Un altro suicidio nelle carceri italiane dimenticate dalla politica di Davide Varì Il Dubbio, 25 settembre 2022 A denunciare il sessantacinquesimo caso dall’inizio dell’anno è l’associazione Antigone. Nelle carceri italiane, dimenticate dai partiti in campagna elettorale, ancora un suicidio. A denunciare il sessantacinquesimo caso dall’inizio dell’anno è l’associazione Antigone, che scrive su Facebook: “Oggi è il giorno del silenzio elettorale prima delle elezioni di domani. Un silenzio che, sul tema del carcere, abbiamo registrato per tutta la campagna politica. Un silenzio assordante. Nonostante a fare rumore sia stato il numero drammatico dei suicidi avvenuti tra le mura delle galere italiane. Ieri il conteggio è arrivato a 65”, si legge nel post di Antigone che da tempo denuncia l’indifferenza generale della politica alle condizioni carcerarie. “A togliersi la vita - prosegue il post - sono stati due detenuti, uno si trovava a Crotone (appena entrato in carcere dopo aver già tentato il suicidio in libertà), un altro all’Ucciardone di Palermo. In quest’ultimo caso l’uomo è morto in ospedale, dove era stato trasportato dopo aver tentato di suicidarsi qualche giorno fa”. Eppure il tema è stato completamente assente nel dibattito politico di questa campagna elettorale. Nonostante l’indiscutibile sensibilità e buona volontà della ministra Marta Cartabia, di fatto, non è stato attuato nulla di concreto. Sarà ora di “cacciare” i magistrati dal ministero della Giustizia? di Guido Camera Il Dubbio, 25 settembre 2022 Le “porte girevoli” che devono preoccupare non sono solo quelle tra magistratura e politica; quelle tra magistratura e pubblica amministrazione sono ancora più pericolose per lo Stato di diritto. Manca poco al voto e ancora non si parla del futuro di una delle riforme istituzionali più importanti iniziate in questa legislatura, cioè quella dell’ordinamento giudiziario. La legge n.71/2022, approvata dal Parlamento a giugno, contiene una delega al Governo, da attuare entro un anno, per la revisione dell’assetto della magistratura, i cui principi fondamentali sono: - rimodulare i criteri degli incarichi direttivi e semidirettivi “secondo principi di trasparenza e di valorizzazione del merito”; - razionalizzare il funzionamento dei consigli giudiziari, assicurando “la semplificazione, la trasparenza e il rigore nelle valutazioni di professionalità”; - riordinare la disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili. La delega è figlia di un compromesso politico e demanda al Governo - a questo punto, il prossimo - la delicata attività di attuazione normativa. Ma non bisogna accontentarsi; la legge 71 non va solo efficacemente attuata, ma deve essere anche rinforzata, in alcuni punti nodali, se vogliamo che nasca un sistema giudiziario realmente ispirato agli ideali liberaldemocratici di giustizia. Abbiamo troppi magistrati che rivestono ruoli amministrativi - anche di Governo - e legislativi di primaria importanza, sottraendo risorse importanti a una giurisdizione sistematicamente in sofferenza per i carichi di lavoro, che impediscono troppo spesso la ragionevole durata del processo, e un correntismo degenerato nella caccia al potere che svilisce l’alta funzione della magistratura, penalizzando i magistrati più indipendenti. Per non parlare dell’eccesso di corporativismo, agevolato anche dall’autoreferenzialità nei giudizi di professionalità. Si è parlato molto, in campagna elettorale, della separazione delle carriere tra giudici e PM; ciò non mi può che fare felice, visto che sono d’accordo. La proposta non sembra più essere solo una chimera, visto che è sostenuta da un ampio catalogo di partiti, con l’esclusione praticamente solo del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle. Ma una delle riforme più importanti consiste nella riduzione del numero dei magistrati distaccati in incarichi extragiudiziari; è anche una delle più difficili da realizzare, a causa dell’ostilità che quasi sicuramente troverà nel consolidato apparato burocratico che va a toccare. La legge 71 ha previsto delle norme immediatamente precettive che disincentivano il ritorno nel ruolo dei magistrati distaccati; ma la parte più importante - cioè quella che disciplina il distacco - è contenuta in una delega che, tra le altre cose, lascia al Governo anche il compito di individuare il numero massimo dei magistrati fuori ruolo. La delega approvata dal Parlamento prevede che l’Esecutivo debba tenere conto “delle possibili situazioni di conflitto di interessi tra le funzioni esercitate nell’ambito di esso e quelle esercitate presso l’amministrazione di appartenenza”. L’obiettivo deve essere più ambizioso: arrivare a un divieto generalizzato di incarichi extragiudiziari, comunque denominati, nel rispetto del principio che impone alla pubblica amministrazione di attingere a magistrati solo in casi straordinari e specifici. Le “porte girevoli” che devono preoccupare non sono solo quelle tra magistratura e politica; quelle tra magistratura e pubblica amministrazione sono ancora più pericolose per lo Stato di diritto. Basta ricordare che il magistrato che abbandona la funzione giudiziaria per assumere un incarico ministeriale (pensiamo ai capi di gabinetto), si mette al servizio della politica ancor più del magistrato eletto in una competizione elettorale. E quando torna ad indossare la toga, la sua indipendenza rischia di essere andata perduta per sempre, soprattutto quando giudica l’amministrazione cui ha appartenuto mentre era distaccato. Negli ultimi giorni di campagna elettorale, vorrei che un impegno formale in questa direzione lo prendessero a chiare lettere le forze politiche che si candidano a governare il Paese. *Presidente Italia Stato di Diritto Indispensabile l’indipendenza di magistratura e politica di Chiara Piana Il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2022 “Il diritto non deve mai adeguarsi alla politica, ma è la politica che in ogni tempo deve adeguarsi al diritto”. Questa è una citazione del filosofo settecentesco Immanuel Kant, il quale sostenne modernamente la supremazia del diritto sulla politica, riconoscendo che non possano esistere i cosiddetti “intoccabili” e che, pertanto, anche e soprattutto chi governa debba conformarsi alle leggi del proprio Paese, senza pretendere impunità o privilegi per via della propria posizione apicale. Si tratta di una concezione della giustizia riscontrabile già presso gli antichi greci, secondo cui essa era contraddistinta dall’incorruttibilità, la quale poteva garantire un giudizio equo e limpido sullo stato di colpa o innocenza degli uomini. Spesso, tuttavia, nel corso della storia la giustizia ha perso la propria purezza originaria e si è trasformata in uno strumento della classe dominante per contrastare qualsiasi forma di dissenso, pensiero critico o tentativo di cambiamento dell’ordine vigente. A mio avviso, a onorare degnamente la giustizia autentica è stata la nostra Costituzione, la quale, oltre a sancire i diritti e i doveri dei cittadini, è stata imperniata su un altro sacrosanto e democratico principio: quello della separazione dei poteri, teorizzato da Montesquieu. Ai Padri Costituenti era chiaro, infatti, che l’indipendenza della magistratura dalla politica fosse un presupposto indispensabile per garantire l’effettiva uguaglianza dei cittadini e per assicurare che l’organo giudiziario si impegnasse ad amministrare la giustizia senza piegarla a gerarchie sociali e annessi privilegi. Questa garanzia non può, però, essere data per scontata, specie in questi ultimi tempi; come ha ricordato l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato alla Festa de Il Fatto Quotidiano, una parte del nostro Paese non ha mai gradito la Costituzione del 1948 e ora vede soprattutto nelle forze politiche di destra la possibilità di intervenire per attuare cambiamenti a sé confacenti. Un’idea della linea che intendono seguire viene dalla riforma Cartabia, che (oltre all’orripilante improcedibilità) attribuisce al Parlamento il compito di indicare alle procure i criteri di priorità secondo cui affrontare i casi a loro pervenuti. Essa legittima, così, una manifesta infrazione del principio di cui sopra, poiché consente alla politica (potere legislativo) di indicare alla magistratura (potere giudiziario) di cosa debba occuparsi primariamente e cosa, invece, debba momentaneamente o eternamente ignorare. Questa questione è spesso secondaria o inesistente per gli elettori (e nelle campagne elettorali), sia a causa della situazione globale contingente - l’attenzione va alla guerra e alla conseguente crisi economica dagli effetti ancora non del tutto prevedibili - sia per la diffusa percezione della giustizia come di un’entità astrusa e distante, le cui riforme non sembrano avere ripercussioni sui propri diritti costituzionali democratici. È invece fondamentale ricordare, anche nei momenti di grave difficoltà, che la “madre di tutte le leggi” tutela diritti e libertà che riguardano ciascuno di noi, compreso quello alla giustizia, attraverso la cui amministrazione si può capire se si vive in una società orizzontale, nella quale tutti meritano lo stesso trattamento di fronte alla legge, o se la comunità ha un assetto verticale, per cui chi è in alto domina e chi è in basso subisce. Quest’ultimo è l’assetto, incarnato dal dottor Azzeccagarbugli ne I Promessi Sposi, contro cui le classi sociali inferiori hanno lottato per affermare la giustizia autentica e non quella di parte. Oggi, invece, la maggioranza della popolazione rischia di trovarsi nei ruoli di Renzo e Lucia, ossia in balia di una giustizia che non tende al socratico benessere collettivo, ma che è l’utile del più forte, come suggerito da Trasimaco nella Repubblica di Platone. È opportuno esserne consapevoli, per poter assegnare coscientemente il proprio voto. “La criminologia mediatica è al tramonto. I casi che resteranno nella storia? Yara e Meredith” di Enea Conti Corriere della Sera, 25 settembre 2022 Lo psichiatra e criminologo (ed ex politico) Alessandro Meluzzi è stato chiamato per il “caso Severi” di Forlì: un uomo in carcere accusato di aver ucciso e decapitato il fratello. “Il criminologo forense non è solo un esperto di personalità ma è anche un profondo conoscitore delle logiche che intercorrono tra causa ed effetto”. Psichiatrica e criminologo, ma anche politico (dal Partito Comunista, fino a Forza Italia passando fino all’Udr e all’Udeur) Alessandro Meluzzi ha visitato di recente le carceri di Forlì, dove è recluso Daniele Severi, fratello di Franco, l’agricoltore 53enne, ucciso a Civitella di Romagna e decapitato alla fine del maggio scorso. È stato chiamato dai legali difensori di Severi Andrea Cintorino (che è anche assessore nel Comune di Forlì) e Massimiliano Pompignoli (che è anche consigliere regionale). Per la Procura romagnola il responsabile dell’uccisione è il familiare ora in cella e il movente sarebbe legato a vecchi dissidi. Intanto le indagini proseguono. Lunedì 19 settembre sono stati prelevati 10 campioni di sangue sotto le unghie di Franco Severi e 11 provette di altro materiale per scovare il dna dell’assassino. Le analisi sono in corso nel laboratorio dei Ris di Parma e i risultati arriveranno tra due settimane. Meluzzi che ha fatto della criminologia una professione ha raccontato di non credere che sia stato il fratello a uccidere l’agricoltore. Quello di Civitella è ancora parzialmente un giallo. La testa della vittima, di fatto, ancora non si trova. “La criminologia mediatica - spiega Meluzzi - è oramai al tramonto. E ci sono dei pro e dei contro. Per esempio è difficile che le cose cambino per Daniele Severi se questo caso non diventa mediatico. È stato chiamato dai legali difensori di Severi Andrea Cintorino (che è anche assessore nel Comune di Forlì) e Massimiliano Pompignoli (che è anche consigliere regionale). Per la Procura romagnola il responsabile dell’uccisione è il familiare ora in cella e il movente sarebbe legato a vecchi dissidi. Intanto le indagini proseguono. Lunedì 19 settembre sono stati prelevati 10 campioni di sangue sotto le unghie di Franco Severi e 11 provette di altro materiale per scovare il dna dell’assassino. Le analisi sono in corso nel laboratorio dei Ris di Parma e i risultati arriveranno tra due settimane. Meluzzi che ha fatto della criminologia una professione ha raccontato di non credere che sia stato il fratello a uccidere l’agricoltore. Quello di Civitella è ancora parzialmente un giallo. La testa della vittima, di fatto, ancora non si trova. “La criminologia mediatica - spiega Meluzzi - è oramai al tramonto. E ci sono dei pro e dei contro. Per esempio è difficile che le cose cambino per Daniele Severi se questo caso non diventa mediatico” Alessandro Meluzzi, psichiatra e criminologo. Ci spiega in sintesi il nesso tra la sua professione e la visita in carcere a Daniele Severi. E soprattutto, perché secondo lei è innocente? “Il criminologo forense non è solo un esperto di personalità ma è anche un profondo conoscitore delle logiche che intercorrono tra causa ed effetto. Competenze molto utili quando nell’ambito di un caso specifico si confrontano più narrazioni: quella dell’interessato (come Severi), quella della Procura, quella dei testimoni. Si confrontano per vedere se emergono nessi. Si valuta, quindi l’affidabilità - che è una questione di natura psicologica - la credibilità che è invece una questione di tipo morale. Ascoltando questo signore - che si professa innocente - ho concluso che è affidabile - cioè