quegli interessi italiani che si pensa di difendere. Omaggio alle donne coraggiose: Saman, le iraniane, e noi? di Dacia Maraini Corriere della Sera, 26 settembre 2022 Queste donne oggi ci stanno dando un esempio di coraggio straordinario e di fede nella libertà. Dovremmo imparare da loro anziché cedere alla tentazione di una sorda e cinica passività, con la scusa che “tanto non cambia niente”. Cambia invece, se veramente lo vogliamo. Se si volesse esemplificare cosa sia il fanatismo, basterebbe raccontare la storia del padre di Saman Abbas, la ragazza pakistana di seconda generazione che è stata strangolata, poi fatta a pezzi e quindi gettata nel fiume. La madre, intercettata al telefono avrebbe detto che “anche noi siamo morti quel giorno”. Morti sì, ma avendo compiuto un dovere sociale e religioso, il piu disumano e orrendo che si possa immaginare. E non si tratta di un caso di egoismo famigliare , ma di una pratica che viene legittimata da una tirannica religione di Stato. Si possono capire le inquietudini, i malumori di chi ha una identità debole e sente il bisogno di confermarla con la violenza. La brutalità infatti nasce sempre dalla paura di perdere qualcosa dell’idea che ci si fa di se stessi. Anche i femminicidi vengono perpetrati da uomini convinti che la loro identità virile consista nel possesso della donna che hanno deciso essere “propria”. L’amore è l’ultima delle preoccupazioni. Si tratta di paure ataviche e del terrore tutto nuovo di perdere i privilegi che fanno parte di una arcaica concezione di superiorità maschile. La povera Saman voleva semplicemente vivere come le sue coetanee, libera di scegliersi il fidanzato, libera di muoversi, libera di vestirsi a modo suo. Ma queste libertà sono considerate peccaminose e illegittime da una religione che pur nascendo dall’amore , col passare del tempo si è trasformata in intolleranza, potere oppressivo e tirannia. Noi ne sappiamo qualcosa. Ci sono voluti secoli per uscire dal dispotismo di una Chiesa totalitaria che aveva tradito le parole sagge e dolcissime del Cristo per torturare e mandare al rogo coloro che considerava nemici di Dio (guarda caso quasi tutte donne), in combutta col diavolo e quindi pericolose per la collettività. Sembra che il padre di Saman, il pio Shabbar, che aveva organizzato per ragioni famigliari il matrimonio della figlia col cugino, si sia inalberato di fronte alla pretesa della figlia di scegliersi l’uomo da amare. Una offesa alla autorità del padre, e all’onore della famiglia. E dopo essersi messo d’accordo con il fratello, i figli e i nipoti (un’altra scelta significativa: Le donne devono partecipare agli orrori di una tradizionale patriarcale, ma sempre in posizione passiva. Non possono né agire né impedire di agire). Quindi porta in campagna la ragazza con la scusa di una passeggiata, si fa raggiungere dai parenti maschi, che terranno ferma la cugina mentre lo zio la strozzerà con una corda, poi la faranno a pezzi, la chiuderanno in un sacco e la getteranno nell’acqua che scorre. “L’ho fatto per la mia dignità e il mio onore”, ha sentenziato il pakistano Shabbar. E qui si capisce la mostruosità del concetto di onore. Il nostro delitto d’onore non era la stessa cosa? Se mia moglie mi tradisce, ho il diritto di ucciderla per difendere il mio onore. Ma chi stabilisce l’onore di un uomo? Dovrebbe essere l’etica laica. Invece in questi casi l’onore viene deciso dall’alto, dai sacerdoti barbuti che rappresentano in modo meschino e violento la volontà di un Dio da loro rappresentato come intollerante e crudele. Al Dio si può disobbedire? Chiaro che no. Per questo le religioni che si identificano con lo Stato sono pericolose. È quello che sta succedendo in Iran, dove la polizia morale ha ucciso una ragazza perché portava male il velo, ovvero non si copriva interamente e quindi con spirito religioso, i capelli. Naturalmente oggi la polizia nega. Dicono che è morta di infarto. Ma da dove vengono quelle ecchimosi, quei segni di calci, e pugni che le coprono il corpo? Le donne iraniane, pur sotto minaccia