non è matto - e credibile. Alcuni soggetti quando parlano, invece, suonano come campane rotte. L’analisi dei suoi discorsi e quello del linguaggio non verbale mi ha fatto credere che sia innocente, altrimenti mi sarei preoccupato di convincerlo a confessare”. Quali saranno ora i prossimi step? “Mi sembra di capire che il campo dell’indagine si sia velocemente ristretto. Io mi auguro che la Procura faccia accertamenti su altre ipotesi non battute. Quella attuale è quella più comoda. Le altre sono ipotesi che hanno a che fare con l’ambiente esterno che esulano dalla famiglia: frequentazioni, addirittura un night club, ambienti borderline della zona del vicino paese di Santa Sofia” Sta per caso parlando della lobby “dei bunker” che credeva alla fine del mondo prevista dai Maya di cui due ex membri si suicidarono in tarda primavera? “Così mi hanno riferito ma non so di preciso di cosa si tratti, sottolineo” Quale aspetto l’ha colpita di più di questo caso? “La decapitazione e il mancato ritrovamento del cranio è un aspetto ovviamente centrale della vicenda. Se una persona volesse uccidere il fratello avrebbe a disposizione metodi più convenienti. Ovviamente chi lo ha fatto potrebbe semplicemente voluto nascondere il modus operandi dell’assassinio: un colpo di pistola a una testa è una firma così come un ferro da calza infilzata in un occhio” Quali sono secondo lei i casi che potrebbero passare alla storia della criminologia in Italia? “Attingo da vicende di cui mi sono occupato: il primo è il delitto di Yara Gambirasio e la successiva condanna di Massimo Bossetti, incastrato per altro nello stesso modo in cui è stato incastrato il cliente di Forlì. Ovvero grazie alle tracce di dna rinvenute in quel caso sui guanti trovati nelle tasche della vittima. Io ho sempre considerato Bossetti innocente. Per spiegare la logica cito il mio maestro Francesco Cossiga una volta mi disse: “Per incastrare le teste calde come te c’è un sistema semplice quello di caricare nella sua macchina una borsa che contiene tre chili di cocaina, ma non abbiamo più funzionari affidabili”. È una battuta, è pur vero che negli Usa il dna gioca un ruolo centrale ma solo se converge con altre prove di tipo classico. In questa direzione un altro caso è il delitto di Meredith Kercher: Rudy Guede è stato l’unico a dire le cose come sono andate è stato condannato. Ha scontato la sua pena, e appena è uscito ha spiegato che il suo dna era stato rinvenuto sulla scena del crimine perché lui aveva cercato di aiutare la vittima” La criminologia è ancora in primo piano sui mass media? “Il tempo della criminologia mediatica sembra oramai scemato: abbiamo altri problemi ora, come è noto, che dominano le cronache. Dal punto di vista procedurale e processuale è un bene. Però se il caso Severi non riesce a diventare mediatico è evidente che tutto si chiuderà in fretta. Se invece diventerà mediatico qualcuno - magistrati compresi - potrebbe iniziare ad avere dubbi. Moti casi definiti mediatici avrebbero avuto meno attenzione se non fossero diventati tali” Si è pentito di essere entrato in politica? “La politica per me è finita 24 anni fa con l’Udr di Francesco Cossiga. Quando ero senatore o deputato non ho mai pensato di fare il mio lavoro ma quando l’avventura è finita sono tornato volentieri a farlo” Ha mai avuto paura facendo il suo lavoro? È stato mai minacciato? “Minacce? Si, certo, ne ho ricevute anche perché mi sono occupato anche di criminalità organizzata. Ma ho temuto di più altre cose. In primis il senso del ridicolo: quando ci si trova a fare i criminologi o le criminologhe delle televisioni è opportuno evitare di scadere e finendo ostaggi di dialettica comica e grottesca. Perché l’ambito di riferimento è invece quello serio e altro del processo penale. Ho temuto anche certi ambienti investigativi: da una parte ho conosciuto molti magistrati e investigatori seri, altre volte mi sono imbattuto in ambienti sospetti, per tante ragioni, come la ricattabilità” Quanti tipi di perizie si contano? “La perizia criminologica classica indaga la capacità di intendere o di volere o sulla pericolosità sociale. Poi ci sono le perizie che indagano sul profilo del colpevole quando non si ha la benché minima idea di chi possa essere. È stato un uomo o una donna? Un cristiano o un musulmano? Una persona di corporatura grossa o piccola? Un ladro o uno stupratore? Qui le cose si fanno più interessanti. A volte capita di indagare anche questioni “biologiche”. Per esempio una semplice e piccola cicatrice sul cervello può contare molto sulla decisione in merito alla capacità di intendere e di volere” Da cosa dipende la pericolosità sociale? “Quanto alla pericolosità sociale dipende da parecchi discriminanti: personalità, condizione sociale, relazioni, appartenenza eventuale a criminalità organizzata, condizionamenti ambientali. È una questione delicata specie quando concorre con l’incapacità di intendere e volere. In questo caso non si viene condannati ma se chi è ritenuto socialmente pericoloso rimane comunque in una Rems o in strutture protette. Che possono diventare manicomi criminali cronici”. Un giudice emette sentenza senza aver mai ascoltato la difesa. Per il Csm è solo una marachella di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 25 settembre 2022 Per il Csm questa incredibile vicenda non rappresenta la condotta più grave che un giudice possa assumere, anzi, è una delle meno gravi. Forse qualcuno ricorderà la incredibile vicenda accaduta tempo fa al Tribunale di Asti. Si celebrava un delicato processo di violenza sessuale (di un padre sulla figlia, con la madre accusata di non averlo impedito). Giunti alla conclusione della istruttoria dibattimentale, discute il pm, che chiede una pena molto dura; discutono i due difensori della madre, e si rinvia ad altra udienza per la discussione del difensore del padre, imputato principale. Discussione che però non avverrà mai perché alla udienza successiva il Tribunale legge solennemente il dispositivo di condanna degli imputati ad 11 anni di reclusione. Gli sbalorditi astanti, compreso lo stesso pm, fanno garbatamente presente al Presidente che il difensore del secondo (e principale) imputato non aveva mai discusso. Il Presidente si dice dispiaciuto dell’incidente, accartoccia il foglio contenente il dispositivo appena pronunciato, e dà la parola al secondo difensore. Il quale ovviamente si rifiuta, eccependo l’abnormità di quanto accaduto. Il Tribunale deposita egualmente la sentenza, che ovviamente non potrà che essere annullata dalla Corte di Appello. Insorge la Camera penale del Piemonte occidentale, con modalità giudicate da Anm e Procuratore Generale, come dire, esagerate: con il risultato di spostare il focus dalla gravissima, incredibile condotta di quel Collegio giudicante, al tono ed ai modi della protesta. La vicenda fu segnalata al Csm, che - apprendiamo oggi da dettagliate notizie di stampa - dopo la bellezza di oltre due anni e mezzo, ha concluso con la sanzione della censura, per di più - e qui siamo al mistero più profondo - nei riguardi del solo Presidente; prosciolte le due giudici a latere. Non sono ancora depositate, a quanto pare, le motivazioni della bizzarra (è un eufemismo) decisione, ma c’è davvero poco da approfondire. La censura è poco più di una tirata di orecchie, ed è ovvio che la entità della sanzione irrogata fotografa impietosamente la considerazione che il Csm nutre delle questioni di principio messe in discussione in quella incredibile vicenda. Nel dare notizia di questo stupefacente esito, l’articolo viene così titolato: “Sanzionato il giudice che ha letto la sentenza di condanna prima dell’arringa del difensore”; un titolo che la dice lunga su quanto sia indietro questo nostro Paese in termini di comprensione dei principi fondamentali che regolano il processo penale. Qui non si tratta di “aver letto la sentenza di condanna prima dell’arringa”; quanto invece del fatto che tre giudici abbiano potuto ritirarsi in camera di consiglio, discutere tra di loro della fondatezza della ipotesi accusatoria o invece di quella difensiva, e deciso la irrogazione della pena di 11 anni di reclusione (undici anni, dico) senza avere mai ascoltato il difensore (unico difensore, per di più) dell’imputato principale. Il fatto non può ovviamente avere spiegazioni alternative all’unica sensata: la totale indifferenza di quel giudice collegiale alle argomentazioni in difesa di quell’imputato. Converrete con me che un giudice che ritenga di pronunziare sentenza nei confronti di un imputato senza aver ascoltato e vagliato la sua difesa, nega in radice la propria stessa funzione. Il giudice non è uno sciamano, chiamato ad interpretare il giudizio divino, ma è un signore il cui compito è esattamente quello di formulare un giudizio solo all’esito della compiuta espressione delle posizioni contrapposte tra accusa e difesa. Insomma, non è che si debbano spendere ulteriori argomenti: si tratta di un fatto di inconcepibile gravità. Che però è stato punito con la pena della censura, un buffetto sulla guancia. La conseguenza che dobbiamo trarne è che, per il Consiglio superiore della magistratura, questa non è la condotta più grave che un giudice possa assumere, anzi, è una delle meno gravi. Talmente poco grave, da rendere addirittura misteriosamente possibile il proscioglimento dei due a latere, pur avendo essi partecipato alla camera di consiglio e deliberato la condanna: come a dire, una marachella del solo Presidente. È già gravissimo che un fatto di questa enorme gravità possa essere accaduto in un Tribunale della Repubblica; ma è addirittura desolante ed ancora più allarmante che il supremo organo di autogoverno della magistratura possa averlo giudicato alla stregua di un banale incidente professionale. C’è qualcuno che sappia darci una spiegazione, e soprattutto che senta il bisogno, prima ancora che il dovere, di farlo? Tutti sanno, nessuno denuncia: e i concorsi universitari truccati annegano nell’omertà di Gloria Riva L’Espresso, 25 settembre 2022 Si moltiplicano le indagini sulle prove manomesse che portano in cattedra chi non merita di diventare professore. Se ne occupa anche l’Antimafia. Ma pochi parlano, per paura delle ritorsioni. E tra depenalizzazioni e prescrizione, i magistrati hanno armi spuntate. Oreste Gallo è uno dei pochi camici bianchi a usare la tecnica microinvasiva per verificare la presenza di cellule tumorali del cavo orale. Dirige il reparto di Otorinolaringoiatria all’ospedale universitario fiorentino Careggi ed è professore all’Università di Firenze. Nonostante il suo curriculum e le 225 pubblicazioni scientifiche, la sua carriera nell’università italiana non proseguirà oltre. Nel 2017 si è presentato alla Procura fiorentina anticipando i nomi dei vincitori di alcuni imminenti concorsi per professori ordinari. Da quella segnalazione è partita l’indagine Cattedropoli, a cui sono seguite altre inchieste che hanno messo in luce una rete di concorsi pilotati. “Diversamente dai colleghi sostengo che le cattedre vadano assegnate secondo il merito e il bisogno assistenziale. Per questo ho fatto denuncia. E cos’è cambiato? Possibilmente la mia posizione è ulteriormente peggiorata, mentre il sistema difende benissimo le proprie logiche clientelari. Sono stato vittima di diffamazione, di sanzioni disciplinari e depredato di un lavoro scientifico. La mia unità operativa è stata svuotata, sono rimasto a gestire una struttura a direzione universitaria senza alcun professore universitario. Anche l’attività medico-assistenziale ha subito contraccolpi”. Nel 2020 Gallo pubblica sulla rivista The Lancet uno studio scientifico nel quale si stima che il 94 per cento dei concorsi viene vinto da un membro interno all’amministrazione che lo bandisce e nel 62 per cento dei casi si presenta un solo candidato, cioè il predestinato. E allora perché pochi denunciano? Lo ha spiegato Giambattista Sciré, portavoce dell’associazione Trasparenza e Merito, alla Commissione Antimafia che ha chiesto contezza della situazione nelle università italiane: “Il sistema è omertoso. C’è una diffusa mafia accademica che si basa su scambio di favori, controllo del potere, spartizione dei posti e una stretta osservanza del codice del silenzio”. Sciré, che a sua volta è finito nel tritacarne di un concorso preassegnato alla facoltà di Storia a Catania, si rifà alle parole del Pm catanese Raffaella Vinciguerra, che parlando dell’operazione “Università bandita” ha detto: “Sul codice sommerso di comportamento dei docenti siamo rimasti, noi magistrati, basiti nel ritrovare delle conversazioni e delle modalità procedurali para-mafiose. È un codice sommerso basato sul ricatto e sul guadagno reciproco che prescinde assolutamente dal merito. La cosa che rattrista è che quella che dovrebbe essere la culla della scienza e quindi la speranza del Paese, in realtà adotta gli stessi metodi che noi magistrati ritroviamo nelle associazioni mafiose”. Numerose le inchieste che la magistratura sta conducendo sul sistema clientelare, che gli investigatori paragonano a quello mafioso, dell’assegnazione delle cattedre universitarie. Oltre all’inchiesta catanese “Università bandita”, c’è la fiorentina “Concorsopoli”, l’indagine “Magnifica” di Reggio Calabria che ha portato la magistratura a contestare il reato di associazione a delinquere e l’indagine della Procura di Roma che ha condannato in primo grado il rettore di Roma Tor Vergata Giuseppe Novelli dopo la segnalazione di illeciti nella gestione dei concorsi da parte dell’avvocato Giuliano Grüner e dell’attuale sottosegretario alla Sanità, Pierpaolo Sileri. Altre inchieste hanno coinvolto le università di Genova, Perugia, Torino, Palermo, Sassari, la Statale di Milano e l’Università San Raffaele con il coinvolgimento di dieci rettori. “Probabilmente sarebbe ancora più estesa se ci fosse un sistema a tutela di chi denuncia. Al contrario, chi si affida alla giustizia finisce isolato dal resto dell’università e non sempre ottiene soddisfazione da parte della magistratura”, afferma Sciré, che proprio in questi giorni sta attendendo l’avvio del processo a nove docenti imputati nel procedimento “Università bandita” il prossimo 21 settembre. Fra i reati contestati c’è l’abuso d’ufficio, il falso, la corruzione per atti contrari ai propri doveri. La Corte d’Appello deciderà se accogliere il ricorso della Procura che vuole la conferma del capo d’imputazione principale, ovvero l’associazione a delinquere. Se ciò non avvenisse, l’intera inchiesta potrebbe velocemente sgonfiarsi perché la depenalizzazione del reato di abuso d’ufficio, riforma voluta e ottenuta da M5S, Lega e Pd a inizio 2021 è una pietra tombale per i concorsi falsi, tanto che nel corso degli ultimi due anni sono decine le sentenze di archiviazione sulle università, fra le altre di Pescara, Foggia, Macerata, Firenze, Torino. Senza il supporto della magistratura, chi denuncia resta solo. L’alternativa è andare all’estero, come ha fatto l’ingegnere Luciano Demasi, che oggi è professore ordinario al dipartimento di Aerospace Engineering della San Diego University, in California, dopo aver tentato per decenni di conquistare una cattedra al Politecnico di Torino, “ma ai concorsi vinceva sistematicamente il candidato interno al Politecnico di Torino. Nel 2016 ho denunciato alla Procura diverse irregolarità documentate da una sentenza del Tribunale amministrativo e dal Consiglio di Stato, che infatti hanno annullato il concorso stesso. L’inchiesta giudiziaria è andata per le lunghe e, a causa della depenalizzazione dell’abuso d’ufficio, il procedimento è stato archiviato”, dice l’ingegnere, che continua: “I concorsi truccati bloccano l’afflusso di docenti e ricercatori stranieri, sistematicamente respinti perché i posti sono stati preassegnati per lo più a candidati interni all’ateneo che bandisce il concorso. È un danno enorme per la ricerca italiana, che così facendo ha creato un drenaggio di ricercatori verso l’estero e non potrà mai, di conseguenza, raggiungere i livelli di Francia, Inghilterra, Spagna, Stati Uniti e Germania, al di là di quanti soldi si scelga di investire sull’università italiana”. Scalfire il sistema è oltremodo difficile, perché ad assecondarlo non sono solo le commissioni, scelte ad hoc per assegnare le cattedre ai candidati prescelti, ma l’intero mondo universitario. La riprova viene dalla delibera del comitato etico dell’università di Pisa, chiamato a esprimersi rispetto alla vicenda della docente di Economia Aziendale Giulia Romano. Nel 2017 l’allora ricercatrice denuncia alla Procura un concorso truccato nel suo dipartimento. Poco dopo il marito, Andrea Guerrini, a sua volta professore di Economia a Verona, incontra il presidente della commissione di quell’esame, Luciano Marchi, all’epoca docente di Economia Aziendale a Pisa, il quale ammette che il concorso a cui aveva partecipato Giulia Romano era stato prefigurato e che lei, nonostante fosse un’eccellente professoressa, non avrebbe mai fatto carriera perché non era sufficientemente accondiscendente rispetto al sistema. Guerrini registra quella conversazione e la invia alla Procura e al comitato etico dell’Università di Pisa. Quest’ultimo si è espresso nel maggio 2022 (ovvero cinque anni dopo aver ottenuto la registrazione, le intercettazioni e altro materiale dalla Procura di Pisa) archiviando il caso. Perché? Perché l’università ha deciso di oscurare i nomi delle intercettazioni e, nonostante il contenuto della registrazione facesse emergere “un sistema patologico di selezione del personale docente”, si legge nel resoconto del senato accademico che ha espresso il parere etico, l’assenza dei nominativi “non consentiva di collegare i soggetti alle condotte eticamente riprovevoli per la difficoltà oggettiva di decontestualizzarli con certezza”. E il processo? “Era partito sotto i migliori auspici: le intercettazioni avevano fatto emergere che più di un concorso era stato pilotato e che la condotta illecita era sistematica al punto da far ipotizzare alla Procura di Pisa l’esistenza di un’associazione a delinquere tra alcuni professori. Ma poi, dopo circa due anni, il reato di associazione a delinquere è stato “cancellato per errore” dalla stessa Procura. A cinque anni di distanza il processo a Marchi, quello che riguarda la registrazione e che è stato interrotto per vari rinvii, si appresta a riprendere il prossimo mese con un nuovo giudice”, racconta Giulia Romano, che nel frattempo è riuscita a conquistare un ruolo da professore associato attraverso un concorso durato oltre due anni, fra rinunce e dimissioni dei commissari. “Sul processo c’è anche la spada di Damocle della prescrizione, che scatta a gennaio 2024” e potrebbe salvare l’imputato: “Dopo quella denuncia sono stata allontanata dalla stragrande maggioranza dei colleghi e l’esito della commissione etica dell’ateneo è stata una grande delusione. Nella registrazione il professor Marchi diceva che io avevo tutto l’ateneo coalizzato contro. I fatti per ora non mi hanno convinto del contrario, purtroppo”. Giustizia per Saman di Carlo Bonini La Repubblica, 25 settembre 2022 Non lasciare impunito questo delitto, che si dovrebbe smettere di definire “di onore” (quale?), è dunque oggi il solo atto concreto con cui un Paese laico e libero come il nostro può dimostrare di credere nell’integrazione di culture e religioni diverse sotto l’ombrello universale del rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali. Essere assassinata, smembrata e quindi dispersa in un campo o forse in un fiume per aver rifiutato le “leggi del padre” e del clan, che si vorrebbero legittimate dalla fede arcaica in un Dio, è stato dunque il destino della giovane Saman. Pachistana di seconda generazione, cresciuta nella libertà del nostro Paese, nell’autodeterminazione del suo corpo e della sua sessualità, Saman ha pagato con la vita il diritto di rifiutare un matrimonio combinato con un cugino, per liberarsi in un bacio in punta di piedi al ragazzo, pachistano di seconda generazione come lei, di cui era innamorata. Lo scempio rituale non ha avuto come contesto il Punjab, dove il padre carnefice Shabbar Abbas e la sua moglie schiava Nazia sono oggi latitanti, ma Novellara, tra le rogge e i campi della bassa reggiana, dove gli Abbas - padre, madre, zio, cugini, fratelli - sono rimasti impermeabili a ogni forma di elementare integrazione o di semplice contagio, anche solo per osmosi, con la religione laica dei diritti fondamentali di ogni essere umano. È confortante dunque leggere le parole di Raza Asif, presidente della Federazione Pachistana in Italia, lì dove dice che la morte di Saman è figlia di “una mentalità retrograda che riguarda una famiglia che non ha imparato a vivere in una società civile”. Che, nell’auspicare “una pena severa per il padre, se colpevole”, l’impegno della comunità pachistana in Italia è “lavorare con le famiglie per evitare ogni forma di integralismo dei padri verso i figli”, inculcando nei primi “il rispetto delle nuove generazioni che vivono e studiano in Italia e ne assorbono la cultura”. È confortante perché in queste parole è evidente come nel destino giudiziario dei padri, madri, cugini o zii assassini (se tali saranno riconosciuti in un legittimo processo nel nostro Paese) è scritto il futuro delle migliaia di Saman di seconda generazione che vivono nelle nostre città. Non lasciare impunito questo delitto, che si dovrebbe per altro smettere anche solo di definire “di onore” (quale?), è dunque oggi il solo atto concreto con cui un Paese laico e libero come il nostro può dimostrare di credere nell’integrazione di culture e religioni diverse sotto l’ombrello universale del rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali. È un impegno che la Procura e i carabinieri di Reggio Emilia, il ministero di Giustizia hanno sin qui dimostrato di saper mantenere. Un fratello e due cugini di Saman sono stati già arrestati dopo aver tentato la fuga in Francia e Spagna e risale al febbraio scorso la richiesta di estradizione per il padre e la madre di Saman. Ma tutto questo, purtroppo, non è ancora sufficiente. Con il Pakistan non esiste infatti alcun accordo bilaterale di cooperazione giudiziaria (che favorirebbe l’estradizione), né esistono le condizioni per siglarne uno, perché l’Italia non potrebbe garantire al Pakistan condizioni di reciprocità (condizione fondamentale in un accordo bilaterale). La questione è dunque nelle mani della magistratura e del governo di Islamabad, dove un sistema penale sul modello anglosassone del common law incrocia i caveat e le eccezioni garantiti dalla sfera del rispetto religioso, non a caso quello su cui gli assassini di Saman contano per costruire la propria impunità. Le aperture manifestate dalla diplomazia pachistana per una soluzione positiva dell’estradizione suonano incoraggianti, ma chiunque nel prossimo governo siederà sulla poltrona di ministro di Giustizia e degli Esteri deve sapere che il diritto alla libertà e alla vita delle migliaia di Saman di seconda generazione è anche sulle loro spalle. Sulla determinazione che dimostreranno nel chiedere e ottenere che Shabbar Abbas e sua moglie Nazia vengano riportati nel nostro Paese e qui giudicati in nome della legge e del popolo italiano. Femminicidi: perché non le abbiamo salvate di Maria Novella De Luca La Repubblica, 25 settembre 2022 In molti casi la vittima aveva denunciato il partner violento. Ma la giustizia ha ancora tempi e modi di “presa in carico” troppo lenti. E troppo legati a una cultura sessista. Inchiesta. Roma. Si chiamavano Alessandra, Lidia, Simona, Gabriela e Renata Alexandra. Avevano chiesto aiuto alla giustizia contro i loro ex, violenti e persecutori. Sono state, invece, uccise, da quei maschi lasciati colpevolmente liberi. Dormono, tutte, nel cimitero dei femminicidi. Accanto a loro le altre, morte senza aver avuto la forza di denunciare, Nadia, Rosa, Daniela, Giada, Viviana, Romina, Lorena, Elena, Donatella, impossibile nominarle una ad una, le loro storie, come lapidi virtuali, riempiono in rete le liste aggiornate ogni giorno delle donne morte ammazzate dai loro ex, mariti, fidanzati, amanti. Sono 78 le vittime di femminicidio dall’inizio del 2022, alcune avevano provato a fermare i loro assassini rivolgendosi alle forze dell’ordine, la maggioranza no, ma il risultato non cambia: tutte uccise. Lo schermo della giustizia non le ha protette, in una catena di sottovalutazioni, errori, scarcerazioni e archiviazioni. Ultimi casi di cronaca - Alessandra Matteuzzi, massacrata a martellate il 23 agosto scorso dal suo ex compagno, Giovanni Padovani, lo aveva denunciato per stalking un mese prima. Contro di lui, però, la procura di Padova non aveva emesso alcun provvedimento restrittivo. Zlatan Vasiljevic, killer di Lidia Milikovic e Gabriella Serano, uccise l’8 giugno, pluricondannato per violenza, era stato scarcerato dopo un (breve) corso di riabilitazione per maschi violenti. Le tre denunce per maltrattamenti di Gabriela Trandafir, assassinata insieme alla figlia Renata Alexandra dall’ex marito, Salvatore Montefusco, il 13 giugno a Castelfranco Emilia, erano addirittura state archiviate dalla procura di Modena. Sembra inevitabile provare un senso di resa davanti a questa strage. Di fronte a numeri che fanno dire a un magistrato esperto come Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano e consulente della Commissione sul femminicidio,”tra i crimini di odio la misoginia è l’unico a non arretrare”, e avvertire che “quando una donna decide di mettere fine, unilateralmente, ad una relazione con un uomo che ha in sé il germe della violenza, si espone di fatto al rischio della vita”. Il codice rosso - A che cosa serve dunque il Codice Rosso, che impone ai giudici di “prendere in carico” la denuncia di una donna entro tre giorni dalla presentazione, se poi come nei casi di Alessandra Matteuzzi e Gabriela Trandafir, contro questi aguzzini non vengono presi provvedimenti tempestivi? L’Italia, proprio grazie anche al Codice Rosso approvato nel 2019, non ha mai avuto un corpus di leggi contro la violenza sulle donne così completo e avanzato come oggi. Eppure, denuncia o non denuncia, la Spoon River delle donne ammazzate conta nuove lapidi ogni giorno. È una battaglia persa quella contro i femminicidi? Lella Palladino, sociologa, oggi è nel comitato scientifico dell’Osservatorio nazionale contro la violenza sulle donne.”Non siamo alla resa, le cose avanzano, seppure a piccoli passi. Vorrei ricordare accanto al dato delle donne uccise, le altre, tante, che invece denunciano, si liberano dai partner violenti, salvano se stesse e i figli, riescono a costruirsi vite autonome, grazie ai centri antiviolenza. Almeno 25 mila ogni anno, quindi i successi ci sono. Il fallimento è nella rete istituzionale”. Spiega Palladino che le leggi oggi sono più avanzate rispetto alla filiera della giustizia. “Certo che è utile convocare la vittima in tre giorni, però poi bisogna crederle. Emettere dei provvedimenti restrittivi veramente efficaci, altrimenti le donne tornano a casa