di prigione e di frustate, sono scese in piazza per protestare. Con un coraggio ammirevole, sapendo quanto rischiano. Ma il coraggio vero lo si vede in queste situazioni: quando si rischia e si protesta lo stesso per difendere le proprie idee, i propri valori. Mi vengono in mente le difese del velo che ho sentito da tante parti anche occidentali: sono le donne che lo desiderano, è una espressione religiosa, una scelta di pudore. Non vi dicono niente queste ragazze che si tagliano i capelli in strada gettando via il velo, mostrando quanto sia isterica e repressiva la pretesa di fare sparire il corpo femminile sotto ampie vesti scure per non destare il desiderio maschile?. Queste donne oggi ci stanno dando un esempio di coraggio straordinario e di fede nella libertà. Dovremmo imparare da loro anziché cedere alla tentazione di una sorda e cinica passività, con la scusa che “tanto non cambia niente”. Cambia invece, se veramente lo vogliamo, anche se si rischia qualcosa. Tutta la mia solidarietà alle ragazze iraniane e ai giudici che hanno condannato con parole severe l’azione di un padre che ha voluto uccidere la figlia per difendere il suo vile e antistorico onore. Carovana pacifista in marcia tra aiuti ai civili e nonviolenza di Antonio Mazzeo Il Manifesto, 26 settembre 2022 Crisi ucraina. Oggi la partenza dall’Italia: dal 26 settembre al 3 ottobre, da Chernivtsi a Kiev, gli incontri con sindacati, associazioni e disertori. Da una parte l’establishment politico-militare di Mosca che per ribaltare le sconfitte al fronte ordina il richiamo di oltre 300mila riservisti e minaccia a “scopo difensivo” l’uso di armi nucleari tattiche. Dall’altra il regime ucraino che invoca ancora più armi micidiali (dai droni killer ai missili a medio raggio) e si dichiara disponibile a trattare solo dopo aver conquistato la Crimea e il Donbass. Inizia l’autunno ma il conflitto russo-ucraino è ancora lontanissimo dal mostrare un pur minimo raffreddamento. Anzi, è in atto una pericolosissima escalation bellico-militare, alimentata dalle cancellerie dei paesi Nato. Da Washington a Londra, da Parigi a Roma e Berlino, sembra assistere a una folle gara tra chi soffia di più sull’incendio divampato nel cuore dell’Europa orientale dopo l’invasione russa del 24 febbraio scorso. Ma è ancora possibile fermare una guerra che ha già prodotto conseguenze devastanti in mezzo mondo, ri-alimentando gli irrisolti conflitti in Caucaso, nei Balcani, in Siria e nel continente africano? Sì, ci credono ancora le oltre 175 associazioni italiane che hanno promosso la campagna “Stop the War Now” con il fine di lanciare un messaggio di solidarietà e di opposizione al conflitto in Ucraina. Tonnellate di aiuti umanitari inviati alle comunità devastate dai bombardamenti ma soprattutto una presenza costante di attiviste e attivisti a fianco delle vittime innocenti del conflitto, bambini, donne e anziani, perché è con la condivisione del dolore e della speranza che si possono ricostruire ponti di pace, dialogo, trattative e cooperazione. Dal 26 settembre al 3 ottobre un nuovo step di questo difficile e “utopico” percorso di diplomazia dal basso. Una delegazione italiana della società civile guidata dalla ong Un Ponte Per e dal Movimento Nonviolento si recherà in Ucraina per ribadire la richiesta di immediata cessazione dell’invasione russa e l’avvio di negoziati tra le parti per dirimere con la diplomazia le attuali controversie. Ma soprattutto per offrire un concreto sostegno alle realtà nonviolente ucraine impegnate nella costruzione della pace. “Dopo due delegazioni e alcune missioni esplorative realizzate nei mesi passati, le organizzazioni della carovana “Stop The War Now” torneranno in Ucraina per svolgere una serie di incontri con la società civile impegnata nel supporto umanitario alle vittime del conflitto, nella costruzione della pace, nel sostegno all’obiezione di coscienza e nelle azioni di resistenza nonviolenta”, spiegano gli organizzatori della Carovana. “Tra gli obiettivi della missione quello di gettare le basi per stringere