e si ritrovano sole, a rischio della vita”. È proprio dalla solitudine che nasce quella sfiducia che si traduce in un dato drammatico: soltanto il 15 per cento delle vittime chiede aiuto. Il punto di caduta, secondo Palladino, è la mancanza di preparazione nel riconoscimento della violenza da parte di forze dell’ordine e magistratura. “Esiste un garantismo che premia i maschi, mentre i racconti delle vittime vengono messi in discussione. La violenza viene depotenziata a conflitto familiare, pur di fronte a un pericolo conclamato. Così le donne muoiono”. In una società che rispetto al sessismo, conclude con un po’ di amarezza, la sociologa, “arretra piuttosto che avanzare”. Fabio Roia, conferma che a fronte oggi di un ottimo corpus di leggi, “alle quali manca però l’approvazione dell’arresto non in flagranza dello stalker”, il rischio arriva dalla sottovalutazione del pericolo. “Ci vuole formazione perché chi riceve la denuncia riesca a valutare il profilo criminale dell’aggressore. Il non saper leggere correttamente la violenza può portare a non emettere quelle misure tempestive che potrebbero salvare la vittima. Dal braccialetto elettronico alla misura cautelare in carcere”. E se tutto questo non avviene, e le donne continuano a morire, ammette Roia, “è perché a tutti i livelli la cultura del patriarcato continua purtroppo ad essere prevalente”. L’esempio della Spagna - Valeria Valente, senatrice Dem, è stata fino a qualche giorno fa presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio del Senato. Un gruppo di lavoro di altissimo livello che, per la prima volta in Italia, ha indagato sulla strage delle donne, mettendone in luce, ad esempio, l’intreccio con una giustizia punitiva nei confronti delle vittime. “Non siamo all’anno zero, di certo però camminiamo a piccoli passi. Le donne continuano a vivere nel silenzio le loro tragedie. Fuori c’è un mondo che le colpevolizza. Per un 15 per cento che denuncia, c’è un 65 per cento di vittime che si vergogna di raccontare, anche a un’amica, le persecuzioni che vive in casa. In Commissione abbiano fatto un enorme lavoro per far capire quanto questa violenza sia strutturale. In Spagna, dove la lotta ai femminicidi è stata considerata una priorità, sono state messe in campo risorse gigantesche sia nella repressione che in campagne culturali contro il sessismo. Il risultato è che i femminicidi sono diminuiti. Da noi non se ne parla. Ciò che dobbiamo chiederci dunque è se veramente l’Italia vuole fermare questa strage”. Federico Aldrovandi, ucciso dall’abuso di Stato. Ma la legge contro la tortura è ancora parziale di Adil Mauro L’Espresso, 25 settembre 2022 Patrizia Moretti: “Si sono perse molte occasioni per evitare che tragedie di questo tipo possano ripetersi. In questi diciassette anni si sono avvicendati tutti i colori politici e purtroppo non è cambiato granché”. Cinquantaquattro lesioni, due manganelli rotti e un cuore schiacciato. La domenica mattina del 25 settembre 2005 Federico Aldrovandi, un ragazzo di soli diciotto anni, moriva a Ferrara durante un controllo di polizia. L’iter processuale di questa vicenda è terminato dieci anni fa, il 21 giugno 2012, con la condanna in via definitiva degli agenti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri. Nella requisitoria davanti alla quarta sezione penale della Cassazione, il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta, riferendosi agli imputati, parlò di “schegge impazzite”. I quattro furono riconosciuti colpevoli di eccesso colposo in omicidio colposo, con una pena detentiva di 3 anni e 6 mesi, poi ridotta a 6 mesi per via dell’indulto. Nessuno sconto invece per i familiari di Federico - il padre Lino, il fratello Stefano e la madre Patrizia Moretti - obbligati a convivere da diciassette anni con il dolore di una morte insensata. Una sofferenza acuita dal ritorno in servizio nel gennaio del 2014 di tre dei quattro agenti, con uno solo rimasto a casa per curare una “nevrosi reattiva”. Scelta, quella di non togliere la divisa ai responsabili dell’omicidio di Federico, contestata duramente dalla famiglia Aldrovandi. Ma quest’episodio è tutt’altro che isolato. In Italia quando si parla di abusi in divisa bisogna fare i conti con “un elenco lunghissimo di persone che sono morte nelle mani o in custodia di forze di polizia”, dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Se conosciamo i nomi di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Gabriele Sandri, Riccardo Magherini e Giuseppe Uva, il merito è innanzitutto delle estenuanti battaglie giudiziarie e mediatiche affrontate dai loro familiari. “È importante infatti sottolineare come le famiglie delle vittime siano state costrette a mettersi in gioco perché se non lo avessero fatto la verità e la giustizia non sarebbero mai arrivate. E a volte non sono arrivate comunque”, ricorda Noury. In Italia un punto di riferimento per i familiari di chi non c’è più e le vittime sopravvissute è l’Associazione contro gli abusi in divisa (Acad), realtà che da anni si occupa dei soprusi commessi dalle forze dell’ordine, offrendo supporto legale e svolgendo controinformazione. Una delle campagne più conosciute dell’associazione riguarda proprio Federico Aldrovandi (#FedericoOvunque) ed è la risposta ai fatti del 1° dicembre 2017 quando, in occasione della partita tra Roma e Spal, ai tifosi ferraresi venne negata la possibilità di portare dentro lo stadio Olimpico una bandiera con il suo volto: “Questa cosa non è accaduta solo a Roma. Episodi analoghi si sono verificati a Genova, Napoli e hanno coinvolto i sostenitori della Spal e di molte altre squadre”, precisa Daniele Vecchi, giornalista e autore di “Federico Ovunque” (Red Star Press, 2020). Nei mesi successivi a Roma-Spal molte tifoserie sono state denunciate o multate per aver introdotto negli stadi l’immagine di Federico, un “contenuto provocatorio nei confronti delle forze dell’ordine”, come si legge nel comunicato di un giudice sportivo. Il movimento ultras, spesso descritto in maniera superficiale, ha preso subito a cuore la storia di Federico, come spiega Lino Aldrovandi: “Quel 25 settembre 2005, nel pomeriggio, allo stadio Paolo Mazza di Ferrara c’era l’incontro Spal- Ancona e qualcuno in seguito mi disse che all’interno, nella Curva Ovest (il tifo organizzato della Spal, ndr), non si faceva altro che parlare di quello che era successo la mattina in via Ippodromo. Nelle domeniche successive senza che li avessi mai contattati, ovunque andassero, cominciarono a chiedere verità e giustizia”. Per Aldrovandi le magliette e gli striscioni dedicati al figlio rappresentano “gesti puliti, semplici e rispettosi, che non inneggiano alla morte e a cui dovrebbero per assurdo unirsi anche gli stessi poliziotti, per un percorso di maturità che non si riesce ancora a intravedere”. Gesti che di provocatorio hanno ben poco, soprattutto se paragonati a iniziative che hanno scosso l’opinione pubblica come il lungo applauso al congresso nazionale di un sindacato di polizia per gli agenti condannati per l’uccisione di Federico o il sit-in, sempre a favore dei quattro, organizzato da un’altra associazione di categoria sotto il luogo di lavoro di Patrizia Moretti. La madre di Federico, oggi come sette anni fa quando decise di ritirare le querele contro chi offese lei e suo figlio, non vuole più saperne di queste persone. “Rispetto a diciassette anni fa vedo che tanti occhi si sono aperti, ma c’è chi continua a incolpare Federico”, segnala Moretti. “Sto pensando ai vari politici che prendevano posizione su casi come il mio, accusando le vittime di essere responsabili in qualche modo della loro morte. Non so se prendano certe posizioni per crearsi un personaggio o perché ci credono veramente, ma resta il fatto che quel tipo di atteggiamento non cambia neanche di fronte all’evidenza schiacciante. Per questo non voglio più parlare e mi sono sottratta al confronto con questa gente che voleva litigare con me. È tempo perso e serve solo a loro per farsi vedere, però lo fanno sulla pelle di mio figlio”. Secondo Noury il dibattito sulla condotta di chi ha il compito di tutelare la sicurezza della collettività deve tenere in considerazione alcuni fattori. “Abbiamo atteso 29 anni prima di avere nel 2017 una legge contro la tortura e stiamo ancora aspettando che vengano introdotti i codici identificativi per le forze di polizia in servizio di ordine pubblico. Siamo rimasti uno degli ultimi quattro Stati dell’Unione Europea a non averli. Quando le leggi non ci sono, questo produce comportamenti che possono violare i diritti umani. Va segnalato inoltre il fatto che per anni, in alcuni casi, si sia depistato e insabbiato, alimentando un clima di impunità”. Nel manifesto in dieci punti che Amnesty International Italia ha presentato ai leader e alle leader che competeranno alle prossime elezioni uno dei punti riguarda l’adeguamento dell’operato delle forze di polizia gli standard internazionali, dal rispetto delle norme sull’uso della forza alla cosiddetta “accountability”, cioè rendere conto pubblicamente delle proprie azioni in maniera aperta e trasparente. Su questi temi per il portavoce di Amnesty non si torna indietro eppure, constata, “vediamo che ci sono programmi elettorali in cui ad esempio si vuole rimettere mano a una legge sulla tortura che già è tutto meno che perfetta”. Patrizia Moretti, commentando su Twitter le recenti condanne per i depistaggi nel caso di Stefano Cucchi, ha affermato che in molti casi non è stata nemmeno sfiorata una “pienezza” di giustizia. “No, nel mio caso assolutamente no”, ribadisce: “Perché comunque c’era una chiusura a riccio di molte persone che si trovavano in posizioni di potere”. Alla domanda sul processo bis per i depistaggi e le omissioni sull’omicidio di Federico, conclusosi con la condanna in Cassazione di un solo poliziotto sui quattro coinvolti, Lino Aldrovandi risponde con un laconico “lasciamo perdere”. Le travagliate vicende giudiziarie e un’instancabile ricerca di giustizia hanno avvicinato le famiglie Aldrovandi e Cucchi. “Ilaria è molto simile a Patrizia, nel carattere e nella forza, specialmente nel non arrendersi alle ingiustizie”, dice Lino. “In un certo senso si sono date sostegno. Federico e Stefano in loro hanno trovato una mamma e una sorella immense, anche se non avrebbero voluto esserlo”. Tra le persone che hanno aiutato la famiglia Aldrovandi va citata Anne Marie Tsagueu, una donna originaria del Camerun con il permesso di soggiorno in scadenza che trovò la forza di fare la cosa giusta. “Diverse persone dicevano di aver visto o sentito qualcosa quella mattina, ma nel momento in cui si chiedeva loro di rendere una testimonianza ufficiale si tiravano indietro”, ricorda Patrizia Moretti. “Anne Marie Tsagueu, dopo aver parlato con il suo prete e un avvocato, è andata avanti in maniera decisa e io non ho visto nessun italiano che abita in quella zona comportarsi allo stesso modo. E pensare che mi ha chiesto anche scusa molte volte dicendo “se fossi intervenuta forse avrei potuto salvare Federico”, ma non poteva immaginare che l’esito di quel pestaggio sarebbe stato così drammatico. Era veramente terrorizzata e per questo motivo la sua testimonianza è stata molto importante. Nessuno ha avuto il coraggio della signora Anne Marie”. Quest’anno l’anniversario della morte di Federico Aldrovandi coinciderà con le elezioni politiche. “Credo che si siano perse molte occasioni per evitare che tragedie di questo tipo possano ripetersi, a partire da una legge sulla tortura parziale e insufficiente”, spiega Patrizia Moretti. “Non so che cosa sperare per il futuro, visto che in questi diciassette anni si sono avvicendati tutti i colori politici e purtroppo non è cambiato granché. Alla fine, il vero senso di giustizia che sentiamo e ci consola arriva dalla vicinanza delle persone che spesso sono migliori delle istituzioni che dovrebbero rappresentarle”. Giancarlo Siani, Cartabia lo ricorda a 37 anni dalla sua morte gnewsonline.it, 25 settembre 2022 “Una carriera troppo breve, ma in ogni momento nutrita da “ricerca, curiosità, approfondimento”, tre parole con cui Siani identificava l’essenza del giornalismo”. In occasione del 37esimo anniversario dell’uccisione di Giancarlo Siani, l’intervento della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, su Il Mattino, che oggi pubblica un volume dedicato alla memoria del proprio giornalista. La Ministra ricorda la centralità della libertà di informazione, definita dalla Corte Costituzionale “pietra angolare dell’ordinamento democratico” sin dalla sentenza n. 84 del 1969. L’esempio di Siani dimostra quanto sia importante un’informazione corretta e libera, specie oggi: “Se nel secolo scorso il nemico dell’informazione poteva essere la censura e, successivamente, la scarsa disponibilità dei mezzi di comunicazione, che mortificavano il pluralismo, oggi, a fronte della potenza delle nuove tecnologie, il peggior nemico è la disinformazione, in tutte le sue declinazioni”, evidenzia la Ministra. Proprio la minaccia delle fake news deve spingere i professionisti dell’informazione a diffondere notizie “secondo i canoni del rigore, nella verifica dei fatti, dell’approfondimento delle notizie, della sobrietà dei toni, della continenza”. Un passaggio sulla presunzione di innocenza, oggetto di una direttiva europea, “la cui attuazione quotidiana - voglio marcarlo - non deve tradirne lo spirito: una garanzia per chi è sottoposto a procedimento giudiziario, senza comprimere il diritto di cronaca e la libertà di