accordi di partenariato tra le associazioni italiane e le organizzazioni della società civile ucraini. Puntiamo inoltre al rilancio a livello internazionale della campagna di sostegno agli obiettori di coscienza ucraini attualmente sotto processo o inchiesta da parte della Procura generale ucraina, accusati di alto tradimento”. Nei mesi scorsi numerose organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno promosso una campagna a favore del giornalista e obiettore Ruslan Kotsaba, perseguitato a livello giudiziario dopo aver diffuso appelli contro la guerra, alcuni già nel 2014, quando divampò il conflitto nella martoriata regione del Donbass. Un’analoga iniziativa a sostegno degli obiettori di coscienza è portata avanti da Un Ponte Per e Movimento Nonviolento anche sul versante russo, tanto più alla luce di una sempre crescente mobilitazione alle armi dei giovani decisa da Putin. “la delegazione italiana ha l’obiettivo di costituire reti tra tutti quei soggetti, laici e religiosi, che si pongono il problema della convivenza tra diversi, del rispetto del pluralismo linguistico e culturale, del sostegno anche psicologico alle vittime della violenza e della guerra”, aggiungono gli organizzatori della Carovana. “L’iniziativa che prenderà il via lunedì 26 sarà anche l’occasione per lanciare una raccolta fondi per sostenere le spese legali e processuali degli attivisti ucraini sotto inchiesta, e sostenere il loro prezioso lavoro di costruzione della pace”. In agenda un denso programma di incontri, con una prima tappa a Chernivtsi, città in cui l’università ha accolto centinaia di persone sfollate e si trova in estremo bisogno di aiuti umanitari. Poi a Kiev, dove la delegazione italiana visiterà associazioni umanitarie, il Movimento Pacifista Ucraino e le organizzazioni sindacali. In Ucraina sarà inoltre portato un carico di aiuti umanitari destinati alla popolazione. Faranno parte della delegazione attiviste/i di Arci, Arcs, Anche Noi Cittadinanza Attiva, Casa Delle Donne Pisa, Cospe, Coop.Mag4 Piemonte, Gruppo Abele, Equa, Libera, Pax Christi, Jef Europa, Movimento Nonviolento e Un Ponte Per. Tunisia. Il calvario dei rifugiati ai nuovi confini dell’Europa di Micol Conte La Repubblica, 26 settembre 2022 Proteste per la gestione del diritto di asilo, non si garantiscono i diritti delle persone. Eppure l’Europa considera il Paese un “porto sicuro”. Centinaia di migranti hanno manifestato davanti agli uffici dell’Alto Commissariato ONU per i rifugiati a Zarzis, poi a Tunisi nel ricco quartiere di Berger du Lac. Chiedono pace, sicurezza, reinsediamento. Dall’inizio di quest’anno centinaia di migranti hanno manifestato davanti agli uffici dell’Alto Commissariato ONU per i rifugiati (UNHCR) prima a Zarzis e poi a Tunisi, nel quartiere di Berger du Lac. Alla base di questo lungo sit-in pacifico, i’tisam, ci sono le condizioni in cui i profughi sono costretti a vivere in Tunisia. Le proteste si concentrano sulla politica di gestione del diritto di asilo che nel Paese nordafricano non garantisce i diritti delle persone, nonostante l’Europa lo consideri un porto sicuro. Il viaggio, le torture. I manifestanti di Zarzis e di Tunisi hanno vissuto un’esperienza comune: il soggiorno in Libia. Da gennaio 2022 a oggi l’87 per cento dei migranti registrati in Tunisia mostra ancora i segni delle torture subite nelle carceri libiche. E prima di arrivare in Libia ha rischiato la vita attraversando diversi confini. Molti sono scappati dall’Eritrea, per sfuggire al pugno di ferro di Isaias Afwerki, che impone il servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato. Nel 2019 gli eritrei erano il 16 per cento di chi raggiungeva la Tunisia, nel 2021 la percentuale è stata del 22. Altri scappano dal Sudan. Varcano i confini del Niger, dell’Algeria e infine raggiungono la Libia con la speranza di arrivare in Europa. La Tunisia è considerata un paese di transito. Attualmente, secondo i dati dell’UNHCR di maggio 2022, ospita 9703 tra rifugiati e richiedenti asilo. Da quest’anno il 100 per cento degli ingressi