stampa, pilastri imprescindibili di ogni democrazia, da difendere sempre”. Un’occasione per riflettere sui fronti ancora aperti, come la mancata attuazione della sentenza della Corte Costituzionale del luglio del 2021. La Consulta, infatti, “si è pronunciata per l’incostituzionalità della pena della reclusione per la diffamazione a mezzo stampa e sull’incompatibilità di tale previsione con l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”, che sancisce il diritto alla libertà di espressione. Perché i giornalisti - prosegue la Guardasigilli - sono “gli occhi di tutti noi”. Ivrea (To). La scure della prescrizione aleggia sulle botte ai detenuti di Giuseppe Legato La Stampa, 25 settembre 2022 Nel 2023 i reati contestati cadranno già per i primi episodi: sono trascorsi più di 7 anni e mezzo. Antigone sulle celle “lisce”: “La Corte europea ci ha già condannati e sono contro la Costituzione”. La premessa è d’obbligo: i reati al momento contestati dalla procura generale di Torino a 25 tra agenti, medici e detenuti del carcere di Ivrea accusati do botte e omissioni, sono ipotesi d’accusa. Non condanne. E se anche l’inchiesta dovesse superare il vaglio di un giudice all’udienza preliminare ci vorranno poi i processi a stabilire la fondatezza delle contestazioni. È però un calcolo semplicemente matematico a gettare un’ombra sulla fine di questa storia. Questione di date, di tempo trascorso, di prescrizione. Una mannaia che aleggia sulle lesioni che sarebbero state inferte dai secondini ad alcuni carcerati con manganelli, calci, pugni. Risalgono al biennio 2015/2016. La possibilità di condannare i presunti responsabili va in soffitta dopo 7 anni e mezzo. Proprio per questo la procura generale ha notificato gli inviti a comparire agli indagati: per interrompere il decorso dei termini. Ma sette anni e mezzo resta il limite massimo. E quindi male che vada nel 2023 la scure si abbatterà sui primi episodi. Ed è impensabile che in un anno e mezzo si concluda l’iter processuale anche solo di primo grado. “Siamo rimasti con un pugno di mosche in mano” dice adesso Simona Filippi di Antigone che tanto si è battuta perché si indagasse a fondo sulle presunte violenze nel carcere di Ivrea. “È per questo motivo che avevamo denunciato il blocco totale delle indagini negli anni scorsi, consapevoli come eravamo che il tempo non giocasse dalla parte della giustizia. Certo l’intervento della procura generale di Torino può comunque portare alla ricostruzione di una verità storica e questo non è poco”. In realtà dalle maglie della prescrizione - e sempre e solo in caso di condanna - si salveranno alcuni dei reati contestati agli indagati. E’ il caso del falso aggravato sulle relazioni di servizio che gli agenti - per l’accusa - avrebbero alterato: “È scivolato sul pavimento, ha sbattuto la testa volontariamente contro un pilastro dicendomi che ci avrebbe rovinato” si legge agli atti dell’inchiesta. Per gli inquirenti menzogne per nascondere i pestaggi. I termini sono di 12 anni e mezzo e dunque - in qualunque senso - si arriverà a un giudizio. Antigone accende anche un faro sulle cosiddette celle “lisce”, in gergo interno al carcere stanze spoglie di arredi (o con questi inchiodati per terra), rilevate durante l’ispezione del garante nazionale nel 2016. Ce n’è una anche a Ivrea. Sono locali che rientrano nelle celle cosiddette di isolamento destinati ad ospitare detenuti che hanno manifestato volontà suicide o ad altri che hanno subito una sanzione per comportamenti indisciplinati. A Ivrea ce n’è una. “Solo che lì dentro - spiega Filippi si possono condurre detenuti con specifici protocolli al vaglio della commissione interna, il trasloco temporaneo passa da una disposizione del direttore e nel caso di rischio di gesti autolesionistici si allega parere medico. Inoltre un sanitario dovrebbe visitare quotidianamente il detenuto. Tutto questo non avviene, gli ambienti sono degradanti e quindi non solo in contrasto con tutte le pronunce nel merito della Corte Europea ma anche coi basilari principi costituzionali”. Torino. Carcere delle Vallette, la direttrice: “Il sovraffollamento deve essere affrontato” di Martina Tartaglino La Repubblica, 25 settembre 2022 Intervista a Cosima Buccoliero. Il carcere di Torino sta provando a cambiare, ma il problema del sovraffollamento va affrontato, dice la direttrice del Lorusso e Cutugno da gennaio, Cosima Buccoliero. La direttrice, che sarà tra le ospiti della terza edizione di “Contemporanea. Parole e storie di donne” a Biella, parlerà domenica mattina della sua esperienza umana e professionale raccontata nel libro “Senza sbarre. Storia di un carcere aperto” (Einaudi). Lei è arrivata a Torino in un momento non semplice, in un carcere considerato da molti di difficile gestione... “Però Torino ha una grande tradizione di partecipazione della comunità e di grande apertura all’esterno. Quando sono arrivata a Milano nel 2000, l’istituto di Torino era considerato un faro perché aveva una serie di iniziative estremamente particolari che hanno prodotto molti risultati: il polo universitario, la comunità per tossicodipendenti, il progetto rugby, l’articolazione di salute mentale per i detenuti psichiatrici. È vero, negli ultimi tempi la struttura ha subìto delle grandi battute d’arresto, ma è stata dipinta peggio di quello che è. Ci stiamo rimboccando le maniche per controbattere alla narrazione che vuole il carcere di Torino come uno dei peggiori d’Italia: non lo è, assolutamente”. A oggi la popolazione carceraria si aggira sempre intorno alle 1.400 unità a fronte di una capienza di 1.098 posti? “Sì e questi sono i veri problemi, quelli che non sono mai stati risolti: il sovraffollamento e il numero troppo elevato di “circuiti”. La tipologia di utenza è estremamente eterogenea e c’è la compresenza di detenuti comuni insieme a quelli “alta sicurezza”, ai collaboratori, a quelli dell’articolazione di salute mentale. Ciò comporta un appesantimento della struttura organizzativa”. Un anno fa una detenuta ha partorito sua figlia tra le mura della Casa circondariale di Rebibbia. Non si può evitare che un neonato nasca in carcere, nel 2022? “Purtroppo alla questione non si dà l’attenzione che merita perché si tratta di numeri piccoli: a nessuno interessa del carcere, figuriamoci di una percentuale così esigua di donne che vive questo dramma”. Secondo lei il carcere deve tornare in centro? “La cosa migliore sarebbe che anche strutturalmente, fosse al centro della città e che tutti avessimo ben chiara la sua presenza. Come per San Vittore o com’erano le Nuove. Ormai la maggior parte degli istituti si trova fuori; sarebbe bene però che anche i programmi amministrativi tenessero conto del fatto che si tratta di quartieri della città. Oltre ai 1.400 detenuti, a Torino gravitano intorno al carcere, 800 unità di personale di polizia penitenziaria e 100 dipendenti del comparto funzioni centrali. Con tutto l’indotto si arriva intorno alle tremila persone: un piccolo comune. Non è possibile che che la città lo ignori. Si dovrebbero organizzare servizi adeguati, per esempio di mobilità e non solo. Parliamoci chiaro: nessuno di noi vuole avere a che fare col carcere. Tutti lo disprezziamo, pensiamo sia un posto dove stanno le persone che hanno sbagliato, che lo meritano, che più ci stanno meglio è”. Quando ha capito di volerci avere a che fare? “Abbastanza presto. Non c’è voluto molto perché mi rendessi conto che il diritto era una materia un po’ arida, ma era possibile coniugarlo con i diritti della persona e poter svolgere un ruolo di alto valore sociale”. Una direttrice è percepita meno capace di un direttore? “No. Sicuramente il carcere è un luogo declinato al maschile, con un numero molto alto di uomini che guardano le cose dal loro punto di vista. Non mi sono mai sentita meno o meno considerata perché donna”. Ha un pensiero ricorrente? “Incontrare i detenuti: mi sembra di non farlo mai abbastanza. Ricevo tante richieste di colloquio, quello di riuscire a soddisfarle tutte è il mio pensiero fisso, ma anche il più frustrante perché è difficile”. Crotone. Suicidio nel carcere, il Garante dei detenuti: “Sconfitta per uno Stato di Diritto” lanuovacalabria.it, 25 settembre 2022 Appresa la triste notizia del suicidio, avvenuto nella notte tra il 22 settembre ed il 23 settembre, presso la Casa Circondariale di Crotone, il Garante comunale dei diritti dei detenuti di Crotone Federico Ferraro si è recato nell’immediatezza presso la locale struttura detentiva per l’espletamento delle urgenti attività di acquisizione di informazioni circa il gravissimo accaduto, nonché si è proceduto alla ricostruzione del fatto e delle circostanze avvenute. Come previsto dalle norme regolamentari istitutive dell’Autorità territoriale di garanzia per la libertà personale, l’Avv. Ferraro ha provveduto all’assunzione di notizie ed al confronto con le autorità competenti: il Comando ed il personale di Polizia penitenziaria in servizio; nonché ha assunto informazioni mediante l’audizione di un detenuto informato sui fatti. Si attende con fiducia l’esito dell’accertamento dei fatti da parte dell’Autorità giudiziaria. “Il suicidio del un giovane 39 enne calabrese, nuovo giunto e soggetto all’esecuzione di misura cautelare in carcere, in attesa di definitivo, rappresenta una sconfitta per uno Stato di diritto” ha dichiarato Ferraro. Come da prassi, tempestiva è stata anche la segnalazione, da parte dal Garante Nazionale dei detenuti, attraverso il Presidente Mauro Palma, all’Autorità giudiziaria. Il garante comunale ha voluto esprimere un profondo cordoglio ai familiari della persona detenuta. “Questa tragedia ci ricorda ancora una volta l’insostenibile situazione dei detenuti affetti da fragilità e patologie psichiche che, a tutt’oggi non trovano adeguata cura e sistemazione in strutture sanitarie attrezzate ed adeguate. Permane - come sempre - la solita e vergognosa inadeguatezza dei servizi e delle strutture che rendono il nostro territorio sempre in dietro rispetto ai parametri nazionali. Duole sottolineare in questa sede che permangono le carenze di organico anche nel personale, e nonostante le nuove assunzione alla Casa Circondariale di Crotone non vi a tutt’oggi un direttore stabile bensì in missione e responsabile di più istituti di pena”. Il garante invierà nelle prossime ore apposita segnalazione di rammarico alle Autorità nazionali: al Ministro della Giustizia, al Capo del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, al Direttore del Provveditorato Regionale per l’Amministrazione Penitenziaria, al Ministro della Salute e solleciterà, nuovamente, il Presidente della Regione Calabria in funzione di Commissario Regionale alla Sanità per il rinnovo di avviamento di strutture sanitarie adeguate nella nostra regione per detenuti affetti da fragilità e/o patologie psichiche “Quante vittime ci vorranno prima di vedere strutture sanitarie attive ed adeguate per i cittadini liberi ed anche per le persone sottoposte a restrizioni della libertà personale?” Viterbo. Muore di tumore detenuto in regime di 41bis, 10 medici davanti al gip viterbonews24.it, 25 settembre 2022 Secondo la procura, all’uomo non sarebbe stato diagnosticato in tempo un tumore e, per questo, non gli sarebbero state riservate le giuste cure. Una malattia che non gli avrebbe lasciato scampo e per cui ora, dieci medici devono presentarsi di fronte al giudice per le indagini preliminari, Rita Cialoni. Medici in forza al penitenziario di Strada S. Salvatore e alla Asl viterbese, a cui si va ad aggiungere anche la direttrice del carcere, Teresa Mascolo, formalmente nella lista degli indagati. L’uomo, detenuto nel circuito di massimo sicurezza, in regime di 41 bis, era rinchiuso a Mammagialla in isolamento e costantemente sorvegliato dalla polizia. Poi la malattia e la morte. Improvvisa. Secondo una prima ipotesi accusatoria, i medici non avrebbero somministrato in tempo le necessarie cure contro il tumore che affliggeva l’uomo. Dunque le indagini e la loro convocazione in tribunale. Ma ora la Procura sembra compiere un passo indietro: non ci sarebbero elementi sufficienti per procedere contro di loro e così il pubblico ministero Fabrizio D’Arma, ieri, ha chiesto l’archiviazione di tutte le posizioni. Il Gip si è riservato: bisognerà attendere ancora qualche giorno per conoscere la sua decisione. Santa Maria Capua Vetere. Detenuto aggredisce Garante nazionale durante la visita in carcere Corriere del Mezzogiorno, 25 settembre 2022 È stato aggredito da un detenuto del reparto psichiatrico del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) il garante nazionale Mauro Palma, che il 22 settembre scorso ha fatto visita all’istituto carcerario casertano per incontrare e parlare con i detenuti; solo l’intervento dei poliziotti penitenziari ha impedito che Palma subisse conseguenze ulteriori. Palma ha comunque proseguito la sua visita. È stato il sindacato della polizia penitenziaria Osapp (Organizzazione sindacale autonoma di Polizia penitenziaria) a denunciare per primo l’accaduto, appreso “in base a notizie avute in modo del tutto informale”, ma poi dall’ufficio del garante è arrivata la conferma, peraltro senza enfatizzare l’accaduto. Daniela De Robert Marabotto, componente del Collegio dell’Autorità Garante, spiega che “il detenuto si è scagliato contro il garante Mauro Palma ma l’aggressione è stata contenuta e non ha avuto conseguenze rilevanti. Sono cose gravi ma sappiamo anche che possono capitare in un carcere; il garante incontra tutti faccia a faccia, come è ovvio che sia. Dopo l’episodio il garante ha proseguito la visita nell’istituto”. Sul fatto non sono state presentate denunce, anche se è probabile che il detenuto sarà sottoposto a procedimento disciplinare. Critico il sindacato Osapp. “Neanche il Garante per le persone private della libertà - spiega una nota della sigla della polizia penitenziaria - è rimasto immune dalle oramai frequentissime aggressioni”. Milano. “Così aiuto la vita di fede in carcere” di Luisa Bove chiesadimilano.it, 25 settembre 2022 La salesiana suor Anna Condò tutti i giorni si reca alla Casa di reclusione di Bollate, assistendo i detenuti nelle loro necessità materiali, ma favorendo anche percorsi di preghiera e spiritualità. L’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, fondato da san Giovanni Bosco, festeggia in questi giorni a Roma i suoi 150 anni con un convegno internazionale dal 25 al 30 settembre dal titolo “Percorsi, sfide e prospettive”. È un ritorno alle origini, quello che sta vivendo suor Anna Condò, salesiana della comunità milanese di via Bonvesin della Riva che conta 37 religiose, quasi tutte impegnate in ambito educativo nelle scuole di ogni ordine e grado. Mentre suor Alessandra Pezzi - oltre a insegnare -, si reca due volte alla settimana a San Vittore e una terza religiosa invece visita i carcerati a Pavia, suor Anna entra tutti i giorni nella casa di reclusione di Bollate per incontrare i detenuti. Qual è la sua esperienza tra i reclusi? Da tre anni frequento cinque degli otto reparti, sia maschili, sia femminili, insieme al cappellano don Fabio Fossati. Facciamo accompagnamento, ascolto, teniamo i contatti con gli avvocati e le famiglie dei detenuti, poi ci occupiamo anche di aspetti pratici. Quando hanno bisogno di qualcosa, siamo noi il ponte tra “dentro” e “fuori”. Insomma, cerchiamo di rendere più semplice la vita che in carcere è complicata e molto faticosa, perché ogni domanda richiede tempi di attesa infiniti, così cerchiamo di alleviare questa brutta sensazione. E rispetto ai cammini di fede? Teniamo incontri di catechesi e celebrazioni e nei “tempi forti” proponiamo gli esercizi spirituali ai detenuti: si tratta di tre-giorni che si svolgono all’interno, nel teatro, e a cui possono partecipare le persone interessate. Sabato scorso, per esempio, abbiamo avuto la preghiera ecumenica, con la partecipazione di una sessantina di reclusi dei vari reparti, autorizzati dalla direzione. A Bollate sono rappresentate un po’ tutte le religioni: cattolici, ortodossi, protestanti, evangelici, musulmani, buddhisti… Poi ci sono alcune persone che vengono in carcere per accompagnare il percorso spirituale dei detenuti appartenenti alle varie confessioni. Quando presta servizio in carcere? Io dedico molto tempo all’ascolto. Entro tutti i giorni della settimana, dal lunedì al venerdì, fino all’ora di pranzo; spesso vado anche il sabato pomeriggio per la catechesi e a volte partecipo alla Messa della domenica. Nel pomeriggio mi dedico a soddisfare le loro richieste: per esempio porto ad aggiustare orologi e occhiali, gesti molto banali, ma che per i detenuti sono importanti, perché molti non hanno nessuno fuori. Come si concilia l’attenzione ai detenuti con la spiritualità salesiana, più orientata all’educazione? Intanto a Bollate molti sono giovani tra i 20 e i 30 anni che hanno sbagliato percorso o smarrito la meta. Però l’esperienza iniziale di don Bosco è stata quella di accompagnare don Cafasso, il prete della forca a Torino, che andava a visitare i condannati a morte. Quindi don Bosco entrava in carcere, aveva addirittura ottenuto dal direttore delle Vallette di portar fuori un gruppo di detenuti, promettendo che li avrebbe fatti rientrare tutti. Per l’affetto che avevano nei suoi confronti la sera sono tornati. Un fatto impensabile per quell’epoca. E poi? Don Bosco provava dolore nel vedere i giovani con la vita ormai segnata. Così decise di “inventare” il metodo preventivo perché altri ragazzi non arrivassero a quel punto. Diceva infatti: “È molto più facile aiutare un giovane prima che arrivi a vivere certe esperienze, piuttosto che recuperarlo dopo”. Stiamo quindi vivendo la prima stagione di don Bosco in carcere. Purtroppo a Bollate ci sono anche ex allievi salesiani, sia nei reparti maschili, sia in quelli femminili. Io ne ho già conosciuti almeno una decina che hanno frequentato le scuole salesiane. A loro cosa dice? È l’occasione per riallacciare il discorso: quando parlo di don Bosco si “illuminano”. Cerco almeno di riaccendere una fiammella che ardeva in loro negli anni in cui sono stati nelle case salesiane. Poi l’hanno spenta, persa. Però dico loro che don Bosco ha promesso che avrebbe protetto per sempre ogni ragazzo che entrava in una sua casa. Per questo, dialogando con loro, risveglio la consapevolezza che don Bosco li ama anche adesso che sono smarriti e stanno soffrendo per gli errori commessi. Poi cerco quel “giovane” che si nasconde anche in una persona adulta e vicina alla disperazione, ma che un tempo aveva sogni e speranze, perché l’amore di Dio non viene meno in nessuna delle condizioni in cui viviamo. Milano. Lo spettacolo di teatro dei detenuti del carcere di Bollate incanta il pubblico milanotoday.it, 25 settembre 2022 Il direttore del carcere: “La serata è stata un momento simbolico fortemente evocativo del rilancio del nostro modello detentivo di integrazione col territorio e della condivisione di obiettivi istituzionali col Tribunale di Sorveglianza di Milano”. Ben 14 attori e un tecnico, tutti detenuti presso il carcere milanese di Bollate. Sono stati loro i protagonisti di “Ci avete rotto il Caos”, lo spettacolo, andato in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano giovedì sera, organizzato dalla Compagnia “Articolo 27 - Figli di Estia”, finanziato dal Comune di Milano. I 15 detenuti impegnati, di cui otto in permesso di necessità, quattro con la variazione del programma Articolo 21, più due ex detenuti e un semi-libero, coordinati dalla cooperativa “Le Crisalidi”, hanno messo in scena uno spettacolo che ha offerto spunti di riflessione su un tema di stretta attualità, il bullismo. Sul palco, infatti, è stato rappresentato il disagio giovanile che sfocia spesso in dinamiche sociali pericolose. Giorgio Leggieri, direttore del carcere di Bollate, ha spiegato che “la serata è stata un momento simbolico fortemente evocativo del rilancio del nostro modello detentivo di integrazione col territorio e della condivisione di obiettivi istituzionali col Tribunale di Sorveglianza di Milano”. L’iniziativa ha fatto seguito al primo evento pubblico esterno, post-pandemico, andato in scena in agosto al Castello Sforzesco, che ha segnato il rilancio delle iniziative del carcere di Bollate. La scelta della direzione della seconda Casa di Reclusione di Milano di realizzare lo spettacolo in alcuni luoghi simbolo della città - osservano i responsabili della struttura - persegue l’obiettivo di alimentare e rafforzare quel processo di integrazione col territorio che da anni rappresenta l’essenza del suo approccio innovativo. “Questo è possibile - spiegano gli organizzatori - grazie anche al prezioso supporto e alla condivisione di obiettivi istituzionali con il Tribunale di Sorveglianza di Milano, rappresentato in sala dal presidente, Giovanna Di Rosa”. Nei prossimi giorni, il 25 e il 26 settembre, sarà possibile vedere lo spettacolo al Piccolo Teatro Studio Melato. Palermo. Inclusione e musica, si chiude il progetto “La vita è sogno e il sogno è realtà” palermotoday.it, 25 settembre 2022 Nel Centro Polivalente Padre Pino Puglisi e M. Kolbe di Brancaccio. Un percorso di inclusione sociale organizzato dall’associazione “Arte senza fine”, con il sostegno del ministero della Cultura, del Comune di Palermo e della Città metropolitana di Palermo. Si concluderà alle 20.40 di domenica 25 settembre, nel Centro polivalente Padre Pino Puglisi e Massimiliano Kolbe di Brancaccio, con lo spettacolo corale conclusivo “La vita è sogno e il sogno è realtà”, il progetto d’inclusione sociale e valorizzazione delle periferie di Palermo organizzato dall’associazione “Arte senza fine”, con il sostegno del ministero della Cultura, del Comune di Palermo e della Città metropolitana di Palermo, che Aida Satta Flores ha dedicato al sogno del beato Padre Pino Puglisi di una vita “altra” da certe cattive esistenze umane. Il terzo appuntamento di questo percorso, che ha coinvolto numerosi artisti palermitani e associazioni anche nei workshop tenuti nei quartieri Brancaccio, Cardillo, Roccella/Settecannoli, Zen/Marinella e a Carini - con ragazzi, donne e bimbi vittime di violenza domestica, detenuti ed ex detenuti tossicodipendenti - si terrà in occasione della “Giornata mondiale del sogno” che ricorre proprio domenica 25 settembre. Insieme agli artisti si esibiranno gli utenti delle associazioni “Centro Padre nostro”, “Life & life” e “Nuovo giorno” che hanno preso parte ai laboratori. Al concerto che domani sera Aida Satta Flores terrà con la sua band parteciperanno Salvo Piparo e Angelo Sicilia che presenteranno i loro inediti lavori, cunti e opera dei pupi; il gruppo vocale dei Gate4 con nuove sonorità su storiche canzoni di Aida, quali “Qui la mafia non c’è”, prodotta dai Nomadi nel 1992; Mariano Tarsilla con l’esecuzione corale di “Moru”, che l’artista scrisse dedicandola proprio a Padre Pino Puglisi. Gran finale con la Fanfara del XII Reggimento Carabinieri di Sicilia, diretta dal maestro Paolo Mario Sena. Lunga è la lista degli artisti che hanno aderito al progetto, curando i workshop ed esibendosi negli spettacoli, singoli e insieme. In ordine alfabetico: Aida Satta Flores, Alessandro Valenza, Angelo Sicilia, Davide Rizzuto, Fabrizio Francoforte, Gate4, Lorenzo Profita, Mario Tarsilla, Rary Milani, Roberta Scacciaferro, Salvo Piparo, Teodolindo Edmondo Negri. L’ingresso allo spettacolo sarà libero. È finita la recita di Enrico Sbriglia L’Opinione, 25 settembre 2022 Ancora poco, ormai qualche ora e la pantomima terminerà. Quanti vinceranno le elezioni dovranno mostrare le carte e non ci saranno più scuse. Se per davvero dovesse spuntarla Giorgia Meloni, così come i sondaggi più recenti avrebbero accreditato, assisteremo, ne sono certo, a una mutazione della destra che, da posizioni verbalmente radicali - sempre facili allorquando si tratti di esprimere critiche a qualunque Esecutivo - transiterà nelle acque insidiose e difficili del Governo e dell’amministrazione della complessità. La storia della destra, in particolare quella post-monarchica, in verità, non è fatta di soli urlatori e di passi marziali, anzi. Avendone fatto parte per diversi decenni, pur essendo portatore di un’idea non poche volte in conflitto con le visioni più ortodosse, spesso mi sono trovato accanto teste brillanti, donne e uomini che credevano nel diritto e nei principi di legalità, che lottavano per il bene comune, che odiavano ogni discriminazione, per troppi anni da loro stessi patita. Molti di quei nomi sono ancora presenti, seppure la loro voce appaia silenziata, ma sono i rituali elettorali… belli! Rituali che impongono il silenzio delle parole che non corrisponde al fermo della mente. D’altronde, la stessa figura di Giorgia Meloni, sfrondata dagli aspetti folcloristici della propaganda che pure deve capeggiare, è donna, libera, autonoma, con la sua personalità che nulla concede al maschio Alfa. Ormai da anni sono convinto che il futuro, quello che non sia di guerre ma di ragionevolezza, che sia di umanità e non di egoismo a senso unico, che sia d’intelligenza e di caparbietà, vesta nella maggior parte dei casi abiti mentali al femminile. E la cosa, in verità, non mi disturba. Con il ricordo antropologico di chi osservi la storia dell’uomo, o meglio della persona umana, non può che richiamarmi l’icona universale della Madre Terra, del riconoscimento ancestrale che il nuovo e la vita siano sempre stati una prerogativa esclusivamente al femminile. L’Italia si troverà innanzi a scelte straordinarie, altro che Pnrr. Qui si tratta di vita o di morte, di vita o di morte delle Democrazie e dei suoi tanti, anche talvolta contraddittori, modelli. Ma sempre meglio del pensiero unico e dei ministeri della morale o della verità. Penso che neanche Samuel Philips Huntington sarebbe giunto a immaginare quel che sta accadendo, pur avendo lui scritto sullo scontro di civiltà e di quello che poteva essere un nuovo ordine mondiale. Qui non si fronteggiano filosofie di vita, religioni abramitiche o orientali, animiste o protestanti. No, qui si fronteggiano due modi di vedere il cittadino e i suoi diritti. Lo scontro è tra democrazie e autocrazie, tra forme di libertà e di tirannia, quest’ultime molto più rozze e violente, perché rivolte a intere comunità, rispetto a quelle che la tradizione greca ci ha tramandato. Fa sorridere, e pure vergognare, che i problemi percepiti (orientando in tal modo l’elettorato) siano quelli del maggiore o minore uso dei condizionatori d’aria, o della riduzione delle temperature nelle nostre case e l’essere costretti a riesumare maglioni di lana e calzari più pesanti: tutto questo fa sorridere perché grottesco. Perché non lo chiedete, in Ucraina, a quanti stanno combattendo e morendo anche per le nostre libertà? Perché non lo chiedete alle madri che non riescono più a sfamare neanche con gli alimenti per cani i loro bambini oppure a quei medici, in ospedali di fortuna, che sono costretti ad operare senza disporre di galenici e strumenti tecnologici adeguati, semmai su corpi devastati