nel Paese avviene via mare, rispetto al 33 per cento del 2019. La scelta dei migranti di attraversare la Libia per raggiungere Sfax via mare, piuttosto che passare la frontiera via terra attraverso l’Algeria, si è generalizzata nel 2020, in seguito agli scontri tra le forze del Burkina Faso e i gruppi armati del sud del Mali. Le proteste. Uno studio dell’università di Sousse ripercorre le tappe che hanno portato all’esplosione delle proteste di quest’anno. Nel dicembre 2021 molte persone hanno perso l’accesso alle cure mediche gratuite. Perché l’UNHCR ha meno fondi a disposizione, anche a causa del fatto che Paesi come l’Ucraina e l’Afghanistan hanno bisogno di maggiore assistenza. L’agenzia dell’ONU, che fino all’anno scorso aveva coperto le spese mediche delle persone sotto la sua tutela, ha iniziato a garantirne i rimborsi solo dopo la rendicontazione da parte di rifugiati e richiedenti asilo. Comprare il pane o le medicine? Così molti profughi sono stati costretti a scegliere se comprare il pane o le medicine. A gennaio 2022 l’UNHCR ha fatto ulteriori tagli, chiudendo i centri di accoglienza nella zona di Medenine e chiedendo ad alcune famiglie di lasciare le proprie case, fino a quel momento pagate dall’ONU, entro due settimane. A febbraio 2022 lo sfratto è diventato realtà e le famiglie hanno iniziato a protestare davanti agli uffici dell’Alto Commissariato a Zarzis. Agli sfrattati si sono aggiunti altri migranti che chiedevano di essere reinsediati in altri Paesi, perché le condizioni di vita in Tunisia non sono sostenibili. Ad aprile 2022 l’UNHCR ha chiuso provvisoriamente i propri uffici di Zarzis, e il sit-in ha iniziato a spostarsi verso Rue du Lac, a Tunisi. Gli arresti della polizia. Ma la polizia lo ha impedito, arrestando arbitrariamente i manifestanti. A maggio 2022 un membro della comunità Tuareg, Mohammed Farj Mami, è stato investito da una macchina durante l’i’tisam ed è morto pochi giorni dopo in ospedale. Solo dopo due settimane l’UNHCR ha potuto procurare il certificato di morte, ritardando così la sepoltura e generando così una escalation delle proteste. A giugno 2022 l’UNHCR è riuscito a spostare 160 manifestanti verso nuovi centri di accoglienza a Er-roued, a venti km da Tunisi. Altri quaranta sono stati sistemati in nuove case qualche settimana più tardi. La dipendenza dai finanziamenti europei. In una lettera alla Presidenza della Repubblica dopo la morte di sette migranti al largo di Monastir, il Forum tunisino per i diritti economici e sociali ha denunciato le politiche migratorie dell’Unione Europea, basate sul principio della esternalizzazione dei confini, e la politica del governo tunisino, di fedele cane da guardia dei confini europei. Da decenni l’Unione Europea ha abbracciato una politica di visti molto selettiva e questo non aiuta i movimenti legali delle persone. In pratica l’UE accoglie ciò di cui ha bisogno e scarica il resto sulle reti del traffico di migranti - scrive il Forum. Nel caso della Tunisia, la dipendenza del Paese dai finanziamenti europei per la sopravvivenza economica influenza in modo pesante gli equilibri dei poteri politici in gioco nelle negoziazioni di questi accordi. La gente continua a partire e morire. Lo studio pubblicato dall’università di Sousse cita una fonte interna della polizia di Medenine: “Se le persone potessero trovare lavoro qui in Tunisia, se ci fossero denaro e cultura, non tenterebbero di attraversare il mare. Non è un problema di sicurezza, ma socioeconomico. L’Italia fornisce attrezzature, navi, radar. Cosa dovremmo fare con questi strumenti? Uccidere le persone? Non è la soluzione, perché nonostante il monitoraggio delle coste e le intercettazioni in mare, la gente continua a partire e a morire. Intanto la Tunisia non può rifiutare gli aiuti europei altrimenti non andremmo avanti”. Iran. Hadis Najafi, 20 anni, uccisa con sei proiettili mentre manifestava per Mahsa Amini di Viviana Mazza Corriere della Sera, 26 settembre 2022 Capelli biondi, prima dell’inizio delle proteste se li legava con l’elastico: è