da bombe a grappolo e da mitragliate? Possibile che non lo si comprenda? Finalmente, però, Vladimir Putin lo ha detto: è in guerra con l’Occidente e tutte le sue culture. Peccato che nella sua guerra abbia coinvolto anche il popolo russo, quel popolo di Gogol, Fëdor Dostoevskij, Lev Tolstoj, Aleksandr Solzenicyn, Anna Politkovskaja, al quale dovremmo già da ora dedicare la massima attenzione e solidarietà. È su queste tematiche che il nuovo Governo italiano dovrà cimentarsi, tutto il resto è nulla. L’Esecutivo di casa nostra e quelli sia europei che transatlantici dovranno al più presto escogitare una exit strategy, perché più Putin sentirà minacciato il suo regno dispotico e oligarchico, più sarà spinto a eccessi che potrebbero essere fatali per tutti. È evidente che lui non rappresenti, da tempo, la migliore gioventù russa e il popolo in genere. Proprio per questo sarà più pericoloso. Certamente, ha compreso che lo si vuole portare innanzi a delle Corti internazionali di giustizia per quel che ha fatto e determinato. Ma forse, al contrario, in un’ottica di riduzione del danno, occorrerebbe cominciare a pensare a un salvacondotto per lui e per quella cerchia di complici che ha, proprio al fine di evitare il peggio e per la difficoltà di gestire il “dopo”. Le conseguenze che abbiamo patito e che ancora paghiamo come terrorismo diffuso, per la morte di Muammar Gheddafi e Saddam Hussein, dovrebbero indurci a ragionamenti anche apparentemente in contrasto con quei principi di giustizia ai quali pure vorremmo orientarci. Insomma, è tempo di scelte e decisioni difficili e tra poco anche il nostro Paese sarà chiamato a esprimersi con chiarezza, senza più alcun alibi di un Governo tecnico e senza dover raccontare di barconi, aborto, lockdown e Covid, di Ius scholae o Ius sanguinis, di ponti che crollano e di furbi che ridono, di potere giudiziario e di contro-potere giudiziario. Non si dovranno neanche più agitare crocifissi, non perché le tematiche alle quali ho accennato siano state positivamente affrontate e risolte, ma perché i problemi ancora più seri, mentre guardiamo dalle nostre finestre, stanno invece per precipitare sui nostri tetti. Altro che mance elettorali, altro che promettere tutto a tutti, altro che lo Stato come un grande bancomat! Buona fortuna a chiunque vincerà le elezioni, dunque. E buona fortuna pure a noi tutti, perché prevalgano ragionevolezza e serietà. Online siamo meno onesti e più aggressivi. E nel metaverso andrà peggio di Emanuele Capone La Repubblica, 25 settembre 2022 Una ricerca di IIT in collaborazione con La Sapienza dimostra che meno ci sentiamo rappresentati dai nostri avatar, più siamo disposti a fare scelte moralmente discutibili. Su Internet siamo abituati a comportarci peggio che nel mondo reale, a scrivere cose che non diremmo mai, pure a mentire e magari a fingerci chi non siamo: non è una novità, è così più o meno da sempre, ancora di più dall’arrivo di Facebook e degli altri social network. L’espressione leone da tastiera è stata creata proprio per descrivere questo tipo di atteggiamenti. La novità è che nel metaverso (cos’è?), e in generale nei mondi virtuali, la situazione non solo non migliorerà ma probabilmente peggiorerà, a meno di non prendere alcune contromisure. Che è una cosa che un po’ si poteva immaginare, ma che ora è dimostrata da uno studio condotto dall’Istituto italiano di Tecnologia in collaborazione con l’Università Sapienza e la Fondazione Santa Lucia, i cui risultati sono stati pubblicati su iScience (qui). Più disonesti nel metaverso - Per capirlo, il team di ricerca Neuroscience & Society di IIT, guidato da Salvatore Maria Aglioti, ha condotto un esperimento semplice ma significativo: ha sviluppato un videogame in ambiente virtuale in cui i vari partecipanti dovevano sfidarsi a coppie in una partita a carte per vincere denaro reale. Secondo il regolamento, il primo giocatore doveva pescare una tra due carte coperte, sapendo che una determinava la vittoria e l’altra la sconfitta. Il punto è che la carta pescata veniva però mostrata solo al secondo giocatore (al suo avatar, cioè), che poteva eventualmente decidere di mentire e favorire se stesso, consapevole del fatto che nessuno lo avrebbe scoperto se avesse deciso di barare. L’altro punto determinante è che il secondo giocatore portava avanti il gioco a diversi livelli di immedesimazione con l’avatar da lui controllato, che di volta in volta era via via più realistico: l’idea era di variare il cosiddetto senso di appartenenza del corpo (in inglese, sense of body ownership), creando un legame più o meno forte con la versione virtuale di sé, per capire se questo influenzasse le scelte. Cosa che in effetti è successa: da quel che è emerso, la diminuzione del senso di appartenenza del corpo è associato a scelte più egoistiche e scorrette, che aumentano con il crescere della posta in gioco. In parole povere: meno il nostro avatar è realistico, meno ci sentiamo rappresentati da lui e più siamo disposti a fare scelte moralmente discutibili. Come fare per migliorare e perché è importante - Oltre a far emergere il problema, lo studio ne ha svelato implicitamente anche la soluzione: se la questione è legata alla SOO, cioè alla capacità di immedesimarsi nell’alter ego digitale, è evidente che “per diminuire i comportamenti disonesti nei futuri mondi virtuali, si potrebbe pensare a sistemi che aumentino il nostro senso di appartenenza corporea, implementando interventi grafici e tecnologici sui dispositivi di realtà virtuale di maggior utilizzo”, come spiegato da Aglioti. Quello tecnologico è un ostacolo di cui sono ben consapevoli anche in Meta, che fra le aziende è decisamente quella più impegnata nella costruzione del metaverso: dopo le tante critiche ricevute per la (scarsa) qualità grafica degli avatar che stanno popolando Horizon Worlds, lo stesso Zuckerberg ha annunciato che “possiamo fare molto di più, e cresceremo presto”. Leggendo lo studio di IIT, si capisce che non è solo una questione estetica: la ricercatrice Marina Scattolin ha ricordato che “i risultati sono particolarmente rilevanti in questo momento storico, in cui si osserva la trasposizione online di molte attività di tipo quotidiano come riunioni, discussioni di tesi, svolgimenti di esami e colloqui di lavoro (e pure terapie mediche, ndr)” e appunto che “la comprensione di come il nostro comportamento potrebbe cambiare in contesti di telepresenza o all’interno del metaverso o di altri mondi ricostruiti digitalmente è di fondamentale importanza per la vita sociale”. Insomma: se davvero, entro la prossima decina d’anni, gli ambienti virtuali prenderanno il posto di Internet come la conosciamo e conquisteranno una fetta sempre più ampia delle nostre vite, è fondamentale già da ora che siano costruiti bene e che siano più realistici possibile. Così da ricordare a chi li frequenta che quelli che ha intorno sembrano personaggi di The Sims, ma sono persone vere. Libano. Apartheid per i profughi palestinesi di Michele Giorgio Il Manifesto, 25 settembre 2022 Dopo 74 anni la condizione dei rifugiati della Nakba nel paese dei cedri resta molto difficile. Ai palestinesi è vietato di svolgere qualsiasi attività fuori dai loro 12 campi e non hanno alcun tipo di assistenza oltre a quella dell’Unrwa. Mentre Israele nega loro il diritto al ritorno nella terra d’origine. Ali Hamdan osserva la figlia Nabila che muove veloce il plettro tre le corde dell’oud. Le note sono quelle di un motivo della tradizione palestinese, della zona di Giaffa da dove il suo bisnonno giunse a Beirut da profugo, assieme ad altre migliaia di civili, nel 1948. Nabila studia da poco lo strumento ma già mostra del talento e Ali non nasconde l’orgoglio di padre. E così la madre, Reem, con il viso segnato dalla stanchezza e dalla povertà. Vivere nel campo profughi di Shatila fa invecchiare prima. Ci si sveglia ogni mattina pensando a come procurarsi qualche dollaro per sopravvivere, un’impresa ancora più ardua da qualche anno viste le condizioni economiche disastrose in cui è precipitato il Libano. “Ho imparato queste poche cose, non so suonare altro”, ammette Nabila arrossendo. L’applauso dei genitori e degli ospiti stranieri la rincuora. La ragazza dà uno sguardo alla nonna che giace nel letto accanto a lei, silenziosa e con gli occhi chiusi. È malata, non riesce più a camminare. “Dovrei farla ricoverare ma l’ospedale costa troppo. Non abbiamo l’assistenza sanitaria in Libano. L’Unrwa (l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi, ndr) può coprire solo una piccola parte delle spese e a noi palestinesi non è permesso lavorare fuori dal campo”, ci dice Ali. Fino a un paio d’anni fa Ali faceva il pasticciere. “Riuscivamo a tirare avanti senza tanti affanni, poi il proprietario ha dato il negozio a un profugo siriano e ho perduto il lavoro” racconta. “Parecchi dei palestinesi che hanno proprietà a Shatila” aggiunge “hanno scelto di affittare la loro bottega, è una entrata mensile sicura perché i siriani ricevono i sussidi dell’Onu e sono giunti qui con i loro risparmi. Per la stessa ragione, tanti palestinesi hanno affittato le loro case”. È una contesa tra profughi di guerre del passato e più recenti, da cui quelli palestinesi comunque escono in parte perdenti. Da un lato incassano piccole rendite che permettono di sopravvivere, dall’altro ingoiano amaro perché dopo decenni trascorsi in Libano restano fuori dal mercato ufficiale del lavoro e devono fare i conti con la perenne ostilità di una larga parte della popolazione libanese e delle forze politiche locali. Non che i siriani siano trattati con rispetto ma almeno possono muoversi con maggiore libertà e trovare occupazioni a nero in vari settori. E, comunque, agli occhi dei libanesi un giorno torneranno nel loro paese. I palestinesi invece, con Israele che nega loro il diritto al ritorno, sono guardati con grande diffidenza. Restano ospiti sgraditi da tenere segregati nei loro 12 campi ufficiali che non possono espandersi. “Sono ormai quattro le generazioni di palestinesi in questo paese, per loro però non è cambiato nulla in questi decenni” ci conferma Sari Hanafi, docente di sociologia e attivista dei diritti dei palestinesi in Libano, che incontriamo all’Università americana di Beirut. “Le discriminazioni - dice Hanafi - sono evidenti e, purtroppo, ritenute legittime da tanti libanesi. Pesa anche il passato, la sanguinosa guerra civile libanese che ha visto i palestinesi far parte di uno degli schieramenti contrapposti, quello delle forze progressiste musulmane e druse. I libanesi a parole dicono di aver elaborato, digerita e dimenticata per sempre la guerra civile ma la realtà è ben diversa. E i palestinesi pagano ancora il loro conto”. Durante le campagne elettorali - inclusa quella per le legislative dello scorso marzo - il tema dei profughi, palestinesi e siriani, da rimandare a casa è sempre prioritario. Non pochi candidati agitano lo spettro della “naturalizzazione” dei profughi palestinesi che, se realizzata, porterebbe la comunità musulmana sunnita a crescere di centinaia di migliaia di individui, alterando gli equilibri settari che paralizzano il Libano. Numeri che tuttavia non hanno riscontro nella realtà. Nel 2017, un censimento del governo libanese contava 174.000 palestinesi in Libano, ben sotto gli oltre 400mila profughi registrati dall’Unrwa. Nei 74 anni trascorsi dalla Nakba e dall’espulsione dalla loro terra, tanti palestinesi hanno abbandonato il Libano cercando di rifarsi una vita altrove. In particolare dopo il 1982 quando l’Olp di Yasser Arafat fu costretta ad uscire dal paese invaso dall’esercito israeliano e anche a causa del massacro di migliaia di profughi a Sabra e Shatila compiuto dai Falangisti. “In questi ultimi anni - spiega Sari Hanafi - alcuni ministri libanesi hanno provato ad eliminare le restrizioni che impediscono ai palestinesi di svolgere decine di lavori e varie professioni ma sono tutti naufragati”. Nel 2019 il ministro del lavoro Camille Abousleiman ha ribadito che i palestinesi sono stranieri in Libano nonostante la loro presenza di lunga data. Un palestinese in Libano non può acquistare proprietà e pur laureandosi in una università libanese può svolgere la sua professione solo all’interno del campo in cui risiede. Ogni anno le autorità di Beirut concedono o rinnovano decine di migliaia di permessi di lavoro a persone provenienti dall’Africa, dall’Asia e da altri paesi arabi. Solo poche centinaia sono offerte ai palestinesi. Il tasso di disoccupazione ufficiale nei campi è del 18% ma tra i giovani di età compresa tra 20 e 29 anni è del 28,5%. E comunque i lavori sono sempre a basso reddito. I più coraggiosi lavorano a nero fuori dal campo, sfidando i controlli delle autorità, facendo le pulizie nei palazzi dei libanesi ricchi o i muratori nei cantieri. “I profughi palestinesi” commenta Kassem Aina, direttore dell’associazione Beit Atfal al Sumud “non smetteranno mai di chiedere di tornare nella terra di Palestina, perché solo in un loro Stato indipendente potranno vivere una vita libera e dignitosa”. Proteste in Iran: almeno 54 morti. Un’altra ventenne uccisa in strada di Viviana Mazza Corriere della Sera, 25 settembre 2022 Ottavo giorno di manifestazioni per la giovane malvelata seppellita sabato scorso nel Kurdistan. In manette la giornalista che per prima denunciò la morte di Mahsa Amini. Sono 41 secondo le autorità - tra cui civili e agenti delle forze di sicurezza - mentre sono almeno 54 secondo gli attivisti ma potrebbero essere molti di più i morti nelle proteste per Mahsa Amini, la ragazza finita in coma mentre si trovava sotto custodia della polizia di Teheran perché “mal velata”. Le vittime identificate finora dalla Ong “Iran Human Rights”, con sede a Oslo, sono localizzate soprattutto del Nord, in province come Mazandaran, Gilan, l’Azerbaigian occidentale, il Kurdistan dov’era nata Amini. “I cadaveri vengono restituiti alle famiglie dietro promessa di seppellirli in segreto”. Le vittime - Ventitrè anni, uno in più di Mahsa Amini, Hananeh Kian sarebbe stata uccisa dalle forze di sicurezza a Nowshahr, 50 mila abitanti nella provincia di Mazandaran, mercoledì sera. “Tornava da un appuntamento dal dentista”, ha detto la famiglia al sito Iranwire. Quella notte ci sono stati scontri tra manifestanti e agenti, auto della polizia date alle fiamme. A Rezvan Shah, dodicimila abitanti nella provincia di Gilan, gli agenti avrebbero sparato e ucciso almeno sei persone, secondo Iran Human Rights: uno di loro si chiamava Yassin Jamalzadeh, aveva due figli. Secondo Amnesty International, tra i morti ci sono 4 minorenni. Internet e politica - Kayhan, il quotidiano vicino alla Guida suprema Ali Khamenei, definisce “estremisti” i giovani manifestanti. Il presidente Ebrahim Raisi, appena tornato da New York, dichiara che i “nemici” cercano di “creare il caos” con proteste “organizzate”. Le autorità confermano di aver bloccato Internet e definiscono “un atto ostile” la decisione degli Stati Uniti di allentare le sanzioni sul web per aiutare gli iraniani ad evadere la censura. Elon Musk ha replicato ad un tweet del segretario di Stato Antony Blinken scrivendo: “Attiviamo Starlink”. Il regime intanto usa Telegram per invitare a identificare i partecipanti alle proteste. Tredici anni dopo - Il principale partito riformista, vicino all’ex presidente Mohammad Khatami, ha fatto appello ieri alle autorità di porre fine all’obbligo del velo e alla polizia della moralità. Uno dei leader del Movimento Verde del 2009, Mehdi Karroubi, già presidente del Parlamento iraniano, ha chiesto la stessa cosa a luglio, dopo l’arresto di un’altra ragazza, Sepideh Rashnu, “mal velata” sul bus, picchiata e costretta a “confessare” le sue colpe in tv. Si dibatté dell’abolizione della polizia della moralità anche nel lontano 2009 e poi non venne fatto, ma poco importa ai ragazzi oggi in piazza. C’è chi canta “Bella ciao” in farsi, come si faceva allora, ma nessuno chiede più riforme. C’è una nuova generazione arrabbiata, che brucia l’hijab e le auto della polizia, e sorprende anche gli attivisti della generazione precedente. I video delle proteste che continuano a emergere (anche se in numero minore e a rilento) mostrano gli agenti sparare sui manifestanti, ma i giovani sono tornati in piazza affrontando proiettili, lacrimogeni e arresti anche a Babol e Amol, nella provincia di Mazandaran, il giorno dopo l’uccisione di decine di manifestanti. Un altro elemento, osserva Mahmood Amiry-Moghaddam di “Iran Human Rights”, pare essere il morale basso degli agenti della sicurezza. In alcuni video li si vede mentre decidono di ritirarsi. A Teheran, nella notte di venerdì, la folla esultava dopo averli respinti. Nonostante ieri fosse il primo giorno dell’anno accademico, diverse università di Teheran hanno annunciato che la prima settimana di lezioni si terrà in remoto. Arresti “preventivi” - Le autorità cercano di soffocare la protesta con arresti “preventivi”, una politica confermata dallo stesso capo della magistratura Gholamhossein Mohseni Ejei: in carcere sono finite anche Narges Hosseini, una delle “ragazze di via Rivoluzione” (che nel 2018 protestarono contro il velo), e Niloufar Hamedi, la giornalista del quotidiano Shargh che per prima ha scritto di Mahsa Amini. Gli arresti sono centinaia: 739 tra cui 60 donne solo nella provincia di Gilan; in totale almeno 600 curdi, di cui 100 identificati dalla ong “Hengaw”. È possibile che parte della città di Oshnavieh, 40 mila abitanti soprattutto curdi, al confine con l’Iraq, sia finita nelle mani dei manifestanti dopo la ritirata della polizia, ma sono stati inviati i Guardiani della rivoluzione per riprendere il controllo. Mentre le proteste si estendono a Erbil, nel Kurdistan iracheno, con lo slogan chiave di questi giorni “Donne, vita, libertà”, sempre i Pasdaran avvertono di aver colpito con l’artiglieria i “terroristi curdi” al confine. Istruzione e cultura, l’arma delle donne contro gli ayatollah di Linda Laura Sabbadini* La Stampa, 25 settembre 2022 Dolore e rabbia delle donne iraniane contro un regime che le uccide per qualche ciocca di capelli “fuori posto”, fuori da quel velo imposto per legge. Come è successo a Mahsa Amina. Ma le donne iraniane si mobilitano e vinceranno contro un regime misogino che le vuole schiave. È solo questione di tempo. In tanti continuano a manifestare per lei e per se stessi, per la propria libertà. Uomini e donne uniti, ma le donne sono alla testa del movimento. In tanti e tante, in decine di città del Paese. Vogliono la fine della repubblica islamica, così appare dai video che circolano sui social. Quella repubblica che impone per legge a tutte le donne di indossare il velo quale segno di sottomissione, di rinuncia alla libertà propria e di tutti. Quella repubblica che permette solo agli uomini di richiedere il divorzio, che impone alle donne di chiedere il permesso al marito in caso di viaggio all’estero e che le vuole schiave dei loro uomini e del regime. Il governo chiude Whatsapp, Instagram. Teme che la rivolta divampi come nel 2019. Continua a uccidere chi osa manifestare. Ma questa situazione non può durare a lungo. L’integralismo religioso ha cercato di isolare dal mondo, di congelare la società iraniana, in difesa del patriarcato, del potere maschile nella sua versione feudale. Per decenni le donne iraniane hanno dovuto vivere nell’oscurità. L’Iran è tra i Paesi con il peggior valore del Gender Gap Index, calcolato ogni anno dal World Economic Forum. Dopo l’Iran in graduatoria ci sono solo Afghanistan, Pakistan, Congo. Le donne in Iran entrano in poche nel mercato del lavoro. Il loro tasso di occupazione è tra i più bassi al mondo. Le poche che lavoravano sono state colpite dalla crisi successiva al Covid. Ma questo aspetto del non lavoro entra in contraddizione con ciò che sta succedendo dal punto di vista della loro istruzione. Nel 1976 solo il 24% delle donne adulte era alfabetizzata, oggi più dell’80%. Non solo, la maggioranza degli iscritti alle università è donna, ma anche la maggioranza di chi si laurea ogni anno. Il livello di istruzione delle donne è cresciuto nel tempo. Soprattutto tra le giovani, che sono tante. Perché l’Iran è un paese giovane. Più istruzione significa più aspettative rispetto al lavoro. Vuol dire anche più capacità di contrattare una situazione diversa all’interno della coppia. La concessione della possibilità di studiare per le donne da parte del regime si sta trasformando in un boomerang. E i segnali si vedono. I matrimoni sono in diminuzione. Il governo è molto preoccupato dell’aumento dei “white marriage”, cioè della tendenza dei giovani a non sposarsi e a convivere. Un modo per le giovani istruite di evitare di incorrere in un restringimento dei propri diritti. Un modo per evitare le spese per le nozze. Il dibattito nel Paese è esplicito. L’età per il matrimonio si è alzata, nonostante per legge sia stata abbassata dal governo ed è 13 anni. I divorzi sono aumentati. L’uso dei contraccettivi moderni si è diffuso. L’utilizzo di Internet si è esteso soprattutto tra la popolazione più giovane. Sono tutti elementi che spingono verso un modo di pensare e di vivere più libero specie tra le giovani generazioni. A ciò vanno aggiunte le gravi difficoltà economiche che vivono le famiglie iraniane, causa di non poche rivolte nel paese negli ultimi anni, represse nel sangue, ma anche sintomo delle forti crepe emergenti nel controllo sociale da parte del regime. Per questo ho speranza e penso che è solo questione di tempo. Difficile convincere donne istruite che non possono essere libere e devono essere schiave dei loro mariti. E se le donne e gli uomini iraniani riusciranno ad abbattere il dispotismo integralista e patriarcale, la democrazia, la giustizia e l’eguaglianza di genere faranno un passo in avanti epocale, in Medio Oriente, e in tutto il mondo. La nostra sorellanza è fondamentale. Come lo è per le donne afghane. Facciamo arrivare il nostro grido di dolore e di battaglia. Tunisia. La sfida Lgbtq: il festival del cinema queer nel Paese dove l’omosessualità è un reato di Leonardo Martinelli La Repubblica, 25 settembre 2022 La legge punisce con pene fino a tre anni di carcere le coppie colte “in flagranza di reato”. Ma, nonostante la svolta autoritaria di Saied, l’iniziativa che richiama artisti da tutto il mondo non si ferma. “Veniamo dalla sofferenza, ma esistiamo”, dice una delle organizzatrici. La facciata art déco, ormai sporca e decadente, fu concepita negli anni Venti del secolo scorso da Francesco Marcenaro, architetto italiano che nella Tunisi di allora andava per la maggiore. Le Rio era il cinema-teatro della buona società. In queste sere nessuna locandina in mostra, lì, su una stradina del centro: meglio essere prudenti. Ma l’animazione è a mille, con una folla di giovani (soprattutto giovanissimi), che straborda fuori: blocca il traffico e invade i bar tradizionali del circondario, dove nessuno si scompone. Tutti sanno che è il festival del cinema queer, con artisti Lgbtq che vengono da tutto il mondo. Subito dietro s’intravede un edificio mastodontico, minaccioso nel buio: è il Ministero degli Interni. Da quell’istituzione dipende la polizia, che in Tunisia deve far applicare la legge. E questa (l’articolo 230 del Codice penale) condanna penalmente l’omosessualità: la rende passibile di tre anni di carcere per le persone prese in “flagranza di reato”. Stasera Weema Askri, una delle organizzatrici del festival, comunque, non ha paura: ne è sicura, i poliziotti non verranno. “L’articolo 230 è come una spada di Damocle - ricorda. Ma noi esistiamo. Veniamo dalla sofferenza, ma esistiamo”. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2019 si sono tenuti 120 processi per omosessualità. E la legge prevede addirittura un “test anale” per i maschi. Ma, d’altra parte, la repressione non è generalizzata. Un festival come questo è possibile e Mawjoudin-We exist, l’associazione che l’organizza e che difende i diritti Lgbtq, è riconosciuta dallo Stato tunisino. Weema è positiva: “Fra una decina d’anni, la Tunisia sarà come la Francia e l’Italia. Potremo sposarci”. Anche Ahmed Tayaa, 26 anni, è ottimista: “La rivoluzione del 2011 e l’arrivo della democrazia hanno portato la libertà d’espressione - sottolinea - e su quella non ritorneremo mai indietro”. Neanche l’attuale presidente, Kais Saied, un conservatore islamico, che si è detto contrario alla depenalizzazione dell’omosessualità e che in luglio ha fatto approvare una nuova Costituzione iperpresidenzialista, giudicata da tanti una svolta autoritaria, fa paura ad Ahmed: “Per una decina di anni abbiamo avuto Ennahda, il partito degli islamisti, al potere: era anche peggio. Ci siamo abituati alla libertà: non ce la toglieranno”. Lui è attore e ballerino. Al festival presenta un film, dal titolo, in francese, “Peau épaisse”, della regista Inès Arsi, sulla sua storia personale. Quella di un bambino dal padre violento, che alla fine parte da casa, dove lo lascia con la mamma e una sorella down, Nourhen. “Ci ho messo tanto tempo per accettarmi come sono - spiega -. Ma alla fine ce l’ho fatta”. Sui social è una sorta di mito per tanti giovani arabi. Vive in un quartiere popolare “e oggi non esco da casa vestito proprio come vorrei, con le creazioni più pazze e originali che mi piacciono, ma non indosso neppure più i vestiti che non voglio e che prima mettevo per compiacere la mia famiglia o i vicini: è già un passo in avanti”. Il tutto in un contesto islamico internazionale che, da questo punto di vista, sta in molti Paesi regredendo. Tra i registi dei 32 film in concorso (anche tre italiani) e gli artisti che partecipano al Mawjoudin Queer Film festival, la sensazione netta è che una manifestazione del genere nel mondo arabo sia possibile solo a Tunisi, ormai neppure più a Beirut. “Ma non ci rassicura per niente”, osserva Essia Jaibi, giovane regista teatrale. Sua è la pièce “Flagranti”, rappresentata in pieno centro a Tunisi tra maggio e giugno e che ritornerà in scena a inizio ottobre. È la storia di un gruppo di amici alle prese con la polizia e l’applicazione del famoso articolo 230. “All’inizio avevamo spettatori della comunità Lgbtq - racconta - poi sono venute tante donne velate e normali famiglie”. Hanno visto uomini baciarsi durante l’opera, scene esplicite e la spiegazione materiale di cosa sia il test anale. Nessuno si è scomposto. “Se certe ingiustizie le spieghi - continua Essia -, la gente le capisce anche”. Lei, comunque, non vuole parlare di “tolleranza” in Tunisia, “dove esistono tanti mondi diversi, secondo il livello sociale e le abitudini e dove la diversità è accettata di volta in volta in modo distinto. Anzi, queste differenze, con la grave crisi economica, che stiamo vivendo, si aggravano”. Essia, in ogni caso, guarda “al meglio. Che siamo l’unico Paese arabo dove certe cose siano possibili, non me ne importa niente. L’articolo 230 è un’eredità del passato coloniale: furono i francesi a imporlo. E oggi in Francia gli omosessuali si possono sposare. Noi è quello che vogliamo”.