stata uccisa sabato sera durante le manifestazioni a Karaj, vicino a Teheran, diventando un simbolo della rivolta. Legarsi i capelli in una coda o uno chignon disordinato: un gesto quotidiano per qualsiasi ragazza. Hadis Najafi era stata ripresa in un video diventato un simbolo: senza velo, si legava i capelli tinti di biondo prima di unirsi alle proteste per Mahsa Amini. La sua famiglia ha diffuso ieri un altro filmato. Quello dei funerali della giovane a Karaj, città a 40 chilometri da Teheran. Nel ritratto circondato di petali rossi e bianchi il suo volto è ora incorniciato dal chador, il velo che il regime è pronto a uccidere pur di difendere. Aveva vent’anni e “il cuore spezzato per Mahsa”, ha detto la sorella di Hadis all’attivista esule in America Masih Alinejad. Sarebbe stata colpita da “sei proiettili al petto, al collo e al cuore”. È diventata un’altra Mahsa Amini. “Donna, vita, libertà” - Najafi è una delle tante ragazze scese in prima linea in queste notti iraniane a gridare “Donna, vita, libertà”. Bruciano i veli in città religiose come Mashhad e Qom, li sventolano dalle auto a Teheran. Una giovane si tagliava la coda bionda in piazza Kerman, una ragazza dai lunghi capelli neri danzava e gettava l’hijab nel fuoco a Sari. Un’anziana canuta avanzava zoppicante a Rasht ripetendo “Morte a Khamenei”. Anche qualche donna velata e conservatrice ha espresso solidarietà sui social. La sorella di Javad Heidari, 36 anni, ucciso a Qazvin, si tagliava i capelli castani sulla sua tomba coperta di fiori. Solidarietà - “Le ho viste da vicino in queste notti. La maggior parte di loro è molto giovane: diciassette, vent’anni”, dice in un filmato sul suo profilo social il regista iraniano premio Oscar, Asghar Farhadi. “Ho visto indignazione e speranza nei loro volti e nel modo in cui marciavano per le strade. Rispetto profondamente la loro lotta per la libertà e il diritto di scegliere il proprio destino nonostante tutta la brutalità a cui sono soggette”. “Anziché rimboccarsi le maniche, legarsi i capelli: sarà così che ricorderemo la determinazione”, scrive il regista teatrale Amir Reza Koohestani su Instagram. E la fotografa Newsha Tavakolian ha ripubblicato una sua celebre immagine: la ragazza in chador con guantoni rossi da pugile. Perché storie come quella di Mahsa non sono isolate. L’avvocata Leila Alikarami ricorda la 27enne Zahra Bani Yaghoub che subì la stessa sorte per mano della polizia della moralità, un caso che lei stessa rappresentò 15 anni fa. Nonostante “il cranio fratturato e il sangue sul volto”, chiesero alla famiglia di dire che aveva avuto un infarto; ad altri parenti dichiararono che era vittima di un’incidente d’auto. La repressione - Un video girato a Shiraz illustra bene il prezzo per le donne in prima linea: una giovane in arresto, disarmata, in jeans, giacca a quadri e hijab, è circondata da agenti anti-sommossa. Uno di loro le tiene la mano sul seno, un altro dopo un po’ la tira per le spalle e la scaglia al suolo, facendole sbattere la testa contro il bordo del marciapiedi. L’appello - Karim Sadjadpour, studioso iraniano-americano del think tank “Carnegie Endowment for International Peace”, in passato sostenitore del dialogo con la Repubblica Islamica, scrive sul Washington Post che è presto per dire se queste proteste cambieranno la politica di Teheran o saranno solo un’altra frattura nel sistema, ma ricorda che il velo è molto più che un indumento. “L’hijab obbligatorio è uno dei tre pilastri ideologici rimasti al regime, insieme agli slogan “Morte all’America” e “Morte a Israele”. Khamenei chiaramente crede che qualsiasi compromesso su quei pilastri - incluso il velo - ne accelererà la caduta”. Sadjadpour elogia la scelta di Christiane Amanpour di rifiutare di indossarlo nell’intervista rifiutata dal presidente Raisi e chiede ai governi, ai media e alle Ong internazionali di fare altrettanto e di “smettere di legittimare la discriminazione di genere della Repubblica islamica”, mentre le ragazze in piazza contestano “i nonni che guidano il Paese da quarant’anni”.